Benedetta Riccomi, Lettura del teatro di Renzo Ricchi, in Rivista di studi italiani, Anno XX , n° 1, Giugno 2002, p. 331 ss.
Lettura del teatro di Renzo Ricchi
di Benedetta Riccomi
Le forme e l’ideologia degli esordi
Risulta difficile collocare l’opera di Renzo Ricchi nel panorama drammaturgico contemporaneo. La sua produzione infatti, pur tematicamente partecipando a istanze e problematiche dei nostri anni, attinge la propria ispirazione soprattutto dall’interiorità. È un io, forte e debole insieme, che vuole e tenta una dimensione comunicativa col sé e con l’altro da sé in un mondo in cui la crisi della razionalità si è accompagnata alla fine delle utopie e delle ideologie. La posta in gioco è la ricerca di un ‘forse’, di una possibilità, di rapporti veri intersoggettivi, di un fine all’esistere, tra secche di razionalismo e laghi di irrazionalità. Anche la lettura e la frequentazione di autori quali Pirandello, Svevo, Montale, Savinio, Bontempelli, Camus, Sartre, Dostoevskij, Cioran, Popper, pur avvertibile nelle pieghe del tessuto testuale, non porta a strutture a palinsesto, a soluzioni intertestuali. Testimonia piuttosto, e invece, una interrogazione continua che ha bisogno di forti nuclei concettuali storico-filosofici, ma anche di ragioni letterarie, per sottrarre questo teatro, sempre autoreferente, alla pura contingenza e sortire insieme una concertazione dialettica tra ciò che è intrinseco e istanze che invece vengono dalla società, dalla storia, dai problemi di attualità. I due poli, insomma, del percorso creativo di Ricchi che inizia ai primi anni Settanta ed è ancora operoso, visto che l’ultima pièce, La parola all’assassino, è apparsa su «Sipario» nel dicembre del 2002. Un trentennio di attività durante il quale, dopo un primo periodo d’impegno politico e civile, Ricchi passa alla trasposizione sulla scena di opere di Mann e Camus, per arrivare alla forma dell’atto unico, che nella sua incisività costituisce un’indagine senza posa delle infinite sfaccettature della coscienza. Nei testi più recenti la drammaturgia della riflessione metafisica viene proiettata sullo schermo di una società esaminata nel vivo delle piaghe più dolorose.
Il debutto teatrale di Ricchi, Prosperity and Revolution, risale al 1973, anche se dovranno trascorrere dieci anni perché il testo approdi alla stampa coi suoi due esperimenti inaugurali ( Prosperity and Revolution e Gli eletti della società) e a titolo complessivo di Piccoli borghesi brava gente. La forza polemica e satirica che sorregge le due commedie resterà caratteristica prioritaria di queste prime scritture per la scena: in seguito, il ridicolo legato alla viltà e alla corruzione morale, alla labilità della virtù, alla precarietà dei valori, si trasformerà in amarezza e solitudine. L’ironia cederà sempre più posto all’introspezione, e il teatro diventerà ambito di riflessione metafisica più e oltre che di denuncia sociale.
Le due coppie protagoniste di Prosperity and Revolution (Tato e Tata, Lallo e Lalla)1 riflettono invece e proprio l’eco dei moti rivoluzionari del Sessantotto all’interno dell’ambito familiare: medio borghesi annoiati dal lavoro impiegatizio, si riuniscono con l’intento di fomentare una rivoluzione e finiscono per perdersi in chiacchiere da salotto, privi di un’idea ancor prima che di un ideale. Quel che rimane dell’etica del Sessantotto è pura forma: la moda sostituisce il credo, vanificando i motivi profondi e sofferti per cui da altri era stata propugnata la rivoluzione, che adesso viene paradossalmente identificata come mezzo per ottenere una ‘prosperità’ personale da incrementare. Si capovolge così il fine della lotta, fino ad accogliere lo slogan sessantottino “tutto è politico” nella sua rovesciata prospettiva di privilegio che il singolo cerca per sé o per la sua classe.
Tutti gli elementi del testo, dal linguaggio alle didascalie allo spazio chiuso e soffocante del salotto, si oppongono all’idea stessa di quella rivoluzione continuamente nominata. Già le prime battute si caratterizzano per conformismo e affettazione: sono parole ‘formali’ che davvero si nutrono di forma con sostanziale mancanza non solo di un credo, ma addirittura di qualunque scambio dialogico. La performatività di questa lingua, data dall’abbondanza di tratti soprasegmentali e sottolineata da didascalie prossemiche, suggerisce una scena animata e vivace, cui si contrappone un movimento ripetitivo, scandito dal battere delle pianelle sul pavimento, che finisce per attribuire alla scena, oltre che un carattere di immobilità nell’apparente falso avanzamento, anche un tono risibile. La moltiplicazione della parola vuota accompagna lo scorrere dei minuti (o di una vita) senza nessun reale processo di progressione, quasi come un meccanismo di ripetizione infinita dell’attimo presente, di una condizione psicologica immutabile, di un’interiorità incapace di crescere. Barlumi di comprensione portano i protagonisti ad avvertire la necessità di un cambiamento, anche se la consapevolezza non è completa e le lacune dell’io vengono proiettate sul ‘fuori’: una società su cui si pensa di dover intervenire tramite una rivoluzione. Continuamente, però, le didascalie segnalano la staticità di questo cammino e niente lasciano trasparire, se non una fusione già avvenuta tra carcere e incarcerati. Non è mai sottolineata una diversità tra lo statuto psicologico del personaggio e il suo modo di porsi, di dialogare con gli altri. La volontà di mostrarsi in un determinato modo e l’essenza che si tende a nascondere sono la medesima faccia della stessa medaglia: il personaggio rappresentato è anche la persona, lo scarto tra essere e apparire è inesistente, cosicché il gioco non è più giocato, ma vissuto. Ci imbattiamo in una sorta di ribaltamento del pensiero pirandelliano. Pirandello è presente nel testo nella misura in cui è assente: il suo passaggio ha lasciato vestigia indelebili, il cui peso non può essere ignorato nemmeno quando sia visibile solo in controluce e leggibile esclusivamente fra le righe:
tata […] E la notte, al buio, dopo gli amplessi, vedremmo sfilare davanti ai nostri occhi stanchi […] i fantasmi di ciò che poteva essere e non è stato.
Tutto in poche parole il Pirandello esplicitamente richiamato dall’autore, a misura di una distanza che rende i quattro protagonisti diversi e altri dai personaggi pirandelliani, quasi agli antipodi: non più centomila specchi in ognuno a ricordare le infinite possibilità di essere, ma quattro personaggi identici, che di centomila note non fanno che battere lo stesso tasto, quasi ossessivamente. Non è più allora un gioco delle parti, ma il gioco che gioca le parti sovrapponendole e identificandole, persasi ormai la possibilità di comprendere, e quindi di innalzarsi e giocare. La situazione è comica e, per chi voglia coglierla, anche umoristica: i livelli di lettura possono essere diversi, e la funzione del metateatro a cui i protagonisti danno luogo, nel chiuso della loro stanza palcoscenico, richiama il teatro nel teatro pirandelliano.
Sono presenti nel testo le condizioni che Bergson indica come necessarie perché il comico si origini: innanzitutto l’insensibilità – che accompagna ordinariamente il riso, il quale ha come suo più grande nemico l’emozione – poi l’irrigidimento, gli automatismi, le ripetizioni, l’incoscienza e il meccanismo circolare che riporterà, nel finale, immutata la condizione d’apertura. Di fronte a una commedia così ricca di requisiti comici, dovremmo aspettarci di poter ridere quasi in continuazione, tuttavia non è così: sorridiamo, ma amaramente, con una punta di rancore verso quel riso stesso appena suscitatoci. È una comicità dunque smorzata, e non possiamo non chiederci da che cosa, o da chi. Il passaggio di Pirandello, una sola volta consapevolmente richiamato dall’autore, lascia in realtà la propria impronta anche laddove, ad una prima lettura, non ci aspettiamo di trovarlo: e, nascosto tra le righe, muta il comico in umorismo e il riso in sorriso. La stessa struttura dell’opera e le tecniche usate sono elementi che ci dimostrano l’importanza di questo passaggio. A Pirandello infatti si lega la valenza dell’onomastica, quando un nome non è solo un’etichetta appiccicata addosso, ma una parola intimamente allacciata al personaggio per significato, peso e valore. Nel momento in cui ci interessiamo ai nomi dei protagonisti collegandoli alla sfera dell’infanzia, al linguaggio incerto del bambino, alla nascita e quindi alla possibilità di rinascita, ad un viaggio che riparte dalla prima tappa, allora, inconsciamente, ci rifacciamo a Pirandello. Anche un’ipotesi di lettura in senso onirico è riconducibile al teatro pirandelliano. Nel testo di Ricchi la chiave di lettura onirica gioca un ruolo fondamentale e si caratterizza attraverso il particolare che viene a galla ed assume rilievo: viene allora alla ribalta l’inconscio dei quattro protagonisti, non tanto però animato dall’amara consapevolezza pirandelliana, quanto impastato della medesima materia del conscio, ma elevata all’ennesima potenza. Il desiderio diurno diventa sogno d’onnipotenza, bramosia di moltiplicare credito e autorità, smania di ricchezza, avidità di dominio, fantasia di padronanza sul mondo. Anche a livello inconscio i personaggi mettono in scena se stessi in tutta la propria inconsistenza, in un’inconsapevolezza che è piatta perché mai potrà farsi scandaglio dando al giro di rivoluzione profondità di spirale: uomini quindi bidimensionali, con nomi che rimarranno balbettii per neonati. Tabulae rasae che non si costituiscono mai, eppure possono essere lette, guardate e fruite proprio nella loro pagina tanto bianca da rischiare di riflettere e farsi specchio della vita di chi osserva, comodamente seduto in una platea che può anche essere palco.
