La riforma del processo penale fra correzioni strutturali e tutela “progressiva” dei diritti fondamentali

Renzo Orlandi, La riforma del processo penale fra correzioni strutturali e tutela “progressiva” dei diritti fondamentali, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, p. 1134 ss.

LA RIFORMA DEL PROCESSO PENALE FRA CORREZIONI

STRUTTURALI E TUTELA “PROGRESSIVA”

DEI DIRITTI FONDAMENTALI

Di Renzo Orlandi

Abstract

A venticinque anni dall‘entrata in vigore del “nuovo” codice di procedura penale, le iniziative legislative volte a riformare la giustizia penale non conoscono sosta. Una febbre riformistica sembra caratterizzare quest’ultimo quarto di secolo. È il segno di un disagio profondo derivante sia dallo squilibrio fra le posizioni dei soggetti processuali, sia dall’inadeguatezza della legge processuale vigente a offrire una tutela adeguata sul fronte dei diritti fondamentali della persona. Muovendo dalla distinzione fra riforme che tendono a correzioni strutturali del sistema processuale e altre che operano sul fronte dei diritti individuali, l’Autore pone innanzitutto una questione di metodo, formulando al contempo proposte concrete per superare almeno alcune delle serie difficoltà nelle quali si dibatte oggi la giustizia penale italiana. Lo studio è il risultato di riflessioni, condotte col metodo comparatistico, su analoghi movimenti riformistici visibili in alcuni dei principali ordinamenti giuridici.

Titolo in inglese

STRUCTURAL CHANGES AND DYNAMIC PROTECTION OF INDIVIDUAL RIGHTS IN CRIMINAL PROCEEDING

Abstract

Twenty-five years have passed since the entrance into force of the “new” code of criminal procedure, and the legislative initiatives aiming at reforming criminal justice in Italy are still being carried out. A reformative fever seems to have characterized this last quarter of century. This indicates the serious difficulty deriving from the imbalance of the subjective positions of the proceeding as well as from the inappropriateness of the procedural law in force to adequately protect the fundamental rights of the people involved. Moving from the distinction between the reforms which aim at a structural amendment of the criminal justice system and those which regard fundamental rights, the Author poses first of all a question of method, making at the same time concrete proposals to overcome some of the serious difficulties which nowadays affect Italian criminal justice. The study is the result of considerations, based upon the comparative method, regarding similar reformatory movements present in several of the main judicial systems.

Sommario: 1. Premessa. — 2. Aspirazioni riformiste in epoca d’instabilità normativa — 3. Correggere la struttura del processo e ottimizzare l’organizzazione del lavoro giudiziario: a) Completare la riforma e razionalizzare la struttura dell’ordinamento processuale. — b) Regolare l’input processuale. — c) Ottimizzare l’attività investigativa del pubblico ministero. — 4. Assicurare la tutela “progressiva” dei diritti fondamentali: a) Il doveroso riconoscimento di nuovi diritti. — b) Confini mobili nella tutela dei diritti fondamentali. — 5. Rilievi conclusivi.

1. Premessa. — Venticinque anni sono trascorsi dall’entrata in vigore del nostro attuale codice di procedura penale, pervicacemente qualificato come “nuovo” nella letteratura processualistica e nella prosa giurisprudenziale ben oltre il tempo della sua iniziale applicazione..

Quela persistente idea del “nuovo” svela un duplice senso. Da un lato, è indice della consapevole incompletezza di una riforma annunciata come epocale (“il primo codice dell’Italia repubblicana”). Una riforma che comprensibilmente esigeva una maturazione culturale sia nell’opinione pubblica, sia, soprattutto, da parte degli operatori della giustizia penale. D’altro lato, nell’aggettivazione di “nuovo”, si coglie la spia di un atteggiamento polemicamente misoneista da parte di una parte significativa della magistratura (soprattutto requirente), incline a vedere nella riforma processuale un’irragionevole limitazione dei poteri di accertamento giudiziario ( 1).

Come sappiamo, trattandosi di storia recente, la reazione “controriformistica” ha sortito ben presto effetti sconvolgenti sull’impianto del “nuovo” codice ( 2). Ne è derivato un vistoso squilibrio fra accusa e difesa che ha alimentato e accresciuto un clima di incomprensione e ostilità fra avvocatura e magistratura. Il carattere ondivago della legislazione processuale negli anni Novanta documenta in maniera efficace questa realtà. Interventi di segno rigorista ( 3) si alternano a leggi di ispirazione garantista ( 4), secondo un movimento pendolare largamente condizionato dai soggetti che del nuovo codice si debbono avvalere o che sono tenuti ad applicare. I conflitti innescati in quel decennio trovano un relativo punto di approdo e soluzione nella revisione costituzionale dell’art. 111, nella quale si può vedere una conferma delle scelte di fondo operate con la riforma processuale di fine anni Ottanta.

Gli anni Duemila, nel loro primo scorcio, lasciano affiorare altri impulsi riformistici ( 5). Una nuova conflittualità si produce fra magistratura ed esponenti di punta dell’allora classe dirigente: ciò si tradurrà prevalentemente in una serie di discutibili iniziative legislative, intraprese più per condizionare l’andamento di talune vicende giudiziarie, che per portare a compimento la riforma di un codice processuale ancora irrisolto.

