Alberto Tedoldi, La delega sul procedimento di Cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2005, 3, p. 925
La delega sul procedimento di Cassazione
Sommario: 1. Introduzione: la funzione nomofilattica della Corte. – 2. I motivi di ricorso. – 3. Formulazione del quesito ed enunciazione del principio di diritto. – 4. La violazione e la falsa applicazione dei contratti collettivi. – 5. Non ricorribilità immediata delle sentenze non definitive su questioni. – 6. Il vincolo derivante dalle decisioni delle Sezioni Unite. – 7. L’ampliamento delle ipotesi di decisione sul merito e le impugnazioni straordinarie contro le sentenze sostitutive di merito. – 8. Il ricorso nell’interesse della legge.
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– Nella miscellanea variarum rerum di che è composto il d.l. n. 35/2005, convertito dalla legge n. 80 del 14 maggio 2005, con modificazioni invero degne di una satura lanx, fa capolino, inter alia et multa, una delega al Governo per la riforma del processo di cassazione, da attuarsi entro il 15 novembre 2005, ai sensi dell’art. 1, comma 2°, d.l. cit.
Il comma 3° dello stesso art. 1, alla lettera a), indica i principî e i criterî direttivi, ai quali il legislatore delegato dovrà attenersi. Siffatti principî e criteri direttivi, anche per formulazione letterale, giungono direttamente dai lavori della Commissione di studio per la riforma del processo civile diretta da Romano Vaccarella: l’art. 33 di quello che (per brevità e secondo consuetudine invalsa tra gli addetti ai lavori) chiameremo Progetto Vaccarella è l’immediato antecedente del testo della delega qui in esame (1).
Nella “ Presentazione dei lavori ” della Commissione Vaccarella si legge, quanto al giudizio di cassazione, che “ dominante è stata la preoccupazione di recuperare la dimensione nomofilattica alla Corte Suprema, attualmente schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo (e su questa linea va valutata innanzitutto la forte riduzione del novero delle sentenze inappellabili e, quindi, immediatamente ricorribili per cassazione). In tal senso depongono le modifiche prevedenti:
– la identità dei motivi di ricorso ordinario e straordinario ex art. 111 Cost.;
– la previsione che il vizio di motivazione debba riguardare un fatto controverso;
– l’obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto;
– l’estensione del sindacato diretto della Corte sull’interpretazione e applicazione dei contratti collettivi nazionali di diritto comune;
– la non ricorribilità immediata delle sentenze non definitive su questioni, e la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito (simmetricamente all’appello);
– il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle Sezioni Unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non intenda aderire, debba reinvestire le Sezioni Unite;
– l’estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di norme processuali;
– l’enunciazione del principio di diritto vuoi in caso di accoglimento vuoi in caso di rigetto dell’impugnazione, e con riferimento a tutti i motivi di ricorso;
– l’investitura del legislatore delegato del compito di forgiare meccanismi idonei (ad es., modellati sull’attuale, inutile art. 363) a garantire comunque l’esercitabilità della funzione nomofilattica della Corte di cassazione nei casi di non ricorribilità del provvedimento ai sensi dell’art. 111 Cost. ”.
Gli stessi principî ritroviamo ora nell’art. 1, comma 3°, lett. a) del d.l. 35/2005, con cui si conferisce delega al Governo per la riforma del processo di cassazione.
La necessità di porre rimedio all’attuale, gravissima situazione in cui versa il contenzioso civile dinanzi alla Suprema Corte, con quasi tre milioni e mezzo di ricorsi pendenti e una durata media che (secondo una proporzione geometrica quasi perfetta rispetto ai giudizî pendenti) si approssima ai tre anni e mezzo, è sotto gli occhi di tutti (2). Va da sé che, rebus sic stantibus, la nomofilachia, ancorché scritta a chiare lettere nell’art. 65 ord. giud., appare aspirazione utopica di un’aurea aetas, in cui si riducano spontaneamente i patrî litigî, non di rado sospinti e sostenuti da interessi puramente microeconomici, eppur [thrive_lead_lock id=’4487′] umani e, per ciò solo, inevitabili (3).
I ricorrenti chiedono alla Cassazione, anzitutto, l’eliminazione del pregiudizio che l’efficacia imperativa della sentenza arreca loro, non già la soluzione di un quesito di diritto che si imponga alla futura giurisprudenza. Onde la distinzione tra “ funzione propositiva ” (performativa, diremmo, in linguaggio analitico (4)) e “ funzione applicativa ” dell’impugnazione per cassazione, pur condivisibile sul piano dogmatico e ricostruttivo (5), si perde nella intrinseca e storica ambiguità del mezzo, che contempera due diverse esigenze: quella (che potremmo dire subiettiva) di dare al soccombente un rimedio contro una sentenza viziata da error iuris, nonché quella (obiettiva) di difendere l’ordinamento giuridico (il “ diritto oggettivo nazionale ”, di cui favella l’art. 65 ord. giud.) dalle violazioni della legge, per assicurarne l’esatta e uniforme interpretazione. Le due esigenze, scriveva Liebman, trovano il loro punto d’incontro nella soccombenza di uno dei litiganti per (affermata) violazione di legge e si affidano, perciò, composte in unità, al ricorso del soccombente, diretto ad ottenere dal giudice supremo la vittoria nella causa e, insieme, la repressione dell’offesa recata all’ordinamento. Questo incontro d’interessi è tanto più comprensibile, in quanto la violazione della legge acquista socialmente una maggiore gravità quando il soggetto interessato la denuncia e ne chiede la riparazione (6).
Non par d’uopo, dunque, porre in cima ai principî e ai criterî direttivi dettati nella delega per la riforma del processo di cassazione la sola “ funzione nomofilattica ”, come si legge nell’incipit dell’art. 1, comma 3°, lett. a),d.l. 35/2005, obliterando quell’esigenza (umana e giuridica ad un tempo) di garanzia del cittadino cui l’impugnazione per cassazione adempie, anche in grazia di un precetto costituzionale (l’art. 111, comma 7°, Cost.), che il Parlamento ha consapevolmente lasciato intatto, nonostante i plurimi suggerimenti e i vani tentativi di eliminare un vincolo insuperabile per un legislatore ordinario, che intenda percorrere la strada di un’efficace riduzione del contenzioso civile dinanzi alla Suprema Corte.
Stante il chiaro disposto della norma costituzionale (7), non si possono introdurre quei filtri generalizzati che si ritrovano in altri ordinamenti, come quello tedesco (8) e spagnolo (9) (attraverso generali soglie di valore) o anglosassoni (attraverso l’istituto della permission o leave) (10) e che pongono un freno autenticamente efficace al diluvio di ricorsi promossi da coloro che, semplicemente, aspirano a vincere la causa e ad evitare un danno.
Se, da un lato, il richiamo alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione, di fronte alla massa del contenzioso civile (irrimediabile finché sopravvivrà il diritto costituzionale a ricorrere per ogni violazione di legge), rischia di ridursi a inane slogan, dall’altro lato le misure preannunciate dalla delega danno corpo soltanto a un intervento di dettaglio (11), destinato a lasciare irrisolta, se non ad aggravare come subito vedremo, la sostanziale paralisi del processo di cassazione.
Esaminiamo ora in dettaglio i principî e i criterî direttivi della delega.
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– Si contempla innanzitutto la “ identità dei motivi di ricorso ordinario e straordinario ai sensi dell’articolo 111, settimo comma, della Costituzione, prevedendo che il vizio di motivazione debba riguardare un fatto controverso”.
Nella Relazione all’art. 33 del Progetto Vaccarella si legge che, “ se la funzione della Corte non è (principalmente) quella di rendere giustizia nel caso concreto, non ha senso differenziare il ricorso ordinario da quello straordinario ex art. 111 Cost., posto che quest’ultimo ha proprio il preciso scopo di consentire alla Corte di intervenire in ogni settore dell’ordinamento: anche in relazione a quelle norme, che trovano applicazione in provvedimenti non ricorribili in Cassazione in via ordinaria. In questa stessa direzione, la commissione ha inteso precisare i limiti del sindacato sulla motivazione in fatto, mandando un “segnale” alla Corte, ma ben consapevole che spetta unicamente alla Corte stessa mantenere tale sindacato nei limiti compatibili con la propria funzione nomofilattica ”.
Non può non rilevarsi qui l’intima contraddizione tra proclamazione assertiva della funzione nomofilattica della Corte e affermata necessità di ampliare, rispetto al diritto vivente, i motivi di ricorso straordinario ex art. 111, comma 7°, Cost., pareggiandoli a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c. per il ricorso ordinario.
Il ricorso straordinario in Cassazione, per come è concepito dal nostro legislatore costituente, è anzitutto uno strumento di garanzia contro le violazioni di legge contenute in provvedimenti giurisdizionali decisorî, che ledono gli interessi del cittadino e non siano altrimenti impugnabili (12). In un celebre, ancorché criticato, arrêt le Sezioni Unite hanno escluso la possibilità di utilizzare il ricorso straordinario per far valere il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., ammettendolo soltanto per “ violazioni di legge ”, con riferimento sia alla legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso, sia alla legge processuale: sicché, secondo le Sezioni Unite, l’inosservanza del giudice civile all’obbligo della motivazione su questioni di fatto integra “ violazione di legge ” e, come tale, è denunciabile soltanto allorché si traduca in mancanza della motivazione stessa (con conseguente nullità della pronuncia per difetto di un requisito di forma indispensabile), la quale si verifica nei casi di radicale carenza di essa, ovvero nel suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi(cosiddetta motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, sempre che i relativi vizî emergano dal provvedimento in sé, dovendosi escludere che rientri in detta previsione una verifica sulla sufficienza e sulla razionalità della motivazione in raffronto con le risultanze probatorie (13).
Con il principio dettato nella delega si vuol ora contrastare ed emendare il criterio self restraint cui la Cassazione, non senza fatica, è pervenuta dopo varî decenni applicativi del ricorso straordinario ex art. 111 Cost.: si aprirebbero, in tal modo, le “ cateratte ” del ricorso straordinario anche a censure sul giudizio di fatto, a stento temperate dall’equivoco requisito, da estendere al ricorso ordinario per cassazione inserendolo nel testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c., per cui il vizio di motivazione deve “ riguardare un fatto controverso ”.
