Domenico Chindemi, Spetta il risarcimento del danno patrimoniale anche ai figli economicamente indipendenti della vittima, (Commento a Cass. 8.10.2008, n. 24802), in Responsabilità civile e previdenza, 2009, 3, 574
Spetta il risarcimento del danno patrimoniale anche ai figli economicamente indipendenti della vittima
Domenico Chindemi
Consigliere della Corte di cassazione
Sommario: 1. Il danno patrimoniale ai figli economicamente indipendenti della vittima primaria. 2. Onere della prova e criteri risarcitori del danno patrimoniale agli eredi della vittima.
1. Il danno patrimoniale ai figli economicamente indipendenti della vittima primaria
La Cassazione afferma, senza tentennamenti, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito dai figli anche maggiorenni ed economicamente indipendenti della vittima primaria di un incidente stradale, individuando, sia pur sinteticamente, i limiti e i criteri risarcitori di tale pregiudizio.
L’aspettativa dei figli ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso in tanto integra un danno futuro risarcibile in quanto sia possibile presumere, in base ad un criterio di normalità, fondato su tutte le circostanze del caso concreto, che tale contributo economico la persona defunta avrebbe effettivamente apportato (1).
In forza dello stesso principio, il riconoscimento in favore dei genitori di un minore deceduto in conseguenza di fatto illecito, del danno futuro consistente nel venir meno delle legittime aspettative di un contributo economico a loro beneficio, non trova ostacolo nella circostanza che i genitori medesimi abbiano, al momento, adeguate fonti di reddito, essendo sufficiente che la complessiva valutazione degli elementi del caso concreto, con ricorso anche ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, evidenzi il suddetto pregiudizio in termini di verosimiglianza e possibilità, secondo i criteri di normalità, in relazione a presumibili bisogni futuri (2).
Il raggiungimento da parte dei figli della maggiore età e dell’idoneità al lavoro produttivo non segna un limite invalicabile alla risarcibilità del danno derivato dalla morte del genitore, stante l’aspettativa dei superstiti di poter beneficiare degli eventuali risparmi che il defunto avrebbe costituito con la parte di reddito non destinata a proprie spese o alla famiglia (3).
Il concorso di colpa del danneggiato o della vittima comporta necessariamente una corrispondente proporzionale riduzione del quantum risarcitorio dovuto agli aventi diritto (v. art. 1227 c.c.).
Non sussiste alcuna pregiudizialità tra mancanza di reddito in capo all’erede e diritto al risarcimento del danno patrimoniale che va riconosciuto, ove si provi che la morte del proprio caro ha, comunque, determinato un decremento reddituale negli eredi indipendentemente dalle loro condizioni economiche.
Il fatto che i figli della vittima fossero maggiorenni ed economicamente indipendenti è un fatto che, di per sé, non è in contrasto con la possibilità che essi ricevevano provvidenze aggiuntive ai loro redditi (4).
Il principio a cui fare riferimento è che, in caso di morte di un congiunto, gli aventi diritto possono reclamare, nei limiti della vita probabile della vittima, il risarcimento del danno patrimoniale per la durata della loro vita presumibile.
[thrive_lead_lock id=’4487′]La sufficienza dei redditi del figlio, rileva la Suprema Corte, può escludere l’obbligo giuridico di incrementarlo da parte dei genitori, ma non esclude il beneficio quando essi vi provvedono durevolmente, prolungatamente e spontaneamente.
La perdita conseguente si risolve nel danno patrimoniale, corrispondente al minor reddito per chi ne sia beneficato.
Non può ritenersi, né in base a presunzione, né in base a fatto notorio che sia normale costume delle famiglie che i genitori mantengano, vita natural durante, i figli, in quanto è nozione di comune esperienza che, allorché i figli raggiungano la indipendenza economica, cessa il loro “mantenimento”, pur potendosi protrarre altre utilità di natura economica, che possono venir meno a seguito della morte del genitore.
Deve, anzi, presumersi che i figli che hanno lasciato la casa di origine per matrimonio e che dispongano di risorse economiche, non continuino ad essere mantenuti dai genitori se non per eventi eccezionali e transitori.
