La conciliazione ed il patto di famiglia: l’art. 768 octies, c.c., ribadisce quella che è una tendenza dell’ordinamento

Alberto Mastromatteo, La conciliazione ed il patto di famiglia: l’art. 768 octies, c.c., ribadisce quella che è una tendenza dell’ordinamento, in Questioni di diritto di famiglia, Maggioli Editore, 2/2009

La conciliazione ed il patto di famiglia: l’art. 768 octies, c.c., ribadisce quella che è una tendenza dell’ordinamento.

I. Una premessa: il giudice come extrema ratio; cenni storici.

La tendenza che si sta diffondendo nel nostro ordinamento è quella di agevolare la risoluzione dei contrasti che insorgono tra i privati demandandola alla loro stessa autonomia privata. Il sovraffollamento delle cancellerie e delle aule giudiziarie, la macchinosità dei processi e la patologica lentezza degli stessi, non possono che determinare, infatti, un sempre maggiore affidamento dei contraenti in conflitto o ad arbitri o a strumenti negoziali di composizione di interessi antagonisti: al punto che non manca chi si esprime in termini di “sussidiarietà” del processo giurisdizionale1.

Tra gli istituti a tal fine deputati2 ci interessa la conciliazione, che indica l’intervento diretto ad agevolare il raggiungimento di un’intesa o di un accordo, stimolando un’attività di negoziazione tra le parti in vista di, o durante, un conflitto in atto3. Essa sarebbe da ricondurre a quella più ampia categoria dei cd. contratti con funzione transattiva in senso lato; il che implica l’applicabilità della disciplina del contratto, nel caso di patologie dell’accordo. Questi accordi presuppongono che le determinazioni delle parti convergano per risolvere conflitti “liberamente”, ma pur sempre nel rispetto della legge4.

Peraltro, la conciliazione5 si distingue dall’arbitrato, ove non si tratti di arbitrato irrituale6, nel fatto che mentre la prima è caratterizzata dal superamento della lite mediante la convergenza della volontà delle parti, l’altro presenta natura e funzione tipiche del giudizio, ancorché privato, in quanto le parti affidano ad arbitri terzi la risoluzione del conflitto, mediante un atto che, questo si, possiede carattere negoziale: la clausola compromissoria o il compromesso.

Occorre rilevare, poi, che nel caso di conciliazione, come anche di mediazione, e a differenza della transazione7, le parti non sono sole, visto che la risoluzione dei conflitti avviene in presenza di un soggetto terzo che, a seconda dei casi, ha poteri più o meno ampi8.

Ora, bisogna risalire al 1742, per rinvenire una prima forma di

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tentativo obbligatorio di conciliazione, peraltro con espresso divieto di assistenza legale, nella legge istitutiva dei “faiseur de paix” in Olanda. A seguire, in Francia, nel 1790 venne istituito il juge de paix, magistrato onorario, più uomo per bene che giurista, con un rapporto più confidenziale e meno distaccato dal popolo (viene eletto dai cittadini), con funzioni conciliative. Tuttavia, questo fu un esperimento mal riuscito9.

La previsione dell’istituto in commento, allora, venne, sì, mantenuta nel codice di procedura civile napoleonico, ma con un più ristretto ambito di operatività, divenendo strumento particolare, in particolari materie.

Numerose, poi, furono le legislazioni preunitarie che recepirono tale istituto, come conseguenza dell’invasione e dell’influenza napoleonica. Così, nel Regno di Napoli, vista la pressoché totale ricezione dei codici napoleonici, la riforma dell’ordinamento giudiziario contempla, accanto alla Corte di Cassazione, ai Tribunali d’appello ed a quelli di prima istanza, anche i giudici di pace, con svariate competenze giurisdizionali, in materia civile e penale, nonché, oltre a queste, in possesso di teoricamente ampie funzioni conciliative. Diversamente, solo nel Regno delle due Sicilie, con l. 29 maggio 1817, viene introdotta la figura del conciliatore, giudice onorario, che abbandona la competenza civile (salvo che per controversie di modestissimo valore, peraltro inappellabili) e penale, per ottenere, in via primaria, il compito di placare i dissapori fra i cittadini.

Solo con il Codice sardo del 1859 si è assistito ad una profonda rimeditazione della conciliazione napoleonica, impuntandosi l’attenzione del legislatore dell’epoca sulla necessità che non fossero le parti (“spontaneamente”), bensì il giudice (solo quello mandamentale) ad esperire un tentativo obbligatorio di conciliazione, nel corso del giudizio, «all’udienza fissata per la comparizione delle parti, dopo aver sentito le ragioni ed eccezioni delle parti ulteriori rispetto a quelle dedotte dagli atti introduttivi del giudizio» (art. 59).

Con il codice di procedura del 1865, la conciliazione diviene, nel rispetto della “volontà” delle parti, “facoltativa” per esse (è necessaria una richiesta scritta10), assurgendo ad obbligo per il giudice il relativo tentativo, una volta che le parti ne avessero fatto richiesta. In funzione incentivante del ricorso allo strumento della conciliazione, poi, si stabilisce che le parti hanno facoltà di «farsi rappresentare nelle conciliazioni da persona munita di mandato speciale per questo oggetto, ed autentico» (art. 5). Inoltre, l’art. 2125, cpv, c.c. 1865, nel sancire che «la chiamata, o la presentazione volontaria per la conciliazione, interrompe la prescrizione, purché la domanda giudiziale sia fatta nel corso di due mesi dalla non comparsa davanti al conciliatore, o dalla non seguita conciliazione», sembra privilegiare quella delle parti che ha cercato di evitare il processo, nel momento stesso in cui era tentata dall’iniziarlo11.

Il fallimentare sistema della conciliazione preventiva demandata ai conciliatori12, in uno con un ricorrente abuso della stessa, utilizzata per fini diversi rispetto a quelli istituzionali, ne hanno determinato una modifica in seno alla riforma del c.p.c. del 194013. Per tale via, il tentativo di conciliazione, che è già disciplinato nei giudizi ordinari davanti ai pretori ed ai conciliatori, viene previsto come istituto di carattere generale del processo di cognizione (artt. 311 e 320, c.p.c.): talché, a norma dell’art. 185, si dispose che il giudice istruttore, nella prima udienza di comparizione delle parti, esperisce il tentativo de quo, qualora la natura della causa lo consenta; a norma dell’art. 185, comma 2, in qualsiasi momento dell’istruzione14 è possibile rinnovarlo; a norma dell’art. 198, in fase di istruzione probatoria, è possibile delegarne l’esperimento al consulente tecnico, in sede di esame contabile. Tale tentativo è altresì previsto in alcuni procedimenti speciali15.

In tutte le ipotesi di conciliazione segnalate, il buon fine del tentativo produce la conseguenza di rendere il verbale che ne scaturisce titolo esecutivo, salva l’evenienza della riconciliazione tra coniugi, il cui unico effetto è l’abbandono della domanda di separazione proposta.

II. La conciliazione: un tentativo di definizione16.

Il postulato base da cui è necessario partire allorché si discorre di conciliazione è che questa, al pari degli altri strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, si pone in una relazione di accessorietà e di complementarietà rispetto al processo, dilatando l’area dei rimedi apprestati dall’ordinamento per la risoluzione dei conflitti.

Si deve alla riforma del diritto societario il primo tentativo di definizione dell’istituto in commento, laddove, all’art. 1 lett. d) del D.M. 23 luglio 2004, n. 22217, si asserisce che essa consiste nel «servizio reso da uno o più soggetti, diversi dal giudice o dall’arbitro, in condizioni di imparzialità rispetto agli interessi in conflitto e avente lo scopo di dirimere una lite già insorta o che può insorgere tra le parti, attraverso modalità che comunque ne favoriscano la composizione autonoma»; alla lett. e), poi, vengono definiti i conciliatori come «le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la prestazione del servizio di conciliazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo»18.

L’innovazione prospettica che queste definizioni apportano al precedente quadro normativo in tema di conciliazione sono da rimarcare, avendo inserito per la prima volta nell’ordinamento italiano un riferimento alle modalità con cui la stessa viene prestata e non più solo all’esteriorità dell’istituto, per come finora rappresentato19. Non a caso, infatti, la dottrina tradizionale si limita ad individuare nell’elemento dell’accordo o in quello dell’assenza del giudizio il tratto differenziale tra la conciliazione e i procedimenti giurisdizionali, riferendosi in particolare al risultato ed all’attività del conciliatore in funzione del raggiungimento del medesimo20, ma mai al quomodo, ossia alle modalità attraverso cui le parti (in caso di conciliazione stragiudiziale) o il terzo (in caso di conciliazione giudiziale o stragiudiziale ma davanti a organi conciliatori), rispettivamente, possano raggiungere o possa favorire il raggiungimento dell’accordo.

