Arricchimenti indiretti e sussidiarietà dell’actio de in rem verso

Alberto Mastromatteo, Arricchimenti indiretti e sussidiarietà dell’actio de in rem verso, in La Responsabilità civile, 1/2010

ARRICCHIMENTI INDIRETTI E SUSSIDIARIETÀ DELL’ACTIO DE IN REM VERSO

Alberto Mastromatteo

Avvocato

In tema di “arricchimento indiretto”, l’azione ex art. 2041, c.c., è esperibile nei confronti del terzo che abbia ottenuto una indiretta locupletazione indebita a danno dell’istante, allorché tale arricchimento sia stato conseguito a titolo gratuito.

Cassazione civile, Sezioni Unite, 8 ottobre 2008, n. 24772

Pres. Carbone – Rel. Travaglino.

Il doppio requisito dell’unicità del fatto costitutivo e della sussidiarietà dell’azione deve essere riaffermato sul piano della regola generale, con la duplice eccezione costituita dall’arricchimento mediato conseguito da una P.A. rispetto ad un ente (anch’esso di natura pubblicistica) direttamente beneficiario/utilizzatore della prestazione dell’impoverito e dell’arricchimento conseguito dal terzo a titolo meramente gratuito.

sommario: 1. Le due questioni all’attenzione della Corte  2. Il concetto di correlazione 3. L’arricchimento indiretto o mediato 4. L’art. 2038 c.c. e gli arricchimenti indiretti conseguiti a titolo gratuito

Il fatto

La s.r.l. Lario Products, nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di Como S.E., espose che, nel maggio del 1989, aveva stipulato con quest’ultimo (oltre che con la costituenda società immobiliare “Anzano del Parco”) un preliminare di vendita di edificio da ristrutturare, contratto poi risoltosi, a seguito dell’inadempimento parziale del promissario acquirente (dopo un iniziale versamento della somma di circa L. 162 milioni), per effetto di espressa clausola risolutiva.

Il giudice di primo grado, nel pronunciarsi sulla domanda promossa dall’attrice (diretta ad ottenere il pagamento di una somma a titolo di penale, di anticipo fatture e di risarcimento danni) dopo che P.G. – nella qualità di soggetto finanziatore dell’acquisto e della ristrutturazione dell’immobile – aveva spiegato intervento in causa, la rigettò, accogliendo invece quella riconvenzionale del S., volta ad ottenere la restituzione delle somme da lui versate in conto prezzo. Il giudice comasco accoglierà altresì una delle domande proposte dal P., quella contro il S. – condannato a corrispondere all’interveniente la somma di circa L. 200 milioni, a titolo di restituzione delle somme anticipate per l’acquisto dell’immobile – rigettando però quella avanzata nei confronti della Lario, rilevando, nella specie, la inconfigurabilità di un rapporto diretto tra le parti (il P. doveva, difatti, qualificarsi mandante del S. ex art. 1703 c.c. e segg., in mancanza di qualsivoglia contemplatio domini spesa dal mandatario nello svolgimento delle attività negoziali con la società terza).

La sentenza fu impugnata da P.G..

La Corte di Appello di Milano, nel rigettarne il gravame (salva riforma della disciplina

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delle spese processuali), osservò, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità:

1) che, pur avendo il S. stipulato il preliminare di compravendita su mandato del P. (che si era conseguentemente obbligato a fornirgli i necessari capitali), il nome del mandante non era mai stato speso con il terzo contraente;

2) che, conseguentemente, dalla stipula del preliminare di vendita potevano derivare effetti in capo al solo mandatario, giusta disposto dell’art. 1705 c.c., comma 1, essendosi in concreto realizzata la fattispecie dell’interposizione reale di persona, impeditiva tout court dell’insorgere di un rapporto negoziale diretto tra la Lario e il P.;

3) che all’inadempimento dell’obbligazione di pagamento di due rate di prezzo da parte del promissario acquirente non poteva che conseguire la risoluzione del contratto; nè il P. aveva provato il pur lamentato accordo fraudolento tra il S. e la Lario (al di là dell’assoluta assenza di motivazioni circa il favor per lui scaturente sul piano delle conseguenze giuridiche in ipotesi di efficace demonstratio di tale, presunta collusione ai suoi danni);

4) che, nella specie, non era legittimamente predicabile l’applicazione del disposto di cui all’art. 1705 c.c., comma 2,, posto che il S., chiedendo la condanna della Lario alla restituzione delle somme corrisposte, non aveva agito per conseguire il soddisfacimento dei crediti sorti in suo favore in dipendenza delle obbligazioni assunte dal terzo con la stipula del contratto, ma aveva esercitato un’azione nascente dal contratto preliminare di vendita, alla quale il P. non era legittimato;

5) che, in punto di diritto, soltanto il mandatario, e non anche il mandante, poteva ritenersi investito dello status di legittimato passivo rispetto all’azione di risoluzione del contratto esperita dal terzo – e, di conseguenza, della speculare legittimazione attiva all’azione di restituzione delle somme versate in caso di accoglimento della domanda di risoluzione;

6) che, infine, il richiamo alla normativa dell’arricchimento senza causa era infondato poichè non applicabile alla vicenda processuale in esame, riguardante, all’evidenza, una fattispecie di arricchimento c.d. “indiretto”.

Il ricorso per cassazione con il quale la sentenza della Corte Territoriale è stata ancora impugnata da P.G. è sorretto da 6 motivi di gravame.

La curatela del fallimento S. (procedura instaurata nelle more del giudizio) ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

La s.r.l. Lario non ha svolto attività difensiva in sede di legittimità.

L’esame del ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite dal Primo Presidente a seguito di ordinanza interlocutoria della 2^ sezione (provvedimento n. 4027/07, depositato il 21.2.2007), all’esito di un ravvisato, duplice contrasto di giurisprudenza: il primo, in ordine alla questione dei limiti del potere di sostituzione del mandante, se cioè questi possa esercitare o meno i diritti di credito derivanti al mandatario dalla esecuzione del mandato, ivi ricomprese le azioni contrattuali (e tra esse, in particolare, l’azione di risoluzione per inadempimento e di risarcimento danni; il secondo, sul tema dei limiti dell’azione di arricchimento, se, cioè, essa possa essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini al cui perseguimento la prestazione risulti diretta siano stati realizzati da un soggetto diverso da quello cui la medesima prestazione era ab origine destinata e che, di essa, non abbia direttamente beneficiato.

Le questioni dianzi indicate risultano rispettivamente oggetto del secondo e del quinto motivo di ricorso.

La motivazione

(omissis)

2) I LIMITI SOGGETTIVI DELL’AZIONE DI ARRICCHIMENTO. Con il quinto motivo di ricorso, la difesa del P. lamenta, testualmente la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè dell’art. 2042 c.c., in relazione alla richiesta con la quale si era domandato che quantomeno la Lario Products venisse dichiarata tenuta a restituire al P. le somme anticipate per la ristrutturazione dell’immobile e per il pagamento degli oneri di urbanizzazione, nonchè in relazione all’art. 360 c.p.c. nn. 3 e 5.

Il motivo (al di là e a prescindere da non lievi profili di inammissibilità sub specie della sua autosufficienza, attesa la mancata indicazione di tempi, contenuti e mezzi di prova attinenti alla specifica domanda proposta) appare comunque infondato nel merito. Va premesso che il lamentato vizio di omessa pronuncia risulta del tutto insussistente, avendo la corte di appello specificamente e analiticamente esaminato l’analogo motivo di doglianza svolto in quel grado di giudizio (ff. 15-16 della sentenza), rigettandolo alla stregua della dominante giurisprudenza di questa corte con motivazione sicuramente incensurabile sotto il profilo della sufficienza.

