A.D.R. (Alternative Dispute Resolution)

Alberto Mastromatteo, A.D.R. (Alternative Dispute Resolution) in generale (Atti dell’Università di Forlì, facoltà di economia e commercio, 2010).

 

A.D.R. (Alternative Dispute Resolution) in generale

 

I. Una premessa: il giudice come extrema ratio.

La tendenza che si sta diffondendo nel nostro ordinamento, sulla scia di esperienze d’oltreconfine e con un occhio di riguardo alle pionieristiche soluzioni adottate nel sistema nord-americano, è quella di agevolare la risoluzione dei contrasti che insorgono tra i privati demandandola alla loro stessa autonomia privata. Il sovraffollamento delle cancellerie e delle aule giudiziarie, la macchinosità dei processi e la patologica lentezza degli stessi, non possono che determinare, infatti, un sempre maggiore affidamento delle parti in conflitto o ad arbitri o a strumenti negoziali di composizione di interessi antagonisti: al punto che non manca chi si esprime in termini di “sussidiarietà” del processo giurisdizionale.

II. A.D.R.: una categoria con elementi di sistema.

La categoria delle ADR presenta (rectius, dovrebbe presentare) elementi caratteristici tali da poterne parlare in termini di “sistema”. Vediamo quali sono tali elementi.

Integrazione con la giurisdizione ordinaria.

Nelle prime esperienze realizzate in materia nel Nord America, si è subito tentato di conformare tale sistema non con il fine di far fuggire gli utenti dalla giustizia ordinaria, bensì inducendo costoro a ritenere i due sistemi integrati.

Per contro, ad oggi, le procedure ADR si caratterizzano per una sorta di classificazione “ad esclusione”, che raggruppa forme molto eterogenee – dalla negoziazione all’arbitrato – accomunate dall’elemento negativo di essere estranee all’esercizio del potere giurisdizionale da parte dello Stato.

Invero, non è lo Stato a dover gestire l’attivazione di tali procedure alternative, essendo il titolare di queste il “fruitore del servizio Giustizia” e il suo consulente legale: i tempi della modernità impongono una molteplice offerta di strumenti per affrontare e risolvere al meglio i conflitti. Sicché, appunto, si dovrebbe avere nessuna vicendevole esclusione, al contrario solo una sperabile integrazione tra ADR e statualità della giurisdizione1.

Flessibilità della procedura.

Il sistema in parola cerca di aggirare la tradizionale rigidità che anima le classiche procedure conflittuali. Da questo punto di vista si osserva che è la procedura che si deve adattare alla controversia e non viceversa; tanto che c’è chi definisce il fenomeno ADR come risoluzione non tanto “alternativa” quanto “appropriata” alle liti.

Progressività e sistematicità del ricorso alle procedure di ADR.

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In un’ottica di sistema, le varie procedure di ADR disponibili vanno ordinate secondo una logica interna, che privilegi il ricorso all’una piuttosto che all’altra a seconda di circostanze predeterminabili.

Solo le parti che non riescano a trovare un accordo negoziale, razionalmente, dovrebbero richiedere l’intervento di un terzo neutrale in grado di assisterle nella soluzione della lite. La conciliazione si pone, in questo contesto, come fase intermedia tra negoziato diretto e contenzioso e non deve essere vista, quindi, come sostitutiva del negoziato diretto (come invece accade nella pratica, dove, fallito il negoziato diretto, i litiganti esperiscono automaticamente la procedura contenziosa).

Si osserva, poi, come il ricorso più sensato alle ADR debba essere sistematico, cioè previsto in tutti i casi idonei, come ad esempio, in un’ottica privatistica, in tutte le liti nascenti da una stessa tipologia di contratti.

Formazione di tutti gli operatori del sistema ADR.

Infine, la preparazione e la formazione appropriate sono caratteristiche non meno determinanti delle precedenti per affrontare l’ADR in maniera non “dilettantesca”. Un errore frequente consiste nel ritenere le ADR “auto funzionanti”. Così, se la relativa procedura è condotta da un organismo non specializzato, da un conciliatore non formato o se le parti sono assistite da consulenti legali che sanno poco o nulla di ADR, la conciliazione presenta scarse probabilità di successo. Analogamente a quanto accaduto in Italia in materia di conciliazione presso gli uffici provinciali del lavoro, in cui, più che l’obbligatorietà della procedura, l’inadeguatezza degli organismi preposti alla gestione della procedura e l’insufficienza della formazione dei funzionari che si sono dovuti improvvisare conciliatori sono state le cause degli scarsi risultati raggiunti.

Al riguardo, si sottolinea come la lacuna informativa, prima ancora che formativa, sia particolarmente grave in Italia, ove i percorsi educativi per avvocati, magistrati e professionisti in genere danno assai minor peso (o forse nullo) allo studio delle ADR rispetto ad altri Paesi europei.2

III. Le c.d. procedure primarie di ADR.

Le varie procedure riconducibili al sistema di ADR possono essere suddivise in tre “macro-gruppi”: «primarie», «ibride» e «multifase».

Nel primo gruppo rientrano le principali procedure di ADR – negoziazione, conciliazione e arbitrato – nella loro forma tradizionale.

La distinzione tra queste procedure primarie si fonda essenzialmente sopra due criteri:

  1. la presenza o meno di un terzo neutrale;

  2. l’attribuzione o meno allo stesso del potere di emanare una decisione vincolante per le parti sul merito della controversia.

La negoziazione è una procedura in cui le parti interagiscono, direttamente o con l’assistenza di consulenti, senza l’ausilio di un terzo neutrale.

La conciliazione (su cui ci si soffermerà più approfonditamente infra) vede le parti in lite interagire, in genere assistite da consulenti, con l’ausilio di un terzo neutrale privo del potere di emanare una decisione vincolante.

L’arbitrato, infine, si caratterizza in quanto le parti interagiscono, quasi sempre assistite da consulenti, con l’ausilio di un terzo dotato del potere di emettere una decisione vincolante.

C’è peraltro una sorta di confusione tra queste procedure, perché non è infrequente la circostanza che, mentre se ne svolge una, le parti continuino ad operarne anche un’altra (ad esempio, mentre è in corso un arbitrato, le parti si incontrano per negoziare alcuni aspetti del merito della questione).

In questa sede, in particolare, ci si profonderà sulla procedura della conciliazione.

IV. La conciliazione e la sua definizione3.

Tale procedura, come accennato, si caratterizza per l’intervento di un terzo neutrale diretto ad agevolare il raggiungimento di un’intesa o di un accordo, stimolando un’attività di negoziazione tra le parti in vista di, o durante, un conflitto in atto. Essa sarebbe da ricondurre a quella più ampia categoria dei cd. contratti con funzione transattiva in senso lato; il che implica l’applicabilità della disciplina del contratto, nel caso di patologie dell’accordo. Questi accordi presuppongono che le determinazioni delle parti convergano per risolvere conflitti “liberamente”, ma pur sempre nel rispetto della legge.

Il postulato base da cui è necessario partire allorché si discorre di conciliazione è che questa, al pari degli altri strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, si pone in una relazione di accessorietà e di complementarietà rispetto al processo, dilatando l’area dei rimedi apprestati dall’ordinamento per la risoluzione dei conflitti.

Si deve alla riforma del diritto societario il primo tentativo di definizione dell’istituto in commento, laddove, all’art. 1 lett. d) del D.M. 23 luglio 2004, n. 2224, si asserisce che essa consiste nel «servizio reso da uno o più soggetti, diversi dal giudice o dall’arbitro, in condizioni di imparzialità rispetto agli interessi in conflitto e avente lo scopo di dirimere una lite già insorta o che può insorgere tra le parti, attraverso modalità che comunque ne favoriscano la composizione autonoma»; alla lett. e), poi, vengono definiti i conciliatori come «le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la prestazione del servizio di conciliazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo»5.

L’innovazione prospettica che queste definizioni apportano al precedente quadro normativo in tema di conciliazione sono da rimarcare, avendo inserito per la prima volta nell’ordinamento italiano un riferimento alle modalità con cui la stessa viene prestata e non più solo all’esteriorità dell’istituto, per come fin ad allora rappresentato6. Non a caso, infatti, la dottrina tradizionale si limita ad individuare nell’elemento dell’accordo o in quello dell’assenza del giudizio il tratto differenziale tra la conciliazione e i procedimenti giurisdizionali, riferendosi in particolare al risultato ed all’attività del conciliatore in funzione del raggiungimento del medesimo, ma mai al quomodo, ossia alle modalità attraverso cui le parti (in caso di conciliazione stragiudiziale) o il terzo (in caso di conciliazione giudiziale o stragiudiziale ma davanti a organi conciliatori), rispettivamente, possano raggiungere o possa favorire il raggiungimento dell’accordo.

Alla luce di tali considerazioni, una definizione di conciliazione prima della riforma sarebbe potuta essere la seguente, e cioè «quel procedimento mediante il quale un giudice o altro soggetto pubblico o privato qualificato, senza giudicare, assiste le parti e facilita la loro comunicazione, affinché le stesse raggiungano un accordo su tutti o su alcuni aspetti del conflitto»7.

Il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, all’art. 1, comma 1, invece, definisce espressamente quella di conciliazione “la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione” e quest’ultima come “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia – c.d. conciliazione facilitativa –, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa – c.d. conciliazione valutativa –”. Quindi, inserisce un quid novi rispetto alle precedenti impostazioni, liddove si menziona chiaramente la possibilità, per il mediatore, di formulare una proposta per la risoluzione della controversia. Ciò che, in passato, si riteneva ammesso nei soli limiti in cui le parti avessero espressamente delegato al conciliatore tale potere, adesso la norma lo riconduce al normale, anche se eventuale (qualora le parti non riescano a raggiungere l’accordo), svolgimento della sua attività.

Si deve criticare tale soluzione, alla luce della considerazione che la procedura conciliativa dovrebbe possedere la precipua caratteristica di “induzione ad una conciliazione spontanea tra le parti” ad opera del conciliatore, non dovendo mai, le stesse, avvertire un’imposizione ab externo di una soluzione al loro conflitto8. E ciò vale in specie liddove, come nella riforma si prevede, la condotta delle parti non aderenti al programma conciliativo spende delle conseguenze nell’eventuale successiva fase giurisdizionale (come si vedrà meglio infra).

V. Conciliazione giudiziale: brevi cenni.

La conciliazione può assumere sia la forma giudiziale che quella stragiudiziale.

La conciliazione giudiziale può svolgersi sia nella fase non contenziosa del processo (cd. conciliazione preventiva) che in quella contenziosa (cd. conciliazione successiva).