Alla luce di tali considerazioni, taluna dottrina ha concluso che una definizione di conciliazione possa essere la seguente, e cioè «quel procedimento mediante il quale un giudice o altro soggetto pubblico o privato qualificato, senza giudicare, assiste le parti e facilita la loro comunicazione, affinché le stesse raggiungano un accordo su tutti o su alcuni aspetti del conflitto»21.

III. Conciliazione giudiziale22: brevi cenni.

La conciliazione può assumere sia la forma giudiziale che quella stragiudiziale.

La conciliazione giudiziale può svolgersi sia nella fase non contenziosa del processo (cd. conciliazione preventiva) che in quella contenziosa (cd. conciliazione successiva).

– La prima forma conciliativa23, nell’impianto originario dell’attuale c.p.c., era attribuita al giudice conciliatore, il quale assolveva la duplice funzione conciliativa e contenziosa. Tuttavia, negli anni 1990-91, le riforme del codice ridussero di molto e ulteriormente lo spazio applicativo dell’istituto24: la soppressione del conciliatore e la contestuale istituzione del giudice di pace hanno determinato il confluire della disciplina sulla conciliazione non contenziosa in un unico articolo, collocato alla fine del titolo dedicato alla procedura dinanzi al giudice di pace (art. 322, c.p.c.). Tuttavia, tali variazioni non hanno modificato, nella sostanza, la pregressa disciplina: talché, le modalità di attivazione del procedimento hanno conservato il carattere dell’informalità25; la partecipazione delle parti deve essere spontanea e non coercibile, non essendo sanzionabile l’assenza né della parte che abbia sollecitato la conciliazione preventiva, né della controparte26.

Per quanto concerne, poi, il verbale di conciliazione, anche l’attuale normativa prevede che esso costituisca titolo esecutivo, qualora rientri nei limiti di valore dei giudizi dinanzi al giudice di pace; per contro, nelle altre ipotesi avrà valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio27.

– La conciliazione c.d. successiva (o contenziosa), ossia quella che ha luogo, nel processo, davanti al giudice ordinario, ha subito negli anni numerose modifiche.

Qualche forma di conciliazione contenziosa era già conosciuta dal codice del 1865, tuttavia essa era limitata ai procedimenti che si svolgevano davanti al conciliatore o al pretore. Soltanto nel 1940 la conciliazione successiva conseguì un’autonoma regolamentazione, venendosi a configurare come adempimento dovuto dal giudice nel corso del processo di cognizione ordinario. In un primo tempo, il giudice istruttore doveva procedere ad effettuare un tentativo obbligatorio di conciliazione alla prima udienza di comparizione delle parti (al riguardo era in facultate iudicis disporne la comparizione personale). Lo stesso, poi, aveva la facoltà di rinnovare il tentativo di conciliazione in qualsiasi momento dell’istruzione.

Nel 1990, la riforma del processo di cognizione ha soppresso il comma 1 dell’art. 185, c.p.c. ed ha trasferito la disciplina del tentativo giudiziale di conciliazione nell’art. 183, c.p.c., dedicato alla prima udienza di trattazione. Per tale via, la conciliazione contenziosa, replicando il meccanismo della comparizione personale delle parti finalizzata all’interrogatorio libero introdotto con la riforma del rito del lavoro del 1973, ha generalizzato il ricorso all’istituto de quo, lasciando, peraltro, immutato l’art. 185, nella parte in cui consentiva al giudice di rinnovare il tentativo in qualunque momento dell’istruzione della causa.

Lo scarso utilizzo che nella prassi ha ricevuto la conciliazione successiva è stato uno dei motivi per cui, nel 2005-2006, il legislatore ha deciso di dare maggiore competitività al processo civile, eliminando l’udienza di prima comparizione, accorpandone le relative attività nella fase iniziale dell’udienza di trattazione, dalla quale vengono espunte le attività precedentemente correlate alla comparizione personale delle parti: prima fra tutte, appunto, il tentativo di conciliazione.

Originariamente totalmente eliminato dalla disciplina procedimentale, per ragioni di coordinamento sistematico il tentativo di conciliazione venne riproposto dalla l. 263/05, correttiva del decreto competitività, la quale, nel riformulare l’art. 185, facoltizza non solo il tentativo di conciliazione, ma finanche l’udienza di prima comparizione, destinata all’espletamento di quello, che, se scelto, viene attuato mediante la comparizione personale e l’interrogatorio libero delle parti. Talché, spetterà ai legali di parte instare congiuntamente per la fissazione di un’udienza ad hoc ai sensi dell’art. 185, alla quale dovranno intervenire le parti personalmente (salvo delega speciale al legale) per essere interrogate liberamente dal giudice e consentire a costui di stimolarne la conciliazione28. Tale eventuale udienza di comparizione ex art. 185, potrà essere anche fissata dal giudice ex officio (art. 185, comma 3)29.

IV. Conciliazione ad hoc e conciliazione amministrata.

C’è una duplice modalità di attivazione della procedura conciliativa stragiudiziale.

La prima consiste nella possibilità per le parti, al momento della convenzione di conciliazione, sia preventiva che successiva alla lite, di stabilire le modalità di svolgimento della procedura stessa o, ciò che accade più di frequente, di affidarsi tout court ad un conciliatore che istruirà le parti nel momento di svolgimento del tentativo.

La conciliazione amministrata, invece, si attiva allorché le parti si rivolgano ad un Organismo terzo, che acquista funzione di autorità, di gestione e di organizzazione amministrativa della fase conciliativa, predisponendo, altresì, un regolamento che disciplina lo svolgimento del tentativo, ispirato a criteri di terzietà, neutralità, indipendenza, professionalità, celerità e trasparenza30.

Le parti sono normalmente libere di scegliere una delle due modalità di conciliazione, ma non di rado, soprattutto recentemente, la legge è intervenuta indirizzando la loro volontà31.

V. La conciliazione stragiudiziale.

La estrema eterogeneità dei vari contesti in cui sono espressamente disciplinati procedimenti di conciliazione stragiudiziale specifici per materia, non ci esime comunque dal tentare di trattare organicamente l’argomento.

Innanzitutto, occorre avvertire che, pur essendo l’organo conciliatore estraneo all’apparato giurisdizionale, il normale svolgimento di molti dei procedimenti de quibus è variamente connesso all’attività processuale32. A conferma di questo assunto, basti pensare che, normalmente, quando la procedura conciliativa è il filtro necessario per accedere alla tutela giurisdizionale, il suo mancato esperimento determina taluni effetti sul processo eventualmente instaurato, che normalmente consistono nella temporanea improcedibilità33. Pertanto, il giudice sospende il processo, fissa un termine perentorio per la proposizione della richiesta di tentativo di conciliazione e di altro termine, a sua volta perentorio, per riassumere il giudizio, che decorre dalla cessazione della causa di sospensione, scaduto inutilmente il quale si avrà l’estinzione del processo34.

In particolare, poi, occorre chiedersi se sussistano dei requisiti che l’organo conciliatore debba possedere affinché possa essergli attribuita autorevolezza e credibilità, anche in una prospettiva di incentivazione al ricorso della conciliazione stragiudiziale.

Al riguardo, rileva subito ribadire come l’universo degli organi conciliatori sia quantomai eterogeneo e composito35 e, salvo per il caso degli organismi istituiti con d. lgs. 5/2003, normalmente il legislatore italiano non stabilisce quali requisiti soggettivi detti organi debbano possedere36.

Diversamente, sia il legislatore comunitario, sia Unioncamere – che coordina a livello nazionale l’attività delle Camere di Commercio – hanno fissato una serie di criteri cui dovrebbero uniformarsi gli organismi conciliatori che operano in sede stragiudiziale. Nel primo caso, infatti, con due raccomandazioni della Commissione europea del 1998 e del 200137, si dispone che tutti “gli organismi responsabili per la risoluzione delle controversie in materia di consumo” abbiano il duplice requisito dell’indipendenza e dell’imparzialità, così che ne risulti accresciuta la credibilità nei confronti dei potenziali utenti. A livello nazionale, invece, le Norme di comportamento per conciliatori, elaborate dal Gruppo di lavoro sulla conciliazione istituito presso Unioncamere nel 2002, stabiliscono la necessità che il conciliatore possegga i requisiti della indipendenza, imparzialità, neutralità e qualificazione38. In particolare, poi, sulla conciliazione stragiudiziale societaria, l’art. 38, comma 1, d. lgs. 5/2003 specifica che gli enti pubblici e privati che la amministrano che offrano “garanzie di serietà ed efficienza” possono costituire organismi deputati a gestire il tentativo di conciliazione delle controversie nelle materie di cui all’art. 1, dello stesso d. lgs., i quali ultimi devono essere iscritti in un apposito registro tenuto dal Ministero della Giustizia39. Inoltre, i soggetti che in concreto esercitano l’attività conciliativa debbono possedere specifici requisiti di professionalità ed onorabilità40, il cui positivo riscontro è condizione ulteriore per l’iscrizione dell’organismo nel Registro ministeriale (art. 4, comma 4, D.M. 222/2004). A tali requisiti, si aggiungono, poi, quelli di imparzialità, indipendenza e neutralità41.

