Le menzioni del testamento pubblico

Andrea Zanni, Le menzioni del testamento pubblico, in Rivista del Notariato, 1999, p. 1187

Le menzioni del testamento pubblico

Il vocabolo menzione, nel suo ampio significato di ricordo di un fatto esposto oralmente o per iscritto, compare già nella prosa e nella poesia di Dante, agli albori del Trecento, sempre e solo nella locuzione fare menzione. L’espressione latina dalla quale il termine deriva (mentionem facere) bene illustra la sua doppia valenza: da un lato, essa ricollega alla attestazione di un pubblico ufficiale una situazione verificatasi nel passato; dall’altro, descrive minutamente le azioni compiute dai soggetti partecipanti alla redazione di un atto notarile, in modo più specifico dell’atto mortis causa ricevuto da un notaio in presenza di due testimoni (art. 603, comma 1°, c.c.).

La menzione, quindi, si concreta nella procedura attraverso cui si compie, per ministero dell’ufficiale rogante, il passaggio da “intendimento soggettivo del dichiarante” a “significato giuridico della dichiarazione”1. Ai fini della presente indagine, diretta conseguenza di ciò sarà la fede privilegiata riconnessa alle formalità puntualmente indicate nel testo legislativo e successivamente menzionate nel documento notarile. Precisazione assai importante: il valore processuale di atto pubblico, riconosciuto dall’ordinamento alle disposizioni di ultima volontà espresse nel modus testandi di cui all’art. 603 c.c., ricomprende le sole formalità menzionate nel testamento prodotto in giudizio, mentre non si estende a quelle (eventualmente) osservate, ma delle quali manchi la prova della verificazione2.

L’art. 603 c.c., dopo la sintetica definizione di testamento pubblico poc’anzi citata, enuncia quali debbano essere i “comportamenti”3 di cui dovrà farsi menzione ai fini della validità formale del testamento stesso: la dichiarazione orale del disponente, diretta all’ufficiale ricevente ed effettuata in presenza dei testimoni, deve essere seguita dalla riduzione in iscritto a cura del notaio, il quale, infine, è tenuto a dare lettura, testibus praesentibus, di quanto da lui predisposto. Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento (art. 603, comma 2°, c.c.).

Da un confronto con il codice civile del 1865 si può osservare, innanzitutto, una notevole modifica apportata alla disciplina normativa della forma testamentaria in oggetto, laddove si attribuisce ad un solo notaio il potere di imprimere publica fides al negozio giuridico per causa di morte il quale – forse per la sua unicità all’interno del variegato insieme dei fatti giuridici – rappresenta una delle più alte espressione di libertà individuale e di autonomia privata4.

Nel codice previgente (art. 777) veniva offerta al testatore l’alternativa di esporre oralmente le proprie ultime volontà o ad un notaio, in presenza di quattro testimoni, o a due notai, in presenza di due testimoni. Tale facoltà era stata concessa in ragione del fatto che spesso risultava vana la ricerca di quattro persone capaci (almeno) di sottoscrivere, risultando ancora molto elevata la percentuale di analfabetismo diffuso nella popolazione5; ma ciò appariva un rimedio illusorio, poiché nei piccoli centri rurali, dove non si riusciva a reperire testi idonei, tanto meno era ipotizzabile la presenza e l’intervento di due notai6.

L’incauto incedere dei compilatori italiani dell’Ottocento aveva prodotto, agli occhi del moderno giurista, quella che si potrebbe qualificare come una spiacevole svista, ma che in realtà sembra essere un’antinomia giuridica. Infatti, nella mente di coloro che 

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si soffermano ad analizzare i due casi considerati dall’art. 777 c.c. abr., nasce spontaneo chiedersi: se due testimoni sono considerati sufficienti garanti dell’operato di due notai, perché, nel caso di un unico ufficiale rogante, gli stessi soggetti non dovrebbero risultare idonei al compito di controllo cui sono stati preposti dal legislatore? A tale interrogativo una possibile (e provocatoria) risposta sarebbe quella di ipotizzare una gradazione della colpa notarile: dovrebbe vigere la presunzione dell’incompetenza di un solo tabellione a prestare il proprio ministero o, ipotesi ancora più grave, la sua predisposizione a confezionare atti non rispondenti alla volontà del de cuius, quando non sia controllato da un secondo collega. Il “notaio-incompetente” o il “notaio-falsario” risultano essere figure di pura fantasia, infinitamente lontane da quell’idea di Rechtswahrer, delineata da un nostro grande Maestro7.

Risulta, quindi, assai apprezzabile la soluzione cui giunge l’attuale testo normativo nella definizione di atto pubblico mortis causa, realizzando un ottimo equilibrio fra univocità lessicale, completezza del disposto e sinteticità delle espressioni impiegate.

L’unico soggetto al quale è riconosciuto ex lege il potere di integrare l’atto negoziale con la menzione delle prescritte formalità è il notaio. Più in generale, l’attività di ricezione delle intenzioni negoziali dei privati è riservata al pubblico ufficiale: egli solo può indagare la volontà delle parti8, dirigendo personalmente la compilazione integrale dell’atto (art. 47, ult. cpv., l.n.) ed unicamente a quest’ultimo è attribuito il dominio del negozio giuridico in fieri che si dovrà concludere con la piena approvazione del comparente o dei comparenti (art. 67, regio decreto 10 settembre 1914, n. 1326, Regolamento per l’esecuzione della legge sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili). Assai precisa, in proposito, è la più autorevole dottrina francese: “Etant donné le motif de l’obligation des mentions, il appartient au notaire seul de porter les mentions necessaires. Mais, la jurisprudence admet des atténuations par exemple en laissant faire la déclaration par le testateur, à condition qu’il apparaisse du texte que le notaire a fait siennes ces déclarations9. A simili conclusioni giunge, quasi senza eccezione, anche la dottrina italiana. La menzione, quindi, va effettuata dal notaio ed in nome del notaio: se il testamento venisse così concepito: “Io Sempronio, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, ho dichiarato la mia volontà in presenza del notaio, il quale l’ha redatta in iscritto e poi ha dato lettura dello scritto, che ho trovato conforme alla mia dichiarazione di volontà”, l’atto sarebbe nullo perché si avrebbe certamente menzione delle osservate formalità, ma la menzione non sarebbe fatta dal notaio, non apparirebbe, cioè come una sua attestazione, ma sarebbe opera del testatore, mentre il legislatore vuole che tale attestazione sia fatta dallo stesso notaio10. È opportuno aggiungere che il legislatore – nel prescrivere la necessaria risultanza delle suddette menzioni, ai fini della validità dell’atto – ha impiegato due diverse formule: un esempio della prima si può riscontrare all’art. 603, comma 3°, c.c., in cui si dice: se il testatore non può sottoscrivere, o può farlo solo con grave difficoltà, deve dichiararne la causa, e il notaio deve menzionare questa dichiarazione prima della lettura dell’atto (formula personale); mentre l’espressione “Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento”, a conclusione del precedente comma della ricordata norma, ha natura impersonale. A questo proposito, si ritiene che, in entrambi i casi, il codice abbia voluto riferirsi unicamente al titolare del sigillo di Stato11.

Prima di analizzare singolarmente le tre fasi di cui si conserverà memoria formale nel testamento pubblico (dichiarazione orale del testatore, riduzione in iscritto a cura dell’ufficiale ricevente e lettura del documento così formato), è opportuno confrontare l’espressione conclusiva dell’art. 603, comma 2°, c.c., con quella dell’analogo art. 778 c.c. abr., in quanto essa ha valore generale e si applica a tutte le citate formalità. Il testo originale “Sarà fatta espressa menzione dell’osservanza di tali formalità” – che deriva direttamente dalla dernière èdition officielle du Code civil du 30 août 1816 – si è trasformato, attraverso l’espunzione del termine “espressa”, nell’attuale disposto supra riportato. Da ciò può forse conseguire un depotenziamento degli effetti pratici e dell’efficacia probatoria della mention de l’accomplissement des formalités légales? A nostro parere, no: le due norme risultano essere perfettamente equipollenti12. L’interrogativo offre, però, la possibilità di una interessante digressione al confine fra diritto, linguistica e semiotica. “I vocaboli «espressa», «espressione», e la locuzione «modo espresso» sono comunemente intesi ad indicare forme di manifestazione linguistica e sono ritenuti incompatibili con il contegno concludente, e quindi con ogni forma di manifestazione segnica, che pertanto trova in quelle norme un primo limite al suo operare (…) Di questa tendenza da «segno» a «linguaggio» la categoria degli atti a forma vincolata o solenne in senso proprio – caratterizzata dall’uso della scrittura o della dichiarazione davanti a un pubblico ufficiale – rappresenta il momento conclusivo, dove il linguaggio appare unica forma di espressione consentita, e reciprocamente il segno del tutto inidoneo quale forma di manifestazione giuridica. L’esigenza che l’apparire degli atti umani nel mondo della natura, per acquisire rilevanza giuridica, sia sottratto alla labilità degli indizi o delle testimonianze, induce l’ordine giuridico a richiedere in determinati casi una tecnica del comunicare idonea a ricevere e a conservare le idee espresse, e quindi più sicura e meno fuggevole degli altri linguaggi in cui ci si rivela l’altrui pensiero”13.