È anche irrilevante il reddito, anche cospicuo, del figlio se vi è la prova che il genitore, ove fosse rimasto in vita, avrebbe, comunque, incrementato tale reddito.
La prova, in tale evenienza, deve, tuttavia, essere rigorosa e non presuntiva e deve far riferimento, principalmente, al comportamento del genitore precedente il sinistro, dimostrando che, antecedentemente all’evento lesivo, aveva incrementato, con cadenza periodica il reddito del figlio.
In tal caso potrà presumersi che anche per il futuro la vittima si sarebbe comportata allo stesso modo, quantomeno per un arco temporale che ben può essere determinato equitativamente dal giudice di merito, tenendo conto dell’età del figlio e della sua condizione economica.
Nessuna presunzione di aiuto economico da parte del genitore potrà, tuttavia, operare in favore del figlio, coniugato ed allontanatosi dal nucleo familiare di origine, soprattutto se sia economicamente indipendente, dovendo fornirsi allegazioni puntuali che facciano ritenere, con valutazione prognostica, tale incremento patrimoniale da parte del genitore.
Se il figlio ha un proprio reddito, di lavoro o di capitale, al fine di escludere il risarcimento del danno patrimoniale per la perdita del genitore, è necessario che tale reddito sia sufficiente a soddisfare interamente le esigenze presenti e future del percettore in relazione al tenore di vita, all’educazione, all’istruzione, alla posizione sociale ed all’età, a meno che non si dia l’ulteriore prova che, comunque, il genitore avrebbe, comunque, incrementato il reddito, anche se cospicuo, del figlio (5).
La prova del sostegno economico da parte della vittima ai figli non è desumibile dalla circostanza che, essendovi convivenza tra il defunto ed i membri della sua famiglia, è presumibile che egli avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle loro necessità, in quanto è anche possibile che il genitore non destini alcun proprio reddito al figlio, limitandosi alla ospitalità che è, tuttavia, una circostanza di valenza economica, ove venga meno a causa della perdita del genitore.
Più problematica è la situazione del figlio, convivente o meno col genitore deceduto, non indipendente economicamente al momento della morte del genitore, ma che trovi lavoro dopo tale evento.
Occorre valutare, in tale caso, se trattasi di lavoro confacente al percorso di studi dell’interessato o se sia stato costretto dalle contingenze economiche, durante gli studi universitari, ad accettare un lavoro che, nel caso in cui fosse stato in vita il genitore, non avrebbe accettato o cercato.
L’interruzione della carriera universitaria, ove determinata da tale contingenza, va adeguatamente valutata in termini risarcitori anche sotto il profilo della perdita di chance.
Va, quindi, accertato, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare dell’età, del grado di istruzione, della capacità di lavoro del figlio e delle possibilità effettivamente offerte dal mercato del lavoro nel territorio per quanto tempo ancora, se non fosse sopravvenuta la morte del genitore, si sarebbero protratti ospitalità ed aiuto economico: giudizio prognostico a cui il giudice deve dare una motivata risposta in base agli elementi di prova forniti dall’interessato.
Trattasi di lucro cessante, ed il relativo risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra il genitore e i figli e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata ai figli; la prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del figlio o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno.
I medesimi principi sono applicabili in caso di morte del coniuge deceduto a seguito di fatto illecito essendo ravvisabili i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dall’altro coniuge nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, sia in relazione ai precetti normativi (artt. 143, 433 c.c.) che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume, il defunto avrebbe presumibilmente apportato (6).
L’uccisione del genitore fa venire meno l’aspettativa del figlio, fondata su criteri probabilistici desunti dall'”id quod plerumque accidit“, o su specifici precedenti comportamenti del de cuius, di vedere destinata una parte del reddito dell’ucciso al soddisfacimento delle proprie esigenze.
La perdita dell’aspettativa va riferita a tutti quei contributi patrimoniali ed a quelle utilità economiche che il defunto avrebbe presumibilmente apportato al figlio sia in relazione ai precetti normativi (artt. 315, 433, 220-bis c.c.) che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume.