Come ulteriormente rilevato nell’ordinanza di rimessione della seconda sezione, anche in relazione a tale motivo pare ravvisabile un contrasto di giurisprudenza in ordine ai limiti soggettivi dell’azione di arricchimento esperita dall’odierno ricorrente nei confronti del terzo contraente Lario Products.

Precisa, difatti, l’ordinanza, che questa stessa corte, con la sentenza n. 6201/2004, ha ritenuto che l’azione di arricchimento possa legittimamente essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini al cui perseguimento la prestazione era diretta fossero stati realizzati da un soggetto diverso da quello cui la prestazione medesima era destinata, giacchè il vantaggio goduto dall’arricchito non deve necessariamente risolversi in un diretto e immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.

Di converso, le sentenze 11835/2003 e 11051/2002 avrebbero specularmente condizionato (dando continuità ad un orientamento largamente maggioritario) l’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa al presupposto che l’incremento e la correlativa diminuzione del patrimonio dipendano da un unico fatto costitutivo -, conseguentemente negandola tutte le volte in cui il soggetto arricchito sia diverso da quello con il quale colui che compie la prestazione ha un rapporto diretto (nella parte motiva delle pronunce citate si preciserà ancora che, in tale ipotesi, l’eventuale arricchimento costituisce soltanto un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita, sicchè viene meno il nesso di causalità tra l’impoverimento di un soggetto e l’arricchimento dell’altro, con conseguente venir meno del fondamento dell’invocato indennizzo).

Questo collegio ritiene che il segnalato contrasto vada composto dando sostanziale continuità all’orientamento maggioritario, pur se nei limiti e con le precisazioni che seguiranno.

2.1. – Analisi della giurisprudenza di legittimità: gli orientamenti segnalati come contrastanti.

a) la sentenza n. 6201 del 29/03/2004.

La pronuncia risulta massimata nei termini che seguono: L’azione di arricchimento ex art. 2041 cod. civ., ben può essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini, al cui perseguimento la prestazione era diretta, siano stati realizzati da soggetto diverso da quello cui la medesima era destinata, giacchè il vantaggio goduto dall’arricchito non deve necessariamente risolversi in un diretto ed immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.

Nella parte motiva della sentenza viene, peraltro, specificato che il principio è limitato all’arricchimento “indiretto”, da valutarsi sotto il profilo del risparmio di spesa, conseguito da un ente pubblico (nella specie, un Comune), quando la prestazione (nella specie, progettazione di alcuni alloggi da parte di un privato) venga poi utilizzata in concreto da altro ente pubblico (nella specie, quello deputato ex lege alla materiale costruzione degli immobili).

Si legge, difatti, in sentenza: Quanto, infine all’ulteriore profilo adombrato nel motivo di ricorso, quello, cioè, per cui il destinatario dell’arricchimento andrebbe identificato in un soggetto diverso dalla parte pubblica in giudizio, è sufficiente ricordare il principio di fungibilità dell’ente beneficiario, più volte affermato da questa Corte (ex multis, Cass. SS.UU. n. 1025 del 1996), per ritenere predicabile la legittimità della proposizione di un’azione di indebito arricchimento.

Nella citata sentenza a sezioni unite n. 1025 del 1996 si legge, difatti: come questa Corte ha chiarito anche in precedenti sue decisioni, il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell’utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall’ente cui il progetto era stato destinato (Cass. 12 luglio 1974 n. 2090; Cass. 8 gennaio 1979 n. 64; Cass. 27 gennaio 1982 n. 530;

Cass. 19 luglio 1982 n. 4198; Cass. 9 novembre 1993 n. 11061). E ciò significa (conformemente a quanto ritenuto dalla quasi totalità della dottrina – nonchè dalla Redazione al codice civile – Libro delle Obbligazioni, n. 262 – secondo la quale non è stato e non poteva essere chiarito ex lege il concetto di arricchimento), che il vantaggio goduto dall’arricchito non deve avere necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale, ma soltanto che esso può rinvenirsi in una qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla P.A., e, quindi, anche in una mera sua mancata diminuzione patrimoniale (intesa come risparmio di spesa).

b) la sentenza n. 11835 del 5/08/2003.

Di segno (apparentemente) opposto il dictum della sentenza 11835/2003, la quale, in conformità con un orientamento largamente maggioritario, riafferma un principio di diritto secondo il quale:

L’azione generale di arricchimento non può essere proposta quando il soggetto che si è arricchito sia diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, in quanto l’eventuale arricchimento costituisce, in tal caso, un effetto soltanto indiretto o riflesso della prestazione eseguita, essendo altresì carente anche il requisito della sussidiarietà (art. 2042, cod. civ.), la cui sussistenza è esclusa qualora il danneggiato possa esperire un’azione tipica nei confronti dell’arricchito o di altri soggetti che siano obbligati nei suoi confronti ex lege o in virtù di contratto. (Nella specie, la S.C. confermerà la sentenza di merito che aveva escluso l’esperibilità dell’azione di arricchimento nei confronti del proprietario di un suolo da parte di un soggetto che vi aveva realizzato delle opere su incarico conferitogli da un terzo).

Si legge nella parte motiva della sentenza:

Secondo l’insegnamento ripetutamente affermato da questa Corte in tema di azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c., affinchè si verifichi l’ipotesi dell’ingiustificato arricchimento senza causa è necessario il concorso simultaneo di due elementi: l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto, provocate da un unico fatto costitutivo; la mancanza di una causa giustificatrice nell’arricchimento dell’uno e nella perdita patrimoniale subita dall’altro. Ne consegue che l’azione non può essere esercitata quando il soggetto arricchito è diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, dal momento che, in questo caso, l’eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita (in termini, Cass. 26 luglio 2002, n. 11051).

Peraltro, l’azione di indebito arricchimento, per il suo carattere di sussidiarietà ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., non è esercitatile quando il danneggiato possa esperire un’altra azione tipica nei confronti dell’arricchito o di altri soggetti che siano obbligati per legge o per contratto nei confronti dell’impoverito, sempre che ricorra l’unicità del fatto costitutivo dell’arricchimento e dell’impoverimento (così, tra le altre, Cass. 9 maggio 2002, n. 6647; Cass. 21 giugno 1998, n. 6355).

c) la sentenza n. 11656 del 3/08/2002.

Prima di affrontare funditus la questione sollevata dall’ordinanza di rimessione, questo collegio ritiene opportuno rilevare ancora come la sentenza 11656/2002 abbia, a sua volta, espresso, in argomento, un orientamento che può ben definirsi in termini di tertium genus rispetto alle soluzioni astrattamente predicabili con riferimento ai limiti soggettivi dell’azione di arricchimento, discostandosi – sia pur in parte qua dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario in tema di arricchimento c.d. “indiretto” o “mediato”, specie con riferimento ai problemi centrale del nesso causale che deve intercorrere fra la locupletazione e la correlativa diminuzione patrimoniale e del c.d. “principio di sussidiarietà”.