Ulteriore punto di collegamento, comune alle tre formalità enucleate all’art. 603 c.c., è da ricercarsi nella presenza dei testimoni14 durante tutte le fasi formative del regolamento post mortem: ai fini della presente indagine, diretta conseguenza sarà la precisazione, sotto forma di specifica menzione, che le operazioni si sono svolte non sine testibus. Non pare corretta, dunque, l’interpretazione in forza della quale il disposto normativo non ne richiederebbe l’assistenza durante la fase della trasposizione in testo scritto delle volontà esposte oralmente al notaio: “la costruzione sintattica lo esclude, ponendo la locuzione «in presenza dei testimoni» all’inizio di un’unica proposizione, che comprende i due momenti della dichiarazione orale e, subordinatamente ad essa, della formazione del documento”15. D’altro lato, non si dubita della necessaria presenza dei testi anche nel momento finale delle sottoscrizioni, sebbene ciò non sia espressamente richiesto dalla norma16. A nostro avviso, la problematica inerente la continua e contestuale presenza dei testimoni durante tutte le fasi della formazione dell’atto mortis causa svela i suoi aspetti più delicati allorché la si ricollega a ciò che, comunemente, avviene nella prassi degli studi notarili. Sovente accade che, dopo il primo colloquio informativo con il cliente, il professionista si riservi un periodo di qualche giorno per studiare la pratica, per verificare la scelta ottimale degli istituti giuridici che saranno posti in essere e, infine, per redigere materialmente l’atto. Per fini strettamente pratici, tali operazioni vengono compiute non in un unico contesto temporale, ma in momenti successivi e, soprattutto, senza l’assistenza dei testi. Tale consuetudine è lecita? Nel prosieguo del testo abbiamo cercato di giungere ad una risposta corretta a questo interrogativo, analizzando e sviluppando le più convincenti teorie elaborate dalla dottrina. Si può innanzitutto osservare che la funzione dei testimoni non si limita ad accertare che la redazione scritta corrisponda alla manifestazione orale di volontà, ma si estende a garantire la veridicità del documento anche nella sua formazione (plena fides in fieri), oltre che nel suo contesto finale. Per il controllo esteso alla fase di formazione del testamento pubblico, la presenza di questi soggetti si pone come eccezione alla regola generale degli atti notarili (l’art. 48 l.n. dispone che per tutti gli atti fra vivi, eccettuate le donazioni e le convenzioni matrimoniali, la parte o le parti che sappiano leggere e scrivere, hanno facoltà di rinunciare di comune accordo all’assistenza dei testimoni all’atto. Il notaio dovrà fare espressa menzione di tale accordo in principio dell’atto). A sostegno della irrinunziabile e continua presenza dei testi durante l’intera genesi dell’atto pubblico a causa di morte, non si deve concentrare l’attenzione unicamente sul secondo comma dell’art. 603 c.c., trascurando il primo. Quest’ultimo stabilisce che il testamento è ricevuto dall’ufficiale rogante in presenza dei testimoni: poiché l’attività tipica in cui si concreta la ricezione è proprio la scritturazione della volontà manifestata dal dichiarante, si deve concludere che soprattutto per tale operazione è necessaria la presenza di tali soggetti17. Si osservi, inoltre, che il temporaneo allontanamento, nel corso del rogito notarile, consentito ai fidefacenti (art. 51, n. 10, l.n.) non è invece permesso ai testi. Da ciò consegue che l’unitas acti, quasi sempre ridotta ai momenti della lettura del documento e della sua sottoscrizione, si estende – nello specifico caso qui esaminato – anche a comprendere la precedente fase di formazione del testamentum, alla quale i soggetti interessati devono necessariamente partecipare con la loro simultanea presenza18.

Per quanto riguarda il momento originario della manifestazione per vocem della volontà testamentaria, ai fini della sua prova nel corpo dell’atto, la problematica centrale cui rivolgere le nostre energie è indubbiamente quella del testatore muto o sordomuto, il quale non può manifestare expressis verbis i propri intenti per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Il legislatore si interessa di tale eventualità all’ultimo comma dell’art. 603 c.c., operando un semplice rinvio alle norme stabilite dalla legge notarile per gli atti pubblici di queste persone. Dalla lettura della Relazione al codice civile si evince che la Commissione non credette opportuno elencare minutamente le formalità applicabili ai minorati fisici, in quanto ritenne che la determinazione di queste potesse essere lasciata alla legge notarile, in vigore da oltre un ventennio, più facilmente variabile rispetto al nascituro codice civile. Al richiamo formulato dall’ultimo comma dell’art. 603 c.c. fa riscontro la norma dell’art. 60 l.n., che enuncia il criterio generale di coordinamento secondo cui le disposizioni del Capo I del Titolo III della legge 16 febbraio 1913, n. 89 si applicano anche ai testamenti ed agli altri atti, in quanto non siano contrarie a quelle contenute nel codice civile, nel codice di procedura civile, o in qualunque altra legge della Repubblica, ma le completino. I possibili conflitti vengono, quindi, risolti in base al criterio di specialità, secondo cui lex specialis derogat generali. In questo caso, norma generale per gli atti notarili è il testo unico del 1913, mentre norme speciali sono quelle dettate da altre leggi per singoli atti o categorie di atti, come nel caso dell’art. 603 c.c. Pertanto, qualora vi sia una disposizione contraria ad una norma della legge notarile, si applica la prima disposizione e non la seconda. Si deve, inoltre, osservare che la nuova formulazione dell’art. 60 l.n., rispetto a quella precedente – in cui si parlava genericamente di norme “diverse”, anziché “contrarie” – ha ridotto l’àmbito operativo del criterio di specialità, a favore di una più estesa applicazione della legge sul notariato tutte le volte che manchi una contraria (non soltanto diversa) disposizione in materia di forma19. A questo proposito, può ricordarsi un interessante dibattito apertosi in sede di redazione del nuovo codice unitario: infatti, l’art. 161 del progetto preliminare disponeva che per la materia regolata dagli articoli precedenti, cioè quelli riguardanti i testamenti per atto di notaio, si dovessero applicare le norme della legge notarile, in quanto non contraddicessero le disposizioni del nascente codice. Ma tale articolo fu soppresso nel progetto definitivo perché, come si evince dalla Relazione del Guardasigilli (n. 121), non sembrò opportuno che nel codice si facesse richiamo a leggi speciali20.

Secondo quanto disposto dall’art. 57 l.n., se alcuna delle parti è un muto o un sordomuto, oltre l’intervento dell’interprete prescritto nell’articolo precedente, si devono osservare le seguenti norme: il minorato, che sappia leggere e scrivere, deve egli stesso leggere l’atto e scrivere alla fine del medesimo, prima delle sottoscrizioni, che lo ha letto e riconosciuto conforme alla sua volontà; se, al contrario, non sa o non può leggere e scrivere, sarà necessario che il linguaggio a segni del medesimo sia inteso anche da uno dei testimoni, o che altrimenti intervenga all’atto un secondo interprete, così come stabilito dai due capoversi dell’articolo precedente.

La legge sull’Ordinamento del notariato e degli archivi notarili disciplina, quindi, con le medesime disposizioni entrambe le infermità (mutismo e sordomutismo); essa, inoltre, è da ritenersi applicabile non solo nell’ipotesi in cui la minorazione raggiunga il suo massimo grado, ma anche qualora il soggetto si trovi nella impossibilità di esprimere le proprie ultime volontà, con parole udibili dagli astanti e comprensibili dal notaio. Considerando l’ampiezza della casistica medica, si può annoverare nella suddetta patologia qualsiasi forma di difficoltà nell’espressione orale, anche se temporanea ovvero improvvisa e contingente, quale l’afasia (che consiste nella diminuzione della facoltà di parlare correntemente e che, nei casi più gravi, può portare alla perdita della parola21) sia essa associata o meno all’agrafia (incapacità di esprimere con lo scritto il proprio pensiero seguendo un ordine logico e razionale, causata da un’alterazione dei centri cerebrali).

Interessante querelle dottrinale – che non rimane uno sterile dibattito accademico sospeso nell’empireo, ma che dispiega i propri effetti sulla reale esperienza professionale di ogni notaio – è quella che si anima intorno all’impiego del cosiddetto “metodo gutturale”. Parte della dottrina non considera essenziale la mediazione di un interprete, qualora il soggetto impossibilitato a parlare abbia imparato a pronunziare qualche termine impiegando tale metodo22; altri non condivide tale opinione perché, trattandosi di parole isolate o di frasi brevi e disarticolate, spesso incomprensibili per chi non è abituato a rapportarsi quotidianamente con l’infermo, anche nella suddetta circostanza l’intervento del perito sarebbe sempre necessario, ai fini della esatta intelligenza della voluntas testandi23.

In conclusione, al fine di definire a quali minorati fisici sia applicabile la speciale normativa, si può concordare con chi ha felicemente sintetizzato: fra le attività cui è tenuto l’ufficiale ricevente un atto mortis causa, non è ricompresa quella di indagare se l’infermità del disponente sia congenita o acquisita né, in quest’ultimo caso, ricercare a quale tempo risalga la menomazione24. In tutti gli atti in cui interviene un individuo muto o sordomuto, è necessario l’ausilio di un interprete la cui funzione è quella di essere veicolo di relazione del soggetto impedito con il mondo esterno. La prima prescrizione dell’art. 57 l.n. – non distinguendo fra soggetti in grado di leggere e scrivere e soggetti a ciò impossibilitati o incapaci – appare sovrabbondante rispetto allo scopo che si prefigge, specialmente se si confronta questa disposizione con quella dell’art. 56 l.n. che richiede l’ausilio dell’interprete, per il sordo, solo nel caso in cui questi non sappia leggere25. Si è, infatti, evidenziata l’inutilità della prescrizione, poiché il comunicare mediante l’opera di un terzo soggetto risulta essere una garanzia minore rispetto alla comunicazione per iscritto che la parte minorata (in grado di leggere e scrivere) meglio può realizzare con il notaio26. Il dato normativo rimane però insuperabile e, quindi, occorre sempre la presenza di un interprete. La sua nomina è demandata all’autorità giudiziaria27, che provvederà ad effettuarne la scelta fra le persone abituate a trattare con il soggetto incapace di comunicare verbalmente: in tale elenco rientrano espressamente i parenti e gli affini del disponente (art. 56, comma 3°, l.n.), ma non sembra doversi escludere che l’autorità giudiziaria possa designare, quale interprete della volontà del muto, anche il coniuge, in quanto sappia farsi intendere dal medesimo con segni e gesti (art. 56, comma 2°, l.n.). L’interprete deve possedere i requisiti richiesti per i testimoni; inoltre, è tenuto a prestare giuramento, davanti al notaio, di adempiere fedelmente al suo compito e non può ricoprire, contemporaneamente, l’ufficio di fidefacente o di teste. L’art. 55, comma 2°, l.n., al quale si ricollega la norma de qua, prescrive anche l’espressa menzione del giuramento pronunziato dall’interprete, il cui ausilio sia stato richiesto per supplire alla non conoscenza, da parte del notaio, della lingua straniera in cui si esprime il comparente. Nel rogito redatto con l’ausilio di un tecnico del linguaggio, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un atto da parte di sordomuto analfabeta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 55, 56 e 57 l.n., l’interprete deve prestare giuramento e l’ufficiale ricevente è tenuto a fare menzione nell’atto del prestato giuramento28. Il testo unico sull’ordinamento del notariato, quando richiede che all’atto intervenga un interprete, lo fa allo scopo di consentire al notaio di intendere la volontà del dichiarante, capace di esprimersi con un sistema di segni (siano essi movimenti gestuali o espressioni vocali) che non rientrano fra quelli da lui compresi. Da questo punto di vista, non è possibile cogliere alcuna differenza fra il caso in cui il perito sia stato incaricato di tradurre la lingua straniera, impiegata dal testatore e non conosciuta dal rappresentante di Stato (art. 55 l.n.), ed il caso in cui il muto o sordomuto intenda regolare i propri interessi per il tempo in cui avrà cessato di vivere (art. 57 l.n.). L’attività dell’interprete si risolve, in entrambi i casi, in un’integrazione di quella del notaio, ed il giuramento che gli si impone di prestare è quello che il legislatore richiede a chi sia designato a ricoprire un pubblico ufficio, anche se temporaneamente (come avviene per i consulenti nominati dal giudice nel processo civile, ex art. 193 c.p.c.)29. Perciò, il rinvio – presente all’art. 57, l. n. 89 del 1913 – al primo capoverso dell’art. 55 della stessa fonte normativa deve considerarsi comprensivo anche della suddetta menzione30. In proposito, il primo intervento giurisprudenziale risale agli anni Settanta: in tale pronunzia si trova la conferma dell’obbligo non solo del giuramento di adempiere fedelmente l’ufficio, ma anche della relativa menzione. Ciò viene motivato dall’esigenza di approntare un sistema di cautele, tale da garantire la perfetta corrispondenza fra la reale volontà del testatore e la volontà ricostruita dopo la sua morte, per mezzo del documento notarile31.