Di Pirandello dunque rimangono vivi certi input indelebili, che insegnano a giocare col teatro anche quando i personaggi risultano privati della filosofia pirandelliana: possono sempre giocare l’autore e il pubblico, nella speranza di trovare un filo di congiunzione e di complicità. Privato di sostanza, del resto, non è solo Pirandello: tutto ciò che ha grado positivo di valore viene riportato a livello zero, come accade per la sessualità, per l’amore verso i figli, per l’autorità politica, infine per l’uso della stessa parola. Degli obiettivi propagandati dai sessantottini, insomma, non rimane che l’involucro, così come la parola resta significante senza significato. Quello che ha consistenza di ideale viene immancabilmente svuotato da parte di chi è burattino inconsapevole e destinato a rappresentare sempre e soltanto se stesso: invano, in chiusura dell’opera, lo spazio della stanza si apre per mezzo di una finestra da cui guardare ‘fuori’ non significa niente di diverso dall’osservare l’attigua parete dove sono affissi, come una reliquia, gli auguri del direttore generale. La rivoluzione, naturalmente, non ha avuto luogo, se non come giro e capovolgimento puramente lessicale, per cui il termine rivoluzione è stato nominato, blaterato, ripetuto, reduplicato fino al non senso, all’annullamento: non si fa la rivoluzione ed è come se la si fosse già fatta, essendosi questa consumata tutta nella sua esteriorità, ovvero nella parola. Così non termina un processo conoscitivo mai iniziato, a meno che per conclusione non si intenda la chiusura di un cerchio che non ha trovato spazio per affondare le proprie radici spiraliformi, rimanendo un giro, un avvolgimento, una rivoluzione che è come un vortice piatto, come un gorgo senza profondità, come un abbraccio tra due fantasmi che non aleggiano impercettibili nel mondo infinitamente esteso al di là della coscienza, ma amaramente concreti vivono e si rappresentano al limitare del proscenio, illuminati dall’ultimo filo di luce dei riflettori, rasentando il baratro del nulla davanti ai piedi piuttosto che indietreggiando verso un retrobottega inesorabilmente lasciato alle spalle. (Lentamente, guardandosi negli occhi, escono di scena.)
L’amarezza con cui si chiude Prosperity and Revolution si muta in disprezzo verso una generazione che ha aderito ad una lotta in cui per prima non ha dimostrato di credere. Gli eletti della società si presenta quindi come un approfondimento delle tematiche affrontate nella commedia antecedente, ma, mentre Prosperity and Revolution analizza le conseguenze e l’eco della rivoluzione all’interno dell’ambito familiare, qui l’occhio si sposta e inquadra lo spazio dei rapporti lavorativi: dove principalmente ci si aspetterebbe di trovare i cambiamenti più netti ed energici risulta in modo marcato e doloroso il fallimento delle aspettative.2
Il quadro della società che Ricchi vuole rappresentare emerge già dalla tavola dei personaggi, presentati secondo il ruolo rivestito e non attraverso i propri nomi, quasi avessero interiorizzato la propria funzione fino all’annullamento dell’identità. Per essere degli eletti, nella società, pare necessario vivere esclusivamente la propria parte, rendendola tuttavia non più parte ma totalità. Anche la suddivisione in quadri della commedia suggerisce una schematicità mentale ormai acquisita come modus vivendi, unità di misura per giornate scandite dal rigore degli orari e dalla metodicità dei compiti da svolgere, al di fuori dei quali lo statuto psicologico del personaggio diviene nullo, inconsistente. Ogni quadro ribalta ironicamente proprio l’etica che aveva contraddistinto i giovani del Sessantotto; la scala di valori allora fortemente sentita si sgretola gradino per gradino. La cultura e la creatività si piegano in nome dell’impiego; le basi intoccabili di una nuova ideologia franano di fronte alle urgenze dell’economico. La commedia si apre con un primo quadro intitolato I figli debbono scegliere liberamente e si chiuderà con la Ninna nanna per il figlio dell’impiegato: da una generazione all’altra tutto si ripete senza lasciare spiragli di rinnovamento. Si azzerano le coordinate spaziali e temporali, slacciando la scena dalla condizione presente e dandole valore di eternità, con un pessimismo che non sembra più riguardare soltanto il momento storico, ma essere intrinseco all’uomo, incapace ora e sempre di uscire dalla propria prigione. Il padre e la madre sono i genitori di tutti e le loro parole verso il figlio assumono il peso dell’immortalità, diventano bibbia imperitura destinata a segnare ogni figlio che dovrà espiare il sacrificio di chi gli ha dato la vita e si aspetta adesso l’atteso compenso: non deludere l’aspettativa, non scompigliare i piani, rispettare i ‘comandamenti’ immolando la propria libertà per evitare il senso di colpa. In quest’ottica il movimento del Sessantotto diventa quasi una crisi di rivolta adolescenziale contro il formalismo e l’ipocrisia del mondo adulto, ribellione da lasciarsi alle spalle nel momento in cui si entra a far parte dell’universo dei grandi. Finita l’era del gioco e della fantasia, terminano anche le lotte per i diritti e l’etica dell’uguaglianza. La commedia inizia quindi soppesando l’importanza della funzione dei genitori e terminerà quando il figlio si troverà a propria volta ad essere padre e addormenterà il bambino con una ninna nanna di parole già sentite, contestate, poi digerite e infine fatte proprie. I quadri si susseguono dando voce alle principali tappe dell’esistenza, dalla scelta della scuola superiore all’emozione del primo giorno di lavoro, fino all’analisi della vita coniugale e all’impostazione del rapporto col figlio.
L’annullamento della persona, la quale trova tutto il proprio spessore unicamente nel personaggio, si rispecchia nel linguaggio esclusivamente paratattico, privo delle strutture di pensiero, degli anelli di congiunzione e dei collegamenti logici che, propri dell’ipotassi, avrebbero il merito di togliere al personaggio il colore risibile della marionetta. La sua inconsistenza traspare proprio dal parlare, sovraccarico di sospensioni che non nascondono meditazione, ma sono piuttosto ricerca continua del termine adatto per uniformarsi completamente alla veste indossata. Pause che divengono ostacolo alla linearità espressiva, essendo vuoti di parola che esprimono un gap incolmabile, quell’abisso cioè che divide la vacuità e l’esilità della persona dal personaggio rappresentato. Personaggio che non è ‘il diverso’, ma ‘lo stereotipato’, colui cioè che dovrebbe essere causa, in chi l’osserva, di un forte e vertiginoso senso di nausea in grado di far riflettere sulla condizione umana. La riflessione è spaesata e disorientata poiché si trova davanti al gap, al niente che è, tuttavia, tutto ciò che costituisce questi uomini.3 La funzione dell’opera di Ricchi sembra divenire perciò quella di offrire al pubblico occasione di essere spettatore e attento osservatore (non diversamente da Antoine Roquentin, protagonista de La Nausea di Sartre) e iniziare un nuovo percorso che può portare a scorgere con angoscia e tormento l’infinità del sé, ma è sicuramente unica chance di libertà. Il palcoscenico diventa allora specchio per rivedere le parti nascoste del sé, spesso represse o censurate: specchiarsi e ritrovarsi, magari soltanto per un attimo o in un’unica parola, può essere in questo caso il primo passo di un nuovo viaggio. Del resto, secondo la filosofia esistenzialista, qui fruttuosamente assimilata, «non è il pensiero che impegna, ma l’atto; e per lo scrittore l’atto è la parola. Tacere, con un qualsiasi pretesto, su un problema qualsiasi, significa rifiutare di assumere, nel suo insieme, quel mondo che lo scrittore deve esprimere: significa mutilare il mondo, e se stessi. Su questo piano Sartre recupera l’ideale romantico della ‘missione’ dell’artista, inteso come portavoce dell’umanità».4 Una missione etica che qui Ricchi accoglie, tentando di polemicamente rappresentare le irriducibili antinomie della coppia che si tradurranno nella mancata educazione del figlio.
La commedia si conclude con la ninna nanna per il figlio dell’impiegato, chiudendo così un cerchio apertosi con il primo quadro del primo atto. La ripetitività della vita e del linguaggio dei protagonisti si rispecchia nella struttura stessa dell’opera, e come il tempo5 e lo spazio6 sono dimensioni nulle e vuote, così l’iter conoscitivo si dimostra incompiuto, rimandando tuttavia la possibilità di scandaglio a quei protagonisti che sono rimasti fuori dal palcoscenico: al pubblico è offerta occasione di portare lo sguardo, attraverso l’opera d’arte, a cogliere l’essenziale. I tre atti della commedia terminano con un canto, una canzone, una ninna nanna: tre motivi musicali non possono non richiamare alla memoria il posto assegnato da Schopenhauer alla musica, forma d’arte posta su un piano parallelo a quello delle idee, le quali possono essere conosciute solo da chi abbia saputo elevarsi al di sopra dell’individualità e dei suoi inganni. Il ruolo dello spettatore, qualora sappia comprendere, diviene fondamentale per la realizzazione dell’opera e perché gli intenti dell’autore possano trovare compimento.
Il teatro politico
Toscana libera viene messa in scena per la prima volta il 25 aprile 1975, anniversario della Liberazione, al teatro Metastasio di Prato, realizzata dalla Compagnia dello Strozzi di Firenze per la regia di Giovanni Folli. Il testo affronta gli eventi salienti che hanno costituito le basi della coscienza resistenziale in Toscana: l’attenzione si sposta dai moti del 1920 (con le leghe contadine in primo piano) all’assassinio di Spartaco Lavagnini e poi dalla reazione popolare a questo omicidio a sangue freddo alla connivenza delle forze dell’ordine con i fascisti; seguono la lotta clandestina e la stampa alla macchia, i primi gruppi di resistenti che si ritroveranno nello scontro drammatico contro i tedeschi e i fascisti, il prezzo di sangue pagato dal movimento partigiano per liberare il paese dall’invasione nazista, le efferate azioni di distruzione e di morte dei fascisti sconfitti, infine la vittoriosa insurrezione popolare con la conquista della democrazia e della libertà.7
Al di là delle motivazioni politiche e della volontà di trasmettere e di ricreare emozioni vissute in altre epoche, vi sono ragioni letterarie e ideologiche che spingono l’autore ad accettare con entusiasmo la redazione di un testo che sembra inserirsi perfettamente nel cerchio del teatro politico, il quale trova in Toscana libera il più alto vertice e il momento conclusivo, il punto di arrivo di un iter iniziato con Prosperity and Revolution e poi attraversato da Gli eletti della società. Se la prima commedia è l’eco della rivoluzione in ambito familiare e la seconda ne è la ripercussione in campo lavorativo, Toscana Libera è la Rivoluzione. Non si tratta più, però, dei moti del Sessantotto, dei quali già si è riscontrato il fallimento nei due testi precedenti, ma degli anni della Resistenza, la cui forza ha saputo contrastare la violenza del regime fascista e la cui energia si è rinnovata nascendo ogni giorno dal pericolo e dalla morte. Dai margini il cerchio si stringe attorno ad un argomento considerato precedentemente dall’esterno, poi scomposto e indagato con prospettiva sempre più ravvicinata, e infine approfondito, penetrato nell’essenza, nel nucleo. L’oggetto di tutto il teatro politico, la rivoluzione, non più parola blaterata e vuota, diviene soggetto, non tematica ma materia, plastica e viva, quasi tangibile. Si entra nel cuore, nell’intimo di un contenuto sfiorato e sempre eluso: si dischiudono le tende del retrobottega e appaiono, vividi e intensi, quegli uomini operosi e dinamici che gli stanchi bancari avevano creduto di essere. Qui, dove la morte pulsa tra le righe, la vita prende il posto della scolorita e spenta vitalità delle marionette e travolge, fertile e produttiva, individui e ideologie, forma ed essenza, spazio e tempo, segni e linguaggio. Mutano la struttura e il contenuto della commedia: il vuoto si riempie e il tempo trasforma il proprio girare a vuoto in linea direttiva; l’atonia dei personaggi si risveglia da un ottuso torpore e si accende di colori sgargianti e violenti; le parole smussate e ripetitive divengono lingua decisa ed espressiva; lo scopo sbiadito e continuamente cercato si fa ideale presente, impellente, necessario.