La sentenza è così massimata:

In tema di “arricchimento indiretto”, l’azione ex art. 2041 c.c., è esperibile contro il terzo che abbia conseguito l’indebita locupletazione in danno dell’istante quando l’arricchimento stesso sia stato conseguito dal terzo in via meramente di fatto e perciò gratuita nei rapporti con il soggetto obbligato per legge o per contratto nei confronti del “depauperato”, e resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo. La predetta azione è invece inammissibile ove la prestazione sia stata conseguita dal terzo in virtù di un atto a titolo oneroso. (La vicenda definita con la pronuncia in esame può essere così sintetizzata: una società aveva eseguito opere e forniture presso i cantieri della RAI in alcune città italiane su ordine di un’altra società; a seguito del mancato pagamento del prezzo concordato per l’esecuzione delle opere da parte di quest’ultima, la società appaltatrice convenne in giudizio la RAI s.p.a., effettiva beneficiarla della prestazione, chiedendone la condanna al pagamento di quanto dovutole dalla committente – a sua volta legata contrattualmente con la effettiva beneficiarla delle opere eseguite -. In entrambi i giudizi di merito la domanda attorea venne rigettata, sull’assunto che “laddove il soggetto che si arricchisce è un terzo, diverso da quello nei cui confronti la parte che adempie la prestazione ha un rapporto contrattuale diretto – di modo che l’arricchimento del primo costituisca un mero effetto riflesso della prestazione dell’adempiente verso il contraente diretto – non sussistono i presupposti di fatto per l’esercizio dell’azione di cui all’art. 2041 c.c., verso il beneficiario dell’adempimento, potendo il soggetto impoverito esperire le azioni a tutela dei suoi diritti solamente nei confronti del soggetto destinatario della prestazione contrattuale”. Questa Corte, investita del ricorso proposto dalla società soccombente, ha sì confermato la decisione dei giudici di merito, rilevando come nel caso di specie mancasse la prova dell’inadempimento della RAI s.p.a. – terza nel rapporto committente/appaltatrice e parte contraente nel rapporto diretto con la società committente -, ma ha anche affermato che l’azione proposta risultava inammissibile sol perchè il terzo beneficiario aveva ottenuto la prestazione in virtù di atto a titolo oneroso).

E’ convincimento di queste sezioni unite che il contrasto di giurisprudenza segnalato dall’ordinanza di rimessione con riferimento alla peculiare fattispecie dell’arricchimento della P.A. (che potrebbe piuttosto considerarsi come destinato a porsi in un rapporto di eccezione/regola rispetto al principio generale più volte ribadito dall’orientamento maggioritario, fondato sull’unicità del fatto costitutivo e sull’identità arricchito/beneficiario, attesa la peculiarità della fattispecie dell’arricchimento della P.A. con riferimento alla sua fungibilità soggettiva) vada esaminato e risolto anche con riferimento a quest’ultima sentenza, pur se essa esula dai limiti strettamente connessi con il motivo del presente ricorso, in quanto anch’essa si iscrive nell’orbita del contrasto in ordine alla legittima esercitabilità, o meno, di una azione di arricchimento “mediato”.

2.2. – Analisi storica della giurisprudenza e della dottrina in tema di arricchimento indiretto.

Come recentemente osservato da un’attenta dottrina, pur rappresentando l’azione di arricchimento una novità del nuovo codice civile, sotto la vigenza dell’abrogato codice si ammetteva pacificamente il ricorso a questo rimedio anche nei casi di arricchimento “indiretto”, caratterizzati, appunto, dall’esecuzione di una prestazione che, eseguita per conto di un soggetto, arricchiva poi un terzo, mentre l’esecutore non riceveva il compenso promesso da chi l’aveva richiesta.

In conformità con tale, ormai consolidata tradizione da “diritto vivente”, la giurisprudenza formatasi in seguito all’entrata in vigore del codice del 1942 (in particolare quella risalente agli anni ’40 e ’50) avrebbe dato continuità a tale orientamento, riaffermando la legittimità delle istanze dei depauperati fondate su arricchimenti indiretti (in particolare nelle ipotesi di insolvenza dell’intermediario, chiamando così il destinatario finale della prestazione a rispondere dell’arricchimento ricevuto a prescindere dai suoi rapporti con l’intermediario stesso: emblematico in tal senso è il decisum di Cass. 26 marzo 1953, n. 782, con riferimento a fattispecie in cui una impresa appaltatrice era stata incarica di effettuare dei lavori di riparazione su di una nave e la società committente aveva emesso, per il pagamento del prezzo, una cambiale andata successivamente in protesto, così che gli esecutori delle opere, ritenendo che la committente fosse insolvente, avevano preferito rivolgersi direttamente ai proprietari della nave. Il giudice di legittimità, pur confermando la decisione della corte di merito sfavorevole agli esecutori delle riparazioni, e pur escludendo nella specie la esperibilità dell’azione di arricchimento ribadendone la natura sussidiaria – poteva, difatti, essere nella specie esercitata l’azione contrattuale nei confronti della ditta committente che aveva richiesto la riparazione della nave e la fornitura dei materiali per l’attrezzatura di essa – ritenne che i danneggiati si sarebbero potuti esimere dall’esercizio di tale azione, rivolgendosi direttamente contro i proprietari, qualora avessero provato lo stato di insolvenza dei debitori per contratto).

(Nei medesimi sensi, Cass. 17 marzo 1947 n. 391; 21 febbraio 1955, n. 507; 20 ottobre 1962, n. 3057).

All’inizio degli anni Sessanta si assiste ad un radicale revirement della giurisprudenza di questa Corte, che, aderendo alla diversa impostazione propugnata da una autorevole dottrina sul finire degli anni ’50, affermerà un principio del tutto speculare, all’esito di un fondamentale arresto delle sezioni unite (Cass. 2 febbraio 1963, n. 183) nel quale, per la prima volta, si afferma che l’azione di arricchimento postula l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale in pregiudizio di un altro soggetto, collegati tali eventi da nesso di causalità, e si specifica che, quanto al primo requisito, è necessaria la sussistenza di un fatto costitutivo unico, dal quale possano farsi dipendere tanto l’arricchimento, quanto la correlativa diminuzione patrimoniale: laddove, invece, lo spostamento patrimoniale, sia pure ingiustificato, fra due soggetti sia determinato da una successione di fatti distinti (nella specie, espropriazione fondiaria in danno di un soggetto, espropriazione militare in danno dell’altro), che hanno inciso su due diverse situazioni patrimoniali soggettive, in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro, il depauperamento di un soggetto non è l’effetto del correlativo arricchimento dell’altro e viceversa, e viene meno il fondamento dell’indennizzo (a tale Grand Arret faranno poi seguito, negli anni successivi, le conformi decisioni di cui a Cass. 12 ottobre 1970, n. 1957; 4 maggio 1978, n. 2087; 15 giugno 1979, n. 3368; 8 marzo 1980, n. 1552; 9 giugno 1981, n. 3716; 29 luglio 1983, n. 5236; 10 febbraio 1993, n. 1686).

A tale impostazione darà, come già rilevato in precedenza, ulteriore continuità la dominante giurisprudenza degli anni 2000, anche se una profonda rivisitazione critica verrà da parte di quella dottrina attenta a rilevare come l’idea della necessità, ai fini dell’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, di un unico fatto costitutivo nella relazione fra arricchimento e depauperamento avrebbe escluso dall’operatività dell’azione casi nei quali, viceversa, la possibilità di configurare un arricchimento senza causa deve ritenersi indiscutibile (come nel caso della delegazione, quando il delegato adempie il debito assuntosi nei confronti del delegatario e quest’ultimo consegue un arricchimento proveniente dal patrimonio del delegato, terzo rispetto al rapporto delegante-delegatario, in base ad un contratto stipulato con questo – l’assunzione del debito da parte del delegato – mentre è fuor di dubbio che, ove il rapporto di valuta sia nullo, il delegante possa agire contro il delegatario). Per altro verso, l’impostazione fondata sulla necessità di un nesso di causalità diretto parve piuttosto frutto della tendenza a trasferire nella materia degli arricchimenti ingiustificati le nozioni elaborate in relazione allo studio dei fatti illeciti, nei quali soltanto l’esigenza di uno specifico nesso eziologico tra il fatto e il danno assume un chiaro significato normativo, poichè scaturente da univoche indicazioni del sistema. In alternativa, verrà allora proposta la teoria della relazione di necessità meramente storica fra arricchimento e depauperamento (nel senso cioè che il rapporto di causalità potrebbe ritenersi sussistente ove dimostrabile che l’uno non si sarebbe verificato senza l’altro, così che il fondamento dell’indennizzo di cui all’art. 2041 c.c., non veniva meno pur quando l’ingiustificato spostamento patrimoniale avesse tratto origine da una successione di fatti incidenti su diverse situazioni patrimoniali soggettive del tutto indipendenti fra loro, come, ad esempio, nel caso di un mutuo contratto al fine di effettuare una donazione, riconoscendo al mutuante, nell’eventualità dell’inadempimento del mutuatario, un’azione nei limiti dell’arricchimento nei confronti del beneficiario della prestazione).