Così definito l’ampio insieme dei soggetti che presentano questo specifico handicap, è la stessa legge notarile che individua due ulteriori sottogruppi. Il primo è costituito dagli individui in grado di leggere e scrivere (il legislatore prescrive che il muto o sordomuto, che sappia leggere e scrivere, deve egli stesso leggere l’atto e scrivere alla fine del medesimo, prima delle sottoscrizioni, che lo ha letto e riconosciuto conforme alla sua volontà, art. 57, primo cpv., l.n.); il secondo, a contrario, è formato da coloro i quali associano alla deficienza fisica anche l’incapacità o l’impossibilità di esprimersi per iscritto e di comprendere ciò che viene loro proposto in forma di testo scritto (qualora il soggetto non sappia o non possa leggere e scrivere, sarà necessario che il linguaggio a segni del medesimo sia inteso anche da uno dei testimoni, o che altrimenti intervenga all’atto un secondo interprete, giusta le norme stabilite nei due capoversi dell’articolo precedente (art. 57, ult. cpv., l.n.).

Per quanto riguarda il primo sottogruppo, benché la disposizione si riferisca letteralmente al muto o sordomuto che «sa» leggere e scrivere, riteniamo di non cadere in errore interpretando tale espressione (come anche quella contenuta nell’art. 56 l.n.) nel senso di «essere in grado» materialmente di leggere e scrivere. La tesi trova conferma, da un lato, nel secondo capoverso della norma, che, volendo considerare l’ipotesi opposta a quella appena delineata, fa riferimento a soggetti che “non sanno o non possono” leggere e scrivere; dall’altro, nella disciplina stessa dell’art. 57 l.n., che prevede formalità che possono essere adempiute solo da chi abbia imparato a compiere le due attività di lettura e di scritturazione32.

La formalità peculiare – il cui inadempimento comporta la nullità dell’atto ex art. 58, n. 4, l.n. – consiste nella lettura del testamento da parte del disponente e nella sua dichiarazione autografa di avere proceduto a tale operazione, nonché di avere riconosciuto conforme ai propri desiderata ciò che è stato scritto da un altro soggetto. È stato osservato che resta incomprensibile il motivo per il quale si richiede al muto di leggere l’atto, come per il sordo, considerato che egli, diversamente dal sordo, è perfettamente in grado di ascoltare la lettura fatta dal pubblico ufficiale33; la ragione sembra vada ricercata non nella difficoltà di distinguere i due casi (mutismo e sordomutismo) accomunati dal legislatore, bensì nella tradizione della manifestazione orale della volontà al notaio e nella necessità di surrogarla, ove tale forma declarandi non possa essere impiegata, con un’attività di controllo da parte dell’interessato34. Ovviamente, la lettura non potrà che essere mentale, cioè silenziosa: per tale motivo, la legge sul notariato non impone alcuna menzione a carico dell’ufficiale rogante, ritenendo sufficiente la dichiarazione di pugno del de cuius. Si ritiene pacificamente che l’adempimento di tale formalità non possa validamente sostituire la lettura fatta dal notaio: entrambe devono essere effettuate, ma l’ordine di esecuzione risulta ininfluente, essendo indifferente che l’una segua o preceda l’altra35.

La successiva dichiarazione di conformità, scritta interamente di pugno dal minorato36, deve essere apposta alla fine dell’atto, e deve precedere tutte le sottoscrizioni: così si esprime il Testo Unico del notariato. Fino ad una recentissima pronunzia di merito, il disposto dell’art. 57, comma 2°, l.n. veniva interpretato adottando un criterio eccessivamente rigoroso – non solo formale, ma addirittura formalistico – che si fondava su un’errata interpretazione letterale della norma, per condurre ad una altrettanto falsata interpretazione teleologica della ratio legis sottesa alla disposizione stessa. In particolare, si affermava che la dichiarazione del testatore dovesse essere estesa immediatamente dopo l’intero testo scritto (e le eventuali postille37) e dovesse precedere tutte le sottoscrizioni, ricorrendo, in caso contrario, uno dei previsti motivi di nullità del negozio giuridico notarile (art. 58, n.4, l.n.)38. In questo scenario, è intervenuta una rilevante ed innovativa sentenza39 le cui conclusioni appaiono saldamente ancorate all’architettura normativa in esame e la cui larga eco ha trovato attenti ed entusiasti sostenitori. Vi si legge che è valido l’atto in cui sia parte un sordomuto alfabetizzato, qualora la dichiarazione scritta proveniente da quest’ultimo di avere letto e di riconoscere l’atto conforme alla propria volontà sia allegata prima di alcune postille aventi carattere meramente formali. Per comprendere il valore di questa netta inversione della giurisprudenza, occorre sottolineare il duplice errore interpretativo commesso in passato da giudici e da studiosi.

Innanzitutto, l’interpretazione letterale della norma de qua (art. 57, comma 2°, l.n.) era viziata da una falsa sinonimìa fra «atto» e «documento»: mentre quest’ultimo deriva dal verbo latino doceo (e quindi, in origine, il termine documentum designava ciò che serviva ad apprendere qualcosa, cioè uno strumento di conoscenza di un fatto alieno al documento stesso), l’etimologia del primo vocabolo è riconnessa al verbo ago, e da ciò si può dedurre che l’actum, in quanto oggetto di descrizione, deve necessariamente precedere la sua rappresentazione. Spesso, l’uso improprio dei due termini induce ad impiegare la parola che si riferisce al solo contenuto (atto) per indicare anche il contenente (documento). Ricordando che “la parola atto esprime il negozio giuridico, mentre la parola documento denota l’attestato scritto del negozio stesso”40, ai fini di una corretta interpretazione del disposto normativo, appare evidente la correttezza della decisione adottata dai giudici partenopei: le eventuali postille, aventi carattere puramente formale, apposte dopo la dichiarazione del soggetto muto o sordomuto, non possono inficiare la validità del contenuto negoziale (atto in senso stretto) del documento che lo conserva41.

Inoltre, poiché anche nell’interpretare la legge notarile devono essere ricercate le ragioni che ne hanno determinato la promulgazione, un eccessivo formalismo in ordine a postille di relativa importanza si risolverebbe in un danno per la stessa parte che il legislatore intende salvaguardare42.

Oltre alle menzioni richieste per l’intervento dell’interprete e a quelle contenute nella dichiarazione scritta del minorato, non sono previsti altri particolari adempimenti formali: non è necessaria, ad esempio, la menzione di avere consegnato il documento mortis causa al minorato43.

Qualora, invece, il muto o sordomuto non sia in grado di leggere e di scrivere, è necessario che il linguaggio a segni del medesimo sia inteso almeno da uno dei testimoni, o che altrimenti intervenga all’atto un secondo interprete (art. 57, secondo cpv., l.n.). Riguardo al soggetto già menomato nella favella, il legislatore del 1942 precisa che, qualora il testatore sia incapace anche di leggere, ad esempio per menomazione del senso della vista, devono intervenire quattro testimoni (art. 603, ult. cpv., c.c.). Anche se, in passato, una giurisprudenza minoritaria44 sosteneva la necessità di raddoppiare il numero dei testi, in tutti quegli atti pubblici mortis causa cui partecipasse un soggetto non vedente, a nostro avviso sono da preferire le opposte posizioni su cui si sono attestate le più recenti pronunzie: la prescrizione di quattro testimoni, invece di due (richiesta per il muto o sordomuto, incapace anche di leggere), non sussiste per il soggetto privo della vista, che però è in grado di udire e sa parlare. A sostegno di tale conclusione, si può ricordare che la circostanza per cui, sotto il profilo del numero dei testi necessari, la situazione del non vedente è equiparata a quella del vedente, non ha nulla di paradossale. Infatti, correlando fra loro le disposizioni del codice civile e della legge notarile si riesce ad ovviare agli inconvenienti che, nella redazione in forma pubblica delle volontà testamentarie, sono connessi all’impossibilità di impiegare, da parte del testatore, uno o più dei tre mezzi di comunicazione: la vista, l’udito, la parola. Si consideri anche che, mentre nel caso in cui l’impossibilità riguardi l’udito o la parola, l’esigenza della fedele riproduzione della volontà del testatore è garantita, in concorso con le prescritte formalità di verbalizzazione, dall’intervento di uno o più interpreti, è quando vi si aggiunga l’incapacità di leggere (ipotesi in cui rientra la cecità) che la legge impone una garanzia maggiore, cioè la presenza di quattro testimoni45.

Almeno uno dei quattro testimoni deve fungere da medium fra il minorato ed il professionista scelto per la ricezione delle sue ultime volontà: per la validità dell’atto, il legislatore non prescrive la necessità del giuramento da parte di questi, ma si reputa opportuna la menzione scritta del fatto che il modo di espressione gestuale sia inteso da uno dei testi46. Analogamente a quanto avviene nel caso di documento redatto in lingua straniera (art. 55 l.n.), è pienamente condivisibile la consuetudine secondo cui è compito del testimone affermare di comprendere perfettamente il linguaggio impiegato dal disponente, senza alcuna ingerenza e responsabilità in merito per il notaio, e senza conseguenze, nel caso di dichiarazione falsa, sulla validità dell’atto.

Passando a trattare dell’ipotesi alternativa, anch’essa contemplata dall’art. 57 l.n. (intervento di un secondo interprete), il testuale richiamo ai due capoversi dell’articolo precedente induce a pensare che, ad entrambi gli esperti di linguaggio, siano riferibili le indicazioni formali di cui si è detto supra e, in modo particolare, la prestazione del giuramento e la relativa menzione nel documento notarile. A ciò si aggiunga che il testamento del sordomuto analfabeta è nullo qualora uno dei due interpreti nominati dall’autorità giudiziaria sia stato sostituito dal notaio e l’atto non contenga alcuna menzione che almeno una delle persone intervenute come testimoni fosse capace di intendere il linguaggio a segni del sordomuto47.

Possiamo concludere affermando che, con l’entrata in vigore del nuovo codice, la maggiore tutela adottata in favore degli individui che presentano determinate minorazioni fisiche è evidenziata dal combinato disposto dell’art. 603, ult. cpv., c.c. e degli specifici articoli dettati dalla legge notarile: “l’innovazione è, in certo senso, sorprendente, ma non pare che possa dar luogo a dubbi”48. La manifestazione delle ultime volontà consisterà (nella normalità dei casi) in una dichiarazione orale, mentre potrà essere espressa con le altre forme di comunicazione, indicate nelle suddette disposizioni, qualora il soggetto sia affetto da mutismo, sordità o sordomutismo.