Il testo inizia con le parole di un cantastorie che, declamando i versi scritti nell’ottobre del 1945 da un boscaiolo, riporta gli ascoltatori indietro di oltre vent’anni per poter ripercorrere i momenti più significativi del periodo che va dalla nascita delle squadre d’azione mussoliniane fino alla Liberazione del 1945. Il cantastorie, che si contrappone per semplicità linguistica all’abile oratoria strumentalizzata da Mussolini per il consolidamento del potere, è il simbolo, in teatro, del contatto diretto con il pubblico: con la sola voce e a mani nude egli si rivolge al proprio uditorio infrangendo la quarta parete e rinunciando ad una sofisticata messinscena. La comprensione della platea, ipotesi precedentemente cercata per poter ribaltare la vuota struttura psicologica dei personaggi in messaggio pieno e profondo, pare essere fornita in questo caso come dato di partenza. Il linguaggio del cantastorie non vuole oscurare o celare alcunché, ma palesa senza malizia tutto lo schietto e innocente valore del contenuto. Sono infatti gli avvenimenti storici a legare i personaggi e a rappresentare l’intreccio: la verità dei fatti è il soggetto di ogni proposizione, dove gli uomini si potrebbe dire che assumano funzione verbale mettendo in movimento il divenire della vicenda, la quale non necessita pertanto di artificiosa e prolissa aggettivazione. Trascorsi i tempi in cui occultare, dissimulare e sottacere era il prezzo da pagare per la sopravvivenza, la franchezza della lingua diviene simbolo principe di libertà.
Successivamente il testo si articola attraverso una serie di brevi sequenze (ciascuna delle quali esemplifica un evento) inframezzate da rapide didascalie o più ampie letture, restituite queste ultime da una voce fuori campo con la funzione di documentare gli avvenimenti e legare le diverse situazioni attraverso il rimando a circostanze e personaggi celebri. L’ironia è adesso completamente abbandonata: l’umorismo del resto, che aveva la funzione di celare le profonde contraddizioni nascoste dalle vesti delle marionette, non trova più spazio né funzione. Come la parola metaforica cede il posto alla lingua popolare e l’iperbole sparisce a favore della verità, così l’umorismo toglie la sua prima maschera e mostra il volto del dramma, della comprensione, della conoscenza. La dimensione spaziale e temporale è definita ed anticipa la presenza di personaggi inseriti nelle vicende del proprio tempo e non più privi di uno statuto psicologico diverso da quello rappresentato, anzi ricchi di un’interiorità che significa percezione della vita, sensibilità ed interesse per ciò che si muove intorno ma, soprattutto, all’interno della propria coscienza.
Ad accogliere la prima scena è la piazza di un paese: un luogo riservato allo scambio comunicativo, al dialogo e alla comparazione, che assume quindi il valore simbolico della contesa del potere politico. L’ultimo quadro del testo, infatti, avrà questa stessa ambientazione, ad indicare l’acquisizione di uno spazio ambìto e duramente conquistato, che non potrà tuttavia essere più lo stesso e si trasformerà nello sfondo scenografico su cui si proiettano i ricordi del sangue versato e dell’onta subìta.
Fin dai primi dialoghi, in contrapposizione all’apertura della piazza, il fascismo inizia ad imporre silenzio ed obbedienza, trovando l’appoggio dei capitalisti e delle forze dell’ordine. Questi, mirando ad ostacolare la parola, tentano di aggirare ed intimorire i contadini avvalendosi ora di un’eloquenza capziosa, ora della violenza ‘legalizzata’ dalla divisa.8 Contemporaneamente alle differenze linguistiche che caratterizzano i vari gruppi sociali e gli appartenenti ad opposte ideologie politiche, si aggiungono, a conferma di una disparità concettuale e comportamentale, diverse indicazioni pertinenti all’apparato didascalico e alla spazialità. Mentre le battute degli uomini impegnati nella resistenza al fascismo sono quasi sempre prive di didascalie esplicite, quelle dei fascisti sono molto spesso accompagnate da didascalie sceniche, prossemiche e modali. Pur contrassegnati da un linguaggio performativo che sottolinea dinamicità di pensiero e d’azione, i contadini sembrano non necessitare di un supporto didascalico per l’espressione di opinioni, considerazioni, angosce o timori: la scelta dell’autore a questo riguardo non è più correlata alla mancanza di spessore dei personaggi, ma diviene manifestazione di spontaneità e immediatezza, forma di impetuosa passionalità. Diversamente, il parlare dei fascisti è frequentemente percorso da didascalie che rafforzano la battuta fornendo importanti momenti iconici, rivelatori di aggressività e di violenza e amplificatori di una dinamicità che finisce per diventare impeto di brutalità e di sopraffazione, gesto di angheria e prepotenza. Tale aggressività crea, a livello sonoro, un’implosione: gli spazi in cui i fascisti si muovono sono infatti quasi sempre chiusi e sul piano scenico provocano una sorta di occlusione che dilata la violenza verbale per poi farla ricadere su chi l’ha generata. Nel momento in cui, poi, lo spazio non è circoscritto, i fascisti sembrano temere di perdere la propria forza e hanno bisogno di amplificare l’irruenza, che si palesa attraverso l’espansione del rumore e del frastuono (Una piazza. Fascisti, con manganelli e pistole in pugno, vanno gridando come ossessi).
Ma se l’Italia stessa sta diventando uno spazio chiuso, i luoghi di pertinenza semantica degli oppositori al regime sono quasi sempre aperti, o caratterizzati da oggetti che in qualche modo segnano il contatto con il ‘fuori’, con la possibilità cioè di uscire dalla situazione presente. In questo senso può essere considerata metafora di spazio aperto la tipografia del Non mollare, bollettino pubblicato ogni settimana clandestinamente, tramite con il mondo e mezzo per poter continuare a parlare, in un segreto tentativo di forzare il giogo e gabbare il controllo per riguadagnare il diritto alla libertà. Mentre il laboratorio della stampa è simbolo di un impegno finalizzato ad assicurare la diffusione di cronaca e cultura garantendo libertà di pensiero e parola, il controllo della circolazione della stessa cultura e la proibizione appunto della libera parola sono simboleggiati da un breve quadro in cui due fascisti approntano una sorta di scenetta teatrale con un paio di fantocci issati su due pertiche, raffiguranti Lenin e un prete rosso con tanto di forchettone, i quali vengono scherniti e dati alle fiamme. Al di là della denigrazione dell’ideologia che questi pupazzi rappresentano, è la tecnica del teatro nel teatro a rendere significativo questo momento: è lecito pensare, infatti, che il teatro in quanto espressione artistica venga considerato in questo caso come l’emblema stesso dell’arte, la quale altro non è se non estrinsecazione del pensiero, palesamento dell’idea, manifestazione dell’opinione. Poiché il metateatro è il teatro che parla di sé e si rappresenta, allora il fuoco appiccato a questa messinscena al secondo grado diviene rogo della comunicazione artistica e, in senso lato, censura della cultura.
Ugualmente strutturata è la scena dell’ultimo quadro, accompagnata da voci fuori campo che, finita ormai la guerra e terminati gli orrori del periodo fascista, ricordano gli scempi subìti elencandoli lentamente, ritrovandoli indelebili nella memoria e fissandoli per sempre in quella degli ascoltatori. I ritmi lentissimi, i pupazzi bambini scagliati nei forni, il fumo delle case bruciate, la ripetitività dei gesti e le parole incomprensibili immergono nel clima vago e ossessivo del sogno, che si fa incubo angoscioso nel ripresentare senza sosta questa danza funebre rituale. Il quadro è quasi surreale, allucinatorio; il teatro, di nuovo richiamandosi al metateatro tramite l’elemento onirico e i fantocci, si rappresenta e mette in scena ciò che a lungo ha dovuto tacere, nascondere, soffocare: svela, con forza e brutalità, quello che è stato indicibile e irrappresentabile, dischiudendo le tende di un retrobottega censurato da un silenzio forzato, riportando a galla una verità che la storia non può passare sotto silenzio. L’arte, insomma, si riprende funzioni e mezzi, recuperando l’obiettivo che da sempre l’accompagna: comunicare, diffondere, propagare, sempre, il proprio messaggio.
Toscana Libera chiude una trilogia espressamente dedicata ad una letteratura civile, che partendo dal recente clima di grandi speranze di rinnovamento iniziato dalle lotte studentesche nella seconda metà degli anni Sessanta si richiama, sotto il comune denominatore di una politica riformistica, al movimento resistenziale e all’opposizione partigiana. Con la fine della parola scenica, rimane aperto tuttavia il dialogo con lo spettatore, imprescindibile dalla stessa espressione teatrale. A riguardo infatti dell’esemplarità e della centralità del processo di formazione di un primo progetto di teatro politico, Castri scrive: «il teatro viene già embrionalmente indicato come luogo e strumento di una cultura alternativa e collettiva, e quindi come strumento ‘aperto’, che serva ad una comunicazione continua e non univoca (ma nei due sensi) tra operatore teatrale e pubblico».9
La basilarità di questo fine primario risulta immutata nell’opera di Ricchi, dove la comunicazione appare necessaria a che la parola possa legare i figli di una Storia diversa e offrire l’opportunità di far tesoro di una lontana conoscenza e di un’indimenticata coscienza, perché «il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso, per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandola».10
L’ultimo profeta e Lo scandalo
Dopo Toscana Libera Ricchi abbandona la drammaturgia per un lungo periodo: trascorrono infatti più di dieci anni tra il debutto teatrale, del 1975, e la pubblicazione dei testi successivi, La corona d’oro e La casa davanti al mondo, editi rispettivamente nel 1988 e 1989 e rappresentati al teatro Niccolini di Firenze nel 1990. Si tratta di opere che si differenziano dal lavoro drammaturgico precedente come da quello seguente, in quanto liberamente ispirate a testi di Thomas Mann e di Albert Camus. Sono tuttavia lontane dall’essere una semplice rilettura di questi due autori e vanno considerate quali «testi autonomi, se pure derivati da altri testi, che gli attori e i registi hanno messo in scena regolarmente, come se si trattasse di un qualsiasi altro testo drammatico»11 .