La ricognizione delle posizioni dottrinarie in subiecta materia non può, infine, prescindere, nella compiuta ricostruzione delle problematiche dell’arricchimento indiretto, dall’analisi del pensiero di chi ha indirizzato la propria indagine alla ricerca di disposizioni codicistiche che potessero in qualche modo fornire un fondamento normativo alla soluzione della questione: si è così acutamente evidenziato la correlazione fra l’ingiustificato arricchimento indiretto e l’art. 2038 c.c., norma relativa alla responsabilità del terzo acquirente in ipotesi di alienazione di cosa ricevuta indebitamente. Sul presupposto della legittimità di una applicazione in via analogica dei principi descritti dalla norma citata, si è allora ritenuto opportuno rimodellare la soluzione predicabile per i diversi casi di arricchimento indiretto (quello in cui la prestazione ricevuta dal terzo sia avvenuta in virtù di un atto a titolo gratuito e quello in cui sia avvenuta a titolo oneroso) proprio sul disposto di tale norma – che disciplina esclusivamente il caso in cui il terzo abbia ricevuto la cosa a titolo gratuito, stabilendo che quest’ultimo è tenuto verso l’impoverito/solvens nei limiti dell’arricchimento, senza prevedere nè disciplinare, peraltro, la speculare ipotesi in cui la cosa sia stata ricevuta dal terzo a titolo oneroso. Dall’art. 2038 c.c., secondo la ricostruzione dottrinaria in parola, emergerebbe la generale regula iuris secondo la quale il depauperato può esercitare l’azione di arricchimento nei confronti del terzo esclusivamente nel caso in cui quest’ultimo abbia conseguito la prestazione (e di conseguenza si sia arricchito) a titolo gratuito, mentre, qualora abbia conseguito la prestazione a titolo oneroso, l’azione non sarebbe esperibile.

Di recente, si è (condivisibilmente) osservato, in proposito, come l’aspetto più appagante di questa dottrina sia rappresentato dal fatto che l’ancoraggio all’art. 2038 c.c., per un verso, fornisce il necessario fondamento normativo al riconoscimento di una (sia pur circoscritta) fattispecie arricchimento mediante intermediario, per l’altro, induce ad una interpretazione più elastica dell’art. 2042 c.c..

E’ convincimento di queste sezioni unite, pertanto, che il doppio requisito dell’unicità del fatto costitutivo e della sussidiarietà dell’azione vada senz’altro riaffermato sul piano della regola generale, con la duplice eccezione costituita dall’arricchimento mediato conseguito da una P.A. rispetto ad un ente (anch’esso di natura pubblicistica) direttamente beneficiario/utilizzatore della prestazione dell’impoverito e dall’arricchimento conseguito dal terzo a titolo meramente gratuito, in tal modo rivalutandosi, come ancora osservata da un’attenta dottrina, la funzione propriamente equitativa dell’actio de in rem verso, la cui ratio è sopratutto quella di porre rimedio a situazioni giuridiche che altrimenti verrebbero ingiustamente private di tutela tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l’affidamento, la buona fede dei terzi. Tale conclusione trova altresì conforto “storico” nel ricordo del leading case giurisprudenziale (il c.d. affaire Boudier, che condusse, alla fine dell’800, prima la dottrina e la legislazione francese, poi quella italiana, a differenziare e introdurre nel codice civile l’istituto dell’arricchimento senza causa secondo una matrice culturale, prima a ancora che giuridica, diversa da quella dell’ordinamento tedesco – in cui si affermava invece una lettura dell’auf dessen Kosten del paragrafo 812 del BGB nel senso della necessaria riconducibilità di arricchimento e danno allo stesso fatto generatore) come un tipico caso di arricchimento del terzo determinato da una prestazione effettuata in favore della controparte contrattuale (nel 1892, difatti, la Corte di cassazione francese si trovò a decidere una controversia introdotta da un commerciante di concimi che aveva venduto all’affittuario di un terreno una partita dei suoi prodotti, essendo risultato insolvente l’affittuario insolvente e venendo a scadenza il rapporto di affitto, così che il commerciante non potè ottenere il pagamento della fornitura, rivolgendosi vittoriosamente al proprietario del terreno, che venne condannato sulla base del riconoscimento di un principio – apparentemente eversiva in un ambiente giuridico quale quello francese fondato sulla primazia della fonte legislativa – ritenuto purtuttavia fondamentale, sebbene non codificato, per cui chiunque si arricchisca in danno di un altro soggetto è tenuto a rispondere di tale profitto).

Restano, infine, da esaminare i restanti motivi (1^, 3^ e 4^) del ricorso P..

Il primo motivo – che riproduce la doglianza già rappresentata in sede di appello volta ad una diversa ricostruzione della vicenda negoziale in termini di mandato con rappresentanza, lamentando, per l’effetto, una presunta violazione degli artt. 1388 e 2297 c.c. – è (come già anticipato) del tutto inammissibile.

Esso, difatti, sì come articolato, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nella parte in cui il giudice del merito ha ritenuto del tutto legittimamente e del tutto condivisibilmente ricorrere, nella specie, un’ipotesi di mandato senza rappresentanza, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili, da un canto, per la mancata trascrizione, in parte qua, degli atti di causa la cui interpretazione egli assume errata (con conseguente violazione del noto principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione), dall’altro, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità. In particolare, sotto il peculiare profilo dell’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va in questa sede nuovamente ribadito che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002). L’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice del fatto, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione – con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca, come nella specie, nella mera prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Per i medesimi motivi dianzi esposti vanno rigettato il terzo e il quarto motivo di ricorso – con il primo dei quali si lamenta la violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c., in relazione all’eccezione con la quale si era rilevato che non sussistevano motivi che potessero giustificare la risoluzione del preliminare di compravendita; con il secondo, invece, la violazione degli artt. 2043, 2729 c.c. – avendo, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice di merito fornito ampia, approfondita, condivisibile motivazione sulle ragioni poste a fondamento della pronunciata risoluzione e dell’esclusione di un accordo fraudolento (rispettivamente, ai ff. 10 e 11 e 11 e 12 della sentenza impugnata).

La disciplina delle spese segue come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2008

1. Le due questioni all’attenzione della Corte

Una società stipulava con una persona fisica e con una costituenda società immobiliare un preliminare di vendita di edificio da ristrutturare. Il contratto in parola veniva risolto a seguito dell’inadempimento parziale del promissario acquirente (che pure aveva già versato una cospicua somma di denaro), come da previsione negoziale (clausola risolutiva espressa).