V (segue). Conciliazione facilitativa e conciliazione valutativa.

Oltreoceano, si è teorizzata la distinzione in esame, attenendo essa al maggiore o minore ambito di potere esercitabile dal conciliatore42.

Talché, nell’ipotesi in cui costui non esprima alcun tipo di valutazione in punto di fondatezza delle pretese di parte, né suggerisca possibili soluzioni al contrasto, ma limiti la propria attività ad agevolare il raggiungimento dell’accordo tra le parti, inducendole a dialogare per cercare di disvelare i reali interessi che le animano, sì da condurle ad una soluzione alternativa della querelle, con reciproca soddisfazione, allora si sarà in presenza di una conciliazione facilitativa

Diversamente, nel caso in cui il medesimo soggetto ricopra un ruolo più attivo, con analisi del fatto storico e degli aspetti giuridici coinvolti nella vicenda, pervenendo finanche a proporre una soluzione, ferma restando la totale libertà delle parti di accettarla o meno, allora si tratterà di una conciliazione valutativa.

Ciò posto, è in evidenza come l’ordinamento italiano tenda ad assegnare ai conciliatori poteri prevalentemente di carattere facilitativo, vista la conformazione dell’istituto che si basa sull’accordo e la cooperazione delle parti. Infatti, costoro si limitano ad assistere le parti concilianti, non esprimono valutazioni in merito alla fondatezza delle pretese, né formulano proposte sull’accordo. Ciò che è di stimolo per le parti stesse a ideare e proporre uno schema d’accordo, sicché, una volta raggiunto, ne seguano il contenuto, sentendolo frutto di autocomposizione e non come imposizione ab externo43.

V (segue). Risultato della conciliazione stragiudiziale.

La procedura conciliativa può avere un duplice sbocco: il raggiungimento dell’accordo o il fallimento dell’esperimento conciliativo.

Nella prima ipotesi, il verbale di conciliazione prende atto, assorbendolo, dell’accordo stipulato tra le parti, risolutivo della controversia. Il predetto verbale viene sottoscritto da parti e conciliatore e non ha forza di titolo esecutivo, salva espressa previsione contraria della legge. Talché, esso obbliga le parti ex contractu e consente alle stesse di attivare i rimedi negoziali normali davanti all’autorità giudiziaria ordinaria44.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, in coerenza con la configurazione della conciliazione come strumento di alternative dispute resolution alla giurisdizione ed all’arbitrato, anche nella fase esecutiva, il legislatore espressamente sancisce l’efficacia di titolo esecutivo del verbale predetto45. Inoltre, talora l’efficacia predetta è effetto automatico del verbale di conciliazione, mentre talaltra è prescritto l’iter stabilito dall’art. 825, c.p.c. per il lodo arbitrale rituale: talché, sarà necessaria l’omologazione del verbale da parte del giudice, il quale dovrà previamente accertare la sua regolarità formale46.

Infine, anche nell’evenienza in cui l’esperimento conciliativo stragiudiziale fallisca occorre verbalizzarlo in atti. Talvolta la funzione di tale verbale è quella, limitata, di fornire prova nel successivo giudizio dell’esperimento stesso al fine di conseguire la procedibilità dell’azione giudiziale. Altre volte, invece, il verbale assolve una funzione probatoria, sì, nel successivo giudizio, ma finalità sanzionatorie. Talché, il contegno della parte che abbia colpevolmente osteggiato una soluzione conciliativa, poi fatta propria dal giudice nella sede contenziosa, può spiegare rilievo ai fini dell’addebitamento delle spese processuali, a prescindere dalla soccombenza47.

VI. Conciliazione e patto di famiglia48.

L’art. 768 octies49 impone l’esperimento di un tentativo di conciliazione preventivo a qualunque controversia sorga in materia di patto di famiglia. Il meccanismo prevede un rinvio preliminare ad uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 38, d. lgs. 5/2003, in materia di processo societario. Talché, dalla lettera della norma (che recita «sono devolute preliminarmente») sembra possa dedursi l’obbligatorietà del previo tentativo di conciliazione50, in una prospettiva di economia processuale e di deflazione dei carichi giudiziali51.

La formulazione della norma in commento, inoltre, nel riferirsi alle «controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo», presenta una latitudine atta a ricomprendere potenzialmente qualunque profilo conflittuale della materia52.

Poi, per orientarci nella valutazione e nell’interpretazione della disposizione occorrerebbe interrogarsi sulla circostanza se la scelta legislativa dell’iter conciliativo sia legata alla necessità, comune a tutte le ipotesi di conciliazione, di deflazione dei carichi di giustizia oppure se, in particolare nel patto di famiglia, la natura familiare dei rapporti interpersonali che lega i protagonisti delle liti e la delicatezza delle questioni da esse involte (tematiche successorie) abbiano indotto il legislatore a preferire un previo esperimento tentato di conciliazione, come tale rimesso alla gestione di conciliatori preparati a promuovere soluzioni in un clima sereno e costruttivo.

Noi crediamo che la prima lettura della ratio della previsione non consenta di superare le barriere che la tendenziale indisponibilità di molti dei diritti che ruotano intorno al patto potrebbe frapporre alla formazione di una libera e concorde volontà delle parti che aderiscano a proposte conciliative53. Contrariamente, la seconda opzione interpretativa, al fine di salvaguardare il superiore interesse della quiete familiare e favorire, al contempo, il prosieguo dell’attività di impresa, anche sotto forma di partecipazione societaria, consentirebbe di arretrare la soglia di tutela delle aspettative ereditarie che ciascuno dei soggetti obbligatoriamente partecipanti al patto potrebbe vantare e permetterebbe una maggiore esplicazione di autonomia negoziale sotto la supervisione dei conciliatori.

Ci si chiede, poi, per quale ragione l’art. 768 octies rinvii al solo art. 38 d. lgs. 5/2003, tacendo nei confronti dell’intera normativa prevista in tema di conciliazione dal decreto cit. Probabilmente il rinvio è stato frutto di imprecisione, dovendosi ritenere che esso sia stato effettuato anche ai successivi artt. 39 e 40. L’opposta soluzione infatti determinerebbe alcune discrasie interpretative irrazionali rispetto al quadro normativo apprestato dal d. lgs. de quo54.

Assente è anche la previsione circa le modalità di individuazione dell’organismo deputato all’attività di conciliazione nella lite concreta. Al riguardo, non pare ci si possa affidare alla disciplina tout court apprestata dal d. lgs. 5/2003, visto che essa è pensata per un tentativo facoltativo di conciliazione e non, come nel nostro caso, obbligatorio55. Per contro, soccorrerebbe l’applicazione analogica dell’art. 410, c.p.c., disciplinante un caso di tentativo obbligatorio di conciliazione, in forza del quale la commissione conciliativa competente per il predetto tentativo deve essere individuata «secondo i criteri di cui all’art. 413 c.p.c. (giudice competente)»56.

Ulteriore quesito è quello relativo ai rapporti tra procedimento conciliativo, rito camerale e rito monitorio. Analogamente a quanto disposto dall’art. 412 bis, ultimo comma, c.p.c., in materia di lavoro, sia la via cautelare che quella monitoria restano percorribili anche nel caso in cui non sia stato ancora esperito il tentativo di conciliazione57.

VI (segue). Conciliazione e patto di famiglia: la disciplina applicabile oltre i limiti del rinvio.

Come si è già avuto modo di evidenziare supra, non si può leggere il rinvio operato dall’art. 768 octies come strettamente limitato all’art. 38 del d. lgs. 5/2003, dovendosi ritenere che esso copra anche l’area regolata dai successivi artt. 39 e 40 del medesimo decreto, i quali completano, rispettivamente, sotto il profilo fiscale e procedimentale la disciplina della conciliazione amministrata. Mentre la prima norma, infatti, mira a contenere massimamente i costi della querelle (esenzioni da imposta di bollo, da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura; franchigia per la registrazione e calmieramento delle indennità per i conciliatori)58; la seconda appresta le regole procedimentali che l’organismo di conciliazione deve seguire nello svolgimento della propria attività e dispone anche regole e meccanismi ulteriori59. Pertanto, entrambe le norme devono essere ritenute oggetto del rinvio operato ex art. 768 quater, sempre che siano compatibili con l’istituto di cui all’art. 768 octies.

Inoltre, l’espressa menzione dell’art. 38 del d. lgs. cit. impone di considerare richiamate anche le regole procedimentali che gli organismi si siano date nello svolgimento delle attività loro tipiche (ciò che trova ulteriore avallo nella circostanza del ricorrere dei controlli ministeriali su tali regole, nonché sul rispetto dei requisiti imposti ai soggetti conciliatori per l’esercizio delle predette attività).