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Per il resto, la politica penale (quali che siano i partiti al Governo) tende ad assumere tratti apertamente populistici: nei climi post-ideologici, promettono ottimi risultati elettorali i “pacchetti sicurezza”, chiaramente intesi a tranquillizzare una collettività allarmata da campagne di stampa spesso inclini a soffermarsi, con interessata morbosità, su inquietanti fattacci di cronaca.

Nello stesso periodo si registrano le prime avvisaglie di una “politica penale europea”, destinata a condizionare in modo crescente anche la nostra normativa interna: col che si allude sia alle direttive e alle decisioni-quadro dell’UE (si pensi al mandato d’arresto europeo), sia alle Raccomandazioni del Consiglio dei Ministri d’Europa e all’opera armonizzatrice che — sul piano delle politiche penali e processuali — stanno svolgendo la Corte di Strasburgo sotto il segno della Convenzione europea dei diritti umani e la Corte di Giustizia europea sulla scorta delle norme UE oltre che della Carta dei diritti fondamentali UE (Carta di Nizza).

Si constata, in definitiva, una straordinaria varietà di ragioni favorevoli a (o induttive di) riforme processuali. Da questo punto di vista, il primo quarto di secolo dell’attuale codice processuale segna una differenza nettissima rispetto ai primi venticinque anni del codice di rito previgente, rimasto pressoché inalterato fino al 1955, nonostante il drastico cambio di regime politico avvenuto a circa tre lustri dalla sua entrata in vigore ( 6). Il raffronto è istruttivo, perché mette in evidenza l’inclinazione dell’epoca attuale ai continui adattamenti della norma procedurale alle contingenze del tempo presente e la corrispondente idiosincrasia verso soluzioni durature.

Credo che una riflessione sulle attuali prospettive di riforma della procedura penale (in Italia, ma non solo ( 7)) debba muovere dalla realistica constatazione di questa, per molti versi disorientante mutevolezza delle spinte al cambiamento. Molte e diverse, infatti, sono le ragioni suscettibili di rendere politicamente opportuna una revisione delle norme processuali.

Se guardiamo al recente passato, le esigenze di cambiamento sembrano prevalere su quelle (pur apprezzabili) di conservazione. L’instabilità normativa è divenuta — si può dire — un elemento costante e duraturo nell’attuale esperienza dei sistemi penali.

Uno sguardo attento rivela però che le spinte riformistiche appartengono a diverse tipologie ed è bene non confonderle. Alcune puntano a modificare dati strutturali del fenomeno processuale come, ad esempio, le funzioni dei soggetti processuali o la scansione di atti, fasi, gradi da seguire per arrivare a sentenza. Altre intervengono per tutelare diritti individuali, sancendo divieti o modalità particolari per la compressione dei diritti stessi. Altre per corrispondere a inviti od “ordini” di adeguamento impartiti da realtà sovranazionali (Unione Europea, Consiglio dei Ministri d’Europa e Corte di Strasburgo). Altre ancora per colmare lacune che rendono altrimenti incerto il quadro delle regole.

La classificazione qui prospettata non prelude all’affermazione di un ordine gerarchico di interventi novellatori, quasi vi fossero riforme che, per la loro qualifica, abbiano precedenza su altre. Ogni riforma è importante e urgente, in quanto la situazione reale ne esiga il varo. Altro è il punto.

La ricognizione dei tipi di riforme processuali sulla base delle ragioni che le ispirano o delle finalità che tendono a realizzare può tornare utile sotto svariati profili: accresce la consapevolezza dell’osservatore specializzato su ogni intervento novellatore; può servire a sottrarre la materia delicatissima della giustizia penale a iniziative poco meditate, messe a punto solo per dimostrare che si sta facendo qualcosa; può prevenire passi falsi, come il varo di riforme inadeguate a raggiungere i risultati che avrebbero dovuto conseguire ( 8), o tali da creare problemi più gravi di quelli che intendeva risolvere ( 9).

Un’ulteriore notazione si impone a titolo di premessa. Il processo giudiziario è fenomeno complesso, dinamico, dagli sviluppi imprevedibili, ma ha un suo indiscutibile tratto unitario: la molteplicità e la seuqenza degli atti che ne compongono la trama, acquistano un senso (unitario, per l’appunto) dal fine cui tendono, vale a dire dalla decisione alla quale il processo “naturalmente” aspira o tende. Stabilire la natura illecita o meno di un fatto e accertare (in positivo o in negativo) la responsabilità dell’imputato è il fine che giustifica e dà un senso agli atti di ogni procedimento giudizario. Porre il tema dei diversi tipi di riforma non equivale a mettere in discussione questa sostanziale unità del fenomeno. Questo dev’essere chiaro. Lo studio dei “tipi” di riforma è imposto dalla realtà delle cose, peraltro non scindibile dallo sguardo dell’operatore (magistrato, avvocato), del politico o dello studioso, vale a dire dei soggetti dai quali provengono gli spunti novellatori e che, solitamente, elaborano le loro proposte muovendo da problemi settoriali (es. il rafforzamento di poteri investigativi; una maggior tutela della difesa durante l’indagine; una miglior protezione della vittima, etc.).