Invero, a monte dell’atto di compravendita immobiliare si collocava un contratto di mandato senza rappresentanza incorso tra il promissario acquirente del preliminare di compravendita immobiliare ed un soggetto terzo. Costui, in primo luogo, invocava il riconoscimento del suo diritto ad esercitare azioni nascenti dal preliminare stipulato dal mandatario senza rappresentanza con la società venditrice. In secondo luogo, instava per la restituzione delle somme a corrispettivo dell’arricchimento ingiustificato goduto dalla società promittente venditrice, quantomeno per le spese sostenute dal mandante per la ristrutturazione dell’immobile e per l’adempimento degli oneri di urbanizzazione.

Per quanto concerne la prima questione, in questa sede è sufficiente rilevare come la Suprema Corte abbia ritenuto che la lettera dell’art. 1705, 2° comma, c.c. non consenta di riconoscere al mandante, il cui nome non sia stato speso, alcuna azione contrattuale nascente dal contratto concluso dal mandatario, avendo il primo a disposizione l’unico strumento dell’esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, appunto in sostituzione del mandatario e nei limiti in cui ciò non risulti pregiudizievole delle ragioni di questi.

La seconda questione, invece, costituisce il fulcro del presente commento.

2. Il concetto di correlazione

L’esperimento dell’azione di arricchimento senza causa (1), come noto, presuppone, oltre che la mancanza di giusta causa, la ricorrenza degli elementi della fattispecie disciplinata dall’art. 2041 c.c.: l’arricchimento, ritenuto come il vantaggio patrimoniale conseguito dall’arricchito in relazione ad una particolare situazione giuridica (2); l’impoverimento, cioè lo speculare depauperamento sofferto dalla sfera patrimoniale dell’istante e che si caratterizza per la stessa matrice, di natura patrimoniale (3); il nesso di correlazione tra la locupletazione ed il pregiudizio (4). Quest’ultimo elemento pone profili problematici, anche in relazione a quel limite all’esperibilità dell’azione che l’art. 2042 c.c. definisce in termini di “sussidiarietà”.

Esclusa la possibilità di ricorrere al concetto di causalità giuridica, tipico della responsabilità civile, occorre rilevare come non a caso il legislatore abbia utilizzato in littera legis un termine diverso, richiedendo che tra arricchimento e impoverimento debba sussistere una “correlazione”: sicché, in generale, si ritiene che l’azione di arricchimento senza causa possa essere esperita soltanto allorché sussista un effettivo trasferimento di ricchezza a favore di un soggetto ed in danno di un altro. In altri termini, occorre che l’espansione del patrimonio dell’arricchito sia speculare alla riduzione di quello dell’impoverito e che le due vicende trovino scaturigine nel medesimo fatto costitutivo (5).

Occorre, in via preliminare, sgomberare il campo da un potenziale equivoco: non si può confondere la responsabilità aquiliana, ed il relativo corredo di elementi che la contraddistinguono, con l’istituto che consente di ottenere le restituzioni di ciò di cui altri si sia arricchito ingiustificatamente. La causa dell’arricchimento, infatti, non può essere ritenuta ingiusta in quanto produttiva di un danno-impoverimento, ma, piuttosto, per il verificarsi, attraverso lo spostamento di ricchezza, della compromissione di una situazione giuridica meritevole di tutela.

Ne deriva che la responsabilità, in tale fattispecie, non è conseguenza di un danno, ma dei riflessi patrimoniali di un fatto che, come osservato da attenta dottrina, è irrilevante qualificare come lecito o illecito; sicché, in tale prospettiva, la correlazione di cui parla l’art. 2041 c.c. può essere riferita non tanto ai due eventi (arricchimento/depauperamento), quanto ai due soggetti (arricchito e depauperato), con il risultato che, una volta che si sia individuato il tipo di torto subito dall’istante, si possa individuare la parte dell’arricchimento, riconducibile a quel concetto di “mancata giustificazione” che rende meritevole di tutela giuridica l’interesse del depauperato. Qualunque utilità economica di cui abbia profittato taluno, che non sia il titolare della posizione giuridica sottostante, e che non l’abbia conseguita in forza di qualsivoglia ragione riconducibile ad una “causa” concreta meritevole di tutela, colora di “ingiustificatezza” il relativo risultato ed il conseguente arricchimento della sua sfera patrimoniale. Pertanto, «non ha senso parlare di “nesso causale” tra fatto e danno, secondo una costruzione cucita addosso all’illecito, perché qui non v’è un fatto che è fonte d’obbligazione siccome produttivo di un danno, ma c’è un fatto, l’arricchimento ingiusto, che indipendentemente dal comportamento tenuto dall’agente è fonte di obbligazione. D’altra parte, impoverimento ed arricchimento non sono in un rapporto di causa ad effetto, ma sono entrambi due effetti» (6).

Questo ordine di considerazioni spiana il terreno ad una rimeditazione critica dell’assunto iniziale, revocandosi in dubbio che la correlazione di cui all’art. 2041 c.c. debba essere identificata con l’esigenza che l’arricchimento e l’impoverimento trovino una radice comune nello stesso fatto costitutivo e che l’azione non possa essere esercitata «quando il soggetto che si è arricchito è diverso da quello con il quale colui che compie la prestazione abbia un rapporto diretto in forza di legge o in base a contratto e l’arricchimento sia, perciò, solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita nell’ambito di tale rapporto, per cui resta esperibile la relativa azione contro la persona destinataria, per legge o per contratto, della prestazione» (7).

Tale massima mette in evidenza la confusione in cui spesso incorrono le decisioni giurisprudenziali, allorché sovrappongono il nesso di correlazione e la sussidiarietà che caratterizza l’azione in commento ex art. 2042 c.c. Infatti, spesso, dietro lo schermo dell’inammissibilità dell’azione per difetto del nesso di correlazione tra arricchimento ed impoverimento, si celano ragioni attinenti invero alla sussidiarietà, potendo l’attore promuovere altra azione (di natura contrattuale o extracontrattuale) e non avendolo fatto (8).

3. L’arricchimento indiretto o mediato

Tale fattispecie si verifica allorché tra l’arricchito ed il depauperato si collochi la sfera patrimoniale di un soggetto terzo, che funge da intermediario nei rapporti di dare/avere tra i protagonisti della vicenda di cui all’art. 2041 c.c.

Così, spesso accade che un soggetto non titolare del diritto si rivolga ad un terzo affinché esegua prestazioni di varia natura (ad es.: miglioramenti, addizioni, riparazioni) sulla cosa di cui il primo è solo detentore. Ebbene, in tali circostanze, per regola generale, nell’evenienza in cui il diretto contraente del soggetto non proprietario non riesca a conseguire l’adempimento da parte di costui, egli potrebbe disporre dell’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti del proprietario che, per tale via, ha ottenuto un arricchimento ingiustificato. Si pensi, a titolo di esempio, ad un meccanico che ripari la vettura consegnatagli da un terzo detentore che non ne sia proprietario; ad una domestica che richieda ad un veterinario l’effettuazione delle cure per un animale in proprietà del suo datore di lavoro; ad un soggetto, diverso dal proprietario del suolo, che dia in appalto una villa che il proprietario acquisterà per accessione; al conduttore di un appartamento che incarichi una ditta di ristrutturare l’immobile.

Tuttavia, la percorribilità della via che porta alla restituzione dell’arricchimento non è affatto pacifica.

Infatti, in primo luogo, l’arricchimento del titolare si presenta solo indiretto attraverso l’altrui iniziativa, per modo che l’impoverimento corrisponde ad un iniziale arricchimento sine causa a favore di un intemediario che, però, poi se ne priva a favore di altri, che non consegue un arricchimento “a danno” del primo soggetto (il depauperato), ma solo del secondo soggetto (l’intermediario), traendo la vicenda origine non da un unico, ma da un duplice fatto costitutivo.