La seconda formalità, il cui compimento deve chiaramente emergere dal testo dell’atto, è quella della riduzione in iscritto delle volontà testamentarie, effettuata a cura del notaio ricevente. Sotto l’impero del codice abrogato, si è sostenuto che tale adempimento potesse rimanere presupposto e, dunque, evincersi dalle altre dichiarazioni presenti nell’atto mortis causa49. A sostegno di ciò si diceva che della riduzione in iscritto a cura del notaio non fosse necessaria menzione espressa perché il tabellione, dando lettura dell’atto e apponendovi il proprio sigillo, dimostrava chiaramente che la riduzione in iscritto era sua opera o da lui sanzionata. “Il testamento è come un processo verbale, come una continua menzione del notaio di quanto si opera dal testatore, ed ha perciò in sé stesso la prova della partecipazione del notaio all’atto”50. Ma questa opinione poteva considerarsi, già allora, priva di solido fondamento, ed anzi appariva in contrasto con la ratio legis. Come si è già puntualmente osservato, sia l’art. 778 c.c. abr. (“espressa menzione dell’osservanza di tali formalità”), sia l’attuale art. 603 c.c. (“Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento”) ricomprendono nell’elenco degli atti di cui conservare memoria anche la trasposizione di ciò che, proprio attraverso la funzione di adeguamento esercitata dall’esperto di diritto, si trasformerà da testamentum nuncupativum a regolamento pubblico di interessi privati. Anzi, la formulazione letterale della vigente norma è ancora più precisa ed univoca: si può pensare che tale puntualizzazione sia stata voluta per eliminare qualsiasi dubbio a riguardo. Nel progetto preliminare del codice (art. 157) e nel progetto definitivo (art. 149) la formulazione risultava assai diversa perché in essa si affermava: “Di tutte queste formalità è fatta menzione nel testamento”. Essa fu modificata certamente al fine di escludere che la menzione di tutte le formalità potesse essere generica e per stabilire, invece, che dovesse essere specifica e riferirsi, quindi, a ciascuna di esse51.

Terzo, ed ultimo, comportamento previsto dal secondo comma dell’art. 603 c.c., e di cui l’atto testamentario deve conservare la prova dell’avvenuta effettuazione, è quello della lettura, diretta al testatore ed ai testi, che il notaio compie dell’intero verbale di ricevimento del testamento pubblico. L’art. 51, n. 8, l.n. ammette che il notaio possa delegare ad altri la lettura degli atti che non siano stati scritti da lui personalmente, ad eccezione di ciò che dispone il codice civile in ordine ai testamenti; ne consegue che l’art. 603, comma 2°, c.c., stabilendo a carico del professionista un (inderogabile) obbligo di lettura, assume carattere di specialità nei confronti del testo unico sul notariato.

La presente indagine è volta ad individuare le procedure tipiche e le particolari cautele che si devono osservare allorché il soggetto che intende disporre dei propri diritti per il tempo in cui avrà cessato di vivere presenti l’handicap della sordità, minorazione fisica che preclude la comprensione di quanto trasmesso per vocem da chi ha redatto il documento per causa di morte. A questa ipotesi, il codice civile abrogato dedicava un unico articolo: chi era interamente privo dell’udito doveva leggere egli stesso l’atto testamentario e di ciò si doveva riportare menzione nel documento medesimo. Se il testatore era incapace anche di leggere, il numero dei testimoni doveva essere elevato a cinque, o solamente a tre, se il negozio contenente le ultime volontà fosse stato ricevuto da due notai. (art. 787 c.c. abr.). L’attuale normativa che regola gli atti mortis causa posti in essere dagli individui privi dell’udito è contenuta nel testo unico del notariato. In base all’art. 56 l.n., qualora la parte sia priva dell’udito, essa dovrà leggere l’atto e di ciò, per mezzo di specifica menzione, si avrà prova documentale. Se il sordo non sa leggere, dovrà intervenire all’atto un interprete, che sarà nominato dal pretore del mandamento tra le persone abituate a trattare con esso e che sappia farsi intendere dal medesimo con segni e gesti. L’interprete dovrà possedere i requisiti necessari per essere testimone, e dovrà prestare giuramento di adempiere fedelmente al suo incarico. La scelta sarà effettuata nella cerchia dei parenti e degli affini del sordo, ed egli non potrà fungere contemporaneamente da testimone o da fidefacente.

Ai fini dell’applicazione di tale disposizione, si richiede che il soggetto sia interamente privo dell’udito. Una minorazione parziale, quindi, non è rilevante, purché il notaio sia in grado di farsi chiaramente intendere, parlando a voce alta; parimenti, non sorgerebbe alcun problema se la sordità venisse corretta per mezzo di protesi acustiche. L’accertamento del grado di sordità viene rimesso all’abituale prudenza dell’ufficiale rogante (prima ancora che all’esito di una perizia) e la menzione espressa di tali operazioni, sebbene non sia obbligatoria, risulta assai opportuna52.

A differenza dell’art. 54 l.n., che regola l’ipotesi di non conoscenza della lingua italiana, la norma in esame non prevede espressamente che la sordità costituisca oggetto di una dichiarazione di parte, anche se abitualmente il notaio preferisce che sia il testatore stesso ad esplicitare la propria incapacità di udire ciò che avviene intorno a lui53.

Fra i soggetti che non sono in grado di leggere rientra anche il sordo non vedente. Poiché, tuttavia, l’applicabilità dell’art. 56, comma 2°, l.n. non costituisce una norma di sfavore collegata con la cecità, ma una maggiore tutela in favore del sordo, la disposizione de qua non può considerarsi abrogata, in questo specifico punto, dal principio di equiparazione fra vedenti e non vedenti, sancito dall’art. 1, l. 3 febbraio 1975, n. 18, secondo cui la persona affetta da cecità congenita o contratta successivamente, per qualsiasi causa, è a tutti gli effetti giuridici pienamente capace di agire54.

Anche nell’ipotesi della sordità, come in quella già trattata del mutismo, le modalità di ricevimento dell’atto si differenziano negli opposti casi in cui il minorato sappia o, al contrario, non sappia leggere. Nel primo caso, l’unica formalità aggiuntiva richiesta è costituita dalla lettura personale dell’atto, effettuata dal disponente; essa, successivamente, sarà oggetto di speciale menzione notarile. La lettura deve essere eseguita dal sordo stesso, in presenza del notaio e dei testimoni: secondo una parte della dottrina55, deve essere fatta ad alta voce, con toni perfettamente udibili dai presenti, al fine di consentire a questi ultimi una piena possibilità di controllo che essa sia effettivamente avvenuta. La tesi risulta eccessivamente rigorosa, sono quindi preferibili le considerazioni opposte, che ritengono sufficiente una lettura silenziosa e mentale56.

Per opinione dottrinale sostanzialmente concorde57, la lettura del sordo non esime il notaio da un analogo obbligo: ciò è di immediata evidenza nel rogito di atti inter vivos cui intervengano parti non sorde, ma la lettura per bocca del pubblico ufficiale assurge a regola generale per la validità del testamento pubblico ed è indispensabile ad assicurare il controllo della perfetta concordanza fra quanto dichiarato dal testatore e quanto risulta dal documento notarile. Il legislatore non prevede espressamente l’ordine in cui devono avvenire le due letture. In proposito, si è ritenuto che quella effettuata dal sordo debba necessariamente precedere l’altra, perché, in caso contrario, la relativa menzione non potrebbe essere letta né dal sordo né dal notaio; tuttavia, se si afferma che la menzione della lettura da parte del notaio debba, a sua volta, essere oggetto di lettura (in quanto facente parte dell’ escatocollo), l’ordine dovrebbe essere invertito, poiché la prima lettura del minorato non potrebbe logicamente comprendere la menzione di un fatto che non si è ancora verificato. In realtà, al fine di evitare le insidie nascenti dalla difficile armonizzazione fra la scansione cronologica delle letture e l’ordine delle relative menzioni, la prassi notarile ha sempre mirato, in questo specifico caso, a privilegiare la sostanza sulla forma.

Trattando della seconda ipotesi, qualora il sordo non sia in grado di leggere, è necessaria la nomina di un interprete, cui è assegnato il compito di illustrare al sordo, con segni e con gesti, quanto viene letto dal notaio. Per ciò che riguarda i requisiti che deve possedere il perito, le modalità del suo intervento e le relative menzioni, il disposto dell’art. 56 l.n. è assai preciso e le considerazioni precedentemente espresse in tema di mutismo risultano essere indicazioni esaustive anche a riguardo della minorazione fisica in oggetto.

Poiché la lettura della tabula testamenti viene sostituita dalla traduzione fatta a segni ed a gesti, di tale attività il notaio farà espressa menzione, per rispettare il voto della legge (art. 51, n. 8, l.n.).

Si ricorda, inoltre, che – in forza dell’art. 603, ult. cpv., c.c. – qualora il testatore sia incapace anche di leggere, il numero dei testimoni deve essere elevato a quattro.

Enunziate oralmente le supreme volontà, redatto il documento notarile, datane integrale lettura ai testimoni, il disponente è tenuto (al pari degli altri soggetti intervenuti) a sottoscrivere l’atto apponendovi il proprio personale suggello e così riconoscendo al negozio giuridico mortis causa i caratteri della definitività e della sua piena approvazione58. Quid iuris nell’ipotesi particolare in cui il testatore si trovi impossibilitato a firmare, per cause non dipendenti dal proprio volere? In tale situazione soccorre il preciso disposto contenuto nell’art. 603, comma 3°, c.c., per cui, se il testatore non può sottoscrivere, o può farlo solo con grande difficoltà, deve precisarne il motivo al notaio, e questi deve menzionarlo prima della lettura dell’atto. Con tale previsione normativa, il legislatore mira ad escludere che la mancata sottoscrizione possa equivalere, sempre e senza alcuna eccezione, ad un rifiuto della definitiva conferma di quanto predisposto nel documento: infatti, è previsto che sia lo stesso disponente ad indicare, con una formula positiva, la causa impeditiva. L’assenza di tale dichiarazione comporta la nullità del testamento.