Il ricorso straordinario è tale proprio perché si colloca, in certo senso, extra ordinem iudiciorum privatorum e i suoi tratti, pur ispirati al ricorso ordinario quanto alle forme e ai termini, esigono di essere inverati per via di interpretazione giurisprudenziale dell’ampio dettato dell’art. 111, comma 7°, Cost. Alle parti è concesso l’estremo rimedio contro provvedimenti decisorî contrarî alla legge e non altrimenti impugnabili i quali, anche a prescindere dalla forma di sentenza, pregiudichino le posizioni sostanziali: questo afferma la giurisprudenza consolidata del Supremo Collegio. Ammetterne ora l’utilizzo, ad instar del ricorso ordinario,per sindacare la ricostruzione dei fatti – specialmente se dovesse perpetuarsi, come temiamo, un orientamento dei giudici della Suprema Corte incline a esaminare la giustizia sostanziale della decisione, più che le contraddizioni logiche intrinseche al testo della motivazione – significa dare un “ segnale ”, per usare le parole della Relazione al Progetto Vaccarella, in aperto e grave contrasto con il su riportato criterio self restraint, che è stato forgiato proprio da quelle Sezioni Unite che si vogliono ora porre definitivamente al centro della ristrutturazione nomofilattica del giudizio in Cassazione e che corrisponde esattamente a quel controllo sulla motivazione che la Corte dovrebbe limitarsi a compiere anche in sede ordinaria.
A tal proposito, il principio per cui il vizio di motivazione deve vertere su un “ fatto controverso ” è troppo generico e ambiguo. Si preannunzia, in tal guisa, un intervento di “ microchirurgia ” sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c., incapace di intaccare la patogenesi dei ricorsi promossi dinanzi alla Corte per censurare il giudizio di fatto, che tendono a trasformare il mezzo in una “ terza istanza ”.
Probabilmente, la strada da seguire doveva essere diametralmente opposta a quella imboccata: anziché parificare i motivi di ricorso straordinario a quelli del ricorso ordinario, si potevano prendere le mosse dal ricordatoarrêt delle Sezioni Unite sul ricorso straordinario, circoscrivendo il vizio alla totale carenza, alla mera apparenza o all’assoluta illogicità della motivazione e seguendo la traccia segnata dal legislatore del processo penale all’art. 606, lett. e), c.p.p., che ammette il ricorso per cassazione soltanto per “ mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ”, anche se poi, nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, i limiti letterali sono stati presto disattesi e si sono dimostrati inefficaci (14).
Questa lieve modifica implica, in certo senso, un ritorno alle origini, cioè al testo dell’art. 360, n. 5, del c.p.c. del 1940 prima della novella del 1950, che parlava di “ omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti ”, con formulazione ripresa, quasi alla lettera, dalla Proposta di legge n. 2754, presentata alla Camera nel maggio del 2002. Essa forse – ma di ciò dubitiamo a più forte ragione – potrebbe ridurre la sfera applicativa della censura per vizio di motivazione ad uno dei fatti costitutivi del diritto azionato, come riteneva la prima giurisprudenza nei pochi anni di vigore del testo originario del c.p.c. Ma anche per questa via non si ridurrebbe affatto l’esperibilità del ricorso per difetto di motivazione. I fatti costitutivi, quali fatti principali della lite, spesso si traggono per induzione dai fatti secondarî, quando gravi, precisi e concordanti (art. 2729 c.c.). La motivazione verte su un fatto decisivo anche quando al fatto principale si giunga attraverso indizî, onde la facoltà di censura in Cassazione si estende, almeno indirettamente, anche a questi.
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– Si prevede poi “ l’obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto; l’enunciazione del principio di diritto, sia in caso di accoglimento, sia in caso di rigetto dell’impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della decisione”.
Accostiamo questi due criterî direttivi, pur distanziati tra loro nel testo della delega, per evidente affinità, costituendo l’uno il pendant dell’altro.
Su questi punti nella Relazione di presentazione del Progetto Vaccarella si legge che “ l’enunciazione del quesito di diritto proposto ha anch’essa lo scopo di finalizzare l’attività della Corte alla decisione di quaestiones iuris, e di impedire che il ricorso si limiti ad una mera ripetizione degli argomenti sostenuti nella precedente fase ”; “ l’enunciazione del principio di diritto costituisce elemento essenziale della funzione nomofilattica: è vero che esso può essere ricavato dalla sentenza della Corte presa nella sua globalità, ma, a giudizio della commissione, l’esplicita enunciazione dello stesso dà maggior autorevolezza alla decisione e produce anche una maggior consapevolezza di quanto affermato. Nella sostanza, l’enunciazione del principio di diritto e la necessità che il ricorso contenga l’enunciazione di un quesito di diritto, costituiscono due facce della stessa medaglia ”.
3.1. – Si introducono qui gravi elementi di discrezionalità e di conseguente incertezza, mediante un artificioso requisito processuale di ammissibilità del ricorso, che presta il fianco a censure di incostituzionalità per contrasto proprio con l’art. 111, comma 7°, Cost.: la violazione di legge che affligge la sentenza, per essere rilevata dalla Corte, non necessita che di un richiamo alla norma violata o al principio giuridico infranto. In che cosa mai dovrà consistere il quesito da formulare alla Corte, a pena di inammissibilità del ricorso, se non nella denuncia delle violazioni giuridiche contenute nella sentenza impugnata? Qual grado di chiarezza esso dovrà possedere per rendere ammissibile il ricorso? Può la Corte correggere o integrare quesiti mal formulati, pur a fronte di motivi ben esposti e magari anche fondati, o dovrà irrimediabilmente dichiarare inammissibile il ricorso? Si apre qui spazio incontrollabile per formalistiche pronunce di inammissibilità, insuscettibili di qualsiasi sindacato (15).
Il principio della delega, evidentemente, non riguarda il ricorso basato su un vizio di motivazione della sentenza, ché in tal caso non vi sono quesiti giuridici da formulare alla Corte, invocandosi soltanto il controllo del percorso logico compiuto dal giudice di merito.
3.2. – Quanto all’obbligo per la Corte di formulare comunque il principio di diritto, anche in caso di rigetto del motivo e (forse) senza più neppure la possibilità di utilizzare la tecnica dell’assorbimento per effetto di pronuncia resa su altro motivo del ricorso, si è già posto in luce in dottrina come la formulazione del principio di diritto, nella cassazione con rinvio, sia manifestazione, anzitutto, di nomopoiesi e non già di nomofilachia: il principio di diritto pronunciato ai sensi del vigente art. 384 è vera e propria lex specialis, che il giudice di rinvio dovrà necessariamente applicare (16); ma esso deve, nondimeno, venir ricavato dalla sentenza nel suo insieme, ché l’asettica formulazione di un principio, senza disamina della fattispecie decisa, rischia sempre di risultar fuorviante: del che ha coscienza ogni prudente operatore.
Anche questa necessità di formulare comunque il principio di diritto par destinata ad aggravare il carico di lavoro della Corte, contraddicendo il programma dei nuovi conditores di alleggerirne il carico, per consentirle di svolgere al meglio la funzione nomofilattica che le è propria. Intento questo che, preme ribadire, accentua soltanto un aspetto dello scopo istituzionale del ricorso per cassazione, il quale è anzitutto un mezzo di impugnazione ordinario dato ai litiganti per rimuovere l’efficacia imperativa della sentenza che pregiudichi i loro interessi. Se non ci si confronta con questa funzione di tutela e di garanzia e non si introducono, previa abolizione dell’art. 111, comma 7°, Cost. (17), limitazioni alla possibilità di ricorrere dinanzi alla Suprema Corte per controversie bagatellari (come avviene in Spagna e in Germania), non si potranno trattenere le parti dal giocare tutte le propriechances per vincere la lite, mentre i magistrati della Corte, sommersi dai ricorsi, non saranno in grado di adempiere ai compiti di acribica formulazione dei principî di diritto che la delega affida loro.
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– Si prevede inoltre “ l’estensione del sindacato diretto della Corte sull’interpretazione e sull’applicazione dei contratti collettivi nazionali di diritto comune, ampliando la previsione del numero 3 dell’art. 360 del codice di procedura civile”.
Secondo la Relazione al Progetto Vaccarella, “ l’estensione del sindacato della Corte ai contratti collettivi di diritto comune porta a compimento l’opera iniziata dal legislatore con la riforma del pubblico impiego, e si raccorda anche alla più recente dottrina, la quale ha posto in rilievo come la nozione di “norma di diritto”, rilevante ai sensi del ricorso in Cassazione, non coincide totalmente con quella di “regola posta da una fonte del diritto” ”.
Il principio fissato nella delega prende le mosse dall’art. 64 del d.lgs. 165/2001 (ma v. già l’art. 68-bis del d.lgs. 29/1993), nel quale si prevede un subprocedimento speciale per l’interpretazione del contratto collettivo in materia di pubblico impiego, che culmina, in mancanza di accordo tra l’A.R.A.N. (l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e le organizzazioni sindacali, in una sentenza del tribunale del lavoro sulla sola questione esegetica della clausola del contratto collettivo, immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione entro sessanta giorni dal deposito della motivazione. La Corte di cassazione, adita in certo senso per saltum, può sindacare l’interpretazione del contratto collettivo in materia di pubblico impiego, quale offerta dal giudice di merito, non soltanto per violazione dei criterî legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 ss. c.c.) e per vizio di motivazione, come soleva avvenire secondo il consolidato orientamento (18), ma direttamente per violazione o falsa applicazione delle norme collettive, su ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.: se il ricorso viene accolto, la Corte enuncia il principio di diritto, recte la corretta interpretazione della norma contrattuale collettiva applicabile alla fattispecie, e cassa con rinvio allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, il quale avrà nel frattempo sospeso il processo, che dovrà comunque essere riassunto entro sessanta giorni dalla comunicazione della pronuncia della Suprema Corte (19).