In secondo luogo, il depauperato dispone dell’azione ex contractu nei confronti del terzo “intermediario”, in modo che verrebbe meno la sussidiarietà dell’azione ex art. 2042 c.c., ossia la “mancanza di altra azione per farsi indennizzare” (9).

Talché, posto che se, da un lato, pare mancare il nesso di correlazione e, dall’altro, sembra inficiata anche la regola della sussidiarietà, la conclusione cui si giunge è quella di escludere l’ammissibilità di un’azione di arricchimento indiretto.

Per contemperare le ragioni restrittive sottese alla lettera della norma e quelle di giustizia volte ad ammettere l’azione di arricchimento ingiustificato anche in assenza di una correlazione diretta tra depauperamento e, appunto, arricchimento, si è andata formando una teoria intermedia che, pur tendente a rifiutare una regola generale di esperibilità dell’azione in commento nei riguardi del proprietario, ammette tuttavia la tutela ex art. 2041 c.c., nei casi in cui l’impoverito non abbia potuto trovare soddisfazione alle sue pretese verso il soggetto intermediario (ad esempio, perché insolvente). Tale possibilità, però, viene condizionata alla circostanza che l’arricchimento del proprietario sia avvenuto a titolo gratuito (10).

È l’ipotesi presa in esame nella sentenza che si commenta, in cui il promittente venditore del bene immobile ha conseguito un incremento del valore del bene, avvenuto mediante le opere di ristrutturazione e l’adempimento degli oneri di urbanizzazione effettuati dalla società mandante (reale promissario acquirente), che ha sofferto l’inesecuzione del contratto per inadempimento del mandatario (l’intermediario).

In queste situazioni, si assume che l’azione di cui all’art. 2041 c.c. possa essere esercitata in quanto la norma va letta in correlazione all’art. 2038 c.c., che, in tema di alienazione a titolo gratuito della cosa ricevuta indebitamente, dispone che il terzo acquirente resti obbligato nei limiti dell’arricchimento verso chi ha pagato l’indebito (viceversa, non può concepirsi come legittima la pretesa avanzata contro chi abbia ottenuto la prestazione in forza di un atto a titolo oneroso, avendo il convenuto già pagato una volta per essa) (11).

Se ne deduce, infine, che il menzionato art. 2038 c.c., pur collocato nell’ambito dell’indebito, disciplina tuttavia un’azione che presenta una natura di arricchimento tale da estendere il principio alle situazioni di arricchimento indiretto.

Per tale via, si elimina uno degli ostacoli frapposti alla tutelabilità ai sensi dell’art. 2041 c.c. delle ipotesi di arricchimenti indiretti, ossia il nesso di correlazione.

È, questa, la soluzione fatta propria dalla Cassazione nella sentenza in commento.

Resta da vedere come si possano contemperare le esigenze di tutela del depauperato ed il secondo ostacolo, quello della sussidiarietà dell’azione. Infatti, i problemi nascono allorché l’impoverito abbia a disposizione altra azione principale per tutelare le proprie ragioni nei riguardi del contratto dalla cui esecuzione gli sia derivato il decremento patrimoniale. Sicché, l’estremizzazione del concetto di sussidiarietà, vista come operante “in astratto”, impedisce l’esercizio dell’azione di arricchimento ingiustificato non solo se sussista altra azione che il depauperato possa attivare nei confronti dell’arricchito, ma se esista altra azione tout court, cioè esperibile anche contro altre persone che siano obbligate col primo per legge o per contratto.

Invero, tale soluzione è stata rimeditata da parte di taluna giurisprudenza che, in considerazione dell’insolvenza dell’obbligato principale, è giunta ad ammettere che in questo caso sia esperibile, perlomeno in via subordinata, l’azione in commento verso chi si sia in concreto arricchito dalla vicenda (12). Ma, efficacemente, si evidenzia come la stessa soluzione dovrebbe accogliersi anche con riferimento all’evenienza in cui altra azione non possa essere esercitata in quanto prescrittasi (13).

In definitiva, basterebbe accogliere l’impostazione della sussidiarietà in concreto per concedere uno sbocco naturale al corso equitativo che scorre nell’azione di arricchimento ingiustificato. E sembra che solo una visione di questa in termini di clausola generale possa condurre ad abbattere questo secondo ostacolo, per giungere ad una piena tutela delle ipotesi di arricchimento indiretto ingiustificato. La sentenza, sotto questo profilo, appare anche muovere un timido passo verso una concezione più elastica della sussidiarietà.

Va altresì ricordato, peraltro, che spesso il problema dell’arricchimento indiretto si pone con riguardo alla contrattazione che vede protagonista la P.A., in quanto il particolare procedimento di formazione della volontà dei soggetti pubblici, nonché la suddivisione tra più organi di poteri di controllo preventivo/successivo sugli atti decisionali della P.A., spesso determinano la nullità dei contratti conclusi tra la stessa e soggetti privati.

Ne deriva che sovente un dipendente o un professionista effettuano prestazioni nei confronti del soggetto pubblico, senza ricevere alcun compenso per l’attività svolta.

In tali evenienze, nei riguardi del lavoratore subordinato trova applicazione l’art. 2126 c.c., che fa salvo il diritto del lavoratore a percepire l’emolumento per le prestazioni effettivamente svolte14; negli altri casi, troverà applicazione l’art. 2041 c.c., che garantisce la restituzione dell’equivalente monetario dell’attività prestata dal professionista, ricorrendo tutti gli elementi della fattispecie di arricchimento in generale con l’aggiunta di uno ulteriore: il riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte dell’ente, riconoscimento che la P.A. può effettuare anche de facto.

Per quanto concerne, più in particolare, l’azione di arricchimento mediato, la fungibilità soggettiva nell’esercizio dei poteri pubblici determina spesso l’evenienza in cui, pur essendo incorso il rapporto tra un ente pubblico ed un soggetto privato, l’arricchimento in concreto si verifichi a favore di altro ente (sempre pubblico) che realizza un segmento di attività, appunto, pubblica (15): talché, anche in tali circostanze, in ragione della fungibilità degli enti pubblici, è da ammettere il ricorso allo strumento dell’azione di arricchimento indiretto per consentire al privato di tutelare le proprie ragioni nei confronti del differente soggetto arricchitosi nella vicenda.

4. L’art. 2038 c.c. e gli arricchimenti indiretti conseguiti a titolo gratuito

Le sezioni Unite, dopo aver ripercorso gli orientamenti giurisprudenziali sul tema dell’esperibilità dell’azione disciplinata dall’art. 2041 c.c. anche in caso di arricchimento indiretto, operano una prima riflessione di tipo storico-comparativistico, asserendo che, sotto la vigenza dell’abrogato codice, fosse pacifica l’ammissibilità dello strumento in parola, che si caratterizzava per l’esecuzione di una prestazione che, eseguita per conto di un soggetto, arricchiva poi un terzo, mentre l’esecutore non riceveva il compenso promesso da chi l’aveva richiesta.

Dopo il 1942, la giurisprudenza continuò a ragionare in questi termini, fino all’inizio degli anni Sessanta, quando si iniziò a postulare la necessaria presenza dell’unico fatto costitutivo, come fondamento dell’arricchimento, con la conseguenza che restavano fuori dall’ambito di operatività della norma in esame tutte le ipotesi di arricchimento indiretto.