A cominciare dagli anni novanta Novanta Ricchi inizia a dedicarsi con assiduità e costanza alla scrittura drammaturgica, riscoprendovi quella possibilità di comunicazione con gli uomini che già lo aveva attratto nel periodo della giovinezza e che aveva messo da parte durante lunghi anni di sofferenza e di cambiamento interiore dovuti alla morte del padre, che risale all’aprile del 1981. Il lutto – egli racconta – lo ha allontanato dalle problematiche civili avvicinandolo invece ai temi esistenziali, ai dubbi profondi e laceranti legati alla più intima essenza della mente e del cuore, a tutti quei ‘perché’ che si affacciano d’improvviso alla finestra della ragione e si piazzano lì per sempre, in attesa di una risposta, di un cenno, di uno spiraglio di luce. Quando Ricchi ricomincerà a scrivere, forse dopo aver lasciato sedimentare e maturare dentro sé quelle voci incalzanti e urgenti di ottenere un resoconto, lo farà in termini diversi dal passato, appellandosi non più ad una realtà circostante da cambiare, ma ad un’interiorità da ascoltare, conoscere ed esplorare.
Nel 1991, sul primo numero di “Città di vita”, viene pubblicato il dramma in due atti intitolato L’ultimo profeta, che inaugura la svolta contenutistica della drammaturgia ricchiana: il testo offre uno scorcio di una società in decadimento, rappresentata da un numero elevato di personaggi (una cinquantina circa) che avvicina il dramma ad un poema corale offrendo così molteplici angolazioni da cui guardare, quasi a simboleggiare gli infiniti punti di vista dai quali Dio vede il mondo e decide di abbandonarlo a se stesso, mandando un profeta come portavoce di tale decisione.
Un video gigante mostra le immagini di una frana di enormi dimensioni ed altre, non meno spaventose, di una strage in un supermercato; al contempo due speakers, leggendo il telegiornale, illustrano gli avvenimenti: la scena si apre sul dolore, introducendo subito il motivo conduttore del testo, che oltre ad essere la causa delle angosce e delle diversificazioni delle coscienze dei protagonisti (ma si potrebbe dire dell’intera umanità) sarà anche, alla fine, l’ultima certezza rimasta ad accomunare proprio quelle coscienze allontanate da percezioni tanto dissimili della vita, eppure collegate tutte dalla sofferenza. La parola del profeta si rivela subito incisiva e manichea, provocatoria per chi sia in disaccordo e voglia controbattere: iniziare un qualsiasi scambio dialogico implicherebbe necessariamente una profonda analisi di sé. Egli appare in piedi, su un muretto, ad un lato del palcoscenico, a marcare il forte contrasto tra il credo illimitato dell’inviato di Dio e la malafede degli uomini, abbandonati ormai alla loro condizione tanto da essere presentati immobili su un divano, quando la parola del profeta cerca invece di elevarsi per sconfiggere la sordità umana e abbattere quel muro che separa da Dio. Le reazioni degli uomini alla sua predica variano in conformità con le diverse capacità di ascolto, che sembrano più elevate nei personaggi femminili e nei giovani (raggruppati intorno al profeta e perciò già vicini al di lui spazio semantico) e inesistenti negli uomini, i quali si nascondono dietro un’ironia dissacratrice ed enfatica. La figura femminile inizia ad assumere un rilievo che andrà progressivamente crescendo, fino a portarla ad incarnare la voce dello stesso scrittore, il quale affiderà proprio a Maddalena la funzione di portavoce del proprio punto di vista.
Le parole del profeta, anche se cariche di sconforto, nascondono una speranza nuova, sebbene lontana, che differenzia questa nuova fase drammaturgica dal teatro precedente: il ‘nulla’, spettro che aleggiava dietro la superficialità degli impiegati di banca, è qui riempito di un Dio del quale, per quanto assente o determinato a negarsi, non si può non sentire l’intensità e la forza vitale. Mettere in atto la parola di Dio, come il profeta invita a fare, significa dunque avere il coraggio di mettersi in discussione ma anche, a livello teatrale, dar vita ad un ‘atto’ scenico non più metafora del vuoto e della parola che si spegne nella propria ecolalia, ma simbolo di una Voce che, per chi sappia ascoltare, può sostituirsi a quel silenzio e dilagare in quel vuoto fino a renderlo pienezza salvifica. La parola vuota e ripetitiva dei personaggi di Prosperity and Revolution e de Gli eletti della società viene sostituita da un linguaggio icastico e vivo, aderente all’oggetto che diventa estrinsecazione di un unico soggetto parlante, e non più tema generico, ipoteticamente attribuibile a tutti i personaggi. In sostanza, come questi ultimi non sono più interscambiabili, così la lingua si fa riflesso di un unico e concreto individuo. Lo spazio sociale è suddiviso tra i personaggi, che occupano una porzione di palco così come la loro parola non è che sfaccettatura di un intero, di un assoluto corrispondente al pensiero di Dio: oltre lo spazio fisico e il tempo presente, si colgono quindi il dilagare dello spazio e l’infinità del tempo. Sullo sfondo scorrono le immagini della società veduta globalmente, ma da lontano: il fondale del palco è l’area che pertiene a tutti, il filo che congiunge e disunisce al contempo. Appartenere alla società crea inevitabilmente un legame, ma solo a livello superficiale: lo speaker elenca tragedie collettive, pubbliche e lontane perciò dall’individualità e dalla singolarità. Il legame diviene quindi anche spaccatura e lo spazio semantico comune si rivela specifico di nessuno. La società, in tal modo, diventa punto di partenza per iniziare il viaggio dentro se stessi, non più un percorso lineare ritmato da una cronologia oggettivamente misurabile, ma un itinerario che dall’alto, dalla superficialità di ciò che accomuna, scende e scava verso il basso, verso la profondità del pensare e del sentire. Sulla stessa linea ideale che discende verso l’intimità si muovono anche le coordinate spaziali e temporali, seguendo tuttavia la direzione opposta e salendo precipitosamente verso l’alto: l’abisso della coscienza pare cioè incontrarsi con il mondo lontano della fede rimpianta. Lo spazio tende verso un infinitamente grande in grado di dilagare nel momento in cui l’uomo sappia comprendere che la lontananza di Dio non significa vuoto ma pienezza, non silenzio ma parola che tace. Le problematiche sociali costituiscono in quest’ottica soltanto un primo livello di lettura, non sono che l’aspetto di una coralità che, per quanto importante, deve essere abbandonata per poter entrare in contatto con l’individualità.
Questa metodologia d’analisi che procede dal livello superficiale alla profondità si riscontra all’interno della singola opera, ma costituisce anche l’impalcatura strutturale che sorregge e collega l’intera drammaturgia di Ricchi. Come, infatti, per la rivoluzione si era partiti dall’eco della parola e del concetto fino a trovarli nudi e compatti, in questa nuova fase drammaturgica, ove l’oggetto non è più esterno all’uomo ma parte della sua interiorità, la disamina del dolore muove da uno sguardo d’insieme all’afflizione umana (L’ultimo profeta), per toccare poi l’angoscia di una famiglia distrutta da una serie di sventure (Lo scandalo). Il campo visivo si restringerà ancora fino ad inquadrare la sorgente del patema, quel travaglio cioè che non accomuna ma divide, che marchia a fuoco la catena genetica di ogni uomo rendendolo irrevocabilmente solo. Allora anche l’atto scenico diventerà concretamente e metaforicamente ‘unico’, mentre il dialogo si farà monologo e i personaggi saranno contorno sfumato di un singolo protagonista. È dunque l’individualità a rendere possibile l’apertura di un varco in direzione dello spazio dell’oltre, che si mostra qui attraverso le voci fuori scena, espressione della pienezza dei personaggi, apparentemente privi di qualità positive, tuttavia sorretti da un substrato tutt’altro che svuotato. Le parole del profeta, di fronte a questi uomini ai margini della società, sono capaci di mettere a nudo gli animi, che permeano la scena con l’intensità di veri e propri personaggi, pur costituiti di solo linguaggio. Un linguaggio fragile, franto da pause e puntini di sospensione, ad indicare tutte quelle assenze (dei genitori, delle persone paradossalmente definite ‘intime’ e infine, per immancabile conseguenza, di Dio stesso) che hanno lasciato vuoti incolmabili. Sembra confermarsi dunque l’equivalenza tra lontananza di Dio e mancanza di contatto col sé: la voce del profeta offre occasione di riconciliazione, prima che con Dio, proprio con se stessi. Mentre gli uomini ritrovano un po’ di fede, quella del profeta inizia a vacillare, a non essere più assoluta, ma umana. Portavoce di Dio come lo era stato Gesù, anch’egli si fa uomo tra gli uomini e si sente abbandonato dal Padre e dalle proprie sicurezze. Se inizialmente aveva pronunciato parole di sconfortante accoramento ma di estrema risolutezza, costretto poi a vedere da vicino i motivi di sofferenza nascosti dietro la scellerataggine degli uomini, sente scemare tutta la sua fermezza, mentre la lingua perde il tono allocutorio e si riempie di interrogativi, di pause di titubanza.
La religiosità di Maddalena invece è, fin dall’inizio, quella a cui egli approderà soltanto dopo ‘essersi fatto uomo’, dopo aver abbandonato l’idea del Dio vendicatore e lontano del Vecchio Testamento per incarnare piuttosto il Cristo sceso tra gli uomini e disposto a sacrificarsi per loro donando la vita, così come anch’egli immolerà la propria libertà scegliendo di rimanere in carcere. Maddalena, quale portavoce dell’umano sentire e personaggio complementare al profeta stesso, lo prepara a quel dolore del quale poi sarà anche consolatrice. Lo spazio scenico riservato al loro dialogo non è definito da alcun luogo specifico: fuori dal tempo presente e dallo spazio fisico non si trova solo l’inviato di Dio, ma anche la di lui parte mancante, colei che saprà rigenerarlo tra gli uomini, la donna simbolo di complementarità rispetto all’uomo e insieme metafora di maternità e di ri-creazione. Nuovamente ci troviamo di fronte ad una scena metateatrale, poiché priva di uno spazio peculiare a richiamare la contingenza dell’uno o dell’altro luogo. Se il profeta richiama la degenerazione dell’animo umano e insieme la necessità, espiando tramite il dolore, di purificarsi e tendere verso l’indefettibilità del divino, Maddalena si fa sinonimo di una catarsi non più celeste ma mortale, di un perdono che ogni essere può concedere a se stesso tramite l’espiazione della conoscenza e della comprensione. Ed è questa la purificazione che l’arte, penetrando il tangibile e mirando al metafisico, da sempre offre a che le si avvicini. Maddalena, la sola ad essere identificata da un nome proprio, rappresenta insieme l’artista e l’arte: come una madre infatti l’autore genera la propria opera, la quale poi diventa indipendente, sobbarcandosi il peso di poter essere doloroso tramite di conoscenza e alleggerendosi in seguito di questa stessa zavorra di dolore, nel momento in cui la conoscenza diventi autoconoscenza e coscienza. Se il percorso di ricerca di Dio equivale alla ricognizione della propria sfera più intima e l’abissale lontananza coincide con un incolmabile vuoto interiore, all’imperfezione umana corrisponde, di conseguenza, l’incompiutezza divina. Il teatro non potrà che porgere alla scena la manchevolezza dell’imperfezione, ma nell’atto stesso dell’offerta la lacuna, mostrandosi senza nascondersi, assume un’anomala completezza, un’inusitata perfezione che consiste proprio nel riconoscersi incompiuti. Conoscere è primo passo di una ‘perfezione’ tutta e soltanto umana, blasfema e ‘peccatrice’, comprensiva cioè della pecca dell’incompletezza: Maddalena è il tramite attraverso cui l’imperfezione si svela e sacrilegamente sublima; ed è colei che permette poi agli uomini di riconoscersi in questa umanità elevata. Tale spazio della manchevolezza – una volta conosciuto – potrà illusoriamente avvicinare il Dio lontano o colmare momentaneamente il ‘vuoto a perdere’ della coscienza.