La delega vuole ora estendere il sindacato diretto della Corte all’interpretazione dei contratti collettivi nel settore privato, ampliando il dettato dell’art. 360, n. 3, c.p.c. Non vi è traccia, peraltro, di una procedura preliminare (e, si confida, deflattiva) di interpretazione autentica delle clausole contrattuali collettive da parte dei conditores contractus, qual si ritrova, invece, nell’art. 64 d.lgs. 165/2001 per il pubblico impiego, né di un meccanismo di soluzione della questione esegetica attraverso una decisione del giudice di merito immediatamente impugnabile in Cassazione. Se, pertanto, siffatte questioni di esegesi delle clausole contrattuali giungeranno dinanzi alla Corte seguendo le vie ordinarie, cioè dopo i due gradi del giudizio di merito, il carico dei ricorsi verrà ulteriormente aggravato, con buona pace degli scopi deflattivi, volti a salvaguardare la funzione nomofilattica della Cassazione che sta a cuore al legislatore delegante.
D’altra parte, si è giustamente notato (20), sottolineare come la nozione di “ norma di diritto ”, rilevante ai fini del ricorso per cassazione, non coincida con quella di “ regola posta da una fonte di diritto ” pare frutto di ragionamenti non “ fondativi ”, ma “ giustificativi ”, che sono paretianamente “ derivazioni ”, le quali non fondano le nostre convinzioni, ma si limitano a giustificarle a posteriori di fronte a coloro che la pensano in egual modo.
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– Si prevede ancora “ la non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio e la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito, con conseguente esclusione della riserva di ricorso avverso le prime e la previsione della riserva di ricorso avverso le seconde”.
La Relazione al Progetto Vaccarella sul punto rinviava alle osservazioni illustrative dell’analoga soluzione proposta sul regime di appellabilità delle sentenze: “ la non appellabilità immediata delle sentenze su questioni, e la appellabilità immediata delle sentenze che decidono una o alcune delle domande proposte consegue al diverso oggetto delle stesse, ed ai diversi effetti che esse producono: meramente endoprocessuali le prime, di natura sostanziale le seconde. Onde non vi è necessità di tutelare immediatamente il soccombente nei confronti delle prime, mentre tale necessità sussiste nei confronti delle altre. Si propone, in sostanza, l’estensione anche alle sentenze della disciplina che l’ultima riforma ha introdotto per l’impugnazione del lodo. Non essendo la sentenza c.d. non definitiva suscettibile di impugnazione immediata, non vi è evidentemente ragione di sottoporre la stessa alla c.d. riserva di appello. Al contrario, l’immediata impugnabilità della sentenza c.d. parzialmente definitiva lascia alla parte soccombente la scelta fra l’impugnazione immediata e quella differita: pertanto, ove la parte opti per la seconda alternativa, è opportuno che manifesti tempestivamente la sua scelta ”.
Sia nel testo del d.l. n. 35/2005, convertito dalla legge 80/2005, sia nelle parole che, indirettamente, illustrano il criterio direttivo della delega per la riforma del giudizio di cassazione allignano, ad un tempo, un’omissione e un equivoco, che rischiano di vanificare il pur lodevole intento di circoscrivere la facoltà delle parti di impugnare immediatamente le sentenze non definitive, con le inerenti possibilità di sospensione dell’istruttoria e di rallentamento dell’iter processuale.
Il Parlamento demanda al Governo l’eliminazione della ricorribilità immediata delle sentenze non definitive su questioni che possiedano un’efficacia preclusiva meramente endoprocessuale. La norma, però, ha un senso in quanto si accompagni alla non appellabilità immediata delle sentenze non definitive su questioni, com’era previsto nel Progetto Vaccarella, la cui Relazione, infatti, illustrava congiuntamente le due proposte con le parole sopra trascritte.
Con le norme di modifica al c.p.c. frettolosamente annesse alla legge di conversione n. 80/2005 non è stata introdotta alcuna novella all’art. 340 c.p.c.: il regime di appellabilità immediata o differita (tramite riserva) delle sentenze rese in prime cure è rimasto intatto e, dunque, la non ricorribilità immediata in Cassazione delle sentenze non definitive su questioni non soltanto perde gran parte della propria efficacia deflattiva sul contenzioso civile, ma rischia di generare il curioso e contraddittorio fenomeno per cui una sentenza non definitiva (ad es. su una questione pregiudiziale di giurisdizione o su una questione preliminare di prescrizione) può essere impugnata immediatamente in appello, il quale può metter capo ad altra sentenza non definitiva contro la quale, tuttavia, non si può proporre ricorso immediato per cassazione, con un improvviso e inopinato arresto dell’iterimpugnatorio, in attesa che il giudizio di merito, magari sospeso a seguito dell’appello immediato, riprenda il proprio corso e giunga sino alla sentenza definitiva non solo in primo grado, ma anche in grado di appello: soltanto allora, in questo curioso e divergente regime impugnatorio delle sentenze non definitive, potrà il soccombente ricorrere in Cassazione contro la sentenza non definitiva resa in seconde cure sulla questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito.
V’è da dubitare, ora, che il Governo possa rimediare a questa contraddittoria omissione, avvalendosi del potere, di cui al comma 4° dell’art. 1 d.l. 35/2005, di revisionare la formulazione letterale e la collocazione degli articoli del vigente codice e delle altre norme processuali civili non direttamente investiti dai principî della delega, in modo da accordarli con le modifiche apportate dal decreto legislativo che verrà adottato nell’esercizio della delega stessa: una modifica al regime di appellabilità delle sentenze non definitive esulerebbe senz’altro dai limiti della potestà legislativa delegata e presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost.
L’equivoco, che si annida nelle parole illustrative poc’anzi riportate, consiste nel discorrere di “ immediata impugnabilità della sentenza parzialmente definitiva ” e di possibilità per la parte di optare per la riserva di impugnazione contro siffatta sentenza.
Qui è bene intendersi. O la sentenza è definitiva, e allora non vi è spazio per applicare alcuna riserva di impugnazione, ma il ricorso per cassazione deve essere immediato; o la sentenza è non definitiva sul merito, e allora è possibile impugnare immediatamente o riservarsi di promuovere ricorso quando si impugnerà la sentenza definitiva. Parlare di riserva di impugnare una “ sentenza parzialmente definitiva ” è un ossimoro, che rischia di generare fraintendimenti.
L’orientamento giurisprudenziale dominante, dopo alcune iniziali incertezze, sull’onda di una “ doppia conforme ” delle Sezioni Unite ha adottato un criterio formale per distinguere le sentenze non definitive che decidono parzialmente il merito dalle sentenze parziali che vanno considerate definitive: secondo tale criterio – che le Sezioni Unite hanno fatto proprio per ridurre al minimo i margini di dubbio e, in tal modo, evitare che il giudice dell’impugnazione qualifichi la sentenza impugnata come definitiva o non definitiva secondo una discrezionale ricostruzione del contenuto della stessa – è non definitiva la sentenza quando il giudice, pur decidendo parzialmente il merito, non emetta alcun provvedimento di separazione delle cause oggettivamente o soggettivamente cumulate, ovvero anche quando non provveda alla separazione neppure implicitamente, regolando il carico delle spese (21).
Perciò, a rigore, il problema dell’impugnazione immediata e della riserva di impugnazione tocca soltanto le sentenze di merito non definitive, identificate secondo il criterio formale di cui s’è detto, ma non riguarda le “ sentenze parzialmente definitive ”.
Vi è infine il tradizionale problema delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, i cui effetti non sono meramente endoprocessuali ma, secondo la dottrina maggioritaria, sopravvivono all’eventuale estinzione del processo, a norma dell’art. 310, comma 2°, c.p.c., limitatamente però alla riproposizione dell’originaria domanda e non già con efficacia piena di giudicato su differenti rapporti giuridici (22). Crediamo, peraltro, che tra le sentenze non definitive su questioni di cui favella la delega, suscettibili di essere impugnate soltanto insieme alla sentenza definitiva, rientrino anche le sentenze su questioni preliminari di merito (come quelle di prescrizione o di decadenza) le quali, pur producendo effetti non meramente endoprocessuali, non generano di per sé una soccombenza materiale (materielle Beschwer) per la parte.
Sentenze che decidono parzialmente il merito sono, invece, quelle che mettono capo a decisioni parziali sulle domande giudizialmente proposte (23) e non già alla soluzione di mere questioni di merito secondo un’opinione dottrinale minoritaria (24). Tra le sentenze parziali di merito, impugnabili immediatamente o insieme alla sentenza definitiva previa formulazione della riserva, rientra senz’altro la condanna generica, ancorché non accompagnata da provvisionale, poiché essa, pur decidendo una porzione dell’unitario rapporto controverso relativamente all’an debeatur, con prosecuzione del giudizio sul quantumex art. 278 c.p.c., decide parzialmente il merito ed è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, ai sensi dell’art. 2818 c.c. Primarie esigenze di tutela della parte soccombente impongono di concederle illico et immediate la facoltà impugnatoria.
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– La delega contempla poi “ la distinzione fra pronuncia delle sezioni semplici e pronuncia delle sezioni unite, prevedendo che la questione di giurisdizione sia sempre di competenza delle sezioni unite nei casi di cui all’articolo 111, ottavo comma, della costituzione, e possa invece essere assegnata, negli altri casi, alle sezioni semplici se sulla stessa si siano in precedenza pronunziate le sezioni unite; il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non intenda aderire al precedente, debba reinvestire le sezioni unite con ordinanza motivata”.
Abbiamo qui riunito due criterî direttivi della delega, per la ragione che entrambi toccano, sia pure in guise diverse, i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite, coinvolgendo aspetti ordinamentali oltre che processuali stricto sensu.
6.1. –Il primo dei due principî trascritti si discosta sensibilmente dal Progetto Vaccarella, nel quale si contemplava tout court “ la distinzione fra pronuncia delle sezioni semplici e pronuncia delle sezioni unite, prevedendo che la questione di giurisdizione non dia automaticamente luogo a remissione alle sezioni unite se manifestamente infondata ovvero fondata; prevedendo l’assegnazione dei ricorsi alle sezioni semplici, salvo diverso provvedimento del competente organo ”.