– La prima forma conciliativa, nell’impianto originario dell’attuale c.p.c., era attribuita al giudice conciliatore, il quale assolveva la duplice funzione conciliativa e contenziosa. Tuttavia, negli anni 1990-91, le riforme del codice ridussero di molto e ulteriormente lo spazio applicativo dell’istituto9: la soppressione del conciliatore e la contestuale istituzione del giudice di pace hanno determinato il confluire della disciplina sulla conciliazione non contenziosa in un unico articolo, collocato alla fine del titolo dedicato alla procedura dinanzi al giudice di pace (art. 322, c.p.c.). Tuttavia, tali variazioni non hanno modificato, nella sostanza, la pregressa disciplina: talché, le modalità di attivazione del procedimento hanno conservato il carattere dell’informalità10; la partecipazione delle parti deve essere spontanea e non coercibile, non essendo sanzionabile l’assenza né della parte che abbia sollecitato la conciliazione preventiva, né della controparte.

– La conciliazione c.d. successiva (o contenziosa), ossia quella che ha luogo, nel processo, davanti al giudice ordinario, ha subito negli anni numerose modifiche.

Qualche forma di conciliazione contenziosa era già conosciuta dal codice del 1865, tuttavia essa era limitata ai procedimenti che si svolgevano davanti al conciliatore o al pretore. Soltanto nel 1940 la conciliazione successiva conseguì un’autonoma regolamentazione, venendosi a configurare come adempimento dovuto dal giudice nel corso del processo di cognizione ordinario. In un primo tempo, il giudice istruttore doveva procedere ad effettuare un tentativo obbligatorio di conciliazione alla prima udienza di comparizione delle parti (al riguardo era in facultate iudicis disporne la comparizione personale). Lo stesso, poi, aveva la facoltà di rinnovare il tentativo di conciliazione in qualsiasi momento dell’istruzione.

Nel 1990, la riforma del processo di cognizione ha soppresso il comma 1 dell’art. 185, c.p.c. ed ha trasferito la disciplina del tentativo giudiziale di conciliazione nell’art. 183, c.p.c., dedicato alla prima udienza di trattazione. Per tale via, la conciliazione contenziosa, replicando il meccanismo della comparizione personale delle parti finalizzata all’interrogatorio libero introdotto con la riforma del rito del lavoro del 1973, ha generalizzato il ricorso all’istituto de quo, lasciando, peraltro, immutato l’art. 185, nella parte in cui consentiva al giudice di rinnovare il tentativo in qualunque momento dell’istruzione della causa.

Lo scarso utilizzo che nella prassi ha ricevuto la conciliazione successiva è stato uno dei motivi per cui, nel 2005-2006, il legislatore ha deciso di dare maggiore competitività al processo civile, eliminando l’udienza di prima comparizione, accorpandone le relative attività nella fase iniziale dell’udienza di trattazione, dalla quale vengono espunte le attività precedentemente correlate alla comparizione personale delle parti: prima fra tutte, appunto, il tentativo di conciliazione.

Originariamente totalmente eliminato dalla disciplina procedimentale, per ragioni di coordinamento sistematico il tentativo di conciliazione venne riproposto dalla l. 263/05, correttiva del decreto competitività, la quale, nel riformulare l’art. 185, facoltizza non solo il tentativo di conciliazione, ma finanche l’udienza di prima comparizione, destinata all’espletamento di quello, che, se scelto, viene attuato mediante la comparizione personale e l’interrogatorio libero delle parti. Talché, spetterà ai legali di parte instare congiuntamente per la fissazione di un’udienza ad hoc ai sensi dell’art. 185, alla quale dovranno intervenire le parti personalmente (salvo delega speciale al legale) per essere interrogate liberamente dal giudice e consentire a costui di stimolarne la conciliazione11. Tale eventuale udienza di comparizione ex art. 185, potrà essere anche fissata dal giudice ex officio (art. 185, comma 3)12.

VI. Conciliazione ad hoc e conciliazione amministrata.

C’è una duplice modalità di attivazione della procedura conciliativa stragiudiziale.

La prima consiste nella possibilità per le parti, al momento della convenzione di conciliazione, sia preventiva che successiva alla lite, di stabilire le modalità di svolgimento della procedura stessa o, ciò che accade più di frequente, di affidarsi tout court ad un conciliatore che istruirà le parti nel momento di svolgimento del tentativo.

La conciliazione amministrata, invece, si attiva allorché le parti si rivolgano ad un organismo terzo, che acquista funzione di autorità, di gestione e di organizzazione amministrativa della fase conciliativa, predisponendo, altresì, un regolamento che disciplina lo svolgimento del tentativo, ispirato a criteri di terzietà, neutralità, indipendenza, professionalità, celerità e trasparenza13.

Le parti sono normalmente libere di scegliere una delle due modalità di conciliazione, ma non di rado, soprattutto recentemente, la legge è intervenuta indirizzando la loro volontà14: e da ultimo, appunto, con la riforma di cui al D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

VII. La conciliazione stragiudiziale e gli organi di conciliazione.

La riforma citata, con cui si è teso a generalizzare il ricorso allo strumento de quo ci consente di trattare organicamente l’argomento15.

Ma procediamo con ordine. Occorre avvertire che, pur essendo l’organo conciliatore estraneo all’apparato giurisdizionale, il normale svolgimento di molti degli eterogenei procedimenti di conciliazione singolarmente previsti, ante riforma, era variamente connesso all’attività processuale. A conferma di questo assunto, basti pensare che, normalmente, quando la procedura conciliativa era il filtro necessario per accedere alla tutela giurisdizionale, il suo mancato esperimento determinava taluni effetti sul processo eventualmente instaurato, che normalmente consistevano nella temporanea improcedibilità16. Pertanto, accadeva che il giudice sospendesse il processo, fissasse un termine perentorio per la proposizione della richiesta di tentativo di conciliazione e un altro termine, a sua volta perentorio, per riassumere il giudizio, che decorreva dalla cessazione della causa di sospensione, scaduto inutilmente il quale si aveva l’estinzione del processo17.

Questo stesso meccanismo è adesso disciplinato dall’art. 5 del d.lgs. cit.. Tale disposizione espressamente menziona le materie in cui è fatto obbligo alle parti di esperire il previo tentativo di conciliazione18, assegnando a questo la qualità di condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Peraltro, si dispone che il giudice, qualora rilevi che la mediazione sia già iniziata, ma non sia conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di quattro mesi (termine massimo di durata della procedura conciliativa19). Allo stesso modo il giudice provvede quando la mediazione non è stata esperita ed assegnerà contestualmente alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione20.

È inoltre rimessa alla facoltà del giudice di secondo grado, valutati la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, di invitare le parti a procedere ad una previa conciliazione.

L’esperimento del tentativo di conciliazione rende comunque salva la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari e la possibilità di trascrivere la domanda giudiziale21.

Occorre infine segnalare che la comunicazione della domanda di mediazione alle altre parti produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Il comma 6 dell’art. 5 in commento precisa, poi, che da quello stesso momento la domanda di mediazione impedisce anche la decadenza (un’eccezionale causa di sospensione della decadenza), ma per una sola volta, e se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere prodotta entro il medesimo termine di decadenza, che decorre dal deposito del verbale di conciliazione presso la segreteria dell’organismo interpellato.

Esaurita, in breve, la disamina della procedura di conciliazione, occorre chiedersi se sussistano dei requisiti che l’organo conciliatore debba possedere affinché possa essergli attribuita autorevolezza e credibilità, anche in una prospettiva di incentivazione al ricorso della conciliazione stragiudiziale.

Al riguardo, rileva subito ribadire come ante riforma l’universo degli organi conciliatori fosse quantomai eterogeneo e composito22 e, salvo per il caso degli organismi istituiti con d. lgs. 5/2003, normalmente il legislatore italiano non stabiliva quali requisiti soggettivi detti organi dovessero possedere23.

Diversamente, sia il legislatore comunitario, sia Unioncamere – che coordina a livello nazionale l’attività delle Camere di Commercio – avevano già fissato una serie di criteri cui si sarebbero dovuti uniformare gli organismi conciliatori che operano in sede stragiudiziale. Nel primo caso, infatti, con due raccomandazioni della Commissione europea del 1998 e del 200124, si dispose che tutti “gli organismi responsabili per la risoluzione delle controversie in materia di consumo” dovessero essere in possesso del duplice requisito dell’indipendenza e dell’imparzialità, così che ne risultasse accresciuta la credibilità nei confronti dei potenziali utenti. A livello nazionale, invece, le Norme di comportamento per conciliatori, elaborate dal Gruppo di lavoro sulla conciliazione istituito presso Unioncamere nel 2002, stabilirono la necessità che il conciliatore possedesse i requisiti della indipendenza, imparzialità, neutralità e qualificazione25. In particolare, poi, sulla conciliazione stragiudiziale societaria, l’art. 38, comma 1, d. lgs. 5/2003 specificò che gli enti pubblici e privati che la amministravano e che offrivano “garanzie di serietà ed efficienza” potessero costituire organismi deputati a gestire il tentativo di conciliazione delle controversie nelle materie di cui all’art. 1, dello stesso d.lgs., i quali ultimi dovevano essere iscritti in un apposito registro tenuto dal Ministero della Giustizia26. Inoltre, i soggetti che in concreto esercitavano l’attività conciliativa dovevano possedere specifici requisiti di professionalità ed onorabilità27, il cui positivo riscontro era condizione ulteriore per l’iscrizione dell’organismo nel Registro ministeriale (art. 4, comma 4, D.M. 222/2004). A tali requisiti, si aggiungevano, poi, quelli di imparzialità, indipendenza e neutralità28.

La novella di cui al cit. d.lgs. 28/2010, all’art. 16, disciplina anche gli organismi di mediazione. In particolare, il comma 1, dispone che “gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’art. 2 del (…) decreto” e che tali organismi debbano essere iscritti in apposito registro, istituito presso il Ministero della Giustizia e la cui disciplina è demandata al regolamento attuativo, recentissimo, D.M. n. 180 del 18 ottobre 2010.

Tale Decreto, in particolare, detta, all’art. 4, i criteri per l’iscrizione nel registro dei conciliatori, che in larga parte ribadiscono quelli indicati dalle previgenti disposizioni dianzi segnalate.