La ratio della disposizione, che nasce dalla necessità di tutelare soggetti che versano in condizioni fisiche o psichiche non normali, può trovare il proprio fondamento nella stessa Costituzione, nel principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’articolo 3, che considera compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza di tutti i consociati, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. A conferma di ciò, può osservarsi che, in assenza di una norma qual è l’art. 603 c.c., determinate categorie di individui sarebbero assoggettate ad una ingiustificata limitazione della capacità di agire non potendo liberamente valersi dell’opzione di potere disporre del proprio patrimonio con testamento59. Infatti, se si considera che la causa impeditiva della mancata sottoscrizione, che più frequentemente ricorre nell’esperienza giuridica notarile, è rappresentata dalla inscientia scribendi, la violazione del diritto di eguaglianza fra i cittadini sarebbe palese: da un lato, il minorato ovviamente non riuscirebbe a porre in essere un testamento olografo, per la validità del quale è richiesta l’autografia; dall’altro, l’art. 604, ult. cpv., c.c. è sintetico e preciso: chi non sa o non può leggere non può fare testamento segreto. Si precluderebbe, quindi, la possibilità di trasferire i propri beni per mezzo di un autonomo regolamento patrimoniale, in grado di sottrarre i beni stessi alle disposizioni che regolano la successione ab intestato (norme spesso contrastanti con la volontà del titolare dei diritti).

Dopo avere illustrato il reale significato della norma (nonché il suo alto valore all’interno della società civile60) è interessante analizzare due problematiche ad essa riconnesse che sviluppano importanti effetti sull’oggetto della presente indagine: l’effettiva sussistenza nella realtà di una limitazione psico-fisica61 così grave da impedire la sottoscrizione e la conseguente dichiarazione di non potere apporre la firma, che deve provenire personalmente dal testatore.

Per quanto riguarda la menzione notarile, essa risulta pienamente valida solo qualora il motivo addotto dal dante causa sia realmente esistito al tempo del testamento e, aggiungiamo noi, sia stato determinante a precludere quella approvazione coerente ed autoresponsabile di quanto ridotto in iscritto dal pubblico ufficiale, approvazione che è sottesa all’azione stessa di vergare il proprio nome in fine delle disposizioni mortis causa. Quale ulteriore chiarimento di quanto esposto, può dirsi che il testamento è valido solo se il dichiarato ostacolo effettivamente sussista, derivando in caso contrario il difetto di sottoscrizione e la conseguente nullità dell’atto ai sensi dell’art. 606 c.c.; inoltre, non essendo previsto alcun vincolo lessicale né per la dichiarazione, né per la menzione, è compito del giudice di merito stabilire se il contenuto della prima soddisfi l’esigenza sostanziale ed i requisiti formali che il codice prescrive62.

Si è già accennato al fatto che l’asserzione di non potere effettuare una valida sottoscrizione debba necessariamente provenire dal disponente63 e che, sebbene non siano previsti termini tassativi o formule sacrali per la relativa menzione64, l’attestazione di perseverare nella volontà espressa non possa manifestarsi per facta concludentia (ad esempio, mostrando al notaio il braccio paralizzato65).

A conclusione della presente indagine – finalizzata ad illustrare le menzioni, prescritte dal codice civile e dalla legge notarile, per la validità del testamento pubblico in genere e, in modo più dettagliato, dell’atto mortis causa posto in essere da un soggetto che presenta minorazioni fisiche – l’ultimo caso da analizzare risulta essere quello, che volutamente si mantiene circoscritto, della mancata sottoscrizione finale da parte di un individuo non vedente.

La l. 3 febbraio 1975, n. 18, contenente Provvedimenti a favore dei ciechi ha inteso predisporre una fitta trama di garanzie in favore di coloro che sono privi della vista: si prevede la parificazione, a tutti gli effetti giuridici, del cieco agli altri soggetti; si dichiara vincolante la firma apposta su qualsiasi atto, senza alcuna assistenza, dalla persona affetta da tale menomazione; viene creata ad hoc la figura del “testimone di parte”66; infine, è detto che, quando la persona affetta da cecità non è in grado di apporre la firma, essa è tenuta ad effettuare la sottoscrizione con un segno di croce; tale adempimento sarà garantito dalla formula «impossibilitato a sottoscrivere» (art. 4, comma 1°, legge citata).

Il provvedimento legislativo qui in esame, fino dalla promulgazione, aveva destato notevole perplessità circa la sua applicabilità ai documenti notarili e se ne era auspicata una rapida e sostanziale modifica, per escludere espressamente dalla sua sfera d’azione questo tipo di atti67. Trascorso oltre un ventennio, la legge – nella sua formulazione “atecnica ed approssimativa”68 – è rimasta invariata; dalla giurisprudenza non è ancora emersa una corrente di pensiero uniforme; la dottrina procede in modo tentennante e con passo incerto.

A questo proposito, è recentemente intervenuta la Suprema Corte con una pronunzia innovativa, che si pone in contrasto con la precedente (e fino ad allora unica) sentenza emessa dal massimo collegio giudicante su questo specifico thema decidendum. In essa si affermava la nullità di un atto notarile posto in essere da un soggetto affetto da cecità, atto che era stato ricevuto in presenza dei testimoni strumentali (previsti dalla legge sull’ordinamento del notariato), ma in assenza degli assistenti e partecipanti, contemplati dalla legge sugli individui non vedenti69.

Al contrario, i provvedimenti normativi in favore dei ciechi sono tali da escludere la legittimità dell’affermazione secondo la quale detta condizione fisica sia ex se sufficiente a giustificare la mancata apposizione della propria firma da parte del minorato, in quanto il nostro ordinamento considera tali individui come persone dotate della normale capacità di sottoscrivere tutti gli atti che li riguardano (praesumptio iuris et de iure). Inoltre, la nuova decisione dichiara incompatibile con la natura e con la struttura dell’atto pubblico la disposizione in tema di assistenza a persona non vedente nella partecipazione a negozi giuridici documentali, in ragione del fatto che l’intervento e la firma dei due ausiliari del cieco possono riferirsi unicamente alle scritture private, e non agli atti notarili (siano essi inter vivos o mortis causa), la cui formazione è opera esclusiva del pubblico ufficiale senza che sia concepibile alcuna interferenza da parte di terzi. Infatti, l’apposizione della formula «impossibilitato a sottoscrivere», accompagnata dalla firma dei fiduciari del cieco, può valere a perfezionare un documento redatto da privati, mentre risulta priva di qualsiasi funzione in relazione agli atti previsti dall’art. 2699 c.c., nei quali la professione della parte, relativa all’impedimento a sottoscrivere, viene documentata dal notaio ricevente (ex art. 51 l.n.), ed in cui la fedeltà della riproduzione della voluntas testandi è certificata, in via esclusiva, dal predetto70.

Se, in linea generale, tali princìpi sono applicabili alle menzioni richieste per tutti gli atti notarili, in particolare essi si possono estendere al caso contemplato dall’art. 603, comma 3°, c.c.: esclusa, quindi, l’equivalenza fra cecità ed impossibilità a firmare, qualora il cieco sappia scrivere il proprio nome, una sua eventuale dichiarazione (contraria al vero) porterebbe inevitabilmente alla nullità del testamento, per assoluta mancanza di volontà.

1 CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, p. 14. Recentemente, un’ampia disamina delle problematiche di tecnica linguistica riconnesse alla struttura dei negozi giuridici notarili è stata sviluppata da MARMOCCHI, Il linguaggio dell’atto pubblico, in Riv. not., 1999, p. 1. L’autore – partendo dall’affermazione secondo cui l’atto pubblico è il luogo ideale dei legami espressivi esistenti tra diritto e linguaggio – sottolinea l’importanza di tutte le indicazioni, le designazioni, le dichiarazioni delle parti e le relative menzioni che, necessariamente, devono essere contenute nei documenti redatti dai pubblici ufficiali, al fine di assegnare un predicato giuridico al fatto storico.

2 Si vedano: LOI, Le successioni testamentarie (art. 587-623 c.c.), in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1992, p. 240; BRANCA, Dei testamenti ordinari, in Commentario del Codice Civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, libro II, Successioni (art. 601-608), Bologna – Roma, 1986, p.117; GIANNATTASIO, Delle successioni. Successioni testamentarie, in Commentario del Codice Civile Utet, libro II, t. 2, Successioni (art. 587-712), Torino, 1978, p. 119; PIRAINO LETO, Requisiti di forma del testamento (l’art. 603, 2° comma c.c.), in Nuovo dir., 1958, p. 741. Rimane, quindi, minoritaria la tesi opposta avanzata da ARIENZO, Testamento pubblico: menzione del compimento delle formalità richieste; prevalenza della sostanza sulla forma dell’adempimento; redazione a cura del notaio, in Giust. civ., 1960, I, p. 144.

3 Secondo il lessico di ALLARA, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, p. 89 ss.

4 I temi della libertà individuale e dell’autonomia privata risultano tanto vasti e complessi, quanto affascinanti e poliedrici. Si può partire dalle considerazioni (ancora valide e brillanti) di TROPLONG, Droit civil expliqué. Des donations entre-vifs et des testaments, vol. I, Bruxelles, 1855, p. II: “(…) puisqu’il est vrai que le testament est le signe le plus apparent de la propriété libre et de l’autorité de la volonté individuelle, il ne faut pas s’étonner qu’ il tienne une grande place dans le Code Napoléon”. Gli autori francesi più recenti, senza negare il valore del testamento quale massima dimostrazione della libertà del volere, evidenziano una sua ulteriore particolare caratteristica: “Offrant aux écrivains une matière privilégiée pour analyser les ressorts de l’âme humaine, le testament se révèle également précieux pour l’historien dans la mesure où il lui permet d’étudier l’évolution des mentalités collectives. Il a aussi éveillé l’attention en sociologie juridique” (la citazione è tratta da TERRÉ, LEQUETTE, Droit civil. Les successions. Les libéralités, Paris, 1997, p. 271, che rielabora quanto affermato da CARBONNIER, Cours de sociologie juridique, Paris, 1963-1964, passim). La più recente dottrina italiana auspica una “rivitalizzazione” del testamento, sostenuta non solo da una rivalutazione della sua funzione atipica, ma anche da un pieno riconoscimento del suo carattere di atto di autonomia privata (PALAZZO, Declino dei patti successori, alternative testamentarie e centralità del testamento, in Jus, 1997, p. 289). Sulla fondamentale importanza riconosciuta alla libertà testamentaria, si sofferma FRANCESCHELLI, Persona umana e successioni. Itinerari di un confronto ancora aperto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, p. 398: “(…) il testamento è uno dei pochi atti di autonomia privata – se non il solo – a rimanere estraneo a quel processo di funzionalizzazione e di vera e propria socializzazione che, sul tornante degli anni Sessanta, ha attraversato tutte o quasi le tradizionali e fondamentali categorie del diritto privato”. Agli aspetti sociali e pregiuridici dell’autonomia privata, dedica uno studio di carattere generale SCHLESINGER, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, I, 1, c. 229.

5 Questa la motivazione addotta da PACIFICI-MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano, quinta edizione corredata con note rivedute ed ampliate di dottrina e giurisprudenza a cura di G. Venzi, vol. VI, Parte speciale, Delle successioni, Firenze, 1922, p. 298, in nota.

6 A sostegno di tale conclusione, possiamo addurre il lucido argomentare di POLACCO, Delle successioni, vol. I, Roma, 1919, p. 193.