Nella Relazione, a questo proposito, si osservava che “ la previsione ha lo scopo specifico di eliminare l’attuale automatismo, in virtù del quale basta che sia sollevata la più fondata o infondata delle questioni di giurisdizione, perché ne debbano essere investite le sezioni unite. Si è ritenuto comunque opportuno mantenere l’intervento di queste ultime nella decisione delle questioni di giurisdizione (che appunto non siano manifestamente fondate o infondate), in considerazione essenzialmente della posizione della S.C. come regolatrice dei conflitti fra giudice ordinario e giudici speciali, nonché fra i giudici speciali, ancorché non vi siano regole o principi costituzionali che impongano tale soluzione ”.
Avuto riguardo al ruolo rivestito dalla Suprema Corte nel regolare i conflitti di giurisdizione tra giudici dello Stato (cfr., del resto, lo stesso art. 65 ord. giud.) e alla posizione di vertice del Consiglio di Stato e della Corte dei conti nei rispettivi ambiti giurisdizionali, il testo definitivo della delega riserva alle sezioni unite soltanto il ricorso contro decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per motivi inerenti alla giurisdizione (art. 111, comma 8°, Cost.).
Al di fuori di questi casi, la questione di giurisdizione potrà essere assegnata alle sezioni semplici, non già discrezionalmente (com’era nel testo originario del Progetto Vaccarella), allorché essa appaia manifestamente infondata o fondata, ma quando esista uno specifico precedente delle sezioni unite.
Il meccanismo è, per molti versi, analogo a quello (di cui subito appresso diremo) inteso a generare un vincolo delle sezioni semplici al precedente giurisprudenziale delle sezioni unite: in materia di giurisdizione, però, la selezione è destinata ad avvenire “ a monte ”, quando gli ufficî organizzativi della Corte assegnano i ricorsi. Questi ufficî si debbono, perciò, attrezzare per verificare l’esistenza o meno del precedente delle sezioni unite sulla specifica quaestio iurisdictionis. Il che non semplifica certamente l’attività della Corte, anche se produce, volta per volta, il risultato di esonerare quattro magistrati dal partecipare al collegio decidente.
Se poi il precedente delle sezioni unite si rivelasse erroneo o inadeguato al caso di specie, è da ritenere che questa assegnazione prima facie del ricorso possa essere superata e la sezione semplice debba rimettere la causa al Presidente, affinché la riassegni alle sezioni unite.
6.2. – Il secondo principio, che genera un certo qual vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, è stato vivacemente contestato.
Nella Relazione al Progetto Vaccarella si legge che “ la distinzione dei ruoli, all’interno di un ufficio giudiziario unico come quello della Cassazione, fra sezioni semplici e sezioni unite corrisponde alla duplice funzione che deve svolgere l’organo di vertice in un sistema (come il nostro), nel quale non esiste il vincolo al precedente, e nel quale, quindi, qualunque giudice può – senza con ciò commettere un illecito – discostarsi dai principî enunciati dalla Cassazione. Da un lato, infatti, una corte suprema deve pronunciare sentenze in grado di indirizzare l’attività dei destinatarî delle norme; dall’altro, la parte che è rimasta soccombente, perché il giudice di merito ha (del tutto lecitamente) disatteso il precedente della Corte, deve avere la possibilità di chiedere alla Corte l’applicazione del principio enunciato nel precedente. Ambedue gli interventi appartengono a pieno diritto alla funzione nomofilattica. Alle sezioni unite spetta dunque pronunciare sentenze autorevoli e convincenti; alle sezioni semplici spetta il compito di garantire l’applicazione dei principi enunciati dalle sezioni unite. Nell’ambito di questa attività, è quindi evidente che le sezioni semplici da un lato non possono autonomamente discostarsi da quanto precedentemente deciso dalle sezioni unite; dall’altro lato, spetta alle sezioni semplici il compito, assai rilevante, di verificare l’opportunità di un riesame del precedente, rimettendo alle stesse la causa – che la sezione semplice ritenga di non poter decidere facendo applicazione dei principî precedentemente enunciati dalle sezioni unite – con ordinanza, attraverso la quale la sezione esporrà le ragioni, che la inducono a non fare applicazione del precedente, e che giustificano appunto un ripensamento delle sezioni unite ”.
Si è scritto autorevolmente (25) che questa proposta “ è perfettamente in linea con l’idea burocratico-gerarchica di Corte di cassazione che sta alla base del recente disegno di legge di iniziativa governativa per la riforma dell’ordinamento giudiziario ” e che, pur non trovandoci in presenza di un vero e proprio vincolo al precedente, essa sarebbe percepita come lesiva dell’indipendenza della Magistratura e della libertà del giudice, ponendosi in contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 101 e 102 Cost. Siffatta proposta, secondo Chiarloni, avrebbe altresì l’effetto di trasformare le sezioni semplici in organi di bassa cucina, ponendo loro la scomoda alternativa tra autoescludersi o rendere ossequio al precedente e, facilmente, conducendole a specializzarsi nell’arte del distinguishing, e cioè di quelle inaudite acrobazie di cui sono maestri i giudici anglosassoni nell’eludere il vincolo, cercando nel caso sottoposto al loro esame differenze rispetto a quello già deciso, contrabbandate come capaci di influire sulla ratio decidendi. Essa infine – nell’opinione dell’insigne studioso – metterebbe sotto i piedi il principio di economia processuale e così perderebbe da una parte ciò che si propone di guadagnare dall’altra in termini di ragionevole durata: la sezione semplice, per stabilire se rendere ossequio al precedente oppure no, dovrà studiare e discutere approfonditamente il caso sottoposto al suo esame. Se poi la decisione va nel senso dell’ordinanza di rimessione alle sezioni unite, analogo impiego di tempo e d’energie intellettuali dovrà essere speso dall’istanza più alta per scegliere se attenersi al proprio precedente o discostarsene, accogliendo gli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rimessione.
Ora, pur non condividendo (per le ragioni spiegate nella parte introduttiva di questo scritto) la rigida partizione tra “ funzione applicativa ” e “ funzione propositiva ” della Cassazione, che viene nuovamente evocata nel passo della Relazione Vaccarella poc’anzi trascritto, dubbî e timori siffatti paiono eccessivi.
Nel disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario n. 1296-B/BIS del Senato (XIV Legislatura), rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica il 16 dicembre 2004, non vi è traccia di due categorie di magistrati della Suprema Corte, alcuni destinati alle sezioni semplici, altri destinati alle sezioni unite, per la chiara opportunità di evitare che si creino, all’interno dello stesso ufficio, corpi di magistrati investiti di funzioni diverse, con una possibile mortificazione professionale di alcuni e la creazione di un potere eccessivamente concentrato su altri, nonché per l’opportunità di garantire l’apporto di tutti i magistrati della Cassazione nell’elaborazione delle pronunce delle sezioni unite (26).
Si è replicato poi, in modo convincente, che il vincolo delle sezioni semplici ha contenuto meramente processuale, è un vincolo negativo, id est un divieto ad emettere una sentenza difforme rispetto al precedente delle sezioni unite: le sezioni semplici, se dissentono dalle sezioni unite, non sono obbligate ad emettere una pronuncia conforme, ma devono, a dir così, convogliare il dissenso in un’ordinanza, che investa della decisione le sezioni unite e che espliciti le ragioni per le quali la sezione semplice ritiene di non condividere il precedente delle sezioni unite, indicando i motivi che inducono a superarlo (27).
Analogo meccanismo ritroviamo già nell’art. 64, comma 7°, d.lgs. 165/2001, che obbliga il giudice di merito, ove non intenda conformarsi al precedente della Cassazione sull’interpretazione di una clausola di un contratto collettivo per il pubblico impiego, a pronunciarsi con sentenza sulla questione esegetica, impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione (28).
La novità dunque, ancorché foriera di possibili rallentamenti nella chicane tra sezioni semplici e sezioni unite (29), merita di essere condivisa e sostenuta, onde ridurre i frequenti contrasti giurisprudenziali non solo delle sezioni semplici tra loro, ma tra le stesse sezioni unite, come talvolta si è verificato.
Essa, peraltro, non par destinata a rivoluzionare in modo decisivo e in senso nomofilattico il lavoro della Corte, com’è invece recentemente avvenuto in Spagna, dove l’art. 477 della Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, nelle cause di valore inferiore a (circa) 150.000 euro e che non toccano diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale, ammette il recurso de casaciòn soltanto allorché esso presenti “ interés casacional ”, che si ha “ cuando la sentencia recurrida se oponga a doctrina jurisprudencial del Tribunal Supremo o resuelva puntos y cuestiones sobre los que exista jurisprudencia contradictoria de las Audiencias Provinciales o aplique normas que no lleven más de cinco años en vigor, siempre 5que, en este último caso, no existiese doctrina jurisprudencial del Tribunal Supremo relativa a normas anteriores de igual o similar contenido ”. Soluzione questa certamente drastica, ma che appare in grado di restituire al Tribunal Supremo la possibilità di un autentico esercizio della nomofilachia.
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– La delega prevede altresì “ l’estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di norme processuali. La revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo contro le sentenze di merito della Corte di cassazione, disciplinandone la competenza”.
Anche in tal caso accorpiamo i due principî della delega sol perché toccano entrambi, sia pure in guise diverse, la pronuncia rescissoria oggi disciplinata dall’art. 384, comma 1°, ultima parte, c.p.c., che consente alla Corte, quando accoglie il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di decidere immediatamente la causa nel merito qualora non siano necessarî ulteriori accertamenti di fatto (30).