E così, il responsabile della tenuta del registro verifica la professionalità e l’efficienza, la capacità finanziaria ed organizzativa, la compatibilità dell’attività di mediazione con l’oggetto sociale o lo scopo associativo; inoltre, viene richiesta una polizza assicurativa di un certo valore (€ 500.000) per le eventuali responsabilità derivanti dall’attività svolta; vengono richiesti i requisiti di onorabilità29 dei soci, associati, amministratori o rappresentanti degli enti in parola e le garanzie di indipendenza, di imparzialità e riservatezza.

Requisiti innovativi, invece, (legati alla costituzione di organismi-persone giuridiche per poter svolgere l’attività di conciliazione) sono quelli in cui si richiede agli interessati: la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, incluso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna (con il fine di dimostrare di essere in possesso di autonomia finanziaria e funzionale); un numero minimo di mediatori (cinque) che abbiano dichiarato la disponibilità a svolgere le funzioni di mediazione per l’organismo richiedente l’iscrizione nel registro; la specificazione della sede.

È fatto carico, poi, al responsabile della tenuta del registro di verificare (comma 3): i requisiti di qualificazione dei mediatori30 ed il possesso, da parte di costoro, di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento, almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione di cui all’art. 18 del medesimo Decreto.

In definitiva, ad oggi, l’espletamento delle procedure di mediazione in materia civile viene affidato agli organismi di cui all’art. 1, lett. d), iscritti nel Registro degli organismi istituito col citato decreto del Ministro della Giustizia. Pertanto, parrebbe doversi escludere l’ipotesi di offerta al pubblico di servizi di mediazione in materia civile e commerciale da parte di organismi che non risultino iscritti al detto Registro. Parrebbe tuttavia che non si possa parlare di un divieto assoluto di esercizio di tale attività (che, qualora esercitata da organismi di conciliazione non iscritti, può essere considerata come attività di consulenza professionale), bensì di attività inidonea alla produzione degli effetti sostanziali e processuali che scaturiscono da quella svolta dagli organismi iscritti. Pertanto, nei limiti segnalati, restano salve tutte le pregresse norme che disciplinano eterogenei settori in cui si svolge la conciliazione, salvo che contrastino col disposto di cui al d.lgs. 28/2010, la cui disciplina, nel caso, deve ritenersi prevalente.

VIII. Conciliazione facilitativa e conciliazione valutativa.

Oltreoceano, si è teorizzata la distinzione in esame, attenendo essa al maggiore o minore ambito di potere esercitabile dal conciliatore31.

Talché, nell’ipotesi in cui costui non esprima alcun tipo di valutazione in punto di fondatezza delle pretese di parte, né suggerisca possibili soluzioni al contrasto, ma limiti la propria attività ad agevolare il raggiungimento dell’accordo tra le parti, inducendole a dialogare per cercare di disvelare i reali interessi che le animano, sì da condurle ad una soluzione alternativa della querelle, con reciproca soddisfazione, allora si sarà in presenza di una conciliazione facilitativa

Diversamente, nel caso in cui il medesimo soggetto ricopra un ruolo più attivo, con analisi del fatto storico e degli aspetti giuridici coinvolti nella vicenda, pervenendo finanche a proporre una soluzione, ferma restando la totale libertà delle parti di accettarla o meno, allora si tratterà di una conciliazione valutativa.

Ciò posto, è in evidenza come l’ordinamento italiano tendesse ante novella ad assegnare ai conciliatori poteri prevalentemente di carattere facilitativo, vista la conformazione dell’istituto che si basa sull’accordo e la cooperazione delle parti. Infatti, costoro si limitavano ad assistere le parti concilianti, non esprimevano valutazioni in merito alla fondatezza delle pretese, né formulavano proposte sull’accordo. Ciò che era di stimolo per le parti stesse a ideare e proporre uno schema d’accordo, sicché, una volta raggiunto, ne seguissero il contenuto, sentendolo frutto di autocomposizione e non come imposizione ab externo32.

Il d.lgs. 28/2010, come già segnalato retro, all’art. 11, innova profondamente in materia inserendo una clausola generale che attribuisce alla facoltà del conciliatore la possibilità di predisporre un progetto di conciliazione, qualora le parti non si riescano ad accordare. È fatto salvo, naturalmente, il potere delle parti di accettare e, soprattutto, rifiutare tale proposta. Ad ulteriore garanzia di queste, inoltre, è previsto il divieto, salva diversa volontà delle parti, di trasfondere nella proposta eventuali dichiarazioni rese o acquisite nel corso della procedura conciliativa.

Tuttavia, l’art. 13 sanziona la parte, pur vittoriosa nella fase giurisdizionale, nel caso in cui il provvedimento giudiziale corrisponda interamente al contenuto della proposta del mediatore. In questo caso, infatti, il giudice esclude la ripetizione delle spese, sostenute dalla detta parte che abbia rifiutato la proposta, che siano riferibili al periodo successivo alla formulazione della proposta e la condanna al rimborso delle stesse spese a favore della parte soccombente nel giudizio. Inoltre, e qui di vera e propria sanzione trattasi, il giudice condannerà la parte rifiutante a versare all’entrata del bilancio dello Stato un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Lo stesso discorso vale per l’indennità corrisposta al mediatore ed al suo consulente tecnico.

IX. Risultato della conciliazione stragiudiziale.

La procedura conciliativa può avere un duplice sbocco: il raggiungimento dell’accordo o il fallimento dell’esperimento conciliativo.

Nella prima ipotesi, il verbale di conciliazione prende atto, assorbendolo, dell’accordo stipulato tra le parti, risolutivo della controversia. Il predetto verbale viene sottoscritto da parti e conciliatore e, prima della riforma, non aveva forza di titolo esecutivo, salva espressa previsione contraria della legge. Talché, esso obbligava le parti ex contractu e consentiva alle stesse di attivare i rimedi negoziali ordinari davanti all’autorità giudiziaria33.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, in coerenza con la configurazione della conciliazione come strumento di alternative dispute resolution alla giurisdizione ed all’arbitrato, anche nella fase esecutiva, il legislatore espressamente sanciva l’efficacia di titolo esecutivo del verbale predetto34. Inoltre, alcune volte tale efficacia era effetto automatico del verbale di conciliazione, mentre altre volte era prescritto l’iter stabilito dall’art. 825, c.p.c. per il lodo arbitrale rituale: talché, sarebbe stata necessaria l’omologazione del verbale da parte del giudice, il quale avrebbe dovuto previamente accertarne la regolarità formale35.

Infine, anche nell’evenienza in cui l’esperimento conciliativo stragiudiziale fosse fallito sarebbe occorso verbalizzarlo in atti. Talora la funzione di tale verbale era quella, limitata, di fornire prova nel successivo giudizio dell’esperimento stesso al fine di conseguire la procedibilità dell’azione giudiziale. Talaltra, invece, il verbale assolveva una funzione probatoria, sì, nel successivo giudizio, ma finalità sanzionatorie. Talché, il contegno della parte che avesse colpevolmente osteggiato una soluzione conciliativa, poi fatta propria dal giudice nella sede contenziosa, poteva spiegare rilievo ai fini dell’addebitamento delle spese processuali, a prescindere dalla soccombenza36.

Il D.lgs. 28/2010 lascia sostanzialmente immutata tale procedura, però introduce alcune novità. Infatti, in primo luogo, qualora con l’accordo le parti concludano uno dei contratti o compiano uno degli atti di cui all’art. 2643, c.c., per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato37. Inoltre, è possibile prevedere nell’accordo raggiunto una sorta di “sanzione” per il caso di inadempimento degli obblighi ivi stabiliti o di ritardo nel loro adempimento.

Per quanto concerne, poi, l’efficacia esecutiva e l’esecuzione del verbale di accordo, l’art. 12 del d.lgs. 28/2010 dispone che esso, qualora non sia contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, “è” (è un obbligo e non una facoltà del giudice, che non avrà, quindi, la possibilità di sindacare il merito dell’accordo) omologato con decreto del presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Nelle controversie transfrontaliere (quelle di cui all’art. 2 della direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008), invece, il verbale è omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione. Infine, la norma precisa che il predetto “verbale (…) costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.

A questo punto della nostra trattazione, occorre accennare al problema dell’inquadramento dell’accordo conciliativo. In particolare, pare che esso presenti forti elementi di analogia con il generico concetto di negozio di accertamento e, in particolare, con quel contratto che il codice civile disciplina agli artt. 1965 e ss.: la transazione38.

Non è questa la sede per affrontare funditus i pur interessantissimi temi della funzione e della struttura giuridica del negozio di accertamento (in generale) e della transazione (in particolare)39, tuttavia, utilizzeremo alcune soluzioni adottate in materia per fornire talune risposte ai problemi che l’accordo conciliativo potrebbe porre nella pratica.

Partiamo da un esempio: Tizio, dopo aver subito danni da circolazione stradale, cita in giudizio Caio. Si impone il previo tentativo obbligatorio di conciliazione e i due raggiungono un accordo conciliativo, prevedendo, inoltre, una sanzione per il caso di inadempimento. Cosa accade in caso di inadempimento di quell’accordo e conseguente controversia giudiziale sull’interpretazione dell’inadempimento predetto? È vero che il mediatore deve rispettare l’oggetto dell’istanza di conciliazione, non potendo esondare ultra petitum, tuttavia il detto accordo presenta natura di contratto, pertanto non attiene più, strettamente, alla materia risarcitoria e, quindi, si ha una sorta di surrogazione delle situazioni giuridiche?

A noi pare che una delle possibili soluzioni possa essere quella di doversi previamente esperire un nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione. L’alternativa, in questo caso, è quella o di tornare dallo stesso conciliatore che ha già assistito le parti, affinché fornisca un’interpretazione del precedente accordo; oppure quella di andare da diverso conciliatore, affinché indirizzi le parti verso un’interpretazione “obiettiva”, secondo legge, di quell’accordo. Il rischio, naturalmente, è che con questo meccanismo si proceda “all’infinito” e che non si giunga ad un esito certo: quell’esito che solo una pronuncia giudiziale, con l’esaurimento di tutti i gradi del giudizio, può fornire. Ed è per questa ragione che la soluzione preferibile pare proprio quella di concludere che il nuovo contratto, frutto dell’accordo conciliativo, costituisca materia a sé, non rientrante tra quelle di cui all’art. 5 del d.lgs. 28/2010.