Occorre, infatti, considerare anche tutti i vantaggi di natura patrimoniale di cui avrebbero goduto, ove la vittima fosse rimasto in vita, gli eredi, quali il pagamento di viaggi, l’utilizzo di residenze secondarie perse a seguito della successione, il pagamento di spese e tasse eventualmente sostenuti dal de cuius ed eventuali ulteriori benefici che, tuttavia, devono essere provati dal richiedente.
Trattasi di danno futuro, risarcibile sotto l’aspetto del “lucrum cessans“, il cui il risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite costituite dal futuro apporto economico del genitore al figlio in base al reddito presumibile del defunto.
I medesimi principi vanno applicati in caso di morte del coniuge, con l’ulteriore precisazione se sia o meno rilevante che a seguito dell’uccisione, il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità.
La prevalente giurisprudenza della S.C. ritiene che tale circostanza non abbia influenza sul risarcimento in quanto, non dipendendo il pregiudizio e l’incremento patrimoniale del medesimo fatto, non troverebbe applicazione il criterio della “compensatio lucri cum damno” che in tema di risarcimento del danno da illecito, opera solo quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale dipendano dal medesimo fatto ed esclude la possibilità di detrarre dal risarcimento del danno l’ammontare della pensione percepita dal coniuge del defunto, atteso che il trattamento pensionistico trae la sua fonte e la sua ragione giuridica da un titolo completamente diverso dall’illecito costituente la ragione della domanda in esame.
Ne consegue che, in caso di morte di una persona cagionata dall’altrui illecito, non rileva che il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità, fondando tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto illecito.
La vedova, anche nel caso che sia economicamente indipendente può subire un danno dalla morte del marito, anche se la pensione di riversibilità sia presumibilmente maggiore della quota di reddito che il marito a lei destinava (7).
Va, comunque, osservato che il risarcimento non può costituire una locupletazione per il danneggiato, nel senso che il suo patrimonio deve risultare ripristinato dall’intervento risarcitorio nella stessa quantità che aveva prima del fatto lesivo, ma non certamente arricchito, e il cumulo tra il risarcimento del danno patrimoniale in favore del coniuge superstite della vittima del fatto illecito e la percezione da parte del coniuge stesso della pensione di reversibilità comporta un indebito arricchimento, che, invece, non si verificherebbe se della pensione stessa si fosse tenuto conto, come componente attiva, nella determinazione del danno.
Nel determinare il risarcimento potrebbe, quindi, anche tenersi conto della pensione di reversibilità, senza necessità di far riferimento alla compensatio lucri cum damno, ma tenendo presente che, in linea di principio, il patrimonio dell’offeso non può conseguire, attraverso il risarcimento del danno, un utile maggiore, e che l’attribuzione economica in questione consente al superstite danneggiato di evitare o limitare il danno patrimoniale che gli sarebbe potuto derivare dalla perdita di quella porzione di pensione che il defunto gli avrebbe corrisposto a titolo di alimenti.
Esistono almeno due casi in cui la giurisprudenza ha riconosciuto l’incidenza sul risarcimento delle attribuzioni patrimoniali pervenute successivamente all’evento dannoso: si tratta della posizione del coniuge superstite che contragga nuove nozze e del lavoratore dipendente che dopo l’infortunio continui a percepire lo stipendio. Mentre, inoltre, le nuove nozze del coniuge superstite costituiscono un fattore meramente eventuale, il diritto alla pensione di reversibilità sorge per legge all’atto stesso del decesso del coniuge.
Potrebbe anche sostenersi che quando a seguito del fatto illecito interviene un evento di qualsiasi natura, idoneo ad elidere in tutto o in parte il danno, della sua incidenza deve tenersi conto, indipendentemente dal fatto che l’evento stesso sia o meno conseguenza immediata e diretta dell’illecito e, quindi, dell’operatività della compensatio lucri cum damno.
Non può, tuttavia, negarsi che vi sarebbe una elusione di tale principio che troverebbe applicazione solo quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale dipendano dal medesimo fatto, sicché, in caso di morte di una persona cagionata dall’altrui illecito, non rileva che il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità, fondando tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto illecito (8).