Sulla questione della scelta della Commissione conciliativa abbiamo già avuto modo di anticipare retro quali siano le ragioni ostative a ritenere che debbano essere le parti a scegliere la commissione competente a coadiuvarle nella fase conciliativa, posto che l’art. 38 tace sul punto60. Pertanto, trattandosi di un’ipotesi di conciliazione obbligatoria, riteniamo possa applicarsi in via analogica l’art. 410 c.p.c.

Per quanto concerne l’istanza introduttiva al tentativo di conciliazione, essa spiega effetti sostanziali, determinando sulla prescrizione gli stessi effetti della domanda giudiziale (interruzione con correlato effetto sospensivo fino alla definizione della questione) ed impedendo la decadenza (occorre precisare che, nel caso in cui il tentativo di conciliazione fallisca, la domanda giudiziale deve essere proposta comunque entro il termine originariamente previsto, ma con decorrenza dalla data del deposito presso la segreteria dell’organismo di conciliazione del verbale che ciò attesti). Nella istanza di conciliazione devono essere riportati i termini essenziali della questione. Perché sia validamente proposta, poi, occorre indirizzarla alle altre parti mediante mezzi che siano idonei a dimostrare la avvenuta ricezione della stessa (peraltro, gli effetti sostanziali si verificheranno dal momento della comunicazione e non da quello della ricezione, in coerenza con il principio di dissociazione, che regge la notifica61). Infine, bisogna depositarla presso gli organismi di conciliazione competenti62.

Il mancato esperimento del tentativo obbligatorio, come anticipato retro, dovrebbe determinare un’ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale, non essendo espressamente previsti altri e diversi effetti. Pertanto, nell’evenienza in cui venga proposta la domanda giudiziale senza previo esperimento del tentativo in parola, il giudice dovrà sospendere il processo e fissare un termine perentorio per la sua promozione. Nel caso, poi, in cui le parti omettano di depositare l’istanza di conciliazione nel termine fissato dal giudice, il processo può essere riassunto dalla parte interessata63.

Premesso che la conciliazione ha natura volontaria e, quindi, negoziale, assolvendo essa una funzione, come detto, “latamente transattiva”; inoltre, che commissioni istituite dal d. lgs 5/2003 hanno un duplice ruolo, dapprima facilitativo dell’accordo, dipoi valutativo, potendo pervenire ad effettuare una proposta alle parti concilianti, queste devono quindi aderire o meno a tale proposta64. Occorre allora chiedersi entro quali limiti massimi possa esplicarsi il potere valutativo della commissione65. Nell’opinione di alcuni autori si è ipotizzata la possibilità per le parti di disporre liberamente dei propri diritti mediante un contratto di mandato ad hoc per deferire totalmente ai conciliatori la formazione dell’accordo, addirittura in via preventiva, prevedendolo nel patto di famiglia stesso66.

Il tentativo di conciliazione può non avere luogo per la mancata adesione di una o più parti, può fallire, può infine avere esito positivo. In tutte queste ipotesi ne verrà dato atto nel verbale.

Intervenuta la conciliazione, il relativo accordo viene sottoscritto dalle parti e dal conciliatore, venendone rilasciata copia alle parti, e deve ricevere l’omologa (in sede camerale67) dal Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Costui procederà ad un controllo sulla regolarità formale dell’iter conciliativo, analogamente a quanto disposto dall’art. 825, c.p.c., in tema di lodo arbitrale68. Talché, il verbale omologato acquisterà forza di titolo esecutivo per l’esecuzione forzata, in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Per contro, non potrà costituire cosa “giudicata”, con la conseguenza di non potere trasformare la prescrizione breve in decennale ai sensi dell’art. 2953, c.c.

Infine, trattandosi di un atto di natura negoziale bisognerà rinviare alla disciplina del contratto per le questioni inerenti le patologie dell’accordo69.

VI (segue). Conciliazione e patto di famiglia: rapporti tra la conciliazione ex art. 768 octies e eventuale clausola arbitrale.

Premessa l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, occorre verificare l’astratta ammissibilità e compatibilità con esso di un’eventuale clausola compromissoria, dedotta in sede di patto di famiglia.

In realtà, nel caso in cui la ratio della norma in esame fosse da ravvisare nell’esclusiva finalità di deflazione dei carichi giudiziali, allora nessuna incompatibilità tra le due fattispecie potrebbe ravvisarsi, potendosi raggiungere quella medesima finalità mediante il ricorso all’arbitrato. Ma, come visto, non pare ci si possa limitare a quest’ultima riduttiva lettura, dovendosi valutare la conciliazione di cui all’art. 768 octies anche nella prospettiva della delicatezza dei soggetti (familiari) e dei diritti (ereditari) oggetto della convenzione familiare. Tuttavia, anche nella prospettiva segnalata non pare possa escludersi la compatibilità tra la clausola arbitrale e la conciliazione in commento, posto che, al pari della scelta che cade sui conciliatori, ed anzi a fortiori, non solo gli arbitri devono possedere i medesimi requisiti che le norme dianzi segnalate hanno iniziato a prevedere come indispensabili anche per i conciliatori. Ma, ciò che più rileva, gli arbitri in questa sede verranno scelti liberamente dalle parti, non dovendosi le medesime “accontentare” della conciliazione amministrata dai soggetti “precostituiti” in forza del meccanismo previsto dal d. lgs. 5/2003 (salvo che si voglia aderire all’opzione interpretativa che rimette alla volontà delle parti anche la scelta del conciliatore: ma anche in questa ipotesi il risultato non cambierebbe)70.

Alberto Mastromatteo

Avvocato in Bologna

  • La tendenza che si sta diffondendo nel nostro ordinamento è quella di agevolare la risoluzione dei contrasti che insorgono tra i privati demandandola alla loro stessa autonomia privata (cap. I, p. 1)

  • La conciliazione, al pari degli altri strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, si pone in una relazione di accessorietà e di complementarietà rispetto al processo (cap. II, p. 4)

  • Pur essendo l’organo conciliatore estraneo all’apparato giurisdizionale, il normale svolgimento di molti dei procedimenti de quibus è variamente connesso all’attività processuale (cap. V, p. 8)

  • L’art. 768 octies impone l’esperimento di un tentativo di conciliazione preventivo a qualunque controversia sorga in materia di patto di famiglia (cap. VI, p. 12)

  • Il rinvio operato dall’art. 768 octies copre anche l’area regolata dai successivi artt. 39 e 40 del d.lgs 5/2003 (cap. VI – segue – p. 14).

1 F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in www.judicium.it, § 3.

F. Santagada, La conciliazione delle controversie civili, Cacucci Editore, Bari, 2008, p. 16-17, curiosamente mette in evidenza che «Nei sistemi giuridici occidentali caratterizzati da una concezione individualistico-soggettiva del diritto, dalla centralità della legge che tale diritto riconosce e dalla priorità della giurisdizione quale mezzo per la sua attuazione, lo strumento conciliativo […] ha un ruolo del tutto residuale, ricorrendosi ad esso per lo più come “ripiego a fronte di una situazione drammatica della giurisdizione statale (…) [o come] strumento deflattivo di una richiesta di tutela giurisdizionale, cui l’apparato pubblico non riesce a far fronte». Per contro, prosegue l’Autrice, «nel sistema orientale, e in quello cinese in particolare, sotto l’egida del pensiero confuciano prima e dell’ideologia maoista poi, la conciliazione è il rimedio normale e prevalente per la risoluzione delle controversie». In breve, secondo l’idea confuciana, la controversia assurge a turbamento dell’armonia naturale, che trova ulteriore nocumento nell’approfondimento processuale di quel turbamento, la soluzione essendone un rinnovato, spontaneo e autonomo, spirito riconciliativo. L’idea di fondo è che l’uomo è onerato di doveri, più che destinatario di diritti. Nella prospettiva maoista, invece, il punto di partenza non è l’armonia, ma le contraddizioni (id est, controversie) verso il superamento delle quali occorre sollecitare le parti, con spirito non autoritativo (insito nel processo), bensì democratico.

2 Ci si riferisce anche alla mediazione ed alla transazione che, in uno con la conciliazione, sono stati anche definiti “equivalenti giurisdizionali” (cfr. F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma, Società Editrice del Foro it., 1954, p. 60; L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, Utet, 1994, p. 39), “mezzi di autocomposizione” (cfr. F. Santoro Passarelli, La transazione, Napoli, Jovene, 1963, p. 46). Secondo U. La Porta, Il patto di famiglia, Milano, Utet, 2007, p. 242, questi istituti sono «da ricondurre nell’alveo degli strumenti alternativi di soluzione delle controversie (o Alternative Dispute Resolution) al pari dell’arbitrato, il quale però è mezzo di etero-composizione».

3 In questi termini, B. Veneziani, L. Bellardi, Mediazione (dei conflitti), in Digesto delle discipline privatistiche – Sezione commerciale, Torino, Utet, 1993, pp. 361 e ss.