In posizione intermedia alle due alternative si potrebbe ipotizzare una terza impostazione, sulla base di una distinzione relativa alle obbligazioni scaturenti dall’accordo: qualora da questo emergano delle obbligazioni che ripetono la natura di quelle del precedente rapporto giuridico (per rimanere aderenti all’ultimo esempio: “si riconosce a Tizio il diritto di ricevere una somma x a titolo di risarcimento danni”), la materia oggetto di contesa non subisce una trasformazione e, quindi, l’eventuale inadempimento di quella prestazione, se controverso, dovrebbe essere oggetto di un nuovo preventivo tentativo di conciliazione; qualora, per contro, dall’accordo scaturiscano prestazioni/obbligazioni di natura diversa rispetto a quella del precedente rapporto giuridico (ad es.: “Caio, autore del danno, è costretto ad accompagnare Tizio al lavoro con la propria vettura, essendo quella di Tizio rimasta distrutta nell’incidente, fino a quando Tizio ne avrà acquistata una nuova”), la materia in contenzioso sarà mutata e, quindi, la doglianza dell’eventuale inadempimento di questa nuova prestazione dovrà essere azionata solo dinanzi all’autorità giudiziaria.

Infine, per dirimere molti dei precedenti dubbi, una soluzione sul piano pratico potrebbe essere quella di apporre all’accordo conciliativo la formula di cui all’art. 1976, c.c., e cioè di considerare tale accordo come “novativo” del preesistente rapporto. Per tale via, recita la norma predetta, la risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo, però, che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente stipulato.

X. Rapporti tra mediazione e class action e azioni inibitorie a tutela dei consumatori.

Occorre premettere che, in generale, allorchè il danno sia “di massa” e cioè venga cagionato ad una pluralità di soggetti, ma al contempo esso presenti caratteristiche di lieve entità, tali per cui non varrebbe la pena azionare alcuna pretesa individuale in giudizio, né istanza di conciliazione, l’esperimento collettivo di un’azione a tutela delle pretese individuali, per mezzo di un rappresentante (ai sensi dell’art. 140-bis cod. cons., d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), riduce sensibilmente il costo di tempo e denaro per azionare le pretese individuali in misura maggiore rispetto al ricorso ai mezzi conciliativi. L’azione di classe costituisce, pertanto, la risposta dell’ordinamento per rimuovere le ragioni di rinuncia alla tutela giudiziaria da parte dei consumatori.

Allo stesso tempo, tale azione assolve una funzione di deterrence nei confronti dell’imprenditore, mediante l’organizzazione di una reazione unita dei consumatori nei riguardi dell’illecito plurioffensivo.

E poi la class action funziona un poco come «un’aspirapolvere nei confronti degli strumenti di conciliazione, liberandoli dal pulviscolo delle controversie seriali di modico valore (in cui può avere spazio solo un negoziato posizionale su vasta scala), lasciando risorse ai tentativi di conciliazione non seriali, ovvero ai tentativi di conciliazione collettivi dopo la promozione dell’azione di classe (art. 15 del d.lgs. 28/2010), e valorizzando così la competenza professionale e l’opera del conciliatore»40.

Si è sostenuto che, da un punto di vista sistematico, l’art. 15 cit. avrebbe dovuto essere collocato nella più ampia disposizione di cui all’art. 140-bis, cod. cons., disciplinando un singolo aspetto dell’azione di classe41. Ma si riconduce la giustificazione della collocazione dell’art. 15 alla previsione di cui all’art. 5 del medesimo decreto delegato, a norma del quale, nelle materie oggetto di obbligo di preventiva conciliazione, il relativo tentativo costituisce requisito di procedibilità della successiva azione, in ogni caso, salvo che nelle azioni di cui agli artt. 37, 140 e 140-bis, cod. cons. Tali azioni sono: quelle c.d. “inibitorie”, con cui si chiede al giudice di vietare l’uso di condizioni generali di contratto abusive al professionista e/o alle associazioni di professionisti; inoltre, quelle volte alla tutela di interessi collettivi dei consumatori e degli utenti; infine, quelle con cui si aziona la tutela di diritti individuali, però omogenei a più consumatori o utenti (appunto, class action).

L’utilizzo aggregato della macchina giustizia per la tutela di situazioni giuridiche individuali omogenee, in una con l’attingimento a strumenti di A.D.R., costituisce un’esigenza dei Paesi “a capitalismo maturo”42

La disciplina sull’obbligo di preventiva mediazione non è applicabile nelle ipotesi in cui sia esperibile la class action. Infatti, da un lato, in materia, già è prevista dal cod. consum. la possibilità di esperire una conciliazione facoltativa davanti alla Camera di Commercio competente per territorio (art. 140, cpv., cod. consum.), sicché le previsioni del d.lgs. 28/2010 introdurrebbero un’inutile duplicazione; dall’altro, spiega la Relazione illustrativa al decreto delegato, la ragione di tale esclusione è da rinvenirsi nella circostanza che «non è concepibile una mediazione dell’azione di classe fino a quando quest’ultima non ha assunto i connotati che permetterebbero una mediazione allargata al maggior numero di membri della collettività danneggiata e fino dunque alla scadenza del termine per le adesioni (art. 15)», disponendo, infatti, l’art. 15 cit. che, quando viene esercitata l’azione seriale di cui all’art. 140-bis cod. consumo, la conciliazione intervenuta dopo la scadenza del termine per aderire alla class action ha effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito. In definitiva, la previsione è coerente con l’ultimo comma dell’art. 140-bis che esclude che le rinunce o le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito; ciò che vale anche nel caso estinzione del giudizio o di chiusura anticipata del processo.

Quindi, è importante sottolineare che l’atto di adesione alla class action debba conferire espressamente il potere di conciliare (perché, in caso contrario, l’attore collettivo – cd. rappresentante – non dovrebbe considerarsi autorizzato a tali fini). Tale conclusione risponde ad un’esigenza che dovrebbe permeare l’intero sistema di conciliazione-mediazione di cui si discorre. La disponibilità dei diritti attivati e la necessità di offrire comunque una tutela giurisdizionale, infatti, dovrebbero colorare i rapporti tra fase pregiurisdizionale (conciliativa) e successivo eventuale sbocco contenzioso, in modo da escludere un’osmosi tra le due fasi. E così pare si possa evincere dalla formulazione dell’art. 15 cit. Ciò non accade, per contro, qualora il rapporto tra le due fasi si collochi in un contesto di azione individuale, date le conseguenze che l’art. 13 del decreto 28/2010 fa discendere in ordine alle “sanzioni” previste in punto di spese processuali, qualora la parte vincitrice nella sede contenziosa abbia rifiutato la proposta conciliativa, pur frutto di un “obbligo” di preventiva conciliazione, interamente corrispondente al contenuto del provvedimento che definisce il giudizio. Ciò che pare ragionevole in un’ottica di economia dei mezzi pan-processuali (meta-processuali e processuali), ma al tempo stesso una diseguaglianza (tra azione individuale e azione collettiva) su cui occorrerebbe maggiore riflessione.

XI. Subfornitura.

In breve, giova premettere che il contratto di subfornitura fino alla disciplina introdotta con l. 18 giugno 1998, n. 192, veniva considerato un contratto atipico (seppur socialmente tipico) e, come tale, ricondotto alla disciplina analogica ora dell’appalto, ora della vendita, ora della somministrazione.

L’art. 1 della l. cit. fornisce la definizione di questo contratto, offrendone due configurazioni: la prima è quella con cui «un imprenditore si impegna ad effettuare per conto di un’impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima»; la seconda è quella con cui il medesimo «si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente». In definitiva, pare che la disciplina in parola sia rivolta a quella categoria di imprese medio-piccole che, nell’assumere la qualità di subfornitore, differente da quella di appaltatore, non realizzano (in tutto o in parte) la medesima opera o servizio richiesti dal committente a quest’ultimo, ma si limitano a completare la trasformazione di un prodotto (da semilavorato in “prodotto finito”) o forniscono un prodotto finito o un servizio materiale privi di autonoma rilevanza esterna nella catena di produzione o di distribuzione, dovendo essere incorporati come parte di un bene complesso usato dal committente nell’esercizio della propria attività d’impresa e al quale è funzionalmente destinato43.

Il subfornitore, come detto solitamente impresa medio-piccola e pertanto soggetta a potenziali limitazioni dell’autonomia contrattuale ad opera dei committenti e sub committenti privati (normalmente dotati di una forte capacità economica, che si riflette anche sul piano negoziale), è comunque la parte debole del contratto de quo, per cui si pone l’esigenza di fornirgli una speciale tutela giudiziale.

Il comma 1 dell’art. 10 l. subfornit., stabilisce che «Entro trenta giorni dalla scadenza del termine di cui all’art. 5, comma 4, le controversie relative ai contratti di subfornitura di cui alla presente legge sono sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede il subfornitore, ai sensi dell’art. 2, comma 4, lettera a), della legge 29 dicembre 1993, n. 580».

Pertanto, si tratta di un preventivo tentativo di conciliazione in sede amministrata.

Il dubbio interpretativo in passato era quello relativo alla disciplina analogica da applicare alla formula conciliativa prevista nella legge sulla subfornitura. Tendenzialmente, si sosteneva che la conciliazione obbligatoria prevista nel rito del lavoro fosse il parametro normativo cui fare riferimento, posto che anche nella subfornitura si tratta di una procedura obbligatoria.

Con l’avvento del d.lgs. 28/2010 non pare possano trovare residui spazi interpretativi, dovendosi prendere a parametro normativo di riferimento, per tutti gli aspetti non disciplinati dalle singole leggi speciali istitutive di procedure conciliative, la disciplina offerta dal predetto d.lgs.

Da ultimo, si segnala che, mentre l’art. 10, comma secondo, della l. 192/98 stabilisce in trenta giorni il termine entro cui deve concludersi la procedura conciliativa inerente un rapporto di subfornitura, il d.lgs. pone il termine massimo di 4 mesi44.

XII. Ombudsman civico e bancario.

Il difensore civico o Ombudsman nasce per la prima volta nei Paesi Scandinavi (in particolare, in Svezia nel 1809), in un contesto storico politico in cui si assisteva al graduale passaggio dall’assolutismo regio al regime parlamentare. Tale figura, adesso prevista in oltre 110 paesi, una trentina dei quali europei (e fra cui l’Italia), ha il compito di “mediare”, come fosse un trait d’unione, tra cittadini e Pubbliche Amministrazioni, offrendo chiarimenti, ponendo rimedi a ritardi, lungaggini burocratiche, ingiustizie, prevaricazioni, discriminazioni anche relative ad attività di servizio pubblico o di pubblica utilità in gestione ovvero in concessione (Trenitalia, imprese telefoniche, aziende municipalizzate, ecc.).