Lo spazio peraltro risulta essere una delle principali chiavi di lettura del testo, essendo sempre strettamente correlato alla minore o maggiore capacità dei personaggi di accogliere la parola del profeta e mettersi in discussione. L’opera termina nell’angustia di un carcere, che finisce tuttavia per essere simbolo di possibilità d’evasione verso l’oltre piuttosto che metafora di prigionia psicologica. Pur essendo un luogo di sovraffollamento e di coercitivo contatto con gli altri, il penitenziario offre tempo illimitato per riflettere e lo spazio illusoriamente si dilata, divenendo forma espressiva dell’individualità.
Il poema corale finisce dunque per ribaltare il concetto di coralità o, meglio, soggettivizza il ‘coro’ e lo trasforma in espressione globale dell’individualità. Soltanto attraversando il proprio deserto di dolore l’uomo può essere toccato nel profondo della coscienza e trovare ristoro nell’oasi della conoscenza e della comprensione. Il cerchio allora si stringe attorno alla singolarità dei personaggi e la drammaturgia di Ricchi, oltrepassato il poema corale, si accinge a prendere in analisi lo spazio familiare di una tragedia tutta personale, inconsolabile e incomprensibile per chi non l’abbia vissuta in prima persona.
Sarà proprio il coro a dar voce all’incipit de Lo scandalo, opera successiva a L’ultimo profeta pubblicata nel 1992 su «Città di vita». Coro che, secondo la consuetudine del teatro classico, fornisce le indicazioni necessarie alla comprensione della scena spiegando l’antefatto, ma contemporaneamente si lega alla specificità di una tragedia tutta personale.12 Il tentativo di «rendere emblematica l’appartenenza di tutti i protagonisti ad una medesima umanità»13 sembra infatti reso vano dall’impossibilità di condividere la sofferenza non solo all’interno della stessa cerchia sociale, ma addirittura nell’ambito della propria famiglia. Il travaglio rende infatti estranei due coniugi fino a poco tempo prima esemplari. La compartecipazione può essere intesa soltanto come inevitabilità di sfuggire un dolore del quale tutti (ma ciascuno a suo modo) dovranno, loro malgrado, ricevere la propria porzione. La narrazione dell’antefatto, nella sua consistenza quasi giornalistica, lascia trasparire una lieve discrepanza: il disaccordo è lo stesso che c’è tra l’angoscia disperata del soggetto che vive in prima persona e la dispiaciuta immedesimazione del lettore. Le parole misurate e ponderate del coro sono perciò l’espressione di ciò che può essere recepito dagli altri i quali, per quanto propensi all’immedesimazione, possono solo guardare da lontano questa tragedia resa pubblica, ipoteticamente fruibile da tutti. Pur elevando l’individualità all’ennesima potenza, il dramma dell’individuo resta a costituire la base elevata. Il coro richiama inoltre alla memoria la corale religiosa, simbolo di una preghiera che s’innalza all’unisono e della condivisione di un unico credo. Della melodia celeste, tuttavia, qua sembra essere rimasto solo il controcanto, quella nota di disarmonia che rovescia la comune prece in imprecazione solitaria (MADRE Maledetto il giorno in cui nacqui e quello in cui generai i miei figli!). La forza e l’incisività del linguaggio della madre introducono lo spazio del dolore incondizionato e della disperazione senza misura. Uscire dal tempo presente pare la sola alternativa all’infinito travaglio che sembra rigenerarsi senza sosta: soltanto la dolcezza del ricordo riesce a lenire il dolore, ma l’abbandono al passato non può durare che qualche momento, poi il presente ritorna fulmineo, pieno di interrogativi, di dubbi e di rimorsi, di sensi di colpa indelebili. Nemmeno la fede sarà capace di smorzare tanta solitudine. Il sacerdote al quale la donna si rivolge è un uomo il cui abito talare ha soltanto mimetizzato un’umanità che continuamente traspare, fitta anch’essa di dubbi e domande senza risposte. La voce fuori scena, che accompagna gesti ed atti del rito della messa esequiale, ripete fideistica la parola di Dio, la quale però appare lontana e fredda nel suo dogmatismo speranzoso. Tra l’inconscia ritualità delle movenze e la pressione degli interrogativi c’è tutta la distanza incolmabile che separa la divinità dall’uomo, anche quando quest’ultimo sia un portavoce del Creatore. Le due voci parlano lingue incomprensibili, proferiscono ognuna il proprio verbo dando origine ad un dialogo del silenzio strutturato da due monologhi paralleli destinati a non incontrarsi. Nascosto in un tempo remoto e in uno spazio irraggiungibile, Dio non risponde agli uomini. Il sacerdote prova quindi a rincuorare la madre proprio con la risolutezza di quella voce fuori scena che per primo aveva avvertito lontana e debole, ma, insieme a parole che cercano di scacciare innanzitutto i dubbi personali, si affacciano frequenti pause di smarrimento, di riflessione. Questi tormenti sottaciuti (svelati nel testo dai ‘tra sé’) alterano il dialogo con la donna rendendolo sterile ed artefatto, tanto che ella finisce per puntare il dito contro quel Dio che, pur difeso dal sacerdote, continua a sentire sconosciuto: Dio è messo al banco degli imputati e il sacerdote non trova una dialettica abbastanza convincente per sostenerne la difesa. La donna dichiara guerra al Padreterno brandendo l’arma di un silenzio caparbio e tenace: tacere, tuttavia, significa soffocare la propria coscienza, negarle qualsiasi sollievo e destinarla ad implodere. Ella, gravata dal peso del rimorso, continua forse a pagare il fio di un dialogo mancato col figlio suicida e, prima ancora, con se stessa. Quando, finalmente, sente la voce del Signore, non vi trova conforto ma una fermezza salda, oscura e lontana, che rinnova l’incomprensione e rimane distante, celata dietro un ombroso sipario che agli uomini non è lecito nemmeno discostare. Francesco Tei, regista della prima rappresentazione dell’opera, ha voluto che Dio avesse la voce di un bambino, a conferma della possibile sovrapposizione della ricerca di Dio e il vuoto lasciato nella di lei coscienza dalla morte dei due figli. Così come questi ultimi se ne sono andati in silenzio, il Creatore parla una lingua muta: il dialogo che non fu allora continua a non essere e l’arcano del mondo oltre la vita non si svela.
Il teatro dunque non è che specchio per riflettere l’impotenza di chi, vivendo immerso nel dramma, non trova la forza di tirarsi fuori. Al contempo, però, il palcoscenico offre la possibilità di seguire un itinerario della coscienza: nell’ultimo quadro l’aggressività e la rabbia della madre si smorzano, aprendosi al tentativo di comprendere, pur difficoltosamente, le ragioni di Dio. Ella rompe il silenzio per dar voce al proprio dolore: l’Onnipotente rimane distante, enigmatico, inavvicinabile. Tuttavia la donna guarda in alto e si vede ‘dentro’: la zona d’ombra dell’interiorità finalmente si mostra, ma non è che preludio di un dolore che forse sarà ancora più intenso e che non conoscerà nemmeno i limiti del lontanissimo spazio divino, nel quale la fede avrebbe potuto trasformare un giorno la sofferenza in ricompensa. L’incredula incertezza iniziale che paventava l’inesistenza di Dio diventa dubbio sospettoso della sua irrealtà. Il confine tra timore e sospetto, che può apparire lieve, è indice di un importante iter interiore, di un passaggio da uno stato di demenza14ad una condizione di lucida e dolorosa consapevolezza. Il filo d’unione tra queste due sponde tanto lontane pare essere il quinto quadro, nel quale il professore, io epico, sembra avere la funzione di traghettare le anime dal limbo dell’ignara razionalità all’inferno della contezza del patema. Il rilievo della funzione del professore è immediatamente svelato dalle differenze che lo caratterizzano rispetto agli altri personaggi. Le sue battute, anzitutto, non sono accompagnate da didascalie sceniche, a dimostrazione di uno statuto psicologico che si esprime interamente attraverso il linguaggio: egli è dunque il personaggio ‘parola’, colui che trova nella lingua il mezzo per esternare la propria interiorità senza lasciarla implodere. Il richiamo allo stesso autore è evidente nel momento in cui si pensi alla scrittura come a una terapia per comunicare se stessi, per appellarsi all’ultima chance di dialogo e di corrispondenza col mondo, per esorcizzare infine proprio quel dolore senza conforto: la parola diviene allora l’unica via di fuga. Il peso del lemma è peraltro dimostrato dai frequenti puntini di sospensione che si interpongono tra un’affermazione e l’altra, lasciando così intuire assidue pause di riflessione che rafforzano e avvalorano il pensiero. Non siamo più di fronte, come per la madre o il sacerdote, ad una perplessità affliggente, ma all’intelligenza di una meditazione che significa osservazione profonda degli ossimori di cui è intriso il linguaggio dell’inconscio e dei quali deve restare composto per non essere tradìto. Tràdito invece, grazie alla voce del professore, che è parola scritta dall’autore, la quale poi sarà atto scenico da poter intendere quale metafora dell’arte. Un’arte che prova a conciliare i contrasti senza annullarli. La funzione dell’intellettuale è perciò quella di eludere la sterilità del dolore senza perdere il valore dei sentimenti, ma rielaborando questi ultimi col supporto della ragione, filtrando ed epurando insomma impulsi e passioni dall’esasperazione del pathos.
Il solo vero dialogo a cui si assiste nel corso dell’opera è infatti quello tra il professore e gli alunni. Diversamente, la forma del parlare tra la madre e il sacerdote o tra la donna affranta e l’amica, non è che assemblaggio di soliloqui. All’interno della famiglia, poi, sembra non esserci nemmeno un tentativo di comunicazione. Sono proprio gli spazi interiori, illimitati, a permettere al professore di percorrere le infinite vie del sé, di rielaborare i lutti e trarre insegnamento anche dal dolore. Il simbolo più pregnante pare essere quell’uscio sul quale egli si sofferma, in procinto di accompagnare gli alunni a passeggiare all’aperto. Non una porta dunque, ma una piccola via d’uscita, quella che il continuo viaggio non ha mai permesso di serrare, sempre aperta a permettere la contiguità di pathos e ragione, il flusso della memoria nel presente, il contatto tra coscienza e oblio.15 Ed è quest’uscio una condizione di vita irrinunciabile per non impazzire: la madre, infatti, verrà costretta dalla realtà a riprendere le fila di quel viaggio abbandonato. Scavando nella memoria e vivendo nuovamente il passato, ella comprenderà che il Dio lontano equivale forse al proprio bisogno di speranza. Speranza di sapersi perdonare e di accettare la parte di sofferenza che la vita riserva, che per quanto appaia insostenibile, non troverà altra via di fuga che quell’uscio.