Il principio della compensazione del guadagno con il danno presuppone che sia il lucro, sia il danno discendano ciascuno, con un nesso di causalità diretta, dal medesimo evento lesivo che possa apportare, per un verso, un depauperamento del patrimonio del danneggiato e, per altro verso, il suo arricchimento con compensazione tra le due conseguenze.
La Corte di cassazione evidenzia che il diritto alla pensione viene maturato dal lavoratore nel corso dell’attività lavorativa e, alla cessazione di questa, viene da lui goduto per il resto della sua esistenza. Al cessare della vita, il diritto alla pensione già maturato (sia ancora in corso l’attività lavorativa o non lo sia) viene riversato (per una parte corrispondente circa alla metà) in favore del coniuge superstite. Ciò avviene in ragione di un principio solidaristico e sulla presunzione che l’assegno pensionistico veniva utilizzato (o sarebbe stato utilizzato, nel caso in cui la vita cessi quando l’attività lavorativa è ancora in corso) per far fronte alle esigenze esistenziali del lavoratore stesso e del suo coniuge (9).
Ritiene, quindi, la giurisprudenza di legittimità che è errato affermare che l’azione causatrice del danno abbia, attraverso la soppressione della vita altrui, per un verso depauperato la posizione del coniuge superstite e, per altro verso, l’abbia arricchita, in quanto il diritto alla pensione matura in capo alla vittima nel corso di tutta la sua vita lavorativa. La morte del lavoratore (o del pensionato) fa riversare parzialmente in capo al coniuge il diritto alla pensione. Si tratta, dunque, di un’attribuzione propria del coniuge superstite a far data dall’evento lesivo. Diversa cosa è, invece, il diritto che lo stesso superstite ha di percepire dal danneggiato il risarcimento dei danni patrimoniali futuri sofferti a causa del decesso del coniuge e ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, sia in relazione ai precetti normativi di cui agli artt. 143, 433 c.c., sia per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume, il defunto avrebbe presumibilmente apportato.
Sicché, per determinare questo danno si tiene conto del reddito della vittima al momento della morte (proiettandolo per tutto il resto del tempo per il quale lo avrebbe presumibilmente prodotto se la sua vita non fosse stata soppressa), nonché di quanta parte di quel reddito veniva apportato in favore del coniuge.
Non si verifica, in tal caso, un ingiustificato arricchimento, in quanto non ci si può ingiustificatamente arricchire di quel che è già proprio.
Dal raffronto di tale fattispecie con i casi del coniuge superstite che contrae nuove nozze o del lavoratore che, rimasto infortunato per fatto illecito del terzo, abbia continuato a percepire, durante il periodo di invalidità, l’intera retribuzione dal proprio datore di lavoro (e non deduca di aver dovuto rinunciare a lavoro straordinario, trasferte, ecc., ovvero di aver subito pregiudizi nella carriera), viene dimostrata l’univocità della linea logico-giuridica seguita dalla giurisprudenza.
In questi ultimi due casi, infatti, il danno patrimoniale non s’è verificato affatto (come per il lavoratore che continua a percepire lo stipendio), oppure è stato ridotto o eliso del tutto (come per il superstite che, passato a nuove nozze, riceva apporti dal nuovo coniuge in misura uguale o minore a quelli che il coniuge defunto gli forniva).
Non potendo il risarcimento risolversi in un arricchimento, la stessa giurisprudenza esclude l’applicazione del principio secondo cui, nella determinazione del danno contrattuale o extracontrattuale bisogna tenere conto dell’eventuale vantaggio che il fatto illecito abbia procurato al danneggiato, nel caso in cui il coniuge della persona deceduta in un sinistro contragga nuove nozze; perché queste, ancorché siano possibili in quanto il soggetto, a seguito del fatto illecito, ha riacquistato lo stato libero sono legate da un nesso di causalità solo occasionale alla morte del coniuge, trattandosi di un fatto relativo alla persona, che trae la sua origine e le sue motivazioni nella sfera più generale ed intima della persona stessa.
La pensione di reversibilità ha, quindi, diversa natura e radice causale rispetto all’infortunio e non può essere decurtata dall’eventuale risarcimento di natura patrimoniale spettante all’erede a seguito della morte del coniuge.