4 F. Santoro passarelli, op. cit., p. 45, osserva che «i privati, quando compongono da se medesimi una lite tra loro insorta, non raggiungono questa composizione accertando, come fa il giudice, la situazione giuridica controversa, ma disponendone»; peraltro, l’Autore esclude che il nostro ordinamento consenta ai privati di “accertare” il diritto.

5 E lo stesso vale per mediazione e transazione.

6 U. La Porta, op. cit., p 242, afferma che la «differenza fondamentale tra arbitrato rituale ed irrituale sta nel fatto che l’atto con il quale si conclude quest’ultimo non potrà mai acquisire né la efficacia né la attitudine ad essere assoggettato ai mezzi di impugnazione delle sentenze, là dove l’efficacia del lodo arbitrale, prodotto dal giudizio di arbitrato rituale ha efficacia di provvedimento giurisdizionale».

7 F. Santoro Passarelli, op. cit., p. 47, ha premura di ricordare che «non esiste un negozio giuridico “conciliazione”, che possa mettersi sullo stesso piano della transazione: la conciliazione non è una figura negoziale a sé ma indica soltanto un modo della composizione che ha luogo tra le parti. Essa è contraddistinta dalla circostanza, puramente estrinseca, che avviene alla presenza di un terzo (che per solito è il giudice, ma può essere anche un diverso soggetto, e varie norme di legge parlano di conciliazione anche per queste ipotesi); ma, intrinsecamente, la conciliazione non si distingue dai vari tipi di negozio, aventi ciascuno una propria figura (transazione, rinunzia, riconoscimento), di cui le parti possono servirsi per raggiungere la composizione della lite».

8 U. La Porta, op. cit., p. 243, afferma che «la conciliazione rivestirebbe caratteri di “maggiore giuridicità” ed avrebbe funzioni “valutative”, dal momento che il giudice può arrivare a proporre una decisione; diversamente, la mediazione avrebbe carattere “facilitativo”, di aiuto delle parti a trovare un accordo, attraverso la ricerca, la analisi e la chiarificazione dei fatti a base del conflitto, attraverso la sua razionalizzazione e la indicazione di elementi di giudizio per favorire un’intesa. La transazione, dunque, viene considerata come risultato della sola volontà negoziale delle parti, senza il presupposto dell’intervento di un terzo, mentre il nome di conciliazione viene riferito più propriamente al componimento ottenuto a mezzo dell’opera di un soggetto altro e imparziale».

9 Analiticamente, per le ragioni di tale insuccesso, cfr. F. Santagada, op. cit. pp. 26-27.

10 Ulteriori requisiti sono che: 1) le parti abbiano capacità di disposizione sui diritti oggetto della controversia; 2) siano materie sulle quali è possibile transigere (art. 2, c.p.c. 1865); 3) esista una controversia tra le parti.

11 F. Santagada, op. cit., p. 55, sottolinea un’ulteriore disposizione codicistica «chiaramente permeata dal favor conciliationis», ossia quella «relativa all’efficacia del verbale di riuscita conciliazione contenuta nell’art. 7 c.p.c. 1865. Tale articolo, ricalcando con alcune varianti la soluzione adottata dal legislatore napoletano (…), sancisce una diversa efficacia del verbale di conciliazione a seconda del valore dell’oggetto della conciliazione, valore da determinarsi non già in base alla domanda – come accade per i giudizi – bensì alla stregua del risultato finale della conciliazione medesima consacrato nel processo verbale».

12 Le ragioni erano da rinvenire principalmente nella perdita di “autorevolezza” del conciliatore, nella concezione della giurisdizione e del processo come sommo presidio dell’unità dell’ordinamento e nella mancata funzionalità dello schema di regolamento della conciliazione nella maggioranza dei casi.

13 F. Santagada, op. cit., pp. 72-73, precisa che ciò è avvenuto «non nel senso, da taluno temuto e da altri auspicato, della integrale soppressione normativa di tale species di conciliazione o, più in generale,dell’istituzione conciliativa; bensì spostando il baricentro dell’attenzione legislativa dalla conciliazione in sede non contenziosa alla conciliazione in sede contenziosa, “riprendendo ed ampliando i germi contenuti [nel codice sardo], nel codice del 1865 e sviluppati dalla successiva legislazione».

14 Sia in appello (art. 350, comma 3) sia in caso di revocazione (art. 400) sia in caso di opposizione di terzo (art. 406).

15 Spetta al giudice investito dell’opposizione a decreto ingiuntivo (art. 652) e al Presidente del Tribunale, nei giudizi di separazione personale dei coniugi (artt. 708 e 711, c.p.c).

16 P. Biavati, Conciliazione strutturata e politiche della giustizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 786, ammettendo la difficoltà di offrire una definizione soddisfacente di conciliazione, comunque scrive che «in modo approssimativo, la si può definire come ogni forma di risoluzione, consensuale e non decisoria, dei conflitti. La conciliazione è consensuale perché suppone l’accordo fra le parti, anche quando si estende a lambire diritti non disponibili (come nel caso della mediazione familiare). È non decisoria, perché la sua caratteristica è comunque quella di non attribuire ragione o torto alle parti (il che la differenzia in modo netto dall’arbitrato) sia che avvenga all’interno di un giudizio, sia che si attui prima e comunque al di fuori di esso».

17 Si tratta del «Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5».

18 F. Cuomo Ulloa, La Conciliazione, Modelli di composizione dei conflitti, Padova, Cedam, 2008, p. 3, ai fini della definizione dell’istituto de quo osserva che «utile ai nostri fini appare la definizione contenuta nella legge modello UNCITRAL del 28 giugno 2002 sulla conciliazione nel commercio internazionale che definisce quest’ultima come la procedura mediante la quale le parti chiedono ad un terzo di assisterle nel loro tentativo di raggiungere un accordo amichevole su una controversia» (il testo inglese recita «conciliation means a process…whereby parties request a third person or persons («the conciliator») to assist them in their attempt to reach an amicable settlement of their dispute arising out or relating to a contractual or other legal relationship»).

19 In particolare, ad esempio, gli artt. 185, 322 e 410 ,c.p.c., nonché, per quanto interessa la presente sede, l’art. 768-octies, c.c., si limitano a prevedere tentativi di conciliazione e a disciplinare la sede e i tempi per effettuare il tentativo, nonché a regolare quali effetti conseguano al verbale di conciliazione.

20 Cfr., inter alios, F. Lancellotti, sub) Conciliazione delle parti, in Enc. del dir., VIII, Milano, Giuffrè, 1961, p. 397.

21 In tal senso, F. Cuomo Ulloa, op. cit., p. 5. L’Autrice fa scaturire da tale definizione un triplice ordine di considerazioni: «La prima riguarda il riferimento all’assistenza che il conciliatore offre alle parti: attraverso tale riferimento – che è presente anche nelle definizioni normative citate – si vuole, infatti, sottolineare l’aspetto positivo e attivo dell’intervento del terzo che, benché privo di poteri decisori, compie però una serie di attività qualificabili come “conciliative”. L’ulteriore riferimento alla comunicazione, assente nelle definizioni fin qui citate ma essenziale nella nostra, vale poi a qualificare questa attività di assistenza la quale – a differenza delle attività di giudizio – insiste sulla dimensione relazionale, anziché su quella regolativa, contribuendo a promuovere la definizione di soluzioni autonome e condivise dalle parti. La seconda considerazione riguarda invece il riferimento alla qualificazione del conciliatore, essendo essenziale, ai fini della corretta identificazione dell’istituto, porre l’accento sulla qualità e sulla competenza che il terzo deve possedere, per promuovere il raggiungimento di un accordo conciliativo tra le parti. La terza considerazione riguarda infine il riferimento al conflitto. Si è scelto di utilizzare questo termine – anziché il termine “controversia” – per sottolineare la maggiore complessità dell’oggetto della conciliazione ed in particolare il fatto che tale oggetto entra nella conciliazione in tutta la sua densità di fenomeno giuridico, ma anche sociale, psicologico, umano ed emotivo».

22 Per un’ampia disamina sull’istituto, cfr., ex ceteris, A.R. Briguglio, Conciliazione giudiziale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Utet, Torino, 1988, pp. 203 e ss.

23 F. Cuomo Ulloa, op. cit., p. 200, precisa che tale istituto «era già presente nella legislazione del Regno di Napoli che attribuiva al conciliatore, primo anello della catena giudiziaria, la funzione di amichevole compositore delle liti».

24 Invero già la scarsa rilevanza pratica e la ancor più scarsa valorizzazione dell’istituto da parte del giudice conciliatore avevano segnato un inesorabile involuzione dello stesso.

25 Cfr. anche artt. 68 e 69 disp. att. c.p.c.

26 F. Cuomo Ulloa, op. cit., p. 204, conclude asserendo che «In altre parole, sono rimasti immutati tutti i parametri procedimentali di riferimento utili ai fini della nostra classificazione: essendo il procedimento attuale, così come quello previsto nel codice del 1865, un procedimento giudiziale, doppiamente facoltativo ed extraprocessuale, privo di qualunque collegamento con il processo civile contenzioso».