7.1. –Questa facoltà di emettere una decisione sostitutiva sul merito – tratta dagli schemi della Revision germanica, secondo un modello assai diverso da quello classico di derivazione francese, ma che lo stesso Nouveau code de procédure civile ha recepito all’art. 627, comma 2° (31) – è stata sinora interpretata restrittivamente: secondo una giurisprudenza ormai consolidata, la Corte può emettere una pronuncia sul merito soltanto quando sia accolto il ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. e non sia necessario compiere né un’attività di assunzione di mezzi di prova, né valutazioni sulla ricostruzione dei fatti: la fattispecie sostanziale, così come ereditata dai gradi di merito, deve restare intatta, né la Corte può spingersi ad esaminare le prove, dovendo la ricostruzione fattuale emergere dalla stessa sentenza impugnata (32).
Nell’ambito di questo orientamento restrittivo era discusso se si potesse emettere una pronuncia sostitutiva anche in ipotesi di accoglimento del ricorso per error in iudicando de iure procedendi, cioè per violazione o falsa applicazione di una norma processuale.
La Relazione al Progetto Vaccarella sul punto osserva che “ la modifica si rende opportuna a causa delle divergenze che sussistono, fra la giurisprudenza e la dottrina, in ordine all’interpretazione dei nn. 3 e 4 dell’art. 360. Poiché per la dottrina maggioritaria tutte le violazioni di norme processuali rientrano nel n. 4, l’attuale dizione dell’art. 384 c.p.c. ha fatto sorgere il dubbio se sia possibile la pronuncia di merito (che, si noti, nell’ottica dell’art. 384 non significa sentenza nel merito, ma sentenza sostitutiva di quella impugnata, qualunque sia il suo contenuto) quando la causa sia matura per la decisione, ma si lamenti la violazione di norme processuali anziché sostanziali. Poiché ovviamente la risposta deve essere affermativa, da qui la necessità di chiarire che determinante non è il tipo di norma violata (sostanziale o processuale), quanto che la Corte possa decidere in via definitiva senza dover procedere ad accertamenti di fatto ”.
In giurisprudenza, in effetti, si registrano divergenze sulla possibilità di pronunciare sentenza sostitutiva quando il ricorso sia accolto per violazione o falsa applicazione di una norma processuale. Secondo l’orientamento maggioritario, la decisione della causa nel merito da parte della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 384, comma 1°, c.p.c., è limitata alla sola ipotesi di accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, restando esclusa quella di accoglimento per vizî in procedendo(33). A questo orientamento si contrappongono alcune sentenze, nelle quali si è ritenuto che la Corte di cassazione possa decidere nel merito non soltanto in caso di accertamento di un error iuris in iudicando, ma anche nel caso di error iuris de iure procedendi, purché la conseguente pronuncia definitiva sul merito non richieda alcun accertamento di fatto e sia vincolata nel contenuto alla questione processuale decisa (34).
Esistono casi in cui la violazione di regole processuali non è riportabile tout court al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., come suole ritenersi seguendo la tradizionale partizione tra errores in iudicando ed errores in procedendo(35): talora, la decisione impugnata con ricorso per cassazione concerne opposizioni del privato contro l’esercizio di poteri ingiuntivi pubblici di natura sanzionatoria o fiscale, oppure verte esclusivamente su questioni inerenti al procedimento seguito dalla P.A. ovvero su profili processuali, sicché gli eventuali vizî si risolvono in errores in iudicando de iure procedendi, rientranti nell’art. 360, n. 3, c.p.c.: si pensi all’impugnazione dei provvedimenti decisorî resi nei giudizî di opposizione agli atti esecutivi o all’esecuzione (quando si contesti la nullità o l’inesistenza del titolo esecutivo), nei reclami endofallimentari, nei processi di impugnazione di lodi arbitrali o nei procedimenti per il riconoscimento e l’exequatur di sentenze straniere (36).
In altre ipotesi, l’ambigua qualificazione sostanziale o processuale delle norme lascia aperta la possibilità di far rientrare le relative violazioni nell’art. 360, n. 3, anziché nell’art. 360, n. 4, c.p.c. (come avviene, exempli gratia, in materia di ammissibilità e di efficacia delle prove (37)).
La scelta del legislatore delegante va ora, sia pur solo parzialmente, nel senso auspicato da una parte minoritaria della dottrina, la quale ritiene che la Corte, in ossequio al principio di economia processuale, abbia il dovere di emettere una pronuncia sostitutiva, a prescindere dal motivo di ricorso accolto, in tutti i casi nei quali non sia necessario compiere attività che, strutturalmente, la Corte non avrebbe la capacità di svolgere, perché implicanti l’assunzione di prove ovvero valutazioni probatorie eccessivamente complesse, onde il rinvio dovrebbe essere disposto soltanto quando non sia possibile farne a meno (38).
Naturalmente, l’estensione del sindacato diretto della Corte alla violazione o falsa applicazione delle clausole contenute nei contratti collettivi di diritto comune apre ulteriori possibilità di pronuncia rescissoria. Il che, tuttavia, rischia di generare inconvenienti rispetto ai contratti di pubblico impiego, in relazione ai quali la pronuncia o il capo della sentenza di primo grado concernenti l’interpretazione della norma contrattuale, ai sensi dell’art. 64, comma 3°, d.lgs. 165/2001, sono impugnabili soltanto con ricorso per cassazione (39): ed infatti, mancando un grado di giudizio a cagione del ricorso per saltum sulla sola questione esegetica, nella gran parte dei casi i gradi di merito non si saranno neppure conclusi né, pertanto, si sarà ancora definitivamente formata quella ricostruzione dei fatti cui applicare, ai sensi dell’art. 384, comma 1°, la norma collettiva sul pubblico impiego rettamente interpretata dalla Suprema Corte. In questo settore, insomma, il giudizio di rinvio risulterà quasi sempre indispensabile, proprio a cagione del peculiare regime impugnatorio della pronuncia interpretativa sul contratto collettivo nel pubblico impiego.
Giova, infine, ricordare che l’ampliamento delle ipotesi di decisione sostitutiva da parte della Corte rende ancor più pressante il problema di garantire l’effettività del contraddittorio nella fase rescissoria del giudizio, mancando
ogni indicazione procedurale tanto in iure condito quanto nei principî contenuti nella delega (40).
7.2. – L’introduzione della revocazione straordinaria e dell’opposizione di terzo contro le sentenze della Cassazione corrisponde all’art. 34 del Progetto Vaccarella, su cui la Relazione osservava: “ il principio vuole rimediare ad una lacuna esistente da quando è consentito alla Cassazione di emettere una pronuncia sostitutiva di quella impugnata. In tal caso, com’è ovvio, il giudicato è prodotto dalla stessa sentenza della Corte; pertanto, ove si verifichino i presupposti per l’impugnazione straordinaria della sentenza, questa dovrebbe essere, in teoria, proposta alla stessa Corte. Anche se si ritiene di poter affidare tale compito alla Cassazione, superando i numerosi ostacoli esistenti (la Corte potrebbe trovarsi a dover svolgere un’attività istruttoria anche complessa; la sentenza, eventualmente di merito, emessa all’esito dell’impugnazione sarebbe assolutamente incontrollabile), occorrerebbe comunque disciplinare il relativo procedimento. La commissione, proprio per le ragioni sopra esposte, ritiene preferibile una soluzione che veda competente per l’impugnazione straordinaria il giudice, che ha emesso la sentenza sostituita dalla Cassazione ”.
Dunque, proprio in considerazione dell’efficacia sostitutiva delle pronunce rese dalla Corte ai sensi dell’art. 384, comma 1°, ultima parte, c.p.c., il legislatore delegato dovrà prevederne l’impugnabilità per tutti i motivi di revocazione straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 e art. 397 c.p.c.) e con opposizione di terzo, ordinaria (art. 404, comma 1°, c.p.c.) e revocatoria (art. 404, comma 2°, c.p.c.).
Resta, a questa stregua, stranamente e isolatamente escluso il motivo di revocazione ordinaria di cui al n. 5 dell’art. 395 c.p.c., che si ha quando la sentenza è contraria ad altra precedente, avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Infatti, la revocazione per errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. è ormai da tempo ammessa in grazia dell’art. 391-bis c.p.c., che ha riassunto in sé e superato due precedenti pronunce additive della Corte costituzionale (41). La delega, perciò, non colma del tutto la lacuna né si pone al riparo da ogni possibile censura di incostituzionalità ex art. 3 Cost., perché – come si è perspicuamente osservato in dottrina – una decisione di merito, non importa in quale grado e da quale giudice resa, deve andare sempre soggetta alla stessa latitudine di rimedî impugnatorî, allorché contenga gli stessi vizî o, comunque, gli stessi sintomi di ingiustizia (42).
Vi è poi il problema della competenza sulla revocazione straordinaria e sull’opposizione di terzo, la quale, a leggere la Relazione, par destinata ai giudici a quibus, che hanno emesso la sentenza sostituita dalla Corte: ciò sia per non sovraccaricare la Cassazione, sia per l’inidoneità della stessa a svolgere quell’attività istruttoria che i motivi di revocazione straordinaria o le ragioni dell’opposizione di terzo, specie se revocatoria, potrebbero esigere.
Ma anche qui vi sarà l’incongruenza di una revocazione ordinaria ex art. 395, n. 4, c.p.c. affidata alla competenza della Corte stessa, a norma dell’art. 391-bis c.p.c., mentre i restanti motivi di revocazione straordinaria verranno (forse) assegnati ai giudici di merito, insolitamente chiamati a verificare se vizî revocatorî minino la pronuncia sostitutiva emessa dal Supremo Collegio.
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– Infine, si prevede l’adozione di “ meccanismi idonei, modellati sull’attuale articolo 363 del codice di procedura civile, a garantire l’esercitabilità della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, anche nei casi di non ricorribilità del provvedimento ai sensi dell’articolo 111, settimo comma, della Costituzione”.