Nell’analizzare questo trend giurisprudenziale, la Suprema Corte osserva che tale impostazione, fondata sulla necessità di un nesso di causalità diretto, parve piuttosto frutto della tendenza a trasferire nella materia degli arricchimenti ingiustificati le nozioni elaborate in materia di responsabilità aquiliana, nella quale soltanto l’esigenza di uno specifico nesso eziologico tra fatto e danno assume un chiaro rilievo normativo.

Ma l’argomento preponderante nelle riflessioni operate dal Giudice di Legittimità è costituito, come si è anticipato, dalla lettura coordinata tra l’art. 2041 c.c. e l’art. 2038 c.c., norma relativa alla responsabilità del terzo acquirente in ipotesi di alienazione di cosa ricevuta indebitamente a titolo gratuito e che limita all’arricchimento la responsabilità di quest’ultimo nei riguardi dell’impoverito/solvens. Talché, si impone la correlazione tra l’ingiustificato arricchimento indiretto e l’art. 2038 c.c. e, soprattutto, l’applicazione in via analogica al primo dei principi descritti dal secondo, dal quale emergerebbe la regola iuris secondo cui il depauperato può esercitare l’azione di arricchimento nei confronti del terzo nel caso in cui quest’ultimo abbia conseguito la prestazione (e di conseguenza si sia arricchito) a titolo gratuito, mentre, qualora abbia conseguito la prestazione a titolo oneroso, l’azione non sarebbe esperibile.

Questo ancoraggio normativo della fattispecie ad una disposizione codicistica consente alla Corte di concludere che il doppio requisito dell’unicità del fatto costitutivo e della sussidiarietà dell’azione vada senz’altro riaffermato sul piano della regola generale, con la duplice eccezione costituita dall’arricchimento mediato conseguito da una P.A. rispetto ad un ente (anch’esso di natura pubblicistica) direttamente beneficiario/utilizzatore della prestazione dell’impoverito, e dell’arricchimento conseguito dal terzo a titolo meramente gratuito.

In tal modo, si rivaluta la funzione propriamente equitativa dell’actio de in rem verso, la cui ratio è soprattutto quella di porre rimedio a situazioni giuridiche che altrimenti verrebbero ingiustamente private di tutela tutte le volte in cui tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l’affidamento e la buona fede dei terzi.

In definitiva, la Suprema Corte rinforza l’idea di un’autonoma azione, di tipo generale, con suoi tipici requisiti, autonoma dalla clausola generale di ingiustizia del danno e sposta, come auspicava recente dottrina, il baricentro del rimedio dall’impoverimento e dal nesso di correlazione, al profitto ingiustamente conseguito. Ciò che lascerebbe presumere che l’evoluzione cui potenzialmente tali riflessioni possono approdare sia quella di una lettura della sussidiarietà dell’azione in concreto o, comunque, meno rigida (in specie quando il rimedio ex art. 2041 c.c. concorra con quello ex art. 2043 c.c.).

Queste ragioni rendono forse necessaria una rimeditazione sul rapporto tra regola ed eccezioni, dovendosi ammettere che, anche nella materia de qua, il ricorso al concetto di clausola generale consente di rendere giustizia ad esigenze che solo nella prassi casistica possono disvelare il confine tra ciò che è formalismo e ciò che invece è equità, attribuendo preminenza ai secondi termini di tale dualismo.

1 Si vedano, almeno, i contributi di Schlesingher, Arricchimento (Azione di). Diritto civile, in Noviss. Dig. it., I, 2, Torino, 1958, 1004 ss.; Sacco, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto, Torino 1959; Trabucchi, voce Arricchimento (Azione di) (Diritto Civile), in Enc. dir., III, Milano, 1959, 64 ss.; Trimarchi, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962; Barbiera, L’ingiustificato arricchimento, Napoli, 1964; Breccia, L’arricchimento senza causa, in Tratt. dir. priv. dir. da Rescigno, IX, Obbligazioni e contratti, Torino, 1984; Di Paola e Pardolesi, voce Azione di arricchimento – Dir. Civ., in Enc. giur., Roma, 1988; Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova; 1990; Nicolussi, La lesione del potere di disposizione e l’arricchimento, Milano, 1998; Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004; Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005; Pardolesi, Profitto illecito e risarcimento del danno, Trento, 2005; Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), Torino, 2008, 2ª ed.

2 In tal senso, App. Roma, 29.5.1971, in Temi rom., 1972, 290; Trimarchi, L’arricchimento senza causa, cit., 118 s., precisa che l’arricchimento è «la differenza tra la consistenza del patrimonio quale è in seguito al fatto produttivo dell’arricchimento e quella che avrebbe avuto se tale fatto non si fosse verificato». Si dubita, inoltre, su quali siano le precise linee di confine di tale nozione, tendendosi in generale ad affermare che esso debba consistere in un’attribuzione effettiva e non già meramente eventuale e futura. Secondo un’impostazione di stampo patrimonialista, inoltre, l’arricchimento può anche essere identificato con un risparmio di spesa, mentre si esclude che si possa parlare anche di arricchimento “morale”. Infine, la giurisprudenza risulta ondivaga sulla necessità che l’arricchimento sussista o meno al tempo della domanda. Alla concezione patrimoniale si contrappone anche una concezione reale del fenomeno in commento, secondo cui occorre riferirsi alla cosa indebitamente conseguita ed ai suoi surrogati; cfr. in tal senso Trimarchi, L’arricchimento senza causa, cit., 118 ss.: «l’arricchimento, trattandosi di cosa determinata, consiste nella cosa stessa, la quale deve venire restituita; ove questa perisca, colui che l’ha indebitamente ricevuta è liberato, in applicazione di un principio generale, salvo che ricorra un’ipotesi di perpetuatio obbligationis. Se la cosa esce dal patrimonio di chi l’ha indebitamente ricevuta, e questi ottenga alcunché in suo luogo, vuoi come corrispettivo, vuoi come risarcimento del danno, la cosa o la somma ottenuta come corrispettivo, o la somma ottenuta come risarcimento del danno si sostituiscono alla cosa originariamente dovuta, dando luogo così, a favore del creditore, ad una surrogazione reale. Ove l’arricchimento derivi dall’aver conseguito senza giusta causa delle cose fungibili, è dovuta sempre la restituzione del tantundem».

3 Sul punto, di particolare interesse risulta la questione relativa alla possibilità di annoverare tra la voci “restituibili” all’impoverito, oltre che la perdita, anche il mancato guadagno. Tale soluzione è osteggiata dall’opinione secondo la quale «il concetto di depauperamento» sarebbe «finalizzato esclusivamente al riequilibrio dei patrimoni e non già ad apprestare forme di restitutio in integrum»: v. Trabucchi, voce Arricchimento (Azione di) (Diritto Civile), cit., 70 s. Sulla questione, inoltre, si evidenzia la recentissima Cass., Sez. Un., 11.11. 2008, n. 23385, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 320, con nota di Del Grosso, La fine di una decennale questione: il lucro cessante nell’azione di arricchimento; in Urb. e app., 2008, 1422, con nota di Pascucci e Tomei, L’indennizzo ex art. 2041 c.c. non si estende al lucro cessante, la quale ha escluso che possa ricondursi al concetto di impoverimento restituibile anche il mancato guadagno.

La pronuncia si segnala, inoltre, per una dotta e approfondita motivazione, nel corso della quale il Supremo Giudice riconosce all’azione de qua natura di clausola generale in senso tecnico, con pari dignità di quella, distinta e autonoma, di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. In tal modo, le Sezioni unite danno seguito giurisprudenziale alle riflessioni operate dalla migliore dottrina, sulla scia di un recente contributo pioniere in tal senso, offerto da Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, cit., 35 ss. Lo stesso Autore sintetizza tale posizione con riferimento ai risultati raggiunti dalla Suprema Corte nella sentenza ora menzionata, nel saggio L’arricchimento senza causa è, dunque, una clausola generale, autonoma dalla clausola di ingiustizia del danno, in Contr. e impr., 2009, n. 4/5, § 1 ss.