Dall’atto unico al dramma in quattro atti
L’ultimo testo che appare nel volume Teatro16 è l’atto unico L’appuntamento, pubblicato su «Città di vita» nel 1993. Il testo segna il punto d’arrivo di un percorso metodologico che, muovendo dall’eco del dolore manifesto in ciò che è esterno all’uomo, finisce per inquadrare l’interiorità e la sofferenza, mentre il mondo attorno assume valore di dettaglio. Dai primi testi che aprono il volume nel nome dell’impegno politico e sociale, si approda dunque a un teatro da camera di riflessione metafisica, costituito di monologhi che rispecchiano l’incomunicabilità del travaglio umano. La successiva raccolta, La coscienza in scena,17 riunirà atti unici e monologhi ancora contraddistinti dal rapporto soggettivo con la realtà, dal senso di alienazione, dal marchio della solitudine e dell’individualità.
L’appuntamento, andato in scena al Teatro dei Filodrammatici di Milano nel 1994, racconta in poche pagine il dramma di un padre che si trova costretto a comunicare al figlio l’imminenza della propria morte. Il tema e la struttura di questo testo ricordano L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello: non poche le analogie tra le due opere, che differiscono tuttavia per un alito di speranza e di fiducia nella vita che contraddistingue la parola di Ricchi, meno amara di quella dell’agrigentino. La didascalia contenitore de L’appuntamento già offre, in nuce, quel gioco di richiami al testo pirandelliano che caratterizza l’intero svolgimento del dramma, trasformando però le similitudini in difformità.
Un giardino pubblico appartato e poco frequentato. Sul prato un albero, una panchina e uno scivolo; una palla e un triciclo dimenticati. È pomeriggio e siamo d’estate. Gli uccellini cinguettano. Entra un uomo di mezza età. Ha l’aria affaticata. Si ferma a metà della scena e resta per qualche secondo in ascolto dei cinguettii degli uccelli, lo sguardo rivolto verso l’alto. Un leggero sorriso lentamente gl’illumina il volto. Si guarda attorno.
Pirandello nella didascalia d’apertura scrive:
Si vedranno in fondo gli alberi d’un viale, con le lampade elettriche che traspariranno di tra le foglie. Ai due lati, le ultime case d’una via che immette in quel viale. Nelle case a sinistra sarà un misero Caffè notturno con tavolini e seggiole sul marciapiede. Davanti alle case di destra, un lampione acceso. Allo spigolo dell’ultima casa a sinistra, che farà cantone sul viale, un fanale anch’esso acceso. Sarà passata da poco la mezzanotte. S’udrà da lontano, a intervalli, il suono titillante d’un mandolino.
Al levarsi della tela, l’Uomo dal fiore in bocca, seduto a uno dei tavolini, osserverà a lungo in silenzio l’avventore pacifico che, al tavolino accanto, succhierà con un cannuccio di paglia uno sciroppo di menta.
In entrambi i testi s’incontrano elementi emblematici dell’idea di morte, della stanchezza di una vita che volge al termine: l’albero, simbolo del ciclo vitale, è esposto al mondo dei vivi, ma affonda le radici nella terra, universo dei defunti; la panchina e le sedie paiono metafora di una sosta che obbligherà a riflettere e a prendere in esame la vita passata, in attesa dell’ormai prossima, definitiva, requie. Tuttavia accanto alla panchina, ne L’appuntamento, si trovano dei giochi per bambini: la vita quindi sembra pronta a rinascere, a rigenerarsi proprio dalla morte. Agli uccellini cinguettanti si contrappone, in Pirandello, la melodia mesta e sconsolata del mandolino. Il buio della notte, poi, avvolge l’intero dialogo de l’uomo dal fiore in bocca col pacifico avventore, mentre le parole del padre saranno scaldate dalla luce intensa di un pomeriggio d’estate. È comunque l’ambientazione spaziale a sottolineare le maggiori differenze: il giardino di Ricchi è intriso di significati che si allontanano dalla valenza della stazione de L’uomo dal fiore in bocca. Il viaggio – ed in particolar modo il viaggio per treno – è una metafora tipicamente pirandelliana per permettere al protagonista di attraversare la realtà in vista dello spazio dell’oltre.18L’iter conoscitivo simboleggiato dal treno porta l’uomo a staccarsi dagli affetti, dalla gente conosciuta, dalla moglie, finanche da se stesso, per rifugiarsi nella memoria remota dei dettagli, definiti sì fino al particolare, ma staccati e lontani dalla vita vissuta coi cinque sensi. L’uomo-occhio di Pirandello osserva e si anestetizza per sopravvivere, in attesa dell’ultimo viaggio. Allontanatosi dal vissuto per ricercare la distanza da un evento altrimenti non controllabile, egli non possiede adesso che il passato: il ricordo, il sogno, la scrittura, paiono le sole vie per allontanarsi da una realtà impossibile da vivere. Pena la follia.
Ne L’appuntamento di Ricchi la scena si svolge in un giardino. È la terra, coi suoi profumi e i suoi colori, a riempire la vista di quest’ultimo incontro: la terra che in vita offre il frutto del sostentamento e che si trasformerà, per ognuno, nell’estremo giaciglio. Le parole del padre svelano una continua ricerca di qualcosa, al di là dell’esistenza, che l’uomo percepisce e fiuta senza tuttavia riuscire ad afferrare. Qualcosa in cui forse spera soltanto con la forza di un sentimento della vita – a differenza che in Pirandello – tutt’altro che smorzato. Se l’uomo dal fiore in bocca si rifugia nel dettaglio, il padre di Ricchi lascia correre la mente verso l’universale, l’infinitamente grande, cercando di cogliere, quasi per un’ansia metafisica, un brandello di quella verità che si nasconde agli uomini. Questo teatro di riflessione, i tentativi di comprensione delle misteriose leggi che regolano l’universo, riportano alla memoria i versi di Montale, le parole con cui il poeta si è instancabilmente proteso verso un oltre intuito e subito perduto. E il giardino de L’appuntamento pare avere non poche analogie con l’orto di In limine:19
Godi se il vento ch’entra nel pomario / vi rimena l’ondata della vita / qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquiario.
L’orto diviene qui reliquiario, luogo sacro dove si conserva il reliquus, ciò che resta cioè della trascorsa vita. Allo stesso modo il giardino di Ricchi sembra testimone del nodo inscindibile che lega la vita al trapasso: nodo che allaccia anche la parola – sia essa poetica o prosastica – forse per quella zona liminare che l’arte occupa, in bilico tra luce e buio, realtà e oltre, alba e tramonto. Ed è qui, in limine, che l’uomo di Ricchi (come quello di Montale) tende le braccia per trovare la maglia rotta nella rete; ed è ancora qui che, come un pomo che cade dall’albero, anch’egli continuerà ad alimentare di sé un orto che non cesserà di essere fruttifero. Il padre, infatti, lascerà in dono al figlio l’orologio, simbolo di una vita che proseguirà oltre il ‘tempo’ proprio tramite il figlio; dalla stazione pirandelliana partirà invece un ultimo treno, sterile, senza ritorno. Un alito di speranza dunque nonostante l’appuntamento con la morte e nonostante il dialogo mancato col figlio, che il padre non riesce ad informare del destino che lo attende: poco tempo a disposizione, molti argomenti di cui parlare, forse anche un po’ di titubanza nel provocare tanto dolore con la tragica notizia. Soltanto il tempo, probabilmente, restituirà significato alle parole che ora il figlio non comprende e allora il dialogo di adesso cesserà d’essere muto: il rimpianto è quindi per la cinica celia insita nella vita stessa che, simile a un gigantesco contrattempo, allontana gli uomini e li lascia soli dinanzi al dolore.20 Le didascalie sceniche che accompagnano il dialogo ‘padre – figlio’ confermano peraltro i tentativi di un affetto che cerca la strada della corrispondenza, negata proprio da una diversa percezione del tempo che, fugace, scappa ad ognuno correndo in direzioni opposte: per uno verso la vita, per l’altro verso la morte.
Sembra essere una diversa percezione del tempo a contraddistinguere anche i due autori. Per l’uomo dal fiore in bocca la sola via di fuga dal presente è allontanarsi dalla memoria del vissuto aderendo, con tutta l’immaginazione, a brandelli di vita altrui o a fotografie del passato. Istantanee che diventano dettagli, oggetti lontani nel tempo e nello spazio, da guardare minuziosamente finché non assumono la forma del ridicolo. Allora il gusto della vita si trasforma in ‘non senso’ e la morte diviene perdita meno amara. Il ricordo pare equivalere, così, all’unico modo possibile per vivere i giorni rimasti; ugualmente la scrittura prende le distanze dal dinamismo presente e, tramite la parola, tenta di dominarlo. Da lontano, poi, ‘scrivere la vita’ diviene meno doloroso che viverla: il distacco dal reale e lo straniamento dal mondo permettono di riavvicinarsi al presente guardandolo in prospettiva, come fosse già ormai lontano nel tempo. Il padre de L’appuntamento, invece, ripesca a piene mani nella memoria, assaporando quel gusto della vita che il protagonista pirandelliano vuol fuggire. Vagando col pensiero, egli abbatte le frontiere di tempo e spazio, lascia fluire il passato nel presente, senza cercare di prendere le distanze da una vita che ancora lo travolge. In vista della morte, tenta disperatamente di trovare nella fine un nuovo inizio, tramandando pensieri ed emozioni al figlio. Questi, simbolicamente, sarà custode del tempo del genitore. Il giardino allora diventa vero e proprio orto, segnando appunto la possibilità della vita di rigenerarsi. Frattanto, la scrittura testimonia questa ri-creazione: se il padre lascia un po’ del proprio esistere al figlio, lo scrittore offre il proprio retaggio, frutto incorruttibile, alla pagina e alla scena.
L’appuntamento con la morte, non tinteggiato da una scenografia lugubre ma scaldato, qua e là, da qualche pennellata di umanità e di speranza, segna il congedo di Ricchi da Pirandello, forse in nome di un percorso ormai lontano dall’ironia dei testi iniziali, ma allo stesso modo distante, nell’indagine della coscienza, dall’amaro pessimismo pirandelliano.