In senso ampio, quindi, tale azione di difesa civica può essere ricondotta al concetto di soft law, intesa come risoluzione stragiudiziale delle controversie. A differenza degli strumenti di risoluzione legalmente dati (hard law), tali strumenti, sempre oggetto di autoregolamentazione, si caratterizzano per l’assenza di un’efficacia vincolante rispetto ai soggetti che li attivano, dando luogo a cd. soft obbligation, cioè obbligazioni prive, appunto, di vincolatività e precettività. Tuttavia, l’autorevolezza della figura istituzionale, in uno con l’impatto che la “educazione civica” fornita da tale soggetto spiega per tutta la collettività (cittadini e pubblici ufficiali – che hanno conferma di ciò che è buona e ciò che è cattiva amministrazione), hanno consentito che in molti paesi le soluzioni adottate dall’Ombudsman acquisiscano forza precettiva in materia di c.d. “diritto naturale”.

Vediamo gli strumenti attraverso cui questi può esercitare la propria funzione:

– l’osservazione critica o il progetto di raccomandazione, anche informale, rappresentano il più importante strumento di produzione attiva di norme, intesa come regole di condotta che gli Uffici pubblici recepiscono spontaneamente (ciò che avviene, soprattutto, nelle realtà dei paesi scandinavi);

– la composizione amichevole (o conciliazione), che in particolare si riferisce a problematiche relative ad utenze e servizi erogate da gestori o concessionari di servizi di pubblica utilità ed enti pubblici economici in genere;

– l’istituzione di principi di soft law, in misura tale che, pur mancando un carattere vincolante nelle affermazioni formulate dall’Ombudsman, gli Uffici nella prassi li recepiscono, così “autovincolandosi”, in maniera tale che occorrerà quantomeno argomentare l’eventuale discostamento da tale principio ad opera del singolo ufficio nella singola fattispecie (in altri termini, per quel che concerne il nostro ordinamento, i postulati di principio di soft law pronunciati dal Difensore Civico potrebbero assurgere a parametro di riferimento per individuare un eventuale eccesso di potere ad opera della Pubblica Amministrazione che se ne discosti ingiustificatamente).

L’Ombudsman è anche una figura di mediatore bancario. In altri termini, il cliente che crede di aver subito un danno dalla banca nel caso di operazioni, conti correnti, fidi, investimenti, titoli, ecc., nell’ipotesi in cui non abbia ottenuto soddisfazione direttamente dal personale bancario, si deve rivolgere all’Ufficio Reclami della banca.

Le banche aderiscono all’accordo per la costituzione dell’Ufficio reclami della clientela e dell’Ombudsman Giurì Bancario (istituito a Roma), che prevede una ADR.

Questo è un organo di secondo grado chiamato a pronunciarsi sui ricorsi già portati all’attenzione dell’Ufficio Reclami della clientela, costituito presso ciascuna banca. La sua fonte normativa è costituita dall’accordo trasfuso nella circolare ABI del 1 febbraio 1993, entrata in vigore il 15 aprile dello stesso anno. Sono previsti dei limiti di valore entro cui la controversia deve mantenersi affinchè si possa adire l’Ombudsman bancario.

Questo è un organismo collegiale, con sede a Roma, composto da cinque persone, il cui Presidente viene nominato dal Governatore della Banca d’Italia45. Ognuno dei membri del collegio deve possedere determinate caratteristiche d’esperienza, professionalità e moralità. Il mandato del Presidente ha durata quinquennale ed è rinnovabile una sola volta; quello degli altri componenti ha durata triennale e può essere rinnovato un’unica volta46.

Per rivolgersi a tale organismo non è necessaria l’assistenza tecnica ed occorre mettere per iscritto le caratteristiche della vicenda, inviandole con lettera a/r all’indirizzo romano dell’Istituzione. Della ricezione della richiesta di tutela da parte del cliente, l’Ombudsman provvede ad informare tempestivamente per iscritto la banca interessata. La richiesta deve specificare il contenuto della controversia e riportare ogni altra notizia utile.

L’ambito oggettivo del contenzioso è stato ridefinito dopo il 15 ottobre 2009, con l’avvento della disciplina sull’arbitrato bancario finanziario, e concerne titoli e risparmio gestito, bonifici transfrontalieri e, in generale, tutti quei servizi di attività, compresa la consulenza, e di investimento, che sono di competenza del sistema di conciliazione ed arbitrato della Consob (compravendita di azioni, obbligazioni e tutte le operazioni in strumenti derivati).

Occorre precisare che scarso utilizzo ha avuto siffatto strumento di conciliazione, per la naturale diffidenza che i clienti nutrivano nei riguardi degli Uffici di Reclamo, pur sempre uffici interni delle banche, da adire in I grado. È verosimile un aumento del ricorso alla conciliazione preventiva, a seguito dell’introduzione del d.lgs. 28/2010, cit., che inserisce, tra le materie in cui occorre ricorrere a questa ADR, i contratti bancari e finanziari.

Sul coordinamento tra i due sistemi, segnaliamo che l’art. 5 del d.lgs. da ultimo citato fa salvo, fra gli altri, il procedimento istituito in attuazione dell’art. 128-bis del T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385. Ne deriva che esso continuerà a valere per le controversie di valore inferiore a certe soglie disciplinate dalla cit. circolare ABI del 1993 (€ 100.000 per le singole controversie ed € 50.000 per il rimborso del bonifico transfrontaliero). Mentre per le controversie di valore superiore a quelle soglie e per le materie non comprese dalla riforma sull’arbitrato bancario finanziario sarà necessario previamente adire gli organi conciliativi istituiti col D.M. n. 180 del 18 ottobre 2010, cit.

XIII. Conciliazione e patto di famiglia47.

L’art. 768 octies48 impone l’esperimento di un tentativo di conciliazione preventivo a qualunque controversia sorga in materia di patto di famiglia. Il meccanismo prevedeva un rinvio preliminare ad uno degli organismi di conciliazione contemplati dall’art. 38, d. lgs. 5/2003, in materia di processo societario. Talché, dalla lettera della norma (che recita «sono devolute preliminarmente») sembrava potersi dedurre l’obbligatorietà del previo tentativo di conciliazione49, in una prospettiva di economia processuale e di deflazione dei carichi giudiziali50.

La formulazione della norma in commento, inoltre, nel riferirsi alle «controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo», presentava una latitudine atta a ricomprendere potenzialmente qualunque profilo conflittuale della materia51.

Con la riforma, il previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione è, tra le altre materie, imposto nelle controversie aventi ad oggetto il patto di famiglia, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 28/2010. Per orientarci nella valutazione e nell’interpretazione della disposizione occorrerebbe interrogarsi sulla circostanza se la scelta legislativa dell’iter conciliativo fosse legata alla necessità, comune a tutte le ipotesi di conciliazione, di deflazione dei carichi di giustizia oppure se, in particolare nelle cause successorie e nel patto di famiglia, la natura familiare dei rapporti interpersonali che lega i protagonisti delle liti e la delicatezza delle questioni da esse involte abbiano indotto il legislatore a preferire un previo esperimento tentato di conciliazione, come tale rimesso alla gestione di conciliatori preparati a promuovere soluzioni in un clima sereno e costruttivo.

Noi crediamo che la prima lettura della ratio della previsione non consenta di superare le barriere che la tendenziale indisponibilità di molti dei diritti che ruotano intorno al patto potrebbe frapporre alla formazione di una libera e concorde volontà delle parti che aderiscano a proposte conciliative52. Contrariamente, la seconda opzione interpretativa, al fine di salvaguardare il superiore interesse della quiete familiare e favorire, al contempo, il prosieguo dell’attività di impresa, anche sotto forma di partecipazione societaria, consentirebbe di arretrare la soglia di tutela delle aspettative ereditarie che ciascuno dei soggetti obbligatoriamente partecipanti al patto potrebbe vantare e permetterebbe una maggiore esplicazione di autonomia negoziale sotto la supervisione dei conciliatori.

Ci si chiedeva, poi, per quale ragione l’art. 768 octies avesse rinviato al solo art. 38 d. lgs. 5/2003, tacendo nei confronti dell’intera normativa prevista in tema di conciliazione dal decreto cit. Probabilmente il rinvio era stato frutto di imprecisione, dovendosi ritenere che esso fosse stato effettuato anche ai successivi artt. 39 e 4053. L’opposta soluzione infatti avrebbe determinato alcune discrasie interpretative irrazionali rispetto al quadro normativo apprestato dal d. lgs. citato54.

Ante riforma era anche assente la previsione circa le modalità di individuazione dell’organismo deputato all’attività di conciliazione nella lite concreta. Al riguardo, non pare ci si potesse affidare alla disciplina tout court apprestata dal d. lgs. 5/2003, visto che essa era pensata per un tentativo facoltativo di conciliazione e non, come nel nostro caso, obbligatorio. Per contro, sarebbe soccorsa l’applicazione analogica dell’art. 410, c.p.c., disciplinante un caso di tentativo obbligatorio di conciliazione, in forza del quale la commissione conciliativa competente per il predetto tentativo deve essere individuata «secondo i criteri di cui all’art. 413 c.p.c. (giudice competente)»55.

Con la riforma e, in particolare, con l’art. 16 del. d.lgs. 28/2010, nonché col D.M. n. 180 del 18 ottobre 2010, sono stati individuati gli organismi deputati ad assolvere la funzione conciliativa e, per quanto concerne l’aspetto della competenza, la domanda deve porsi davanti all’organismo di conciliazione scelto da chi per primo promuove, appunto, la relativa istanza (art. 2, dls. 28/2010). Scelta, questa, totalmente criticabile, perché scardina da criteri oggettivi la questione “competenza” rimettendola alla volontà del primo soggetto istante. Logica del diritto e ragioni di equità sostanziale imporrebbero una rimeditazione immediata ad opera del legislatore.

Ulteriore quesito era quello relativo ai rapporti tra procedimento conciliativo, rito camerale e rito monitorio. Analogamente a quanto disposto dall’art. 412 bis, ultimo comma, c.p.c., in materia di lavoro, sia la via cautelare che quella monitoria restavano percorribili anche nel caso in cui non fosse stato ancora esperito il tentativo di conciliazione56, ciò che trova conferma anche nelle disposizioni di cui al decreto delegato più volte citato.

Per quanto concerne l’istanza introduttiva al tentativo di conciliazione, essa spiega effetti sostanziali, determinando sulla prescrizione gli stessi effetti della domanda giudiziale (interruzione con correlato effetto sospensivo fino alla definizione della questione) ed impedendo la decadenza. Nella istanza di conciliazione devono essere riportati i termini essenziali della questione. Perché sia validamente proposta, poi, occorre indirizzarla alle altre parti mediante mezzi che siano idonei a dimostrare la avvenuta ricezione della stessa (peraltro, gli effetti sostanziali si verificheranno dal momento della comunicazione e non da quello della ricezione, in coerenza con il principio di dissociazione, che regge la notifica57). Infine, bisogna depositarla presso gli organismi di conciliazione competenti58.