7 Si vuole qui ricordare l’intensa ed eterna immagine della figura notarile, che Francesco Carnelutti delineò in occasione della conferenza tenuta alla Academia del Notariado di Madrid il 17 maggio 1950: “I tedeschi dell’ultimo tempo avevano foggiato la parola (una di quelle parole composte che costituiscono il pregio della loro lingua) Rechtswahrer, che voleva dire qualcosa equivalente a “custode del diritto” o, meglio, “guardiano del diritto” (…) Più che l’uomo del diritto il notaro si considera come l’uomo di buona fede (…) Fede, dunque, ma in che? La fides bona, sulla quale i romani, prodigiosi artisti del diritto, hanno tanto insistito e alla quale hanno attribuito nientemeno che una virtù taumaturgica, nel senso che essa opera i veri miracoli nel diritto, non vuol dir altro che fede nel bene, come il buon senso vuol dire semplicemente senso del bene. Uomo di buon senso è colui che vede le stelle dove un altro con lo sguardo meno acuto non le sa vedere; uomo di buona fede è colui che si fida delle stelle che ha veduto” (CARNELUTTI, La figura giuridica del notaro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, pp. 922 e 930). A conclusione di questa digressione sulla figura professionale del notaio, non si può lasciare che si perdano nell’oblio le brevi ed erudite pagine di BORTOLUZZI, A proposito del notaio scienziato, in Vita not., 1997, p. 1589, in cui l’autore offre una moderna immagine dell’antico tabellione, citando Calvino, ricordando Einstein, accomunando il ministero notaio-interprete (“contraddittore con i suoi documenti della falsa conoscenza imposta dalle immagini ufficiali”) all’opera cinematografica rivoluzionaria del regista polacco Krysztof Kieslowski.

8 Osserva GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1947, vol. I, p. 147, che, quando la legge notarile parla di “parti”, essa si riferisce anche al testatore: la soppressione della specificazione “contraenti” – vocabolo che era impiegato nel precedente testo unico del notariato (regio decreto 25 maggio 1879, n. 4900) – ha dunque la funzione di estendere l’applicazione della normativa sugli atti notarili anche ai testamenti.

9 PLANIOL, RIPERT, Traité pratique de droit civil français, t. V, Donations et testaments, par A. Trasbot et Y. Loussouarn, Paris, 1957, pp. 709-710.

10 L’exemplum è tratto dall’edizione manoscritta di COVIELLO N., Corso completo del diritto delle successioni, seconda edizione curata da L. Coviello, vol. II, Successioni legittime e testamentarie, Napoli, 1915, p. 434; in senso analogo, D’AVANZO, Delle successioni, t. II, Firenze, 1941, p. 818. Fra gli autori più recenti che, implicitamente o esplicitamente, sostengono la tesi esposta nel testo: LOI, Le successioni testamentarie (art. 587-623), cit., p. 230; CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 1983, p. 449; GIANNATTASIO, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., pp. 115-117 (che sottolinea come il diritto moderno abbia mutuato dal diritto romano l’elemento della dichiarazione orale e dal diritto intermedio la riduzione in iscritto a cura di un professionista dell’ars notaria); CARAMAZZA, Delle successioni testamentarie, in Commentario teorico – pratico al codice civile, diretto da V. De Martino, libro II, Delle successioni (art. 587-712), Roma, 1973, pp. 140-141.

11 L’art. 23 dell’ordinanza francese del 1735, emanata da Luigi XV su suggerimento del Gran Cancelliere D’Aguesseau, prescriveva che unicamente il notaio potesse rendersi artefice della menzione (“de la quelle sera fait mention par le dit notaire ou tabellion”). Nonostante ciò – essendosi introdotto un abuso contrario nella città di Valenciennes, dove i notai volevano risultare semplici uditori delle volontà ricevute e si limitavano a scrivere quanto veniva loro dettato dal disponente – il 16 maggio 1763 si rese necessaria una regia dichiarazione per la condanna di tale condotta: essa conteneva una precisa disposizione in cui si obbligavano tutti gli ufficiali del Regno a fare essi stessi, e in loro nome, la menzione dell’adempimento delle formalità richieste.

12 A conferma, si possono leggere le conclusioni di CICU, Testamento, Milano, 1951, p. 71 (“L’art. 778 del codice abrogato parlava di menzione espressa: quest’aggettivo non è riprodotto nel nuovo codice; ma non crediamo che ciò debba portare a diversa interpretazione”) e di D’AVANZO, Delle successioni, cit. p. 818, in nota, il quale, analizzando il progetto del nuovo codice, afferma che l’art. 149, comma 2°, c.c. non ripete più l’aggettivo “espressa” dell’art. 778 c.c. abr., in ragione del fatto che esso si rivela assolutamente pleonastico, quasi che possa esistere una menzione tacita. Quest’ultimo ricorda, inoltre, che si era cercata una spiegazione alla sovrabbondanza lessicale della precedente formulazione, ipotizzando che il legislatore avesse voluto affermare il principio in forza del quale il notaio avrebbe dovuto emettere una esplicita dichiarazione, e ciò al fine di escludere la possibilità (e il pericolo) di una prova dell’osservanza di quella formalità desunta da congetture logiche.

13 MARMOCCHI, Forma scritta tra linguaggio e segno, in Riv. dir. comm., 1985, p. 40. Tesi simili sono state esposte anche da altri illustri giuristi: IRTI, La ripetizione del negozio giuridico, Milano, 1970, p. 22; PUGLIATTI, FALZEA, I fatti giuridici, Messina, 1945, pp. 52-53; BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, ristampa corretta della seconda edizione, Napoli, 1994, p. 125 ss.

14 In giurisprudenza, si è affermato che la falsa attestazione da parte del notaio della presenza dei testimoni all’atto, non essendo prescritta dal legislatore a pena di nullità, comporta la semplice annullabilità del negozio di ultima volontà (e non la sua nullità), in base al principio secondo cui il giudice investito dell’incidente di falso, nell’accertare determinati fatti, opera una trasformazione della realtà materiale e giuridica attraverso la sostituzione del quid veri al quid falsi (Cass. 30 gennaio 1992, n. 1009, in Giust. civ., 1992, I, p. 2129).

15 MARMOCCHI, Forma dei testamenti, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. I, Padova, 1994, p. 830. Una puntuale conferma delle argomentazioni esposte nel testo è offerta dalla recente monografia a cura di TRIOLA, Il testamento, Milano, 1998, pp. 166-167.

16 In tale senso si esprime FREDIANI, La continua e contestuale presenza dei testimoni alla stipulazione degli atti e la menzione della lettura dei medesimi in presenza di essi richiesta dal n. 8 dell’art. 51 della legge notarile, in Rolandino, 1939, p. 328.

17 Così si è espresso TRIOLA, In tema di testamento predisposto dal notaio, in Giust. civ., 1976, I, p. 290, in seguito confermato da DI FABIO, Manuale di notariato, Milano, 1981, p. 124. Secondo un’impostazione ancora più radicale, a nulla vale sostenere che la ratio legis sottesa all’art. 603 c.c. sia (unicamente) quella di approntare, per mezzo della presenza dei testimoni, una serie di guarentigie a tutela della perfetta corrispondenza fra quanto dichiarato e quanto ridotto per iscritto. In realtà, le forme da osservarsi in tema di testamento pubblico sono richieste ad substantiam actus: autoritativamente poste, queste formalità acquistano valore a prescindere da ogni collegamento con il fine, esse divengono totalmente autonome e devono essere rispettate per il solo fatto che esse esistono, essendo precluso ogni apprezzamento sulla loro opportunità (FERRI L., Predisposizione dello scritto da parte del notaio che riceve un testamento pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1947, pp. 179-181). Questa tesi è stata aspramente criticata da BRANCA, Dei testamenti ordinari, cit., pp. 116-117 (“Questa opinione dottrinaria ha scarsa possibilità di risalire il Pordoi”), che conclude per la “legittimità d’un testamento pubblico scritto senza testimoni nello studio notarile ma poi esposto (non basta leggerlo) ai testimoni”.

18 Per meglio comprendere questa tematica, un valido strumento di indagine è offerto dagli studi di BETTI, Interpretazione dell’atto notarile, in Riv. not., 1960, p. 8 e di DONÀ, Elementi di diritto notarile, Milano, 1933, p. 180.

19 Tale conclusione risulta ampiamente condivisa dalla dottrina: TRIOLA, Il testamento, cit., p. 152; CRISCUOLI, Il testamento. Norme e casi, Padova, 1995, p. 84 ss.; PROTETTÍ, DI ZENZO, La legge notarile. Commento con dottrina e giurisprudenza delle leggi notarili, Milano, 1995, pp. 274-275; BOERO, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, Torino, 1993, p. 371; CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 448; DI FABIO, Manuale di notariato, cit., p. 120.

20 Il dibattito, di cui si è detto nel testo, viene ricordato da GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., pp. 143-144.

21 Si rivela interessante lo studio di FALZONE, Intervento di un afasico nell’atto notarile, in Il Notaro, 1948, p. 65, il quale distingue due stadi di questo disturbo: se la paralisi non ha comportato danni irreparabili, l’afasico si esprime con sufficiente chiarezza; ma se la patologia, come spesso avviene, è progressiva, si giunge alla situazione in cui l’ammalato emette solo suoni inarticolati e incomprensibili e, se dai suoi gesti e segni si rivela il suo pensiero, egli lo conferma o lo nega quando viene in proposito interrogato. Evidentemente, nel primo caso (e solo nel primo caso) l’afasico non deve essere equiparato al soggetto muto, e quindi non è necessario ricorrere all’assistenza dell’interprete, in quanto l’articolo 57 l.n. è disposizione di carattere eccezionale e, perciò, di stretta interpretazione.

22 Ex aliis, DEGNI, Delle successioni testamentarie. Della forma dei testamenti, in Commentario al codice civile, diretto da M. D’Amelio e E. Finzi, Firenze, 1941, p. 436; GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., p. 168; MELUCCI, Il testamento, Napoli, 1914, p. 160; PACIFICI-MAZZONI, Codice civile italiano commentato con la legge romana, le sentenze dei dottori e la giurisprudenza, parte prima, vol. III, Delle successioni testamentarie, Firenze, 1906, p. 60 (“Che anzi ove un muto pei mirabili quanto benèfici trovati dei nostri giorni acquisti la loquela, potrà far testamento pubblico”); VITALI, Del testamento pubblico, Piacenza 1884, p. 23 (in cui si afferma l’applicabilità della disciplina generale anche ai soggetti minorati che, ad esempio “col metodo dell’abate Tarra”, abbiano acquisito un discreto uso della lingua articolata).

23 Da ultimo: FUSI, Testamento del sordo, muto e sordomuto e cieco, in Vita not., 1992, p. CXXXII; AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, p. 444.