La tensione verso l’infinito, la soggezione della morte e l’attaccamento alla vita, il dolore connaturato alla condizione umana, il filo di speranza che lega gli uomini, sono temi indagati da Ricchi quasi fino all’ossessione. Ne La coscienza in scena21 sono raccolti atti unici e monologhi che ripropongono, appunto, le disarmonie della coscienza, quei contrasti che accompagnano il cammino di ognuno e che assumono talora le sembianze di appigli, talora quelle di ostacoli. A lenire la sofferenza è sempre l’amore: un amore consolatorio, squisitamente terreno, ambientato in uno spazio circoscritto e annodato allo svolgersi di un tempo non già infinito, ma determinato; un amore che dà voce all’animo e sopperisce al dialogo, quando quest’ultimo cade nella trappola del linguaggio e la parola non comunica, ma divide; un amore che può rigenerare, poiché l’assoluto alberga nelle umane dimore e il filo dell’immortalità si svolge tra le generazioni; un amore che, anche se in ritardo, fa dono di sé, regala un ultimo batticuore e accompagna l’estrema solitudine. L’imo ombroso della coscienza necessita insomma, per combattere i luttuosi fantasmi, del chiarore della speranza.
L’unica speranza che invece sembra dominare in Villa Faust22 è quella di Thánatos, il grande forse con cui si chiude il grottesco dramma in tre atti che presenta di nuovo la figura del vecchio, già protagonista de La promessa.23 In quel testo del 1993 erano evidenti le affinità e le differenze con La Rigenerazione di Svevo: se il vecchio sveviano infatti supera la fisicità del bisogno spingendosi verso la conoscenza pura, il vecchio di Ricchi, pur avvertendo in maniera più tenue il richiamo del desiderio, afferma se stesso solo quale narratore della propria esperienza e delle verità faticosamente acquisite nel corso di un’intera vita. Egli ha la stessa funzione della pagina scritta (o dell’atto recitato): tendere all’eternità non tanto ringiovanendo le proprie cellule, ma offrendo la propria parola alla rigenerazione altrui. Questo permette di prendere le distanze dal dolore della morte, di renderla più accettabile, quasi feconda. La fine perciò diventa, in qualche modo, un nuovo inizio. Ora invece il problema affrontato sembra maggiormente incline a determinarsi nel rapporto scienza (o suoi surrogati) – vita, quasi a inscenare le paradossali conseguenze di una alterazione del processo vitale con un’azione di ringiovanimento provocata da trattamenti medici e cosmetici di vario tipo. Ma l’opera è molto più ambiziosa de La promessa fin dal titolo, nella scelta del quale sembra ricomparire il tema mito dello spirituale e demoniaco congiunti, che si scindono già alla fine del primo atto, con l’intervento del giornalaio-diavolo che tenta il vecchio ormai consapevole di essere dominato dalle catene del tempo e desideroso di tornare giovane, non per pensare, studiare, ascoltare, ma per vivere. Ed è una vita fittizia quella che gli procurano nel beauty center, dove anche l’eros viene offerto a pagamento, con conseguenze drammatiche per la povera ragazza che per miseria si è prestata all’incontro. La parabola che qui si disegna è ancora una volta un discorso che va a toccare le assurdità di un modus vivendi impostato solo sull’apparire e sul piacere, ma la chiusa del testo ribalta con forza i risultati grotteschi di quella cura di ringiovanimento e il vecchio si dispone a cercare una morte che sarà solitaria, senza consolazione, tuttavia capace di una nuova fiducia perché nell’orrore dei gesti compiuti c’è stato anche un momento di consapevolezza, la visione cioè della morte come momento della suprema autenticità.
In un testo che sa mediare le tessere intertestuali – da Cioran a Popper a Goethe – per ricondurle ad una linea tutta personale, lo scrittore coniuga meditazione filosofica e pessimismo esistenziale, Eros e Thánatos, e trova nel pensiero della morte il forse che dà senso ad una vita proprio perché consentirà di ritornare allo stato di bozzolo e di rivedere chi si è veramente amato e da chi si è stati veramente amati. La coscienza in scena ha prodotto un risultato espressivo notevole proprio perché ha scheggiato i vizi della modernità coniugandoli a uno dei grandi miti dell’immaginario umano, Faust appunto. Il sapere però è ridotto ad una elucubrazione solitaria, ad una riflessione che non può comunicare. L’amore è mercificato e non porta salvezza, ma nuovo dolore. Siamo sempre nell’ambito di una ricerca morale, tipica dell’ultimo Ricchi, ma essa si è fatta più amara e profonda insieme e non può ignorare che oggi lo spazio di Faust non è più il mondo della coscienza, ma quello dell’apparenza: una villa appunto, e una villa dove si pratica beauty farm. La citazione iniziale da Kierkegaard riassume ed emblematizza tutto il testo: ogni epoca ha il suo Faust.
L’uomo, che nel viaggio attraverso la coscienza riesce a trovare la forza per affrontare la morte, è spaesato quando alza la testa dal proprio io e si confronta con la società. L’ultimo testo teatrale di Ricchi, La parola all’assassino, prende infatti in esame l’estrema difficoltà dei rapporti interpersonali, la solitudine che scaturisce da una comunicazione spesso soltanto formale e il grigiore di una quotidianità priva di calore, della quale rimane viva soltanto la ripetitività dei gesti. Una continua reiterazione che, orbata della vitalità del sentimento, si deforma da normalità a norma e assume le caratteristiche di un incessante e beffardo tic. Meccanismo inceppato che porta l’assassino ad un gesto di apparente follia, dettato da un desiderio di relazione che, cadendo a vuoto, diviene bramosia di corrispondenza e poi avidità di una qualsiasi manifestazione vitale, di un gesto, di una parola. Nella casa dell’assassino sembra già aleggiare il fantasma della morte: mentre l’attenzione della moglie è catturata da un programma televisivo i figli (che non compaiono nella tavola dei personaggi e sono rappresentati da due manichini) siedono immobili davanti ad un computer e ad un videogioco. I familiari sono privi di quella componente di umanità di cui pare essere costituito il protagonista e il dialogo da lui continuamente tentato assume sempre più dichiaratamente connotazione monologica.
L’impressione, fin dalle prime pagine, è quella di osservare il disorientamento di un personaggio profondo e sfaccettato paradossalmente circondato dall’irriverenza della completa superficialità, come se, per caso, un protagonista de La coscienza in scena (o del teatro di riflessione metafisica) venisse d’improvviso sbalzato nel salotto bidimensionale di Prosperity and Revolution. Sembra infatti che Ricchi, nell’analisi della società, assuma di nuovo i toni ironici e amari della prima fase drammaturgica e che polemicamente torni a marcare una quotidianità che si muta in squallore quando valori e ideali vengono meno.
Di fronte all’assurdità, al grottesco quasi, di un matrimonio ‘sentimentalmente bianco’, di una famiglia sorda a qualsiasi appello, di un ambiente di lavoro frustrante, l’assassino uccide lo spettro del vuoto che lo circonda nell’illusione di poter trovare un contatto umano. Folle di solitudine, egli abbatte il muro che lo separa dalla moglie e prova ad addentrarsi nel di lei spazio, a parlarne il linguaggio. Consapevole, infatti, che solo un gesto di plateale insania potrebbe destare l’interesse di una società imperturbabile, richiamare l’attenzione della stampa e suscitare scalpore, decide di sparare ad un pregiudicato, accusato di pedofilia, e di allontanarsi poi con calma dal luogo del delitto, lasciandosi riconoscere. Il desiderio è quello di ottenere un momento di celebrità che lo renda protagonista di uno dei tanti programmi televisivi ai quali la moglie dedica tutto il proprio tempo. Nell’attesa del primo telegiornale, egli già pregusta la gratitudine della gente e la sospirata considerazione della famiglia, presumendo che l’illegalità del gesto venga scusata in nome della morale comune, sempre desiderosa di una giustizia rapida e vendicativa. Non essendo partecipe di quella morale comune, egli rimane tuttavia escluso anche dal suo complesso funzionamento: l’atto eroico viene svilito e l’interesse dei media muove in direzione del pedofilo: l’ingranaggio sociale si innesca a difesa del ‘più debole’ e si perde nel gioco catartico della giustificazione, del perdono e del compatimento. Il processo contro l’assassino (rivelatosi incapace di modulare una lingua non propria e di plasmarsi allo spazio alieno della società) assume i connotati onirici dell’ossessività, della ripetitività, della deformazione del reale. Come in un incubo, l’imputato grida inascoltato, rivolgendosi a chi addirittura non mette in discussione un verdetto ancora inespresso, ma già stabilito.
La polemica di Ricchi è «indignazione morale, civile, esistenziale»24e si scaglia contro la vacuità della vita d’oggi, un gorgo pronto a risucchiare e uniformare. Proiettata su questo piano di omogenea bidimensionalità, la figura a tuttotondo dell’assassino risulta precaria, quasi goffamente scollata, incapace di riempire il vuoto che la separa da una realtà estranea. Quale creatura ai margini, egli ha bisogno dello stato di incoscienza onirica per occupare il centro della scena dove poi, però, resta come un claudicante che si muova su una superficie inconsueta e anomala. La perdita dei sensi che precede il processo è, sì, prolessi del sogno, ma è anche rivelazione della mancanza di forze che permetterà al protagonista di reggere le luci della ribalta. L’abbandono del luogo dell’udienza segna una sconfitta da cui si origina una seppur dolorosa vittoria: la rinuncia al tentativo di essere compreso dagli altri si muta infatti in accettazione della propria diversità. Questa consapevolezza di sé porta ad una volontaria abdicazione degli spazi altrui a favore di un angolo personale in cui non sentirsi ospite, ma padrone della propria vita. Sarà la camera di una prigione a simboleggiare la condizione di libertà finalmente conquistata e qui si svolgerà il primo vero scambio dialogico del testo, quando l’assassino e il detenuto cominciano ad interessarsi l’uno alla parola dell’altro finché le loro voci si fondono e divengono espressione di un unico pensiero. Allora il dialogo si fa monologo interiore, flusso di una coscienza riappacificata con se stessa, consapevole della propria solitudine e della distanza che la separa dal mondo, ma non più tormentata di ricevere, da quel mondo, attenzioni e premure. L’autocoscienza dunque si rivela il solo mezzo per salvaguardarsi, anche quando il prezzo da pagare sia quello dell’isolamento. L’esistenza non sembra permettere un’armonica intersezione degli ambiti semantici che, se tentata, finisce per trasformare l’incontro in scontro. L’iter conoscitivo è stato, tuttavia, un viaggio compiutosi proprio attraverso la sperimentazione degli spazi. La ‘rigenerazione’, rinascita del sé, non è più un percorso scandito dai ricordi e giunto a conclusione tramite l’allontanamento nel tempo: la memoria del vissuto perde la propria centralità e diventa irrilevante, mentre il tragitto assume consistenza nell’attraversare tutti i luoghi della possibilità. Il linguaggio, frattanto, si plasma allo svolgimento del percorso, intonandosi ai diversi momenti che contraddistinguono i tentativi della coscienza, che a passi ora malfermi ed ora risoluti, in questo esperire continuo lentamente si struttura. Allora, saggiando, dalla verifica si passa alla conoscenza. La composizione del personaggio, mediante questa stratificazione di esperienze, assume una consistenza che s’innalza poi a coscienza ed autocoscienza.25 Mentre in Prosperity and Revolution il processo conoscitivo restava ignoto ai protagonisti ed era equiparabile ad un «cerchio che non trova spazio per affondare le proprie radici spiraliformi», l’assassino, uccisa la vuota superficialità, procede verso il basso e trasforma la piatta revolutio in un vortice che scava e scende nell’imo della coscienza. Il salotto borghese si apre alla profondità e recupera la terza dimensione offrendo una nuova prospettiva, che si fa metafora di vita per l’uomo capace di indirizzare lo sguardo oltre il livello esteriore dell’esistenza e il grado apparente della realtà.