2. Onere della prova e criteri risarcitori del danno patrimoniale agli eredi della vittima
La sentenza ha ritenuto che i figli superstiti non potessero più godere dei precedenti benefici economici a causa della morte del loro familiare, riconoscendo che fino al compimento del trentesimo anno di età, con alto grado di probabilità, i figli anche quelli minori all’epoca dell’incidente avrebbero avuto un sostanziale aiuto economico da parte della madre.
I danni patrimoniali futuri risarcibili a favore dei figli di soggetto deceduto a seguito di fatto illecito, vanno ravvisati nella perdita o nella diminuzione di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, presumibilmente e secondo un criterio di normalità, il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni ed ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (composizione del nucleo familiare, condizioni economico-sociali, attività esercitata dai genitori e dagli altri congiunti).
Viene anche affermato che il criterio normale di liquidazione di tale voce di danno non può essere che quello equitativo, stante la pratica impossibilità di procedere alla relativa determinazione con assoluta precisione.
Su tale attività, il giudice del merito ha un ampio potere di apprezzamento e di valutazione, e la pronunzia al riguardo emessa non è suscettibile di censura in sede di legittimità, qualora essa sia sorretta da motivazione congrua ed esente da vizi logici e di diritto.
Congrua e logicamente corretta è stata ritenuta dalla stessa Cassazione la futura eventuale suddivisione del reddito della vittima (1/3 per i propri bisogni, 2/3 per quelli dei tre figli) operata dai giudici di appello.
Occorre anche determinare se il reddito disponibile, quello cioè di cui, se il decesso non fosse avvenuto, i familiari avrebbero potuto godere, è il reddito al netto o al lordo delle imposte, in quanto, ai sensi dell’art. 6, comma 2, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, i proventi conseguiti a titolo di danno per la perdita di un reddito sono assoggettati ad imposizione fiscale e, quindi, devono essere liquidati al lordo delle tasse, altrimenti l’infortunato verrebbe a subire una doppia imposizione: la prima da parte del responsabile dell’infortunio (che diventerebbe una sorta di sostituto d’imposta, senza dover versare a chicchessia quanto trattenuto) e la seconda da parte del fisco (10).
L’art. 6, comma 2, d.p.r. n. 917/1986, nel classificare i redditi tassabili, stabilisce che “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti“.
Quindi, in base alla precisazione contenuta in tale norma, non sono assoggettati a tassazione i proventi sostitutivi di redditi nell’ipotesi in cui di questi redditi beneficiano soggetti diversi dal diretto percettore, rimasti danneggiati in dipendenza della morte di costui (a seguito della quale si è verificata la perdita dei redditi stessi) (11).
Deve ritenersi corretto il metodo di calcolo che stabilisca il reddito netto su cui determinare il danno futuro subito dagli eredi sulla base della detrazione dal reddito sia del relativo carico fiscale, sia della “quota sibi“, cioè della parte del reddito che il defunto avrebbe speso per sé, la quale ben può essere quantificata come percentuale del reddito complessivo al lordo delle imposte.
Né la detrazione della quota relativa all’imposta sul reddito è contestabile sotto il profilo della consequenziale sottoposizione degli interessati (sia pure solo da un punto di vista contabile) ad una doppia falcidia fiscale, dato che l’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 917/1986, nel dettare il principio che i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni, consistenti nella perdita di redditi, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti, fa espressa eccezione per l’ipotesi in cui detti cespiti siano acquisiti in dipendenza di invalidità permanente o di morte.
Nell’ambito della liquidazione equitativa deve ritenersi corretto il metodo di calcolo che detragga dal reddito lordo della vittima la cifra corrispondente al carico fiscale, detratta, quindi, dalla quota che avrebbe speso, in quanto se la vittima fosse rimasta in vita, non avrebbe comunque goduto delle imposte versate e appare, quindi, corretto non calcolare la quota che il defunto avrebbe speso per sé, detraendola dal reddito.