Nella Relazione al Progetto Vaccarella si legge: “ com’è noto, l’attuale diritto vivente in tema di ricorso straordinario ex art. 111 Cost. nega la possibilità di impugnare i provvedimenti che, oltre alla forma, non abbiano neppure gli effetti propri delle sentenze. In particolare, non sono censurabili in Cassazione i provvedimenti modificabili e revocabili dal giudice che li ha emessi, come ad es. quelli che dispongono circa i figli minori; non lo sono neppure i provvedimenti i cui effetti sono destinati ad essere riassorbiti in altri provvedimenti definitivi, come ad es. quelli cautelari. Questa situazione produce un notevole inconveniente: l’impossibilità per la Corte di dare dei precedenti. Tanto per fare un esempio, non vi possono essere sentenze della Cassazione sull’interpretazione ed applicazione degli artt. 669-bis / 669-quaterdecies del codice. Ciò produce, nella materia del procedimento cautelare, una giurisprudenza a macchia di leopardo: tante “prassi” quanti sono i tribunali; il che è proprio quello che la presenza di una Corte suprema dovrebbe evitare. Per ovviare a tale inconveniente, non è certo possibile estendere illimitatamente la previsione dell’art. 111 Cost. anche ai provvedimenti del tipo di quelli sopra indicati, in quanto ciò produrrebbe un ulteriore aggravio per la Cassazione. Tuttavia, poiché – appunto – nelle dette materie la Costituzione non garantisce la decisione della Cassazione, si può pensare di ammettere la parte soccombente a proporre comunque l’impugnazione, e che la Corte possa insindacabilmente scegliere di decidere solo i ricorsi che diano l’occasione di emettere una pronuncia di principio, e di declinare l’esame degli altri con un provvedimento che si limiti a dar atto della mancanza di interesse generale degli stessi; ovvero si può pensare (ma la scelta tra queste tecniche va lasciata al legislatore delegato) ad un meccanismo – attivabile dal Procuratore Generale – analogo al vigente (ma perento) art. 363 che provochi una pronuncia di mero indirizzo, e cioè nomofilattica nel senso più pregnante della parola, della Corte senza incidenza nel caso concreto che ha dato occasione alla pronuncia ”.
In dottrina si sono prospettate tre possibili opzioni (43):
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a) un meccanismo, attivabile dal Procuratore Generale, analogo al ricorso nell’interesse della legge disciplinato dall’attuale 363 c.p.c., senza incidenza sul caso concreto. Si tratta, tuttavia, di norma caduta in desuetudine, né pare il caso di resuscitarne le “ illacrimate spoglie ” (44).
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b) Un sistema ispirato al modello dell’attuale 64 d.lgs. 165/2001(su cui v. supra al punto 4), nel quale il giudice sia tenuto a sospendere il procedimento e a rimettere la questione alla Corte di cassazione, a somiglianza di quanto avviene in Francia con la saisine pour avis. Sennonché, si snaturerebbe la funzione della Corte, chiamata a fornire un parere al giudice del merito, mentre il procedimento (magari cautelare o in camera di consiglio) resterebbe sospeso per lungo tempo in attesa del responso (45).
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c) La creazione presso la Corte di cassazione di un “ ufficio filtro ”, un ufficio smistamento (una specie di massimario posto in testa invece che in coda alla trafila), che riscontra la condizione di trattabilità in un numero limitatissimo di casi, con successivo deferimento in via automatica alle Sezioni Unite per la decisione delle questioni rilevanti, specialmente in settori “ a garanzia zero ” quali sono i procedimenti cautelari e molti procedimenti di giurisdizione volontaria.
Tuttavia, l’iniziativa del ricorso “ nell’interesse della legge ” lasciata al soccombente, oltre ad essere poco plausibile (ché le parti impugnano soltanto quando aspirino a beneficî concreti), genererebbe una sorta di ius interrogandi, cioè un diritto di richiedere alla Corte pareri non vincolanti, che poco si confà al rapporto del cittadino con gli organi giurisdizionali e, specialmente, con il più elevato di questi.
Se questa è la scelta del legislatore delegante, non resta che percorrere la strada segnata dall’esperienza francese della saisine pour avis, anche se la misura del contenzioso civile dinanzi alla Suprema Corte è colma a tal punto da rendere poco desiderabili apporti ulteriori, quali si prefigurano nella delega in esame.
In conclusione, sarebbe stato preferibile abolire con legge costituzionale l’art. 111, comma 7°, Cost., riprendendo e cercando di portare a compimento il percorso interrottosi, nell’ottobre del 1997, con l’art. 131 del progetto di riforme costituzionali della Commissione bicamerale, nel quale si prevedeva che “ contro le sentenze (ivi comprese quelle del giudice amministrativo) è ammesso ricorso per cassazione nei casi previsti dalla legge, che assicura comunque un doppio grado di giudizio ” (46). Abrogato il vincolo costituzionale, si potrebbero introdurre, sul paradigma tedesco o spagnolo, quelle severe limitazioni legislative al ricorso per cassazione, che sono ormai indifferibili per garantire l’efficienza organizzativa della Suprema Corte, la ragionevole durata dei giudizî e l’esercizio della funzione nomofilattica auspicata dallo stesso legislatore delegante.
(1) L’art. 33 del Progetto Vaccarella è rinvenibile all’indirizzo www.judicium.it/documenti_file: sulle proposte in esso contenute, il 29 novembre 2002, si tenne a Roma, presso la Corte di cassazione, un convegno dal titolo “ Il giudizio di legittimità nelle prospettive della riforma del codice di procedura civile ”, i cui atti si trovano parzialmente pubblicati in Giur. it. 2003, 817 ss. (altri interventi e le conclusioni di R. Vaccarella si leggono sempre su www.judicium.it/documenti_file ).
(2) Nella Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2005 il Procuratore Generale riferisce che, secondo le statistiche del Ministero di Grazia e Giustizia, “ in Cassazione vi è stata una diminuzione dell’11,1% dei ricorsi iscritti a ruolo. I processi esauriti hanno avuto un incremento dell’11,5% ”. Ciò nonostante, “ il carico complessivo è aumentato del 6,4% (93.533 procedimenti). In totale sono sopravvenuti 1.907.874 processi civili (-2,1% rispetto all’anno precedente), ne sono stati definiti 1.925.484 (-3%); a fine periodo la pendenza era di 3.364.976 processi (-0,7%) ”. La durata media dei giudizi civili “ in Cassazione è passata da 1.120 a 1.259 giorni ”.
(3) F. Cipriani, Nuovi presidenti e vecchi problemi della Corte di cassazione, in Foro it. 1999, I, 1877 s., nota a Cass., sez. un., 1° febbraio 1999, n. 6/SU, ricorda che “ la nostra Cassazione, sotto l’incalzare della realtà, si è evoluta in un modo diametralmente opposto a quello auspicato dai primi presidenti di ieri e di oggi. Il ricorso, concepito dal legislatore del 1865 come un’impugnazione straordinaria (art. 465 c.p.c. del 1865) e, anzi, come la più straordinaria delle impugnazioni straordinarie (il vecchio codice lo disciplinava per ultimo, dopo la revocazione e l’opposizione di terzo, e senza alcuna possibilità di sperare in una inibitoria), è diventato ciò che tutti sappiamo. E, si badi, lo è diventato quasi a furor di popolo, ossia col consenso di tutti, non solo di Mortara e Chiovenda, ma anche di Calamandrei, che pur aveva idee quant’altre mai elitarie sulla Cassazione e sulla sua funzione, ma che, di fronte al codice del 1940, che pur rinnegava le sue teorie sulla straordinarietà del ricorso, preferì sorvolare: infatti, nella relazione al re sul codice di procedura civile, che fu scritta da lui, non è traccia della pur fondamentale riforma ”. E aggiunge che “ i popoli che vivono nella penisola italiana sono da secoli abituati a contare sul terzo grado. Per la verità, il terzo grado non è sempre stato inteso nello stesso modo, atteso che si è a lungo disputato tra doppia conforme, terza istanza e Cassazione, ma sono secoli che gli italiani hanno tre gradi, tanto che si è parlato di un “pregiudizio inveterato il quale canonizzò nel numero tre una mistica guarentigia di verità e di giustizia”. Può darsi che fosse un pregiudizio, ma può anche darsi che fosse e sia il numero giusto, come del resto è dimostrato dal fatto che nessuno osa proporre la totale abrogazione del ricorso alla Suprema corte. Della quale noi abbiamo bisogno non solo per i motivi per i quali la piccola Repubblica di San Marino, pur avendo un solo giudice di appello, ha la terza istanza, ma anche per ottenere, nei limiti del possibile, la nomofilachia, che è essenziale in un ordinamento con un territorio vasto come il nostro: non è un caso se, nelle materie nelle quali ci si ostina a non ammettere il ricorso per cassazione, regna l’anarchia ”.
Di tutt’altro avviso è B. Sassani, Corte Suprema e jus dicere, in Giur. it. 2003, 824, secondo cui “ la garanzia del terzo grado è estranea alla storia, alla funzione, alla natura e alle possibilità delle Corti di ultima istanza (di cassazione o revisione). Esemplarmente nei “Motivi” della Zivilprozessordnung del 1877 si mette in chiaro che la funzione della Revision non può essere la garanzia di un ulteriore grado di giudizio: viene riconosciuto espressamente che un doppio grado di giudizio pieno, affidato a giudici diversi, è sufficiente a salvaguardare ragionevolmente le esigenze della giustizia. Le funzioni del giudizio di Revision affidato al Reichsgericht dovevano essere altre: uniformità di Auslegung e di Anwendung ”.
(4) V. J.L. Austin, How to do things with words, London 1962.
(5) Distinzione che, secondo autorevole dottrina, andrebbe estesa al piano ordinamentale e alla stessa organizzazione interna della Suprema Corte (cfr. A. Pizzorusso, La Corte suprema di cassazione: problemi organizzativi, in Mannuzzu-Sestini (a cura di) Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Roma 1992, 185 ss.). Su quest’idea v., però, le condivisibili riserve critiche di F.P. Luiso, Il vincolo delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite, in Giur. it. 2003, 822, secondo cui è opportuno evitare che si creino, all’interno dello stesso ufficio, corpi di magistrati investiti di funzioni diverse, con il possibile risultato di una mortificazione professionale di alcuni e di un potere eccessivamente concentrato su altri, nonché per garantire l’apporto di tutti i magistrati della Cassazione nell’elaborazione delle pronunce delle sezioni unite, al fine di ottenere un’evoluzione giurisprudenziale, alla quale possano essere chiamati a partecipare tutti i magistrati addetti alla Suprema Corte.