27 F. Cuomo Ulloa, op. cit., p. 205, sostiene che questa distinzione debba ormai perdere di rilevanza pratica in quanto «a seguito delle modifiche in materia di esecuzione forzata realizzate dagli interventi del 2005, infatti, si può agevolmente ritenere che anche il verbale sottoscritto dinanzi al giudice di pace “incompetente” costituisca titolo esecutivo, ancorché non ai sensi dell’art. 474, bensì in virtù di quanto prevede il riformato n. 2 di quella norma», il quale comprende, tra i titoli utilmente fondanti l’esecuzione, anche le scritture private autenticate (fra le quali vanno, naturalmente, comprese anche le scritture riconosciute in giudizio). Se questo discorso vale per le somme di denaro, residua una qualche importanza pratica alla distinzione dianzi segnalata rispetto alle altre forme di esecuzione forzata, che possono aver luogo solo in forza di un titolo esecutivo giudiziale o di un atto pubblico (quest’ultima ipotesi consente l’esecuzione per consegna o per rilascio): ma non anche in forza di un titolo negoziale ex art. 474, n.2, fra i quali, come visto, va ricompreso il verbale di conciliazione di cui all’art. 322.

28 Nel caso di esito negativo, il processo prosegue regolarmente. Diversamente, verrà redatto processo verbale ai sensi dell’art. 185, comma 2.

29 Interesse speculativo induce il quesito relativo alla natura giuridica della conciliazione. In breve, si consideri che a) secondo una prima opinione, la funzione conciliativa è esclusivamente extragiudiziale, amministrativa, posto che essa non produce «alcun effetto di sovrana attuazione dell’ordinamento» e consiste «nella mera cooperazione, con impulso e mediazione» col fine di “comporre”, e nel documentare la sua esistenza con un atto che abbia la stessa forza probatoria dell’atto pubblico. Ne deriva che il contenuto, gli elementi negoziali conformano il regime di validità e gli effetti sostanziali dell’istituto (cfr., in tal senso, ex multis, F. Lancellotti, op. cit., p. 403); b) secondo altra opinione la funzione conciliativa assolve una funzione propriamente giurisdizionale (in tal senso, fra gli altri, S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, Vallardi, 1959-1968, I, p. 43); c) da ultimo, la funzione conciliativa è stata ricondotta all’alveo della volontaria giurisdizione (cfr., inter alios, P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, Cedam, 1943, I, p. 77).

30 Per queste esigenze, l’art. 38, comma 3, d. lgs. 5/2003, per le procedure conciliative in materia societaria, prevede che il regolamento della procedura de qua venga depositato presso il Ministero, unitamente alla domanda si iscrizione e che vengano comunicate le eventuali variazioni.

31 Così è accaduto con la riforma del rito societario di cui al d. lgs. 5/2003. La logica sottesa alla previsione di siffatti Organismi è quella di promuovere l’adesione alle prospettazioni conciliative al fine del conseguimento benefici di varia natura. A. Uzqueda, Conciliazione amministrata, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre ADR, a cura di A. Buonfrate e C. Giovannucci Orlandi, Utet giuridica, Torino, 2006, p. 162, ben sintetizza come segue: «Sempre più spesso, la concessione di determinati benefici viene condizionata alla scelta di una procedura amministrata da determinati organismi, dando così vita ad ipotesi di conciliazioni speciali “obbligatoriamente amministrate”».

32 P. Biavati, op. cit., p. 787, al riguardo, nota che «il processo giurisdizionale accompagna come un’ombra tutte le forme di conciliazione, incluse quelle (…) che nascono e si sviluppano su circuiti totalmente alternativi, senza contatto con le macchine giudiziarie».

33 Un’eccezione a questa regola è costituita dall’art. 46, l. 203/1982, in materia di controversie agrarie, in forza del quale, secondo la dottrina e giurisprudenza maggioritarie, il tentativo di conciliazione assurge a condizione di procedibilità/ammissibilità della domanda, il cui mancato esperimento, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, determina una pronuncia di rigetto nel merito da parte del giudice.

34 Peraltro, in varie occasioni la Consulta ha avuto modo di affermare la compatibilità costituzionale, ex art. 24 della Carta Fondamentale, degli istituti che subordinino l’adire dell’autorità giudiziaria a determinati oneri, quali, appunto, quelli di previo tentativo di conciliazione, sempre che non rendano impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto d’azione (cfr., fra le altre, C. Cost., 21 gennaio 1988, n. 73, in Foro it., 1988, I, c. 3666, e C. Cost. 4 marzo 1992, n. 82, in Foro it., 1992, I, c. 1217). Tale ultima evenienza potrebbe ricorrere nelle ipotesi in cui la legge dispone che il mancato esperimento del tentativo di conciliazione induca a declaratorie di inammissibilità/improponibilità della domanda, con chiusura del processo in rito, ed al contempo non si riconnetta al predetto tentativo alcuno degli effetti della domanda giudiziale (es. interruzione dei termini di prescrizione, etc).

35 Si va dalle camere di conciliazione istituite presso le Camere di Commercio (art. 2, comma 4, l. 580/1993), alle commissioni (art. 410, comma 4, c.p.c.) e collegi di conciliazione (art. 66, comma 1, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165) istituiti presso le DPL, dalle commissioni di conciliazione presso l’Ispettorato provinciale per l’agricoltura (art. 46, l. 203/1982) ai comitati regionali per le comunicazioni (Regolamento Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 182/02/CONS) ed agli organismi, istituiti da enti pubblici e privati per la conciliazione delle controversie societarie, di cui all’art. 1, d. lgs. 5/2003.

36 F. Santagada, op. cit., p. 278, tenta di spiegare tale assunto, osservando che «la ragione di ciò è da ricercarsi probabilmente non solo e non tanto nell’episodicità che ha caratterizzato gli interventi legislativi in materia, quanto piuttosto dalla diffusa convinzione della superfluità di specifici requisiti soggettivi in capo al conciliatore, che nello svolgimento della sua funzione non decide alcuna lite insorta tra le parti ma si limita solo a favorirne la composizione autonoma. In altri termini, nell’ottica legislativa, solo per il giudice e l’arbitro, che esercitano attività di giudizio, è necessaria la previsione ex lege di requisiti soggettivi a presidio del corretto esercizio di tale attività, non invece per il conciliatore, la cui attività si concreta nel mero (tentativo di) avvicinamento delle divergenti posizioni delle parti, in vista della composizione convenzionale della controversia».

37 Racc. 98/257/CE e 2001/310/CE.

38 Il medesimo documento specifica che: a) imparzialità vuol dire “un’attitudine soggettiva del conciliatore, il quale non deve favorire una parte a discapito dell’altra; b) indipendenza indica “assenza di qualsiasi legame oggettivo (…) tra conciliatore ed una delle parti”; c) neutralità indica “la posizione del conciliatore, il quale non deve avere un diretto interesse all’esito del procedimento di conciliazione”; d) qualificazione implica il possesso di un’adeguata formazione e preparazione in tecniche di composizione delle liti.

39 Oltre a questi requisiti, poi, (presunti per gli organismi costituiti dalle Camere di Commercio), per gli altri organismi che anelino a svolgere l’attività in parola vengono richiesti ulteriori requisiti di professionalità ed efficienza, che si ricavano da un giudizio svolto in concreto sull’imparzialità, indipendenza e riservatezza degli organi (art. 4, comma 3, D.M. 222/2004), dalla loro forma giuridica, dalla autonomia e compatibilità con l’oggetto sociale o lo scopo associativo, da consistenza ed adeguatezza organizzativa di persone e mezzi, dai requisiti di onorabilità dei soci, associati, amministratori e rappresentanti, dalla trasparenza amministrativa e contabile, dalla sufficienza del numero minimo di conciliatori e dall’esistenza di una sede.

40 Quanto alla professionalità, il requisito è soddisfatto dall’appartenenza del soggetto/conciliatore ad una delle seguenti categorie: professori universitari in discipline economiche o giuridiche; professionisti iscritti da almeno 15 anni negli albi professionali relativi alle medesime materie; magistrati in quiescenza; soggetti dotati di specifica formazione ottenuta previa partecipazione a corsi formativi organizzati da università ed enti, pubblici o privati, accreditati presso il Ministero, di durata non inferiore a 32 ore. La professionalità è presunta nelle prime tre ipotesi, va dimostrata nell’ultima.

Quanto all’onorabilità, analogamente a quanto disposto dall’art. 151, comma 7, d.p.r. 554/1999, sugli arbitri accreditati presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici, il conciliatore non deve «avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione; (…) avere riportato condanne a pena detentiva, applicata su richiesta delle parti, non inferiore a sei mesi; (…) essere incorso nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; (…) essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; (…) avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento».