Il mancato esperimento del tentativo obbligatorio, come anticipato retro, determina un’ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, nell’evenienza in cui venga proposta la domanda giudiziale senza previo esperimento del tentativo in parola, il giudice dovrà sospendere il processo e fissare un termine perentorio per la sua promozione. Nel caso, poi, in cui le parti omettano di depositare l’istanza di conciliazione nel termine fissato dal giudice, il processo può essere riassunto dalla parte interessata59.

1 Al proposito, è opportuno segnalare l’esperienza messa in pratica nel recente passato dal Tribunale di Teramo di concerto con lo Sportello di conciliazione della locale Camera di Commercio, mediante la sottoscrizione di un vero e proprio Protocollo d’Intesa, in base al quale alcune centinaia di controversie sono state “stralciate” dai ruoli dei giudici ordinari per essere sottoposte ad un tentativo di conciliazione stragiudiziale professionale.

2 Al proposito, si pensi che in Belgio di recente è stato introdotto, tra i requisiti per il superamento dell’esame da avvocato, l’obbligo formativo di almeno quattro ore in materia di ADR.

3 P. Biavati, Conciliazione strutturata e politiche della giustizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 786, ammettendo la difficoltà di offrire una definizione soddisfacente di conciliazione, comunque scrive che «in modo approssimativo, la si può definire come ogni forma di risoluzione, consensuale e non decisoria, dei conflitti. La conciliazione è consensuale perché suppone l’accordo fra le parti, anche quando si estende a lambire diritti non disponibili (come nel caso della mediazione familiare). È non decisoria, perché la sua caratteristica è comunque quella di non attribuire ragione o torto alle parti (il che la differenzia in modo netto dall’arbitrato) sia che avvenga all’interno di un giudizio, sia che si attui prima e comunque al di fuori di esso».

4 Si tratta del «Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5».

5 Secondo alcune opinioni, utile ai nostri fini appare la definizione contenuta nella legge modello UNCITRAL del 28 giugno 2002 sulla conciliazione nel commercio internazionale che definisce quest’ultima come la procedura mediante la quale le parti chiedono ad un terzo di assisterle nel loro tentativo di raggiungere un accordo amichevole su una controversia» (il testo inglese recita «conciliation means a process…whereby parties request a third person or persons – «the conciliator» – to assist them in their attempt to reach an amicable settlement of their dispute arising out or relating to a contractual or other legal relationship).

6 In particolare, ad esempio, gli artt. 185, 322 e 410 ,c.p.c., nonché, per quanto interessa la presente sede, l’art. 768-octies, c.c., si limitano a prevedere tentativi di conciliazione e a disciplinare la sede e i tempi per effettuare il tentativo, nonché a regolare quali effetti conseguano al verbale di conciliazione.

7 In tal senso, F. Cuomo Ulloa, La conciliazione: modelli di composizione dei conflitti, Padova, Cedam 2008, p. 5. L’Autrice faceva scaturire da tale definizione un triplice ordine di considerazioni: «La prima riguarda il riferimento all’assistenza che il conciliatore offre alle parti: attraverso tale riferimento (…) si vuole, infatti, sottolineare l’aspetto positivo e attivo dell’intervento del terzo che, benché privo di poteri decisori, compie però una serie di attività qualificabili come “conciliative”. L’ulteriore riferimento alla comunicazione, assente nelle definizioni fin qui citate ma essenziale nella nostra, vale poi a qualificare questa attività di assistenza la quale – a differenza delle attività di giudizio – insiste sulla dimensione relazionale, anziché su quella regolativa, contribuendo a promuovere la definizione di soluzioni autonome e condivise dalle parti. La seconda considerazione riguarda invece il riferimento alla qualificazione del conciliatore, essendo essenziale, ai fini della corretta identificazione dell’istituto, porre l’accento sulla qualità e sulla competenza che il terzo deve possedere, per promuovere il raggiungimento di un accordo conciliativo tra le parti. La terza considerazione riguarda infine il riferimento al conflitto. Si è scelto di utilizzare questo termine – anziché il termine “controversia” – per sottolineare la maggiore complessità dell’oggetto della conciliazione ed in particolare il fatto che tale oggetto entra nella conciliazione in tutta la sua densità di fenomeno giuridico, ma anche sociale, psicologico, umano ed emotivo».

8 Cfr., infra, par. VIII.

9 Invero già la scarsa rilevanza pratica e la ancor più scarsa valorizzazione dell’istituto da parte del giudice conciliatore avevano segnato un’inesorabile involuzione dello stesso.

10 Cfr. anche artt. 68 e 69 disp. att. c.p.c.

11 Nel caso di esito negativo, il processo prosegue regolarmente. Diversamente, verrà redatto processo verbale ai sensi dell’art. 185, comma 2.

12 Interesse speculativo induce il quesito relativo alla natura giuridica della conciliazione. In breve, si consideri che a) secondo una prima opinione, la funzione conciliativa è esclusivamente extragiudiziale, amministrativa, posto che essa non produce «alcun effetto di sovrana attuazione dell’ordinamento» e consiste «nella mera cooperazione, con impulso e mediazione» col fine di “comporre”, e nel documentare la sua esistenza con un atto che abbia la stessa forza probatoria dell’atto pubblico. Ne deriva che il contenuto, gli elementi negoziali conformano il regime di validità e gli effetti sostanziali dell’istituto; b) secondo altra opinione la funzione conciliativa assolve una funzione propriamente giurisdizionale; c) da ultimo, la funzione conciliativa è stata ricondotta all’alveo della volontaria giurisdizione.

13 Per queste esigenze, l’art. 38, comma 3, d. lgs. 5/2003, per le procedure conciliative in materia societaria, prevede che il regolamento della procedura de qua venga depositato presso il Ministero, unitamente alla domanda di iscrizione e che vengano comunicate le eventuali variazioni.

14 Così è accaduto con la riforma del rito societario di cui al d. lgs. 5/2003. La logica sottesa alla previsione di siffatti Organismi è quella di promuovere l’adesione alle prospettazioni conciliative al fine del conseguimento di benefici di varia natura.

15 Il decreto cit. utilizza il concetto di mediazione, in quanto più vicino a quello di “mediation” che prevale nella terminologia giuridica della maggior parte dei Paesi europei e della stessa Unione europea: sicché, “mediazione” indica il procedimento, mentre “conciliazione” è l’accordo che compone la controversia. A. P. Pisani, Appunti su mediazione e conciliazione, in F. it., 2010, V, c. 143, classifica la mediazione/conciliazione introdotta dal d.lgs. in parola, suddividendola in quattro punti: «a) la mediazione-conciliazione meramente “facoltativa” che le parti possono chiedere all’organo di mediazione-conciliazione ove la controversia verta su diritti disponibili (art. 2); b) la mediazione-conciliazione “delegata” dal giudice in qualsiasi momento su consenso delle parti; c) la mediazione-conciliazione “concordata” come obbligatoria dalle parti nel contratto, statuto o atto costitutivo (art. 5, 5° comma); d) la conciliazione-mediazione “obbligatoria” ex lege (art. 5, 1° comma) relativa a tutte le controversie» nelle materie ivi elencate.

16 Un’eccezione a questa regola era costituita dall’art. 46, l. 203/1982, in materia di controversie agrarie, in forza del quale, secondo la dottrina e giurisprudenza maggioritarie, il tentativo di conciliazione assurgeva a condizione di procedibilità/ammissibilità della domanda, il cui mancato esperimento, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, determinava una pronuncia di rigetto nel merito da parte del giudice.

17 Peraltro, in varie occasioni la Consulta ha avuto modo di affermare la compatibilità costituzionale, ex art. 24 della Carta Fondamentale, degli istituti che subordinino l’adire dell’autorità giudiziaria a determinati oneri, quali, appunto, quelli di previo tentativo di conciliazione, sempre che non rendano impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto d’azione (cfr., fra le altre, C. Cost., 21 gennaio 1988, n. 73, in Foro it., 1988, I, c. 3666, e C. Cost. 4 marzo 1992, n. 82, in Foro it., 1992, I, c. 1217). Tale ultima evenienza potrebbe ricorrere nelle ipotesi in cui la legge disponesse che il mancato esperimento del tentativo di conciliazione induca a declaratorie di inammissibilità/improponibilità della domanda, con chiusura del processo in rito, ed al contempo non si riconnetta al predetto tentativo alcuno degli effetti della domanda giudiziale (es. interruzione dei termini di prescrizione, etc).

18 «Condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari».

L. Ristori, Art. 5, in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali. Commentario al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, , a cura di A. Bandini e N. Soldati, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p. 97, offre un’efficace classificazione: «Le controversie sottoposte all’obbligo del tentativo di conciliazione sono astrattamente divisibili in tre gruppi diversi: al primo gruppo appartengono le liti per le quali la modalità ‘satisfattiva’, disegnata cioè sulla necessità di trovare una soluzione al problema, si presenta come la più adeguata e in grado di raggiungere, non solo un obiettivo deflattivo, ma anche di progressivo disfacimento del conflitto (se l’obiettivo è anche quello dell’elaborazione del conflitto una modalità trasformativa dovrà precedere l’approccio satisfattivo)». Secondo l’Autrice, farebbero parte di questo gruppo le controversie condominiali, alcuni tipi di controversie sui diritti reali, quelle in materia di successione, divisione e di patto di famiglia e la maggior parte delle dispute in materia di contratti di locazione e comodato: tali materie, infatti, caratterizzate dalla presenza di rapporti duraturi, si distinguono per complessità di posizioni, bisogni e interessi sottostanti, dalla difficoltà di comunicazione e dai problemi nel conciliarli.