(6) Così E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano 1984, 318. Analogamente F. Tommaseo, La riforma del ricorso per cassazione: quali i costi della nuova nomofilachia?, in Giur. it. 2003, 826, ricorda che le censure del ricorrente “ non sono fine a se stesse e ciò in quanto il ricorrente non mira a ottenere, come direbbe Liebman, un “platonico parere” sui quesiti proposti, bensì chiede un provvedimento rescindente, facendo valere gli errori della sentenza impugnata che ne possano causare l’eliminazione. Insomma, è il contenuto imperativo e non quello logico della sentenza che forma oggetto del giudizio di legittimità, com’è dimostrato dalla norma per cui non sono soggette a cassazione, ma a semplice correzione, le sentenze errate nella motivazione che però abbiano il dispositivo conforme al diritto (384, 2° comma) ”.
(7) Che, pur rinvenendo le proprie origini nel problema del controllo sull’operato delle giurisdizioni speciali di nefasta memoria (come ben ricorda B. Sassani, Corte Suprema cit., 824), fornisce una garanzia a trecentosessanta gradi contro le violazioni di legge contenute in provvedimenti giurisdizionali decisorî, che ledano gli interessi del cittadino e non siano altrimenti impugnabili.
(8) Questo il testo del § 546 della ZPO che, nelle cause vertenti su diritti patrimoniali, demanda al giudice di appello la determinazione del valore della soccombenza, la quale, per rendere ammissibile la Revision, deve essere superiore a 60.000 DM, oggi pari a 30.677,51 euro:
“ § 546 [Revisionssumme; Zulassung der Revision]
1) In Rechtsstreitigkeiten über vermögensrechtliche Ansprüche, bei denen der Wert der Beschwer sechzigtausend Deutsche Mark nicht übersteigt, und über nichtvermögensrechtliche Ansprüche findet die Revision nur statt, wenn das Oberlandesgericht sie in dem Urteil zugelassen hat. Das Oberlandesgericht läßt die Revision zu, wenn
1. die Rechtssache grundsätzliche Bedeutung hat oder
2. das Urteil von einer Entscheidung des Bundesgerichtshofes oder des Gemeinsamen Senats der obersten Gerichtshöfe des Bundes abweicht und auf dieser Abweichung beruht.
Das Revisionsgericht ist an die Zulassung gebunden.
2) In Rechtsstreitigkeiten über vermögensrechtliche Ansprüche setzt das Oberlandesgericht den Wert der Beschwer in seinem Urteil fest. Das Revisionsgericht ist an die Wertfestsetzung gebunden, wenn der festgesetzte Wert der Beschwer sechzigtausend Deutsche Mark übersteigt ”.
L’accesso al Bundesgerichtshof è dunque condizionato, nel campo dei diritti patrimoniali, all’entità economica del pregiudizio patito dal soccombente, così come determinato dall’Oberlandesgericht in modo vincolante ai fini dell’ammissibilità della Revision. Nel campo dei diritti non patrimoniali, invece, l’Oberlandesgericht ammette la Revision soltanto allorché la questione giuridica controversa sia di grande importanza o quando la sentenza emanata contrasti con un precedente del Bundesgerichtshof o del Gemeinsame Senat der obersten Gerichtshöfe des Bundes.
Su questa norma v. il commento di W. Grunsky, in Stein-Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, 5/1, Tübingen 1994, 311 ss.; v. anche, più concisamente, Rosenberg-Schwab-Gottwald, Zivilprozessrecht, München 2004, 994 ss.
(9) Cfr., ancor più severamente rispetto al modello tedesco, l’art. 477, comma 2°, n. 2, della Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, che fissa il valore di venticinque milioni di pesetas, oggi pari a 150.253,03 euro, per l’ammissibilità del recurso de casaciòn:
“ Artículo 477. Motivo del recurso de casación y resoluciones recurribles en casación.
1. El recurso de casación habrá de fundarse, como motivo único, en la infracción de normas aplicables para resolver las cuestiones objeto del proceso.
2. Serán recurribles en casación las sentencias dictadas en segunda instancia por las Audiencias Provinciales, en los siguientes casos:
1.° Cuando se dictaran para la tutela judicial civil de derechos fundamentales, excepto los que reconoce el artículo 24 de la Constitución.
2.° Cuando la cuantía del asunto excediere de veinticinco millones de pesetas.
3.° Cuando la resolución del recurso presente interés casacional.
3. Se considerará que un recurso presenta interés casacional cuando la sentencia recurrida se oponga a doctrina jurisprudencial del Tribunal Supremo o resuelva puntos y cuestiones sobre los que exista jurisprudencia contradictoria de las Audiencias Provinciales o aplique normas que no lleven más de cinco años en vigor, siempre que, en este último caso, no existiese doctrina jurisprudencial del Tribunal Supremo relativa a normas anteriores de igual o similar contenido.
Cuando se trate de recursos de casación de los que deba conocer un Tribunal Superior de Justicia, se entenderá que también existe interés casacional cuando la sentencia recurrida se oponga a doctrina jurisprudencial o no exista dicha doctrina del Tribunal Superior sobre normas de Derecho especial de la Comunidad Autónoma correspondiente ”.
Il problema della funzione nomofilattica del Tribunal Supremo è risolto alla radice attraverso formidabili filtri preventivi che, in via alternativa, si riferiscono 1) alla tutela dei diritti fondamentali, 2) al valore economico della controversia, 3) all’“ interès casacional ”, che sussiste soltanto quando la sentenza impugnata sia in contrasto con la giurisprudenza del Tribunal Supremo o risolva questioni sulle quali la giurisprudenza è contrastante oppure applichi norme recenti, in vigore da non più di cinque anni, salvo che esista una giurisprudenza del Tribunal Supremo su norme anteriori di contenuto eguale o simile a quello delle nuove norme (cfr. M. Navarro Hernán, Recursos y otros medios de impugnaciòn, Madrid 2001, 243 ss.).
Sulla riforma processuale spagnola v. J. Montero Aroca, I principî politici del nuovo processo civile spagnolo, Napoli 2002; J. Picò I Junoy, I principî del nuovo processo civile spagnolo, in Riv. dir. proc. 2003, 65 ss.;R. Hinojosa Segovia, Il nuovo codice di procedura civile spagnolo, in Riv. dir. proc. 2000, 373 ss.; M. Ortells Ramos, Verso un nuovo processo civile in Spagna: l’anteproyecto di legge sul processo civile del 1997, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1999, 993 ss.
(10) V., ad esempio, l’art. 52.3 delle Civil Procedure Rules inglesi del 1999 (su cui cfr. N. Andrews, English Civil Procedure, Oxford University Press 2003, 902 s., il quale non esita ad affermare che “ appeals are expensive, cause delay and involve some element of duplication ”; in generale sulla riforma inglese del 1999v. L. Passanante, La riforma del processo civile inglese: principi generali e fase introduttiva, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2000, 1353 ss.).
Sulla Corte Suprema degli Stati Uniti v., sinteticamente, G.C. Hazard – M. Taruffo, La giustizia civile negli Stati Uniti, Bologna 1993, 215 ss., dove si evidenzia che tutti i casi decisi dalla Corte Suprema federale giungono al suo cospetto in quanto la Corte li ammetta discrezionalmente: invero, anche la petition for certiorari, proposta alla Supreme Court dalla parte soccombente a seguito della sentenza emessa da una Corte d’appello statale o federale, passa attraverso una valutazione discrezionale della Corte sull’opportunità di esaminare il caso.
(11) V. in tal senso S. Chiarloni, Prime riflessioni su recenti proposte di riforma del giudizio di cassazione, in Giur. it. 2003, 817.
(12) Sui presupposti del ricorso straordinario cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino 2004, 482.
(13) V. Cass., sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888, in Corriere giur. 1992, 751, con nota critica di C. Mandrioli, in Giur. it. 1994, I, 1, 804, con nota di De Cristofaro e in Foro it. 1992, I, 1737, con nota critica di C.M. Barone. Nomofilatticamente conforme è tutta la successiva giurisprudenza (v., ad es., Cass., sez. un., 16 dicembre 1999, n. 898/SU; Cass., 4 dicembre 1999, n. 1351, entrambe in Foro it. 2000, I, 2600, con nota di D. Maltese, Ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.: il problema nel problema).
(14) Cfr. F. Tommaseo, op. cit., 826. Sul processo penale v., con dovizia di richiami, Conso-Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova 2005, 2092 ss.
(15) F. Tommaseo, op. cit., 827, sottolinea che la nuova regola apre la strada a un contenzioso particolarmente insidioso su una questione di rito, riguardante la forma del quesito e, riportandosi all’insegnamento di Liebman, ricorda che le censure non sono fini a se stesse, poiché il ricorrente non mira a ottenere un “ platonico ” parere sulla quaestio iuris, bensì chiede un provvedimento rescindente.
(16) Così F. Tommaseo, op. loc. ult. cit., il quale ritiene onerosa e inutile questa attività, notando che l’esperienza degli ordinamenti di common law mostra come la nomopoiesi giurisprudenziale prescinda completamente da una cristallizzazione per formule dei principî di diritto. La pubblicazione delle reasons consente l’individuazione della ratio decidendi, che non è legata a espresse formulazioni del principio di diritto, ma è interamente affidata alla libera ricerca dell’interprete.
(17) S. Chiarloni, Prime riflessioni,cit., 819 propende per la drastica abolizione del ricorso straordinario per cassazione, che deve seguire, ovviamente, le procedure previste per le modifiche costituzionali dall’art. 138 Cost.
(18) Cfr., ad esempio, Cass., 1° luglio 1999, n. 6799;Cass., 24 marzo 1998, n. 3132;Cass., 26 agosto 1997, n. 8048.
(19) Ulteriori notizie e richiami bibliografici e giurisprudenziali, si vis, in A. Tedoldi, Appunti sul processo del lavoro, in Giur. it. 2002, 1551 ss.