41 Quanto all’imparzialità, a tale requisito si riferiscono sia l’art. 40, comma 1, d. lgs. 5/2003, sia l’art. 15, D.M. 222/2004. Talché, il conciliatore ha l’obbligo di sottoscrivere all’atto di accettazione dell’incarico un’espressa dichiarazione in tal senso e di comunicare (sia all’organismo che alle parti) qualunque successivo ed eventuale accadimento che ne possa minare in qualche modo l’imparzialità. Gli altri requisiti (indipendenza e neutralità), non espressamente menzionati, si ricavano in via ermeneutica dalla norma regolamentare citata: quello dell’indipendenza, allorché viene posto il divieto per il conciliatore «di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, (…) e di percepire compensi direttamente dalle parti» (art. 15, comma 2); quello della neutralità, quando il conciliatore viene obbligato dalla norma a dichiarare le «vicende soggettive [anche sopravvenute] che possono avere rilevanza agli effetti delle prestazioni conciliative e dei requisiti individuali richiesti ai fini dell’imparzialità dell’opera» (art. 15, comma 3, lett. b) (c.d. obbligo di disclosure).

42 La dottrina nordamericana differenzia tra conciliazione facilitativa e valutativa, in base alla minore o maggiore capacità di incidere da parte del conciliatore sull’assetto degli interessi delle parti. Per un quadro maggiormente esaustivo sui poteri facilitativi e valutativi, ma con riguardo alla mediazione, cfr. P.L. Nela, tecniche della mediazione delle liti, in Riv. trim. dir. proc. civ., pp. 1017 e ss.

43 Peraltro, il nostro ordinamento conosce delle eccezioni a questa linea di tendenza. Così, l’art. 66, comma 6, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dispone che, nel caso in cui le parti non raggiungano l’accordo, «il collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia». Nel caso, poi, in cui questa non venga accettata «i termini di essa sono riassunti nel verbale [di mancata conciliazione] con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti». Analogamente, la l. 22 aprile 1941, n. 633, come modificata dal d. lgs. 9 aprile 2003, n. 68, in materia di diritto d’autore e di diritti connessi al suo esercizio, all’art. 194-bis, comma 5, stabilisce che l’organo di conciliazione «se non si raggiunge l’accordo di conciliazione tra le parti formula una proposta per la definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti». Da ultimo, l’art. 40, comma 2, d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, in tema di conciliazione stragiudiziale societaria, prevede che «se entrambe le parti lo richiedono, il procedimento di conciliazione, ove non sia raggiunto l’accordo, si conclude con una proposta del conciliatore rispetto alla quale ciascuna delle parti, se la conciliazione non ha luogo, indica la propria definitiva posizione ovvero le condizioni alle quali è disposta a conciliare», dandosi di esse atto nel verbale di fallita conciliazione. Naturalmente, in tutte le ipotesi qui viste, la proposta non è affatto vincolante, dovendo in ogni caso essere investita dalla comune e convergente accettazione delle parti.

44 Fra le altre, cfr. Cass., sez. I, 8 agosto 1990, n. 8010, in Rep. Foro it., 1990, v. Arbitrato, [0480], n. 91, secondo la quale un particolare tipo di lodo, quello per biancosegno, configurando un arbitrato irrituale, assume tra le parti, anche dal punto di vista formale, il valore di una loro diretta manifestazione di volontà, conseguendone che «detto lodo è impugnabile solo per i vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico o dell’arbitro stesso) e, in particolare, che l’errore rilevante è solo quello che attiene alla formazione della volontà degli arbitri (….)». Lo stesso discorso può ripetersi per il verbale di conciliazione qualora se ne condivida la natura negoziale, con la naturale precisazione che non rileverà l’errore del conciliatore, posto che solo le parti esprimono volontà negoziale, non anche il conciliatore, il quale si limita a promuovere tra quelle il raggiungimento dell’accordo; tutto ciò vero, salvo che le parti incarichino espressamente il conciliatore, con apposito mandato, che assurge ad autonomo negozio giuridico, di disporre della loro situazione giuridica, nel qual caso conserva efficacia il ragionamento seguito dalla Cassazione in punto di rilevanza dell’errore.

45 E così è per le controversie: di lavoro privato (art. 411, comma 2, c.p.c.); di lavoro con la P.A. (art. 66, comma 5, d. lgs. 165/2001); in materia di diritti dei consumatori (art. 3, comma 4, l. 281/1998); in materia di diritto d’autore (art. 194-bis, comma 4, l. 633/1941); in materia societaria (art. 40, comma 8, d. lgs. 5/2003); in materia di telecomunicazioni (art. 9, comma 2, Delib. 148/01/CONS e 11, comma 2, Delib. 182/02/CONS).

Peraltro, la C. Cost., 17 luglio 2002, n. 336, in Giust. civ., 2002, I, p. 2380, ha esteso l’efficacia di titolo esecutivo dei verbali di conciliazione anche all’esecuzione in forma specifica e all’iscrizione di ipoteca giudiziale.

46 Sull’argomento, cfr. A. Proto Pisani, Per un nuovo titolo di formazione stragiudiziale, in Foro it., 2003, V, cc. 117 e ss.

47 Ad esempio, l’art. 40, comma 5, d. lgs. 5/2003, dispone che la «mancata comparizione di una delle parti o le posizioni assunte dinanzi al conciliatore sono valutate dal giudice nell’eventuale successivo giudizio ai fini della decisione sulle spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96, c.p.c.». Ciò che viene ritenuto essere un portato del principio di economia dei mezzi processuali. Secondo F. Santagada, op. cit., p. 299 tale soluzione «suscita però alcune perplessità sotto il profilo della riservatezza del procedimento. Questa infatti potrebbe essere incrinata allorché dal verbale di mancata conciliazione trapelino informazioni rese confidenzialmente dalle parti al conciliatore in sede conciliativa e tale eventualità potrebbe disincentivare, a monte, il ricorso alla procedura di conciliazione», ciò che accade proprio nel giudizio/sanzione sulle spese processuali, eccettuato dal comma 3 dell’art. 40, d. lgs. 5/03, che pur restituisce parziale vigore al principio di riservatezza, ponendo il principio di “inutilizzabilità probatoria” di ciò che le parti abbiano dichiarato nel corso della fase conciliativa, su cui non potrà ammettersi neanche una successiva prova testimoniale.

Per contro, a noi la soluzione sembra coerente con la configurazione della conciliazione stragiudiziale come di un “accordo” con contenuto negoziale. Per tale via, il contegno della parte tenuto durante lo svolgimento della conciliazione, senza che vi siano giustificati motivi a suo sostegno, potrebbe assurgere a violazione degli obblighi di buona fede nella fase delle trattative, l’ammontare del risarcimento del quale sarebbe, nel caso, predeterminato dalla legge de relato alle spese processuali.

48 In materia, inter alios, cfr. M. Bernardini, Il patto di famiglia per l’impresa tra “adozione” e successione, parte I, in Quest.dir.fam. n.1/2008, p. 8 e parte II, ivi n. 2/2008, p. 5.

49 La disposizione è stata introdotta dalla l. n. 55/2006, recante «Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia».

50 Analogamente alle ipotesi disciplinate dalle leggi sulla subfornitura, sul diritto d’autore o in materia di contratti agrari.

51 G. Campeis, A. De Pauli, op. cit., p. 101, dopo avere preso atto dell’inequivocabile lettera della norma, inferiscono che l’omissione dell’obbligo del previo tentativo di conciliazione possa dare luogo ad una «declaratoria di improcedibilità in caso di sua omissione e possibilità di reiterazione una volta che l’onere preliminare sia stato successivamente soddisfatto. Non sembra infatti potersi estendere oltre ai casi specifici la particolare disciplina dettata dall’art. 412 bis c.p.c. per le cause di lavoro, ove si esclude comunque la pronuncia di una sentenza in rito di improcedibilità, prevedendosi una declaratoria di estinzione con decreto ove le parti non abbiano raccolto il primitivo invito del giudice a promuovere il tentativo di conciliazione».

52 G. Campeis, A. De Pauli, op. cit., p. 101, diligentemente osservano che «Tali controversie possono riguardare […] sia il trasferimento dell’azienda che delle partecipazioni societarie, rette da regole processuali diverse, essendo il rito societario applicabile fra l’altro al trasferimento delle partecipazioni sociali e ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti, mentre il rito generale (salva opzione ex art. 70 ter disp. att. c.p.c.) resta applicabile alle controversie relative al trasferimento d’azienda».