24 PROTETTÌ, DI ZENZO, La legge notarile. Commento con dottrina e giurisprudenza delle leggi notarili, cit., p. 264.

25 Sul punto, si rimanda a BOERO, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, Torino, 1993, p. 358.

26 Da ultimo, CANANZI, Forma dell’atto e garanzie a tutela del sordomuto, in Notariato, 1998, p. 329, che conferma quanto affermato da GIRINO, voce Sordo, muto e sordomuto, in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1970, p. 913.

27 In seguito alla modifica apportata all’art. 56 l.n. dall’art. 233, comma 1°, lett. c, decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, risulta competente il presidente del tribunale del domicilio del soggetto muto o sordomuto. Si aggiunga, inoltre, che è prassi allegare copia autentica del decreto di nomina, anche se si tratta di un adempimento non espressamente previsto, e che pertanto non viene ritenuto obbligatorio.

28 Di ciò si trova conferma nella recente Cass. 20 dicembre 1996, n. 11433, in Riv. not., 1997, p. 850. In dottrina, pochi anni prima della stesura del nuovo codice civile, vi era già chi commentava l’esplicito rinvio, operato dall’art. 56 l.n. al precedente art. 55 l.n., affermando: “Per quanto il rinvio a questa norma appare limitato alla sola prestazione del giuramento, pure, per l’indivisibilità di essa, per il fatto che le modalità del giuramento e la prescrizione della menzione si susseguono nello stesso periodo mediante la congiunzione «e» preceduta soltanto da una virgola, ci sembra che anche nel testamento pubblico del sordo analfabeta deve farsi menzione della prestazione del giuramento, davanti al notaro, dell’interprete” (NAVARRA, L’intervento dell’interprete nel testamento pubblico del sordo analfabeta, in Rolandino, 1940, p. 23).

29 La già ricordata pronunzia – Cass. 20 dicembre 1996, n. 11433, cit., p. 851 – conclude affermando che la circostanza in ragione della quale, nel primo caso (lingua straniera) l’interprete sia scelto dalle parti e nel secondo caso (mutismo o sordomutismo) esso venga nominato dal giudice, dà luogo ad una differenza cui non può attribuirsi rilievo per la tematica de qua, poiché, in ambedue i casi, la legge vuole che l’interprete, per assumere il proprio ufficio, presti giuramento davanti al notaio, il quale ha dunque il dovere di richiederglielo.

30 L’opinione è dominante in dottrina. Si vedano: CASU, L’atto notarile tra forma e sostanza, Milano, 1996, p. 129; DI FABIO, voce Sordo, muto e sordomuto (dir. priv.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 1298. Per la necessità anche della menzione che il giuramento dell’interprete sia stato prestato alla presenza dal notaio: AVANZINI, IBERATI, LOVATO, Formulario degli atti notarili, cit., formule nn. 1.3.12., 1.3.13. e 1.3.14., pp. 18-21. Contra: BOERO, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, cit., p. 350; SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, ristampa della seconda edizione, Roma, 1994, p. 202.

31 Cass. 16 febbraio 1977, n. 692, in Giust. civ., 1978, I, p. 578, con nota contraria di MILLONI, Atto notarile stipulato da sordomuto analfabeta e mancata menzione del giuramento dell’interprete, in cui l’autore nega che dal collegamento fra gli artt. 55 e 56 l.n. debba discendere tout court anche l’obbligo della menzione, mancando, nel testo della norma, un espresso riferimento a tale adempimento formale e sottolineando il fatto che l’assenza della menzione comporta una semplice sanzione disciplinare per il notaio, e non incide minimamente sulla validità dell’atto. Tale posizione è rimasta, però, isolata nel panorama della dottrina successiva.

32 Molto puntuale si rivela BOERO, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, cit., pp. 358-359.

33 L’interrogativo è stato avanzato già da LENZI, Il notaio e l’atto notarile, Pisa, 1939, p. 190.

34 Sul principio dell’oralità, al quale è ispirato il diritto notarile, ancora valido risulta il contributo di DONÀ, Elementi di diritto notarile, cit., p. 170 ss. In materia, da ultimo, si veda CARUSI, Il negozio giuridico notarile, vol. I, Soggetti. Famiglia. Successioni. Diritti reali, Milano, 1994, p. 327 ss.

35 E pluribus, AZZARITI, Le successioni e le donazioni, cit., p. 445. Contra, GIULIANI, Lettura del testamento pubblico da parte del testatore non interamente privo dell’udito, in Riv. not., 1947, p. 152. Tesi difforme da quella esposta nel testo è sostenuta da GIRINO, voce Sordo, muto e sordomuto, cit., p. 912, secondo cui la lettura da parte del notaio deve necessariamente precedere quella del minorato.

36 Come puntualmente avverte SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, cit., p. 230.

37 L’ipotesi di eventuali postille è stata analizzata da DI FABIO, Manuale di notariato, cit., p. 182.

38 Per la giurisprudenza, si vedano: Trib. S. Maria Capua Vetere, 23 ottobre 1997, in Notariato, 1998, p. 327 e Trib. Firenze, 10 febbraio 1981, in Vita not., 1982, p. 392. Per la dottrina, PROTETTÌ, DI ZENZO, La legge notarile. Commento con dottrina e giurisprudenza delle leggi notarili, cit., p. 262.

39 App. Napoli, 11 maggio 1998, in Riv. not., 1999, p. 708 e in Arch. civ., 1999, p. 471.

40 GUIDI, Teoria giuridica del documento, Milano, 1950, p. 16.

41 Il fondamento giuridico di tale decisione è pienamente condiviso da SANTARSIERE, Atto di notaio. Dichiarazioni ai fini tributari (omissione) e a salvaguardia del costituito sordomuto (allogazione), in Arch. civ., 1999, p. 472. Fra i pochi autori che già avevano avanzato dubbi in ordine alla perfetta corrispondenza dei due termini atto e documento, si può ricordare DI FABIO, voce Sordo, muto e sordomuto (dir. priv.), cit., p. 1305.

42 Il legislatore ha posto gli obblighi della dichiarazione del sordomuto e della sottoscrizione della stessa alla fine dell’atto per tutelare l’interesse del soggetto menomato al perfetto controllo che il contenuto dell’atto corrisponda alla propria volontà. Se questo effetto è stato ottenuto, anche se ictu oculi può apparire che la prescrizione legislativa non è stata osservata – e ciò, alla luce delle considerazioni esposte nel testo, è da considerarsi inesatto – il negozio non può essere affetto da nullità, poiché ciò danneggerebbe proprio il destinatario che si intende salvaguardare (C. ROSSI, Dichiarazione del sordomuto e significato della locuzione fine dell’atto, in Riv. not., 1999, p. 713).

43 Precisazione avanzata da SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, cit., p. 230, e condivisa da BOERO, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, cit., p. 360.

44 Di queste pronunzie, la più importante è Cass. 28 gennaio 1963, n. 130, in Mass. Giust. civ., 1963, p. 58, seguita da CARAMAZZA, Delle successioni testamentarie, cit., p. 145.

45 Cass. 8 giugno 1983, n. 3939, in Giur. it., 1984, I, 1, c. 90, con nota adesiva di CUFFARO, in cui l’autore (ricordando LIPARI, Il problema dell’interpretazione giuridica, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Bari, 1974, p. 25) conferma come un’interpretazione solo letterale sia insufficiente, ove non venga accompagnata da una riflessione sulla funzione dell’enunciato normativo. Una precisa analisi dei rapporti fra la normativa sui ciechi e la legge notarile è offerta da AZZARITI, Sul testamento del muto, o sordo, o sordo-muto, e che sia anche incapace di leggere, in Giust. civ., 1983, I, p. 2630.

46 Sullo specifico punto, si rimanda a: SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, cit., p. 231; DI FABIO, Manuale di notariato, cit., p. 183; AVANZINI, IBERATI, LOVATO, Formulario degli atti notarili, cit., formula n. 19.4.9., p. 160.

47 Cass. 14 novembre 1991, n. 12176, in Vita not., 1992, p. 767. La Suprema Corte rigettò il ricorso proposto da chi agiva per la validità del testamento pubblico di un sordomuto analfabeta, redatto alla presenza dei quattro testimoni e dei due interpreti prescritti dalla legge notarile (ma dei quali uno era stato successivamente sostituito dal notaio), sostenendo che il nuovo perito non fosse intervenuto all’atto nella sua veste professionale, ma che, in realtà, dovesse essere qualificato come un quinto teste, capace di intendere il linguaggio del de cuius. Ma il tecnico del linguaggio sottoscrisse l’atto con la qualifica di interprete: è chiaro che tale non sarebbe potuto essere, mancando la nomina dell’autorità giudiziaria. A ciò si aggiunga che, essendosi presentato come perito, egli non avrebbe potuto adempiere l’ufficio di testimone, come è espressamente indicato dall’art. 56, ult. cpv., l.n.

48 GAZZILLI, Manuale del notaio e per la preparazione agli esami alla carriera del notariato, Roma, 1950, p. 209.

49 LOSANA, Delle successioni testamentarie, Torino, 1896, p. 89; GRONDONA, Il testamento per atto di notaio. Fonti e ragioni della sua sistemazione nel Codice civile e nella legge notarile italiana, Torino, 1886, pp. 139-146; VITALI V., Del testamento pubblico, cit., pp. 137-141.

50 VENZI, note alle Istituzioni di diritto civile italiano, di E. Pacifici-Mazzoni, cit., p. 342, il quale traccia una sintetica rassegna dottrinale delle opinioni espresse dagli autori citati alla nota precedente.

51 Sul principio della non validità di una menzione generica, si rimanda a MARMOCCHI, Forma dei testamenti, cit., pp. 833-834, in cui si osserva che le attestazioni notarili devono essere desumibili direttamente dal documento e devono risultare specifiche per ciascun fatto rappresentato.

52 In particolare, DI FABIO, voce Sordo, muto e sordomuto (dir. priv.), cit., p. 1299, il quale ricorda una lontana sentenza secondo cui l’affermazione del notaio che le disposizioni sono state lette al testatore e che questi le ha approvate, sta a provare, fino a querela di falso, che questi non era affetto da sordità (Cass. 15 luglio 1931, n. 2852, in Mass. Foro it., 1931, c. 556).

53 In proposito, si rimanda a AVANZINI, IBERATI, LOVATO, Formulario degli atti notarili, cit., formule nn. 1.3.10. e 1.3.11., pp. 16-17.

54 Tale posizione è dominante in dottrina, per tutti si veda SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, cit., p. 223.

55 Così si esprime DI FABIO, Manuale di notariato, cit., p. 180.

56 FALZONE, ALIBRANDI, voce Lettura dell’atto notarile e degli allegati, in Dizionario enciclopedico del notariato, a cura di G. Casu, Roma, 1993, p. 872 ss. e SANTARCANGELO, La forma degli atti notarili, cit., p. 221. A nostro avviso, fra le motivazioni addotte da questi autori, quella di maggiore rilevanza è la considerazione che (anche quando intervengono comparenti pienamente capaci) il notaio non può controllare che le parti abbiano ascoltato effettivamente ed integralmente la lettura dell’atto. Da ciò deriva la possibilità di una lettura anche solo mentale.