4 Di Paola e R. Pardolesi, voce Azione di arricchimento – Dir. Civ., cit., § 2.3, affermano che il nesso non debba essere inteso secondo il paradigma della causalità giuridica propriamente intesa, cioè «nel senso che l’impoverimento sia causa efficiente, o tra le cause efficienti, dell’arricchimento: si tratta, infatti, di modificazioni patrimoniali, che conseguono a faits juridiques au sense large». Infatti, a differenza del nesso causale tra fatto e danno, che viene delineato dalla disciplina del fatto illecito (artt. 40 e 41 c.p., e 1227, comma 1, 2043 e 2056 c.c.), sul concetto di correlazione utilizzato dall’art. 2041 c.c., il legislatore non specifica alcunché.

5 Schlesingher, Arricchimento (Azione di). Diritto civile, cit., 1958. Peraltro, secondo alcuni autori, la correlazione di cui è parola va riguardata in un’ottica meno restrittiva, attenendo ad una valutazione di sussistenza di una semplice relazione di necessità storica tra arricchimento e depauperamento: così, Trabucchi, voce Arricchimento (Azione di) (Diritto Civile), cit., 72; Barbiera, L’ingiustificato arricchimento, cit., 248; Trimarchi, L’arricchimento senza causa, cit., 82 ss., il quale ulteriormente soggiunge che talora il fatto costitutivo è unico, ma l’arricchimento, ciononostante, resta indiretto, come nella delegazione: «quando il delegato adempie il debito assuntosi nei confronti del delegatario, quest’ultimo consegue un arricchimento proveniente dal patrimonio del delegato (che è terzo rispetto al rapporto delegante-delegatario) in base ad un contratto stipulato con questo (l’assunzione del debito da parte del delegato); tuttavia, è fuor di dubbio che, ove il rapporto di valuta sia nullo, il delegante possa agire contro il delegatario». Tuttavia, dalla specialità della regolamentazione della delegazione si deduce l’impossibilità di farne assurgere l’esempio a regola generale.

Per la giurisprudenza sul punto, si vedano, anche, le numerose pronunce cui fa riferimento in motivazione la sentenza in commento.

6 Albanese, Fatto illecito, fatto ingiusto e restituzione dell’arricchimento in assenza di causa, in Resp. civ. prev., 2004, 552. Conformi, tra gli altri: Venturelli, La doppia alienazione immobiliare tra risarcimento e restituzioni: la posizione della giurisprudenza, in Obbligazioni e contratti, 2005, 245; Mazzola, Responsabilità civile da atti leciti dannosi, Milano, 2007, 170 ss.; Caringella e De Marzo, Manuale di diritto civile, II, Le obbligazioni, Milano, 2007, 1219 ss. Sul punto, cfr. anche, diffusamente, la monografia di Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), cit.

7 In questi termini, Cass., 10.2.1993, n. 1686, in Giust. civ., 1993, I, 1836.

8 Ciò che è accaduto, ad esempio, in Cass., 10.2.1993, n. 1686, cit.: la restituzione dell’arricchimento era richiesta da un avvocato che, in forza di un incarico conferitogli da un ambasciatore italiano, aveva redatto un parere per delle società italiane che avevano in corso una controversia con una società d’oltralpe. In sentenza, si è fatto riferimento alla mancata correlazione tra danno e arricchimento (nel senso di mancata unicità del fatto costitutivo), ma in realtà si trattava di preclusione determinata dal principio di sussidiarietà, potendo l’attore esercitare anche l’azione ex contractu verso l’ambasciatore conferente l’incarico.

9 Peraltro, se da un lato taluna dottrina cerca di dare una lettura meno rigida della sussidiarietà, dall’altro la giurisprudenza la ancora ad un caposaldo di eccessivo rigore, abbracciando la nozione di “sussidiarietà in astratto” (pur con alcuni temperamenti): l’azione di arricchimento può essere esperita solo a condizione che non esista alcun altro rimedio giuridico anche solo in astratto esperibile (con la conseguenza che l’art. 2041 c.c. non può operare né quando esisteva altra azione sin dall’origine della vicenda, né se questa azione esisteva e non è stata attivata per tempo). Per contro, altra opinione si accontenta di una sussidiarietà in concreto: sarebbe sufficiente, per ricorrere al rimedio, che attualmente non esista altra azione a disposizione del soggetto che chiede tutela, a nulla rilevando la circostanza che, ad esempio, altro rimedio esistesse all’inizio della vicenda e che, nel frattempo, si sia prescritto oppure che il diretto contraente si sia rivelato insolvente.

10 In tal senso, Breccia, L’arricchimento senza causa, cit., 1010.

11 Sull’art. 2038 c.c., cfr. Rescigno, voce Ripetizione dell’indebito, in Noviss. Dig. it., XV, 1968, 1236; Moscati, Concezione «reale» e concezione «patrimoniale» dell’arricchimento nel sistema degli artt. 2037- 2038 del cod. civ., in Studi in memoria di D. Pettitti, II, 1973, 991 ss.; Id., Del pagamento dell’indebito. Art. 2033-2040, in Comm. del Cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, sub art. 2038; Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, 791; Gallo, voce Ripetizione dell’indebito. L’arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Digesto/civ., Torino, 1998; Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, 343 ss.

12 Cfr., ad esempio, Cass., 18.8.1993, n. 8751, in Mass. Giust. civ., 1993, 1299.

13 Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, cit., 352, spiega che tale differenza di trattamento potrebbe trovare giustificazione nella circostanza che «mentre nel caso dell’insolvenza l’ostacolo costituito dalla sussistenza di una diversa azione è venuto meno per ragioni indipendenti dalla volontà dell’impoverito, nel caso della prescrizione (o della decadenza) la situazione si è verificata per colpa dell’impoverito medesimo». Tuttavia, l’Autore prosegue osservando che l’esercizio di un’azione o il suo mancato esercizio, anche mediante inerzia, altro non sono che esercizio di un diritto. Ma non possono certo ricondursi effetti sfavorevoli al suo mancato esercizio: «vi è, è vero, una ratio di base che sanziona l’inerzia del creditore, ma la sanzione consiste nella perdita della facoltà di veder riconosciuto quello specifico diritto oggetto dell’azione poi prescrittasi; manca invece una ratio atta a precludere il diritto, testualmente riconosciuto dall’art. 2041 c.c., di ottenere, mercé l’esercizio di un’azione distinta e autonoma avente ad oggetto una diversa pretesa, l’indennizzo nei limiti dell’arricchimento ingiustamente ottenuto. Arricchimento che era prima e rimane tuttora “senza causa”, e dal quale non può non sorgere una obbligazione restitutoria, pena lo svilimento di quella norma fondamentale, l’art. 1173 c.c., ove l’azione in oggetto trova il proprio titolo, la quale annette gli arricchimenti ingiustificati tra i fatti fonte di obbligazione. Né può dirsi che, per effetto del venir meno dell’azione principale, l’arricchimento non sia più “senza causa”, in quanto, a differenza ad esempio dell’usucapione, nessun elemento normativo supporta la soluzione della prescrizione quale causa giustificativa del trasferimento patrimoniale».

14 Dovendo tali prestazioni essere prevalenti da un punto di vista, cumulativamente, qualitativo, quantitativo e temporale.

15 Si pensi ad un’acquisizione di terreni ad opera di un Comune sui quali la costruzione di alloggi popolari venga poi realizzata da altro Ente.