Dopo la prima impietosa rassegna di una società condannata all’omologazione e all’uniformità, il teatro di Ricchi si era rifugiato nell’analisi amara di anime appartate dal mondo, ripiegate sul loro travaglio, tormentate dal peso di infiniti interrogativi e protese verso impercettibili cenni di risposta. La sua ricerca, ad oggi, sembra dirigersi verso una conciliazione tra la zona ombrosa e fragile della coscienza e il lucore troppo spesso accecante di una realtà intorno lontana e sconosciuta, talvolta ostile, quasi nemica. Tra ‘dentro’ e ‘fuori’ grava uno spazio che pare non riempirsi, in cui riecheggiano parole che perdono vigore e rimangono involucri, significanti leggeri senza la zavorra del significato. Talora, però, la disarmonia s’attenua, trovando un’intonazione che addolcisce lo stridore e assottiglia il baratro: il mutamento è minimo, impercettibile all’occhio disattento, e si estende nel breve arco della speranza.
VOCE FUORI SCENA Penso ai giardini fioriti / ai bambini che giocano coi cani / agli uccelli che cinguettano sui rami / alle mamme che preparano la cena. / Penso alle api / alle farfalle / ai grilli / al vento tiepido della primavera…26
Benedetta Riccomi
1 L’onomastica speculare suggerisce l’interscambiabilità dei personaggi, che si rivelano però distanti per totale incomprensione se per comprensione si intende comunicazione, condivisione di valori, desiderio di confronto o di paragone.
2 Dopo l’autunno caldo del 1969 furono ottenute notevoli conquiste sul terreno salariale e contrattuale, ed è del 1970 l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, una legge che garantiva il rispetto delle regole democratiche nei luoghi di lavoro e poneva limiti precisi al potere del padronato. Al 1972 risale la nascita della federazione sindacale unitaria: formalmente quindi la condizione dei lavoratori sembra essere contrassegnata da sensibili miglioramenti.
3 Non si può dimenticare l’importanza che per Ricchi ha avuto la filosofia esistenzialista: i personaggi de Gli eletti della società sembrano incarnare, portandole all’eccesso, le caratteristiche di viltà degli ‘uomini in malafede’ di cui parla J.P. Sartre. Essi si conformano alla morale comune e rinnegano un’occasione di libertà soltanto sfiorata; rimangono legati ai criteri e ai sistemi di sempre, rifiutando il peso del cambiamento e l’angoscia della responsabilità; si lasciano trasportare dalla vita illudendosi di dominarla tramite un frenetico accavallarsi di impegni, obblighi, doveri.
4 J.P. Sartre, La Nausea, Verona, Mondadori 1972, p. 12. Dal saggio introduttivo a cura di Paolo Caruso.
5 L’ansia di controllare l’ora ricorre in continuazione, a conferma di una corsa cronometrata in realtà da un orologio che finisce per non dominare un tempo fermo da sempre, non vissuto e perciò perennemente presente.
6 Lo spazio pare costituito da scatole sempre più minute e soffocanti che, inserite l’una nell’altra – dalla suddivisione in atti si passa a brevi quadri nei quali si trovano a loro volta elementi statici, quali la ‘finestra sbarrata’, il ‘gabinetto ricovero’, le ‘grandi scrivanie che impediscono di allontanarsi’, la ‘giacca che paralizza’ – si spingono verso l’infinitamente piccolo finendo per annullare le coordinate spaziali stesse.
7 Scrive G. Folli nelle note di regia: «Il testo evidenzia proprio lo scontro e la resistenza di un mondo profondamente civile con una assurda barbarie improvvisamente emersa e dilagante e che inutilmente tentò di fare della civiltà contadina uno strumento di potere. Il fascismo non riuscì mai a vincere la resistenza dei contadini toscani e di tutta la regione nella sua anima più profonda».
8 L’impiego dell’arte oratoria come strumento di potere politico, oltre a ricordare la facondia del duce, rammenta l’ascendente che la classe dominante può avere sulle masse servendosi di formule verbali vuote e complicate per perorare la propria causa strappando, grazie al linguaggio confuso ed elusivo, l’assenso degli uditori. La problematica era stata affrontata anche da M. Bontempelli nel dramma La fame: il personaggio di Reno, il cui nome suggerisce un concetto di vaghezza e ‘renosità’, è il simbolo dell’asservimento al potere da parte di una cultura che si fa strumento poitico, usando l’ideologia come merce di scambio per ottenere la guida degli apparati burocratici. M. Bontempelli, La fame, in Teatro, Vol. II, Milano, Mondadori 1947.
9 E. Piscator, Il teatro politico, Torino, Einaudi 1976. Dal saggio introduttivo di Massimo Castri ‘Piscator ovvero Prospero’, p. XI.
10 C. Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti 1999, p. 11.
11 A. Barsotti, L’uomo dentro la prova nel teatro di R. Ricchi, in R. Ricchi, Teatro, Firenze, Ponte alle Grazie 1993, p. III.
12 La storia è quella di un uomo e una donna – marito e moglie – che, dopo aver vissuto per anni in una condizione di serenità, si trovano costretti a chiudere il negozio di alimentari a causa della concorrenza di un supermercato. In breve tempo la loro vita si ridurrà a pura sopravvivenza, poiché altri due eventi ben più tragici li segneranno per sempre:il figlio maggiore morirà in un incidente stradale, mentre il minore si toglierà la vita.
13 Chiara Matteini, Messaggi da un naufragio. Il teatro di Renzo Ricchi, in ‘Città di vita’, XLIX (1994), n. 2, p. 106.
14 Dal termine latino dementia, ovvero fuori dalla ragione, dalla coscienza.
15 Quale personaggio parola e portavoce dell’autore, il professore è indissolubilmente legato anche all’etimo di quell’uscio, che richiama il termine latino ostium (entrata, porta) derivante da os, oris (bocca).
16 R. Ricchi, Teatro, Firenze, Ponte alle Grazie 1993.
17 R. Ricchi, La coscienza in scena, Firenze, Polistampa 1996.
18 A questo proposito rimando al testo di P. Puppa, Dalle parti di Pirandello, Roma, Bulzoni 1987.
19 E. Montale, In limine, da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori 1990, p. 7.
20 In Pirandello la solitudine pare ineluttabile: il dramma è quello dell’incomunicabilità. Mentre il padre di Ricchi tace la propria sofferenza ma trova, in qualche modo, una ‘corrispondenza’ d’amore col figlio, l’uomo dal fiore in bocca riesce, sì, a raccontare la sua tragedia, ma scacciando la moglie e confidandosi con un passante, con un estraneo.
21R. Ricchi, La coscienza in scena, Firenze, Polistampa 1996.
22 Villa Faust, “Sipario”, n. 633, marzo 2002.
Un vecchio professore universitario, vissuto sempre pensando che la cultura fosse l’unica medicina a poter dare dignità e serenità alla vita, si trova a rimpiangere di essere invecchiato senza vivere. Appresa da un quotidiano la notizia della propria vincita alla lotteria (il giornalaio, personaggio fuori scena dalla voce nasale è la prima incarnazione del demonio), decide di riappropriarsi di tutto il tempo perduto affidandosi alle costosissime cure di ringiovanimento offerte da una beauty farm, Villa Faust appunto. Qui il Dott. Paulus (che raccoglie il testimone del giornalaio ed entra infatti in scena con la medesima voce nasale) raggira in ogni modo l’ingenuità del vecchio, opponendosi al degrado dell’anziano corpo per cancellare, con la chimica, il bisturi e lo sport, i segni del tempo. Il vecchio pare determinato e soddisfatto ed accetta, inizialmente con un po’ di titubanza, di comprare persino l’amore di una vergine sedicenne, spinta da estrema povertà a prostituirsi. La ragazza presto morirà in un incidente stradale causato dall’inesperienza del vecchio ostinatamente cimentatosi nella guida di una motocicletta. Angosciato dalla morte della giovane e del figlio che portava in grembo (notizia di cui solo ora viene a conoscenza), il vecchio ritrova d’improvviso una scorata lucidità, perde i connotati grotteschi che finora l’hanno caratterizzato, e paga profumatamente il Dott. Paulus perché questi esaudisca il suo ultimo desiderio: una morte lieve, per anticipare di un pugno di tempo il compimento, e tornare alla casa d’origine.
23 R. Ricchi, La promessa, “Erba d’Arno”, n. 54, 1993.
Un vecchio, trovata la pace interiore ambìta da sempre e accudito dalle amorevoli cure della giovane infermiera, si trova a dover fare i conti con una nuova scoperta scientifica: un prodotto miracoloso in grado di rinvigorire le cellule offrendo così una seconda giovinezza. Allettato dall’idea di rinviare l’appuntamento con la morte e conoscere nuovamente l’amore con l’infermiera, finisce per declinare il richiamo dell’eternità per non tradire il naturale scorrere del tempo, le persone amate, la vita vissuta.
24 F. Tei, Introduzione a La parola all’assassino, “Sipario”, n. 642, dicembre 2002.
25 L’impalcatura del testo, nel suo articolarsi libero e disomogeneo, così come nel farsi specchio dell’andatura snodata che conduce alla ricerca del sé, sembra richiamare la forma-essenza del romanzo di Dostoevskij, a proposito della cui ‘struttura polifonica’ Bachtin scrive: «Questa fermissima tendenza a vedere tutto come coesistente, a percepire e mostrare tutto contemporaneamente, come se fosse nello spazio e non nel tempo, lo porta a drammatizzare nello spazio anche le contraddizioni interiori e le fasi interiori dello sviluppo di un uomo. […] Per questo anche i suoi eroi non ricordano nulla, non hanno biografia nel senso del passato e dell’esperienza pienamente vissuta. […] Per Dostoevskij è importante non quello che il suo personaggio è nel mondo, ma ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso. […] di conseguenza come elementi dai quali si forma la figura del personaggio non servono i tratti della realtà, ma il significato che questi tratti hanno per lui, per la sua autocoscienza». M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi 1968, pp. 64, 65.
26 Con questi versi si chiude La parola all’assassino.