«Del secondo gruppo fanno invece parte le dispute per le quali il metodo ‘trasformativo’ si presenta come il più adatto: si tratta di un metodo di approccio alla lite che, nel ripercorrere la storia della disputa con il fine di cambiare la qualità della relazione, tenta di scioglierne i nodi psicologici che ‘obbligano’ le parti a un’interazione esclusivamente conflittuale. Questa forma di mediazione è la più adeguata a quelle controversie in cui la parte emotiva e la necessità di comprensione e accoglimento sono il cuore del problema, ciò che impedisce alle parti perfino una comunicazione minima, tanto che, una volta rimossi questi blocchi emotivi, il problema si dissolve e la ricerca di una soluzione, se un’esigenza di soluzione permane, diventa un procedimento molto più fluido». In questo ambito, secondo l’Autrice, rientrerebbero le materie medica e diffamazione, che si caratterizzerebbero per la natura e la posizione dei soggetti coinvolti, nonché per l’alto grado di coinvolgimento emotivo, di sofferenza psico/fisica. Pertanto, la mediazione ‘trasformativa’ come primo approccio è la più idonea, in quanto vota a far rielaborare ai protagonisti della vicenda il contenuto di sofferenza, frustrazione e senso di colpa, “che è il terreno di coltura nel quale cresce la conflittualità e il risentimento”, per giungere alla limatura di questo carico emotivo con il risultato di cercare con occhio maggiormente lucido, in un secondo momento, il giusto assetto (questo, sì, ‘distributivo’) degli interessi.

«Il terzo gruppo di controversie comprende quelle per le quali la mediazione finirà per avere tutti i caratteri di una negoziazione distributiva, diretta ad accertare il valore della pretesa e decidere le modalità della sua spartizione: nella sostanza una riproduzione in forma privata del processo». In questo gruppo, in cui si avrà una sorta di “replica privata del giudizio”, vanno ricomprese le materie del risarcimento danni causati da circolazione di veicoli e natanti.

19 Termine che, peraltro, ai sensi dell’art. 7 del decreto, non si computa ai fini di cui all’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, sulla ragionevole durata dei processi.

20 Peraltro, tale disciplina non si applica alle azioni previste dagli artt. 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 e successive modifiche.

21 Il comma 4 dell’art. 5 in commento esclude dall’applicazione di tale disciplina una serie di ipotesi: a) i procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; b) i procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’art. 667 c.p.c.; c) i procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703, comma 3, c.p.c.; d) i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; e) i procedimenti in camera di consiglio; f) l’azione civile esercitata nel processo penale.

22 Si andava dalle camere di conciliazione istituite presso le Camere di Commercio (art. 2, comma 4, l. 580/1993), alle commissioni (art. 410, comma 4, c.p.c.) e collegi di conciliazione (art. 66, comma 1, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165) istituiti presso le DPL, dalle commissioni di conciliazione presso l’Ispettorato provinciale per l’agricoltura (art. 46, l. 203/1982) ai comitati regionali per le comunicazioni (Regolamento Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 182/02/CONS) ed agli organismi, istituiti da enti pubblici e privati per la conciliazione delle controversie societarie, di cui all’art. 1, d. lgs. 5/2003.

23 Probabilmente, la ragione di ciò era da ricercarsi non solo e non tanto nell’episodicità che caratterizzava gli interventi legislativi in materia, quanto piuttosto dalla diffusa convinzione della superfluità di specifici requisiti soggettivi in capo al conciliatore, che nello svolgimento della sua funzione non decideva alcuna lite insorta tra le parti ma si limitava solo a favorirne la composizione autonoma. In altri termini, nell’ottica legislativa, solo per il giudice e l’arbitro, che esercitano attività di giudizio, era necessaria la previsione ex lege di requisiti soggettivi a presidio del corretto esercizio di tale attività, non invece per il conciliatore, la cui attività si concretava nel mero (tentativo di) avvicinamento delle divergenti posizioni delle parti, in vista della composizione convenzionale della controversia.

24 Racc. 98/257/CE e 2001/310/CE.

25 Il medesimo documento specifica che: a) imparzialità vuol dire “un’attitudine soggettiva del conciliatore, il quale non deve favorire una parte a discapito dell’altra; b) indipendenza indica “assenza di qualsiasi legame oggettivo (…) tra conciliatore ed una delle parti”; c) neutralità consiste nel- “la posizione del conciliatore, il quale non deve avere un diretto interesse all’esito del procedimento di conciliazione”; d) qualificazione implica il possesso di un’adeguata formazione e preparazione in tecniche di composizione delle liti.

26 Oltre a questi requisiti, poi (presunti per gli organismi costituiti dalle Camere di Commercio), per gli altri organismi che anelassero a svolgere l’attività in parola venivano richiesti ulteriori requisiti di professionalità ed efficienza, che si ricavavano da un giudizio svolto in concreto sull’imparzialità, indipendenza e riservatezza degli organi (art. 4, comma 3, D.M. 222/2004), dalla loro forma giuridica, dalla autonomia e compatibilità con l’oggetto sociale o lo scopo associativo, da consistenza ed adeguatezza organizzativa di persone e mezzi, dai requisiti di onorabilità dei soci, associati, amministratori e rappresentanti, dalla trasparenza amministrativa e contabile, dalla sufficienza del numero minimo di conciliatori e dall’esistenza di una sede.

27 Quanto alla professionalità, il requisito era soddisfatto dall’appartenenza del soggetto/conciliatore ad una delle seguenti categorie: professori universitari in discipline economiche o giuridiche; professionisti iscritti da almeno 15 anni negli albi professionali relativi alle medesime materie; magistrati in quiescenza; soggetti dotati di specifica formazione ottenuta previa partecipazione a corsi formativi organizzati da università ed enti, pubblici o privati, accreditati presso il Ministero, di durata non inferiore a 32 ore. La professionalità veniva presunta nelle prime tre ipotesi, andava dimostrata nell’ultima.

Quanto all’onorabilità, analogamente a quanto disposto dall’art. 151, comma 7, d.p.r. 554/1999, sugli arbitri accreditati presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici, il conciliatore non doveva «avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione; (…) avere riportato condanne a pena detentiva, applicata su richiesta delle parti, non inferiore a sei mesi; (…) essere incorso nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; (…) essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; (…) avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento».

28 Quanto all’imparzialità, a tale requisito si riferivano sia l’art. 40, comma 1, d. lgs. 5/2003, sia l’art. 15, D.M. 222/2004. Talché, il conciliatore aveva l’obbligo di sottoscrivere all’atto di accettazione dell’incarico un’espressa dichiarazione in tal senso e di comunicare (sia all’organismo che alle parti) qualunque successivo ed eventuale accadimento che ne potesse minare in qualche modo l’imparzialità. Gli altri requisiti (indipendenza e neutralità), non espressamente menzionati, si ricavavano in via ermeneutica dalla norma regolamentare citata: quello dell’indipendenza, allorché veniva posto il divieto per il conciliatore «di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, (…) e di percepire compensi direttamente dalle parti» (art. 15, comma 2); quello della neutralità, quando il conciliatore veniva obbligato dalla norma a dichiarare le «vicende soggettive [anche sopravvenute] che [potessero] avere rilevanza agli effetti delle prestazioni conciliative e dei requisiti individuali richiesti ai fini dell’imparzialità dell’opera» (art. 15, comma 3, lett. b) (c.d. obbligo di disclosure).

29 La definizione dei requisiti di onorabilità ricalca quella di cui all’art. 151, comma 7, d.p.r. 554/1999, segnala retro sub) n. 24. Tuttavia, curiosamente, non è contemplata tra le cause di “disonorabilità” quella di avere riportato condanne a pena detentiva, applicata su richiesta delle parti, non inferiore a sei mesi: come a dire, se hai “conciliato” sulla pena, sei degno di “conciliare” reciproche pretese altrui (sic!).

30 I quali devono essere in possesso almeno di un diploma di laurea triennale o essere iscritti ad un ordine o collegio professionale.

31 La dottrina nordamericana differenzia tra conciliazione facilitativa e valutativa, in base alla minore o maggiore capacità di incidere da parte del conciliatore sull’assetto degli interessi delle parti.

32 Peraltro, il nostro ordinamento conosceva già delle eccezioni a questa linea di tendenza. Così, l’art. 66, comma 6, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dispone che, nel caso in cui le parti non raggiungano l’accordo, «il collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia». Nel caso, poi, in cui questa non venga accettata «i termini di essa sono riassunti nel verbale [di mancata conciliazione] con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti». Analogamente, la l. 22 aprile 1941, n. 633, come modificata dal d. lgs. 9 aprile 2003, n. 68, in materia di diritto d’autore e di diritti connessi al suo esercizio, all’art. 194-bis, comma 5, stabilisce che l’organo di conciliazione «se non si raggiunge l’accordo di conciliazione tra le parti formula una proposta per la definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti». Da ultimo, l’art. 40, comma 2, d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, in tema di conciliazione stragiudiziale societaria, prevede che «se entrambe le parti lo richiedono, il procedimento di conciliazione, ove non sia raggiunto l’accordo, si conclude con una proposta del conciliatore rispetto alla quale ciascuna delle parti, se la conciliazione non ha luogo, indica la propria definitiva posizione ovvero le condizioni alle quali è disposta a conciliare», dandosi di esse atto nel verbale di fallita conciliazione. Naturalmente, in tutte le ipotesi qui viste, la proposta non è affatto vincolante, dovendo in ogni caso essere investita dalla comune e convergente accettazione delle parti.

33 Fra le altre, cfr. Cass., sez. I, 8 agosto 1990, n. 8010, in Rep. Foro it., 1990, v. Arbitrato, [0480], n. 91, secondo la quale un particolare tipo di lodo, quello per biancosegno, configurando un arbitrato irrituale, assume tra le parti, anche dal punto di vista formale, il valore di una loro diretta manifestazione di volontà, conseguendone che «detto lodo è impugnabile solo per i vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico o dell’arbitro stesso) e, in particolare, che l’errore rilevante è solo quello che attiene alla formazione della volontà degli arbitri (….)». Lo stesso discorso può ripetersi per il verbale di conciliazione qualora se ne condivida la natura negoziale, con la naturale precisazione che non rileverà l’errore del conciliatore, posto che solo le parti esprimono volontà negoziale, non anche il conciliatore, il quale si limita a promuovere tra quelle il raggiungimento dell’accordo; tutto ciò vero, salvo che le parti incarichino espressamente il conciliatore, con apposito mandato, che assurge ad autonomo negozio giuridico, di disporre della loro situazione giuridica, nel qual caso conserva efficacia il ragionamento seguito dalla Cassazione in punto di rilevanza dell’errore.

34 E così è per le controversie: di lavoro privato (art. 411, comma 2, c.p.c.); di lavoro con la P.A. (art. 66, comma 5, d. lgs. 165/2001); in materia di diritti dei consumatori (art. 3, comma 4, l. 281/1998); in materia di diritto d’autore (art. 194-bis, comma 4, l. 633/1941); in materia societaria (art. 40, comma 8, d. lgs. 5/2003); in materia di telecomunicazioni (art. 9, comma 2, Delib. 148/01/CONS e 11, comma 2, Delib. 182/02/CONS).