Se trattatasi della morte di un professionista può anche farsi ricorso, da parte del giudice di merito, al criterio “per competenza“, anziché a quello “di cassa“, nella determinazione del reddito goduto dal defunto, giustificato con l’esigenza di accertare l’effettiva capacità di guadagno del medesimo con il rilievo che la natura non straordinaria degli incarichi professionali presi in considerazione assicura il riferimento ad un reddito ordinario medio (12).
(1) Cass. civ., 26 maggio 2005, n. 11189, nella specie la S. C. ha ritenuto insufficiente l’affermazione del giudice di merito secondo cui il soggetto prematuramente scomparso, se non fosse intervenuta la morte, avrebbe continuato ad aiutare gli stretti congiunti con lo stesso conviventi, senza accertare, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare dell’età, del grado d’istruzione, delle capacità di lavoro e delle possibilità effettivamente offerte dal mercato del lavoro nel territorio , per quanto tempo ancora, se non fosse sopravvenuta la morte, si sarebbero protratti ospitalità ed aiuto economico; cfr. anche Cass. civ., 14 febbraio 2000, n. 1637, in questa Rivista, 2000, 609, con nota di Ziviz, Valutazione del danno morale e realtà socio-economica: un connubio inedito.
(2) Cass. civ., 22 febbraio 1995, n. 1959.
(3) Cass. civ., 21 novembre 1995, n. 12020. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con cui la liquidazione dei danni patrimoniali subiti dalla vedova e dai figli di un professionista di 54 anni era stata eseguita globalmente mediante la capitalizzazione di una quota reddituale comprensiva di un incremento per futuri miglioramenti sulla base di un coefficiente correlato all’età del defunto e con il correttivo di una riduzione per “scarto tra vita fisica e vita lavorativa”.
(4) Cass. civ., 14 luglio 2003, n. 11003, in Dir. giust., 2003, 48, con nota di Riccobene, Morte del padre e configurabilità del danno “meramente patrimoniale”.
(5) Cass. civ., 25 marzo 2002, n. 4205, nella fattispecie il giudice di merito, con motivazione valutata idonea in sede di legittimità a giustificare il rigetto della domanda di risarcimento, aveva ritenuto carente la prova che il coniuge avesse subito un danno patrimoniale, in quanto già in precedenza godeva di reddito proprio quale dipendente statale.
(6) Cfr. Cass. civ., 25 marzo 2002, n. 4205.
(7) Cass. civ., 25 marzo 2002, n. 4205.
(8) Cfr. Cass. civ., 25 marzo 2002, n. 4205.
(9) Cfr. Corte cost., 4 novembre 1999, n. 419.
(10) Cass. civ., 21 novembre 1995, n. 12020, in questa Rivista, 1996, 639, con nota di Bastianon, Morte del libero professionista a seguito di sinistro non stradale e liquidazione del danno patrimoniale (da lucro cessante) a favore dei congiunti. Si afferma anche in tale sentenza che nel giudizio di cassazione è preclusa la proposizione di nuove questioni di diritto solo nel caso in cui le stesse implichino, anche in ordine agli elementi di fatto, una modificazione dei termini della controversia, mentre è consentito dedurre nuove tesi giuridiche e nuovi profili di difesa quando essi si fondino sugli stessi elementi di fatto già dedotti davanti al giudice di merito e per essi quindi non sia necessario un nuovo accertamento. Ne caso di specie i ricorrenti, nel ribadire la tesi disattesa dal giudice di merito che ai fini della determinazione del risarcimento loro dovuto dai responsabili della morte di un loro congiunto, i redditi di questo andavano considerati al lordo delle imposte sul reddito, avevano rilevato per la prima volta che diversamente essi avrebbero subito una doppia falcidia fiscale, per la dedotta tassabilità dei proventi conseguiti a titolo di danno per la perdita di un reddito. La S.C. ha ritenuto ammissibile il motivo di ricorso, pur respingendolo nel merito.
(11) Non sono soggette a ritenute le somme versate dall’azienda per risarcire il lavoratore che ha subito danni all’immagine e alla professionalità a seguito di un demansionamento. Cass. civ., Sez. trib., 9 dicembre 2008, n. 28887.
(12) Cass. civ., 21 novembre 1995, n. 12020, cit.[/thrive_lead_lock]