(20) S. Evangelista, La riforma del giudizio di cassazione, in www.judicium.it, intervento al convegno del 29 novembre 2002 citato in nota 1.
(21) V., a composizione del precedente contrasto giurisprudenziale tra orientamento sostanziale e formale – su cui cfr. la felice sintesi di M. Montanari, in C. Consolo – F.P. Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, Vicenza 2000, 1357 ss., ove ulteriori richiami – e ribadendo l’arrêt di Cass., sez. un., 1° marzo 1990, n. 1577, in Foro it. 1990, I, 836, Cass., sez. un., 8 ottobre 1999, n. 711/SU e Cass., sez. un., 15 ottobre 1999, n. 712/SU, in Giust. civ. 2000, I, 63, con nota adesiva di Califano e in Corr. giur. 2000, 642, con nota parzialmente adesiva di Montanari e postilla di C. Consolo.
(22) V. A. Cerino Canova, Sul contenuto delle sentente non definitive di merito, in Riv. dir. proc. 1971, 257 s.; M. Montanari, L’efficacia delle sentenze definitive su questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc. 1987, 375 ss.
(23) Cfr., per tutti, Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1984, 238.
(24) Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino 1994, 250 s.
(25) S. Chiarloni, op. cit., 818.
(26) Come sottolinea F.P. Luiso, Il vincolo delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite, in Giur. it. 2003, 822.
(27) Così sempre Luiso, op. loc. cit. V. anche G. Gorla, Postilla su “ l’uniforme interpretazione della legge ” e i tribunali supremi, in Foro it. 1976, V, 135, il quale sottolineava il dovere funzionale della Corte di non staccarsi dalla propria giurisprudenza se non per ragioni gravi e oggettive; Id., Les sections réunies de la Cour de Cassation en droit italien, in Foro it. 1976, V, 115 ss.
(28) Lo ricorda giustamente Luiso, op. loc. cit.
(29) V., oltre a Chiarloni, loc. cit., F. Tommaseo, op. cit., 827.
(30) Sul tema v. Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano 1996, 457 ss.; De Cristofaro, La cassazione sostitutiva nel merito: pronunce di due anni e presupposti, inCorr. giur. 1998, 357 ss.; Id., La cassazione sostitutiva nel merito. Prospettive applicative, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 279 ss.
(31) Sul tradizionale modello francese v. E.F. Ricci, La cassazione civile italiana e il divieto di pronuncia sul caso concreto, in Riv. dir. proc. 1968, 708 ss. Sulla riforma francese v. Thery, La riforma della Corte di cassazione francese (studio della l. 3 gennaio 1979), in Riv. dir. proc. 1979, 647 ss. In generale sull’argomento cfr. Bove, Il sindacato della Corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano 1993.
(32) Cfr., da ultimo, Cass., 12 agosto 2003, n. 12089;Cass., 14 maggio 2003, n. 7451;secondo Cass., 4 dicembre 2002, n. 17221, “ la cassazione sostitutiva, con giudizio nel merito, è consentita nei soli casi in cui, dopo l’enunciazione del principio di diritto, la controversia debba essere decisa in base ai medesimi apprezzamenti di fatto che costituivano il presupposto del giudizio di diritto errato, in tal guisa postulandosi che il giudice del merito abbia avuto modo di esprimere siffatti apprezzamenti ai fini di una specifica decisione; essa non è pertanto consentita nei casi in cui l’intervento caducatorio della decisione di legittimità apra la via ad una pronuncia su questioni non esaminate nella pregressa fase di merito, atteso che la norma suddetta, nell’escludere la cassazione sostitutiva in presenza della necessità di accertamenti “ulteriori”, limita la possibilità di tale provvedimento alla sola ipotesi in cui tutti gli accertamenti siano stati compiuti dal giudice competente e quindi impedisce che in sede di cassazione sostitutiva possano essere rese decisioni su questioni nel merito delle quali il giudice “a quo” non si sia pronunciato, decisioni che, pertanto, non essendo destinate a sostituire alcuna pronuncia precedente, si configurino a loro volta come ulteriori rispetto a quelle cassate. Né rileva in proposito il fatto che sulla questione si sia pronunciato, o meno, il giudice di primo grado, la cui sentenza sia stata riformata con quella poi cassata, atteso l’effetto sostitutivo della sentenza di secondo grado, la cui pronuncia toglie rilievo, nei limiti del principio tantum devolutum quantum appellatum, alla decisione di primo grado, come reso palese dall’art. 393 c.p.c. il quale, per il caso di estinzione del processo verificatasi dopo la cassazione, dispone che si estingue l’intero giudizio, laddove l’estinzione del giudizio di appello – verificatasi, cioè, prima della realizzazione del suddetto effetto sostitutivo – può determinare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (art. 310 c.p.c.) ”.
(33) Cass., 30 ottobre 1998, n. 10896 trae da questo principio la conseguenza per cui la decisione della causa nel merito non trova applicazione nel caso di vizio di omessa pronunzia, che può dar luogo, sotto il diverso profilo dell’art. 360 n. 4, ad annullamento con rinvio della causa alla fase nella quale l’omissione si è verificata e non già a cassazione con enunciazione del principio di diritto. V. anche Cass., 11 novembre 2002, n. 15808,secondo cui la ratio dell’art. 384, comma 1°, c.p.c. non è tanto quella di realizzare al massimo l’economia dei giudizî, quanto di evitare un terzo giudizio di merito, ma senza sopprimerne uno, come si verificherebbe nel caso di sostituzione della Cassazione al giudice del fatto in mancanza di giudizio di merito nella sentenza impugnata; analogamente Cass., 26 febbraio 1998, n. 2123.
(34) Cass., 6 febbraio 1997, n. 1130, in Giur. it. 1997, I, 1, 1310; Cass., 24 giugno 1996, n. 5827.
(35) Distinzione, peraltro, revocata in dubbio da E. Fazzalari, Ricorso per cassazione, in Dig. civ., XVII, Torino 1998, 589. Sul tema v. V. Andrioli, Commento al c.p.c., II, Napoli 1960, 500 ss., che interpreta la formula dell’art. 360, n. 3, c.p.c. come limitata ai soli vizî in iudicando.
(36) Cfr., per tutti, Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli 1994, 382 s. Ed infatti Cass., 6 febbraio 1997, n. 1130 cit. si è pronunciata sul merito in un (vecchio) giudizio di convalida di un sequestro.
(37) Su cui v. E.T. Liebman, Questioni vecchie e nuove in tema di qualificazione delle norme sulle prove, in Riv. dir. proc. 1969, 353 ss. Per una sintesi del problema cfr. M. Cantillo, in AA.VV., La cassazione civile, II, Torino 1998, 1632 ss. Cass., 24 giugno 1996, n. 5827, cit. si è pronunciata sul merito dopo aver accolto il ricorso per violazione delle regole di prova legale del giuramento.
(38) V. Bove, Sul potere della Corte di cassazione di decidere nel merito la causa, in Riv. dir. proc. 1994, 713 ss. F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 1999, 438 s.
(39) Cfr. Costantino, Sull’accertamento pregiudiziale dell’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi, in Corr. giur. 1998, 977 s.
(40) Sul deficit di garanzie procedurali per l’osservanza del contraddittorio nella eventuale fase rescissoria dinanzi alla Corte v. già C. Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, op. cit., 465 ss.
(41) Su questa norma v. Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, op. cit., 481 ss.
(42) Così Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, op. cit., 484 s.; e v. già Id., La revocazione delle decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova 1989, 152 ss., ove richiami anche di diritto comparato.
(43) V. B. Sassani, Corte suprema e jus dicere, in Giur. it. 2003, 823 s.
(44) Così, icasticamente, F. Tommaseo, op. cit., 827.
(45) Lo stesso Sassani, op. loc. cit., si fa carico di queste possibili obiezioni. Favorevole a questa soluzione, pur con alcune perplessità di fondo, è F. Tommaseo, op. loc. cit., il quale ricorda che la saisine pour avis opera in Francia con una certa efficacia a partire dal 1979 e si tratta di uno strumento circondato da particolari cautele, per evitare che il giudice si sottragga al proprio dovere istituzionale di interpretare e di applicare la legge, da usarsi con estrema parsimonia per questioni di diritto nuove, difficili, diffuse. La Corte, dando l’interpretazione richiesta, formula un semplice parere che si risolve in un’indicazione che non vincola né il giudice che l’ha richiesta né la stessa Cassazione che l’ha formulata: non si tratta di un référé législatif, di un’interpretazione autentica della legge che resta riservata esclusivamente al legislatore.
Ai sensi dell’art. 151-1 del Code de l’organisation judiciaire, “ avant de statuer sur une question de droit nouvelle, présentant une difficulté sérieuse et se posant dans de nombreux litiges, les juridictions de l’ordre judiciaire peuvent, par une décision non susceptible de recours, solliciter l’avis de la Cour de cassation qui se prononce dans le délai de trois mois de sa saisine ”. Per questi tre mesi il procedimento è sospeso, salva l’adozione di provvedimenti conservativi o d’urgenza, ma “ l’avis rendu ne lie pas la juridiction qui a formulé la demande ” (v. gli artt. 151-1 ss. del Code de l’organisation judiciaire, nonché gli artt. 1031-1 ss. del Nouveau Code de procédure civile).
(46) Cfr. S. Chiarloni, Prime riflessioni, cit., 818 s., il quale ritiene essenziale la creazione di filtri al ricorso per cassazione, abolendo l’art. 111, comma 7°, Cost., adottando le formations restreintes, sull’esempio francese, composte da tre soli membri, per la decisione senza contraddittorio orale dei ricorsi inammissibili, manifestamente infondati o palesemente fondati, consentendo la cancellazione dal ruolo dei ricorsi contro le sentenze che il soccombente non abbia eseguito oppure ripristinando il deposito di soccombenza, oggidì compatibile con l’ordinamento costituzionale grazie alla nuova legge sul patrocinio per i non abbienti, limitando, infine, il sindacato per vizio di motivazione a quel che risulta dal testo della sentenza. [/thrive_lead_lock]