53 Ci si riferisce, ad esempio, alla possibilità di disporre di diritti spettanti agli eredi sul futuro asse ereditario, che esorbitino da qualunque riferimento all’azienda o a partecipazioni sociali, salvo che si opti per una lettura estremista dell’art. 768 quater, comma 3, c.c., idonea a far confluire all’interno del suo meccanismo qualunque bene del futuro asse ereditario. La tensione tra la totale disponibilità dei diritti de quibus e i limiti posti in tema di transazione (si ricorda la funzione latamente transattiva che la conciliazione dovrebbe assolvere) dall’art. 1966, c.c., sul principio di inutilità della transazione intervenuta su diritti indisponibili (altrove ribadito – ad es. all’art. 2113, c.c., sulle rinunzie e transazioni in materia di lavoro), dovrebbe offrire una risposta alla tematica di cui sta discorrendo. Tuttavia, la Corte di Cassazione, 31 luglio 1951, n. 2299, in Rep. Foro it., sub Transazione [12], c. 2168, ha avuto modo di precisare che «La conciliazione processuale, consentita dall’art. 1965 cod. civ., ha un carattere transattivo senza che costituisca il negozio vero e proprio di cui all’art. 1965 cod. civ., pur spiegando effetti sostanziali per il suo contenuto in relazione alla volontà della parte ed effetti altresì processuali». Talché, se ne deduce che tutti quegli istituti che posseggono funzione solo “latamente” transattiva, pur trovando un referente interpretativo nel Capo XXV, Titolo III, Libro IV, c.c. (art. 1965 e ss.), tuttavia presentano caratteristiche peculiari, tali da consentirne una disciplina differente dal negozio di transazione; disciplina animata da una ratio sui generis, come appunto, potrebbe essere quella della conciliazione nel patto di famiglia per come rappresentata supra e che possa, quindi, giustificare la sottrazione di questo meccanismo ai limiti di principio stabiliti dall’art. 1966, c.c.

54 U. La Porta, op. cit., p 248, nota come in altre ipotesi di conciliazione obbligatoria il legislatore abbia «previsto meccanismi di superamento della situazione di stallo che si venga a creare nel caso in cui il tentativo non sia stato esperito, attraverso la previsione di termini decorsi i quali è possibile comunque adire l’autorità giudiziaria, ciò che non potrebbe darsi nel nostro caso [patto di famiglia] se non si applicasse l’intera disciplina di cui al d. lgs. 5/2003. A meno che non si voglia ritenere che il legislatore abbia lasciato nella disponibilità delle (l’onere alle) parti anche (del) la regolamentazione di tale evenienza». Per tale via, G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. not., 2006, pp. 465 e 466, afferma che si correrebbe il rischio di arrivare alla paradossale conseguenza che, posta l’obbligatorietà dell’esperimento del tentativo di conciliazione, qualora le parti non convengano nulla a riguardo, si potrebbe aprire la via ad una sorta di pregiudiziale giurisdizionale della pregiudiziale conciliativa.

55 G. Campeis, A. De Pauli, op. cit., p. 102, soggiungono: «Riteniamo che le parti possano indicarlo in sede negoziale; del che in difetto potrebbe ipotizzarsi una indiscriminata libertà di scelta della parte che assuma l’iniziativa, con possibile radicamento avanti ad un ente lontano e scollegato dal contenzioso».

56 G. Campeis, A. De Pauli, op. cit., p. 102, ne inferiscono che «il tentativo sarà esperito dall’organismo avente sede nella circoscrizione dell’ufficio giudiziario competente per il giudizio ordinario conseguente».

57 La ragione di questa conclusione è da ricercare nella circostanza che «il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. La logica che impone alle parti di “incontrarsi” in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall’inizio in contraddittorio fra le parti». Ne deriva che sono perciò «estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo. Non avrebbe infatti senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contratto fra le parti che invece non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio» e che «la sedes materiae prescelta per introdurre il nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione» sia soltanto il «processo di cognizione “ordinario” delle controversie di lavoro, che fin dall’inizio assicura il contraddittorio»; in questi termini, C. Cost. 13 luglio 2000, n. 276, in Giust. civ., 2000, I, pp. 2499 e ss.

58 Inoltre, gli atti del procedimento conciliativo, a differenza di quelli del processo civile, non sono soggetti al «contributo unificato di iscrizione a ruolo» ai sensi del d. lgs. 30 maggio 2002, n. 115; non sono neanche soggetti alle imposte di bollo richieste nel procedimento arbitrale.

59 In tale prospettiva, mentre alcuni commi stabiliscono delle regole di funzionamento (riservatezza e modalità di nomina, comma 1 ; proposta del conciliatore ed annesso verbale, comma 2; verbale conclusivo, comma 7; omologa, natura ed effetti, comma 8); altri commi stabiliscono quali conseguenze abbia il procedimento conciliativo sul successivo giudizio (inutilizzabilità per la decisione delle dichiarazioni rese dalle parti e divieto di prova testimoniale, comma 3; e rilevanza del contegno delle parti in punto di ripartizione delle spese processuali del successivo giudizio, comma 5). Infine, il comma 4 pone regole di prescrizione e decadenza, mentre il comma 6 disciplina gli effetti processuali che la omessa conciliazione spiega sul successivo giudizio, nel caso in cui sia negozialmente prevista come obbligatoria.

60 Al riguardo ulteriormente ritenendosi che, ove le stesse non abbiano provveduto o non riescano a raggiungere un accordo sul punto, ognuna di esse può adire l’autorità giudiziaria, affinché questa deferisca la lite ad una commissione, individuandola.

61 Talché, essa deve intendersi perfezionata – con riferimento all’autore dell’impulso – con la consegna all’ufficiale giudiziario, e – con riferimento al destinatario – con il giungere dell’atto nella sua sfera di conoscibilità. G. Campeis, A. De Pauli, op. cit., p. 106, inoltre, precisano che «la certezza della data sarà attinta ove l’istanza pervenga all’organo perché provveda a curarne la comunicazione (come i regolamenti dovranno presumibilmente prevedere). Riteniamo tuttavia che una comunicazione “privata” a mezzo posta che anticipi il successivo deposito (…) sia (…) idonea a produrre gli effetti sostanziali previsti dalla norma».

62 Inoltre, sarà necessario tenere in considerazione le ulteriori disposizioni eventualmente contenute nei regolamenti formati dagli organi conciliatori e regolarmente depositati presso il Ministero della Giustizia.

63 A differente soluzione giunge U. La Porta, op. cit., p 250, secondo il quale «ove si voglia prospettare una altra ipotesi interpretativa in linea con i principi dell’ordinamento, si potrebbe ritenere, invece, che la parte diligente sia tenuta a depositare l’istanza in ogni caso e che ove, poi, non abbia successo il tentativo di conciliazione per qualsiasi motivo, entro il termine fissato, essa sola (parte più diligente) possa adire l’autorità giudiziaria [Arg. ex artt. 168 bis e 368 c.p.c.]».

64 E, come visto, l’ingiustificato rifiuto di adesione al prospetto di conciliazione, in un uno con un comportamento meramente ostruzionistico o dilatorio, ha ripercussioni sul successivo processo per gli effetti di cui all’art. 96, c.p.c.: si menziona il caso limite della parte risultata vittoriosa nel giudizio ordinario per una somma inferiore a quella che le sia stata già riconosciuta dal conciliatore.

65 Ci si è spinti al punto di ammettere astrattamente addirittura l’evenienza di biancosegno riempito dai conciliatori, come se si trattasse di un arbitrato irrituale.

66 In tal senso F. Santoro Passarelli, op. cit., p. 52.

67 Senza la presenza delle parti, non potendosi ammettere una loro contrapposizione, avendo appena conciliato.

68 In particolare, il Presidente dovrà verificare la provenienza del verbale di conciliazione da un organismo iscritto nel registro ministeriale, l’indicazione nel verbale degli estremi dell’organismo, la sottoscrizione del conciliatore e l’oggetto della controversia.

69 Ivi inclusa la risoluzione per inadempimento; contra, A. Briguglio, op. cit., il quale dubita sull’attivazione dello strumento in questione allorché si sia già formalizzata la conciliazione, la quale abbia altresì acquistata forza di titolo esecutivo. U. La Porta, op. cit., p. 252, inoltre, osserva che «Attesa la natura negoziale dell’accordo citato, che sembrerebbe non lasciare spazio per vizi di “parzialità” del conciliatore, non si ritengono applicabili l’art. 395, n. 6, c.p.c., in tema di revocazione della sentenza per dolo del giudice, e neppure l’art. 1349 c.c. in tema di deferimento ad un terzo della determinazione dell’oggetto, ma piuttosto gli strumenti di impugnazione per vizi del consenso».

70 U. La Porta, op. cit., p. 253, aggiunge che «Dubbi non sorgono, poi, sul fatto che il ricorso alla conciliazione sia per le parti “condizione di procedibilità” anche dell’arbitrato e non solo del giudizio ordinario»; dissentiamo da tale opinione, alla luce di quanto già precisato supra in punto di ratio della conciliazione in argomento: talché, la scelta tra i due strumenti sarà meramente alternativa e, comunque, rimessa all’esclusiva scelta delle parti.