Peraltro, la C. Cost., 17 luglio 2002, n. 336, in Giust. civ., 2002, I, p. 2380, ha esteso l’efficacia di titolo esecutivo dei verbali di conciliazione anche all’esecuzione in forma specifica e all’iscrizione di ipoteca giudiziale.

35 Sull’argomento, cfr. A. Proto Pisani, Per un nuovo titolo di formazione stragiudiziale, in Foro it., 2003, V, cc. 117 e ss.

36 Ad esempio, l’art. 40, comma 5, d. lgs. 5/2003, disponeva che la «mancata comparizione di una delle parti o le posizioni assunte dinanzi al conciliatore sono valutate dal giudice nell’eventuale successivo giudizio ai fini della decisione sulle spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96, c.p.c.».

37 Probabilmente, anche in questo caso sorgerà la querelle sull’opportunità che tale pubblico ufficiale sia o meno soltanto il notaio.

38 Occorre sottolineare che la Cass., sez. lav., 2 dicembre1996, n. 10751, in Riv. It. di Dir. Lav., 1997, II, p. 864, nel fornire un’interpretazione sull’essenzialità del termine e relativa disciplina in materia di conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore, da per presupposta incidenter tantum la qualifica di “transazione” di tale accordo: «[…] l’essenzialità del termine era stata espressamente convenuta dalle parti nella “transazione”stipulata», riferendosi il Giudice all’accordo conciliativo raggiunto dinanzi alle associazioni sindacali.

39 Per cui, tra le numerose letture, si rimanda alla lettura di F. Carresi, La transazione, Torino, Unione Tipografico – Editrice Torinese, 1966.

40 La metafora è di R. Caponi, La giustizia civile alla prova della mediazione (a proposito del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28). in f. it. 2010, V. c. 92.

41 N. Soldati, art. 15, in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali. Commentario al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, cit., p. 260.

42 La formula retorica è di N. Soldati, op. cit. p. 263.

43 In tal senso, cfr. F. Lapertosa, La soluzione delle controversie nei contratti di subfornitura, in Giust. Civ., 1999, 6, pp. 291 e ss.

44 In realtà, la legge delega 18 giugno 2009, n. 69, all’art. 60, comma 2, auspicava un riordino della materia attuato attraverso il decreto delegato. Prima della sua entrata in vigore, infatti, si era alla spasmodica ricerca di una disciplina di riferimento che colmasse le lacune normative dei singoli interventi in materia: e così, da un lato, gli artt. 38, 39 e 40 del d.lgs. 5/2003 erano in qualche maniera forgiati sulla scorta della disciplina giuslavoristica di cui agli artt. 410, c.p.c., e ss; dall’altro lato, sia la l. 6 maggio 2004, n. 129 (recante la disciplina dei contratti di franchising), sia l’art. 786-octies, c.c., in materia di patto di famiglia, estendevano la disciplina approntata dagli art. 38, 39 e 40 del d.lgs. 5/2003 agli ambiti di loro interesse. Tuttavia, l’invito del legislatore delegante è rimasto inascoltato, non avendo proceduto il Governo ad un riordino della materia mediante il decreto delegato, così che andranno risolti, nel tempo, i vari difetti di coordinamento. Siamo stati abituati agli eccessi di delega, ma, a quanto pare, si pone anche il problema del “difetto” di delega.

45 Degli altri quattro componenti, due sono nominati dal Presidente dell’ABI, uno viene designato dal Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti o, in alternativa, da tre associazioni di categoria scelte dal medesimo consiglio; l’ultimo viene designato da almeno due associazioni rappresentative delle altre categorie di clienti.

46 Sono previste delle cause impeditive di accesso alla nomina per i componenti dell’organismo in disamina: in particolare, per coloro che, nel triennio precedente, abbiano ricoperto cariche o svolto attività di lavoro subordinato e autonomo avente carattere di collaborazione coordinata e continuativa presso gli enti aderenti e le loro associazioni o presso le associazioni dei consumatori o di altre categorie di clienti.

47 In materia, inter alios, cfr. M. Bernardini, Il patto di famiglia per l’impresa tra “adozione” e successione, parte I, in Quest.dir.fam. n.1/2008, p. 8 e parte II, ivi n. 2/2008, p. 5.

48 La disposizione è stata introdotta dalla l. n. 55/2006, recante «Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia».

49 Analogamente alle ipotesi disciplinate dalle leggi sulla subfornitura, sul diritto d’autore o in materia di contratti agrari.

50 Alcuni autori, dopo avere preso atto dell’inequivocabile lettera della norma, inferivano prima della riforma che l’omissione dell’obbligo del previo tentativo di conciliazione possa dare luogo ad una declaratoria di improcedibilità in caso di sua omissione e possibilità di reiterazione una volta che l’onere preliminare sia stato successivamente soddisfatto. Non sembra infatti potersi estendere oltre ai casi specifici la particolare disciplina dettata dall’art. 412 bis c.p.c. per le cause di lavoro, ove si esclude comunque la pronuncia di una sentenza in rito di improcedibilità, prevedendosi una declaratoria di estinzione con decreto ove le parti non abbiano raccolto il primitivo invito del giudice a promuovere il tentativo di conciliazione.

51 Tali controversie potevano riguardare […] sia il trasferimento dell’azienda che delle partecipazioni societarie, rette da regole processuali diverse, essendo il rito societario applicabile fra l’altro al trasferimento delle partecipazioni sociali e ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti, mentre il rito generale (salva opzione ex art. 70 ter disp. att. c.p.c.) restava applicabile alle controversie relative al trasferimento d’azienda.

52 Ci si riferisce, ad esempio, alla possibilità di disporre di diritti spettanti agli eredi sul futuro asse ereditario, che esorbitino da qualunque riferimento all’azienda o a partecipazioni sociali, salvo che si opti per una lettura estremista dell’art. 768 quater, comma 3, c.c., idonea a far confluire all’interno del suo meccanismo qualunque bene del futuro asse ereditario. La tensione tra la totale disponibilità dei diritti de quibus e i limiti posti in tema di transazione (si ricorda la funzione latamente transattiva che la conciliazione dovrebbe assolvere) dall’art. 1966, c.c., sul principio di inutilità della transazione intervenuta su diritti indisponibili (altrove ribadito – ad es. all’art. 2113, c.c., sulle rinunzie e transazioni in materia di lavoro), dovrebbe offrire una risposta alla tematica di cui sta discorrendo. Tuttavia, la Corte di Cassazione, 31 luglio 1951, n. 2299, in Rep. Foro it., sub Transazione [12], c. 2168, ha avuto modo di precisare che «La conciliazione processuale, consentita dall’art. 1965 cod. civ., ha un carattere transattivo senza che costituisca il negozio vero e proprio di cui all’art. 1965 cod. civ., pur spiegando effetti sostanziali per il suo contenuto in relazione alla volontà della parte ed effetti altresì processuali». Talché, se ne deduce che tutti quegli istituti che posseggono funzione solo “latamente” transattiva, pur trovando un referente interpretativo nel Capo XXV, Titolo III, Libro IV, c.c. (art. 1965 e ss.), tuttavia presentano caratteristiche peculiari, tali da consentirne una disciplina differente dal negozio di transazione; disciplina animata da una ratio sui generis, come appunto potrebbe essere quella della conciliazione nel patto di famiglia per come rappresentata supra e che possa, quindi, giustificare la sottrazione di questo meccanismo ai limiti di principio stabiliti dall’art. 1966, c.c.

53 L’art. 23, d.lgs. 28/2010, abroga espressamente gli artt. 38 e 40 del d.lgs. 5/2003.

54 D’altro canto, in altre ipotesi di conciliazione obbligatoria il legislatore aveva previsto meccanismi di superamento della situazione di stallo che si fosse venuta a creare nel caso in cui il tentativo non fosse stato esperito, attraverso la previsione di termini decorsi i quali era possibile comunque adire l’autorità giudiziaria, ciò che non si sarebbe potuto dare nel caso del patto di famiglia qualora non si fosse applicata l’intera disciplina di cui al d. lgs. 5/2003. A meno che non si volesse ritenere che il legislatore avesse lasciato nella disponibilità delle (l’onere alle) parti anche (del) la regolamentazione di tale evenienza. Altrimenti si sarebbe corso il rischio di arrivare alla paradossale conseguenza che, posta l’obbligatorietà dell’esperimento del tentativo di conciliazione, qualora le parti non avessero convenuto nulla a riguardo, si sarebbe potuta aprire la via ad una sorta di pregiudiziale giurisdizionale della pregiudiziale conciliativa.

55 Pertanto, il tentativo sarebbe stato esperito dall’organismo avente sede nella circoscrizione dell’ufficio giudiziario competente per il giudizio ordinario conseguente.

56 La ragione di questa conclusione è da ricercare nella circostanza che «il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. La logica che impone alle parti di “incontrarsi” in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall’inizio in contraddittorio fra le parti». Ne deriva che sono perciò «estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo. Non avrebbe infatti senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contratto fra le parti che invece non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio» e che «la sedes materiae prescelta per introdurre il nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione» sia soltanto il «processo di cognizione “ordinario” delle controversie di lavoro, che fin dall’inizio assicura il contraddittorio»; in questi termini, C. Cost. 13 luglio 2000, n. 276, in Giust. civ., 2000, I, pp. 2499 e ss.

57 Talché, essa deve intendersi perfezionata – con riferimento all’autore dell’impulso – con la consegna all’ufficiale giudiziario, e – con riferimento al destinatario – con il giungere dell’atto nella sua sfera di conoscibilità. La certezza della data sarà attinta ove l’istanza pervenga all’organo perché provveda a curarne la comunicazione (come i regolamenti dovranno presumibilmente prevedere). Riteniamo tuttavia che una comunicazione “privata” a mezzo posta che anticipi il successivo deposito sia idonea a produrre gli effetti sostanziali previsti dalla norma.

58 Inoltre, sarà necessario tenere in considerazione le ulteriori disposizioni eventualmente contenute nei regolamenti formati dagli organi conciliatori e regolarmente depositati presso il Ministero della Giustizia.

59 A differente soluzione giunge taluna dottrina, secondo cui «ove si voglia prospettare una altra ipotesi interpretativa in linea con i principi dell’ordinamento, si potrebbe ritenere, invece, che la parte diligente sia tenuta a depositare l’istanza in ogni caso e che ove, poi, non abbia successo il tentativo di conciliazione per qualsiasi motivo, entro il termine fissato, essa sola (parte più diligente) possa adire l’autorità giudiziaria [Arg. ex artt. 168 bis e 368 c.p.c.]».