57 Per tutti, si veda FUSI, Testamento del sordo, muto e sordomuto e cieco, cit., p. CXXX. Contra, VENZI, note alle Istituzioni di diritto civile italiano, di E. Pacifici-Mazzoni, cit., p. 345, il quale, analizzando il disposto dell’art. 787 c.c. abr. (che si riferisce alla “osservanza delle altre formalità”), afferma che l’aggettivo «altre» esclude quella di cui si parla, cioè la lettura.

58 Come ricorda LASERRA, La scrittura privata, Napoli, 1959, p. 189, la sottoscrizione è la moderna dizione abbreviata dell’antica formula «ego n. n. feci sed fieri rogavi». Vogliamo aggiungere che il principio tota vis adprobationis in subscriptione (già presente nel diritto intermedio) ha trovato pieno accoglimento nella moderna dogmatica del documento.

59 Il preciso riferimento al testo costituzionale è stato evidenziato, di recente, da CASERTA, Cause impeditive della sottoscrizione e validità del testamento pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 614.

60 A nostro avviso, deve essere fermamente sottolineata la garanzia posta in favore degli individui analfabeti, garanzia che non si risolve semplicemente nella difesa di soggetti deboli, ma che costituisce anche un elemento fondamentale nella più complessa dogmatica della libera espressione dell’autonomia privata. Il carattere peculiare del testamento pubblico – definito “forma generale e garantista di testare che non richiede al testatore condizioni particolari e il cui impiego è pertanto assicurato a chiunque” – viene sottolineato anche da MARMOCCHI, Forma dei testamenti, cit., p. 840.

61 La causa impeditiva della sottoscrizione può essere costituita da qualsiasi impedimento fisico anche temporaneo, e quindi anche da una difficoltà di grafia derivante dall’estrema debolezza in cui il testatore si trovi o dalla sua età avanzata (Cass. 6 novembre 1996, n. 9674, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 612); nella stessa sentenza, la Suprema Corte afferma che l’analfabetismo della testatrice corrispondeva ad una reale situazione della stessa che, aggravata in quel momento dall’estrema debolezza psichica in cui essa si era venuta a trovare, concretava il vero impedimento oggettivo a sottoscrivere l’atto. In senso conforme: Cass. 1 febbraio 1992, n. 1073, in Riv. not., 1992, p. 1578; Cass. 5 novembre 1990, n. 10605, in Arch. civ., 1991, p. 434; Cass. 23 ottobre 1978, n. 4781, in Riv. not., 1979, p. 221; Cass. 3 aprile 1973, n. 912, in Mass. Giur. it., 1973, c. 332; Cass. 22 maggio 1969, n. 1809, in Foro it., 1969, I, c. 2192, con nota di DI NANNI; Cass. 15 febbraio 1968, n. 535, in Foro it., 1968, I, c. 1949; Cass. 7 maggio 1957, n. 1553, in Mass. Giust. civ., 1957, p. 609; Cass. 27 luglio 1950, n. 2101, in Foro it., 1951, I, c. 592.

62 In materia: Cass. 6 novembre 1996, n. 9674, cit., p. 612; Trib. Lucca, 11 aprile 1990, in Riv. not., 1990, p. 535, con nota di PARDINI, L’equipollente nella sottoscrizione nel testamento pubblico; Cass. 18 agosto 1981, n. 4939, in Mass. Giust. civ., 1981, p. 1778; Cass. 22 febbraio 1963, n. 430, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 103.

63 In generale, si rimanda a: BONILINI, Le clausole contrattuali c.d. di stile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 1260; BRACCINI, Le clausole di stile, in Riv. not., 1962, p. 167; BETTI, Interpretazione dell’atto notarile, cit., p. 9. Per un esame più specifico: PARDINI, Le clausole di stile nei negozi mortis causa, in Riv. not., 1989, p. 1113 e, da ultimo, MERZ, La trasmissione familiare e fiduciaria della ricchezza, Padova, 1998, pp. 103-104. In giurisprudenza, risulta principio consolidato quello in forza del quale è nullo il testamento pubblico contenente soltanto l’attestazione che il de cuius era impossibilitato a sottoscrivere l’atto per infermità, senza che risulti nell’atto stesso la menzione dell’analoga dichiarazione proveniente dal testatore, e diretta al notaio, così come prescritto dall’art. 603, comma 3°, c.c. (in particolare, Cass. 17 giugno 1991, n. 6838, in Vita not., 1992, p. 337). In proposito, un attento studio rimane quello di ARIENZO, Menzione della dichiarazione del de cuius di non poter sottoscrivere il testamento pubblico, in Giust. civ., 1957, I, p. 1202, che così sintetizza: soltanto la dichiarazione del titolare dei diritti costituisce valido equipollente della sottoscrizione; non è, quindi, sufficiente la semplice attestazione, per opera del notaio, circa l’infermità del soggetto.

64 A conferma della libertà di forma espressiva, si veda il recente lavoro a cura di FERRONI, Le nullità negoziali di diritto comune, speciali e virtuali, Milano, 1998, pp. 301-302, in cui espressamente si dice che la legge non esige che la dichiarazione della parte circa la causa impeditiva, e la corrispondente menzione, debbano essere espresse con una forma particolare o in termini tassativamente determinati, ma, al contrario, essa si limita a designare l’oggetto e la portata della dichiarazione, prescrivendo quale debba essere il suo imprescindibile contenuto sostanziale. L’autore concorda con la ratio espressa dalla corrente giurisprudenziale ricordata alle note precedenti, secondo cui, quando sorgano contestazioni sul significato della dichiarazione così come riportata nel documento notarile, è compito del giudice di merito procedere alla sua interpretazione e all’accertamento dell’esistenza dell’impedimento dichiarato, al fine di stabilire se il suo contenuto soddisfi obiettivamente l’esigenza contemplata dalla disposizione normativa.

65 Fra coloro che si sono espressi per la validità di una dichiarazione tacita: GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., p. 189; CICU, Testamento, cit., p. 68; VENZI, note alle Istituzioni di diritto civile italiano, di E. Pacifici-Mazzoni, cit., p. 382. Da ultimo, sembra seguire questa (minoritaria) corrente della dottrina anche TRIOLA, Il testamento, cit., p. 180.

66 PASTORE, L’intervento di un cieco nell’atto notarile, in Vita not., 1997, pp. 530-533. Le funzioni e la natura giuridica dei coadiuvanti del cieco si differenziano nettamente da quelle del «testimone strumentale», che si possono evincere dagli artt. 48 e 50 l.n.: nelle scritture private inter vivos, lo specifico compito del teste di parte non è meramente di controllo, ma implica una reale attività di collaborazione che si estrinseca anche in un’ampia assistenza durante tutte le fasi precedenti la sottoscrizione; mentre, per l’atto pubblico di ultima volontà, dottrina e giurisprudenza hanno mostrato fondate e motivate riserve di fronte ad un’interpretazione solo letterale del testo legislativo. In proposito, è opportuno ricordare Trib. 30 giugno 1992, n. 5300, in Vita not., 1994, p. 1133, con nota di BUTTITTA, Partecipazione del cieco in atto notarile, nella cui massima si legge che l’atto notarile sottoscritto da persona cieca ha piena validità, anche nel caso in cui il soggetto privo della vista non si sia avvalso della facoltà di richiedere un testimone con funzione di assistente, ex art. 3, l. 3 febbraio 1975, n. 18, o abbia rinunciato espressamente ai testi, ex art. 48 l.n.

67 Il Consiglio Nazionale del Notariato, pochi mesi dopo la promulgazione della normativa de qua, affermò: “Si può fondatamente dubitare che la legge in argomento si sia voluta riferire ai negozi ricevuti con atti pubblici notarili”, ma decise di accettare “per ipotesi” che la nuova legge trovasse applicazione congiunta con gli artt. 47-58 l.n., “con riserva di proporne in competente sede il superamento legislativo” (C.N.N., Legge 3 febbraio 1975, n. 18 recante provvedimenti a favore dei ciechi in Il notaro, 1976, p. 34).

68 GIRINO, voce Cieco, in Noviss. dig. it., Appendice, vol. I, Torino, 1980, p. 1158.

69 Cass. 12 dicembre 1994, n. 10604, in Riv. not., 1995, p. 982, con nota contraria di DI SIMONE e nella stessa Rivista, 1995, p. 1510, con nota contraria di ANTONINI, Atto pubblico notarile e cieco non in grado di sottoscrivere. Critica è anche la posizione di TRIOLA, I requisiti formali dell’atto pubblico nel quale intervenga un cieco, in Giust. civ., 1995, I, p. 365.

70 Cass., 9 dicembre 1997, n. 12437, in Arch. civ., 1998, p. 414, con nota di ANNUNZIATA, Brevi osservazioni in tema di testamento del non vedente. Un interessante commento della medesima sentenza è offerto da DE CRISTOFARO, In tema di partecipazione del non vedente all’atto notarile, in Notariato, 1998, p. 218.

 

 

Avvocato Cassazionista. Partner di uno Studio Legale Associato che conta 15 Avvocati con sede principale a Bologna. Si occupa in particolare di: contrattualistica, diritto commerciale, contratti aziendali, diritto bancario e finanziario, successioni, eredità e testamenti, proprietà immobiliari, protezione dei patrimoni. Maturità classica conseguita a Bologna. Laureato con il massimo dei voti e la lode accademica presso l’Alma Mater con una tesi in materia testamentaria. Cultore della materia presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Consulente legale FIMAA Bologna. Co-fondatore di una rete nazionale di professionisti (avvocati, commercialisti, periti finanziari, consulenti aziendali) che si dedica all’analisi della contabilità bancaria di società e di privati nonché alle vertenze giudiziali in materia di anatocismo bancario e di usura. Svolge attività di consulenza e di assistenza giudiziale a varie P.M.I. della Regione Emilia Romagna. Svolge l’incarico di Arbitro presso la Camera di Commercio di Bologna. Autore dei seguenti lavori, tutti pubblicati in Rivista del Notariato: “Le menzioni del testamento pubblico”; “Considerazioni in tema di natura giuridica dell’onere testamentario e di determinazione dei soggetti legittimati al suo adempimento”; “Trent’anni di giurisprudenza in tema di autonomia negoziale e assegno divorzile”; “Rassegna di dottrina e di giurisprudenza in tema di liquidazione della quota del socio defunto nelle società di persone e di legittimazione processuale passiva”; “L’eredità giacente: classicità dell’istituto ed attualità delle problematiche”; “Brevi note in tema di natura giuridica dell’azienda e di disciplina applicabile in sede di collazione”.

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