Proprio in virtù del rilievo appena svolto, occorre essere consapevoli che la più settoriale delle riforme può avere ripercussioni sull’intera vicenda giudiziaria o su taluni snodi della stessa.

Un esempio può qui tornar utile per meglio chiarire il concetto. La l. n. 46 del 2006 (c.d. legge Pecorella) introdusse alcune modifiche in tema appello. Sembrava un intervento settoriale volto a limitare, fin quasi ad escluderla, l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento. In realtà, quella riforma era gravida di effetti destinati a riflettersi sulle funzioni giudiziarie in ogni fase del procedimento. Da un lato, il pubblico ministero avvertiva con maggior urgenza il dovere di effettuare indagini complete, sapendo di non poter appellare l’eventuale proscioglimento (salvo casi eccezionalissimi): nel che si poteva ravvisare un effetto positivo dell’intervento novellatore. D’altro canto, il giudice di primo grado, consapevole che il suo proscioglimento sarebbe stato difficilmente appellabile, poteva propendere per una condanna, nei casi dubbi, lasciando al giudice di secondo grado, re melius perpensa, la scelta definitiva circa il merito della questione: nel che si poteva invece cogliere un effetto perverso della riforma stessa ( 10). Quanto al giudizio di cassazione, la sua funzione risentiva necessariamente della (quasi) inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, se non altro sul piano (essenzialmente quantitativo) di un maggior volume di casi da esaminare, considerato che contro quelle decisioni restava aperto praticamente il solo ricorso di legittimità.

Al di là delle opinioni favorevoli o sfavorevoli che si possono coltivare sulla citata novella del 2006, l’esempio appena fatto è utile, soprattutto perché evidenzia una delle ragioni (direi la principale) per cui una riforma, essenzialmente dedicata a un determinato segmento della sequenza processuale, è destinata a irradiare effetti sulle altre fasi, persino su quelle antecedenti. Ciò si spiega col fatto che i soggetti processuali elaborano le loro strategie (accusatoria o difensiva) o (nel caso dei giudici) si apprestano ad assolvere i rispettivi doveri decisori, alla luce dei pronosticabili sviluppi dell’intera vicenda giudiziaria.

Come in un percorso stradale il passeggero calcola le opportunità e gli ostacoli che lo separano dalla meta, così nel procedimento giudiziario i soggetti assumono iniziative in un quadro di aspettative che includono l’intero itinerario. E l’itinerario procedurale (analogamente a quello stradale) riserva imprevisti, blocchi, deviazioni, che possono dipendere sia da situazioni contingenti (inefficienze occasionali dell’apparato burocratico), sia da deficienze strutturali o da lacune che esigono risposte sul piano normativo.

L’attenzione deve perciò volgersi alle ragioni capaci di giustificare tali mutamenti normativi. Ciò nell’intento di distinguere tipi di riforma processuale concettualmente diversi, prima di abbozzare qualche proposta, posto che — come si vedrà — le riforme di struttura non sono le uniche a venire in considerazione come opportune e urgenti.

2. Aspirazioni riformiste in epoca d’instabilità normativa. — La stabilità dell’assetto normativo è, in linea astratta, un valore da difendere anche per il processo penale, risultando essenziale sia per assicurare uno stesso trattamento fra imputati giudicati in tempi diversi, sia per proteggere l’affidamento dei soggetti coinvolti nel processo. Ma quella stessa stabilità sarebbe percepita come fonte di continue ingiustizie, se fosse invocata a protezione di regole procedurali generalmente sentite come irragionevoli dai protagonisti del processo e dall’intera collettività.

Di qui una prima presa d’atto: l’instabilità normativa che ha caratterizzato i venticinque anni del nostro codice segnala innanzitutto un perdurante disagio sui temi della giustizia penale ( 11). Si è già accennato alle ostilità che, nel corso di questo quarto di secolo, hanno contrapposto la magistratura all’avvocatura e a settori significativi della classe politica, dando luogo a uno scontro “intorno al processo” che non ha ancora trovato una sua sintesi. Sarebbe però errato limitarsi a questa considerazione. Quella appena segnalata è certo una situazione conflittuale, patologica ( 12), sintomatica di scarsa condivisione sulle regole e sulle funzioni processuali (si pensi, ad esempio, alla controversia riguardante la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri) ed è per ciò stesso foriera di un’instabilità politica, con ricadute pressoché inevitabili sul piano normativo.

Qui interessano tuttavia altre cause di instabilità, non necessariamente di origine conflittuale né patologica, anzi, in qualche caso addirittura rientranti nella fisiologia di mutamenti politico-costituzionali, che impongono di tener sempre acceso il motore delle riforme processuali.

Di queste conviene ora tentare una ricognizione ragionata, sulla scorta dei principali nodi problematici che caratterizzano la realtà odierna della procedura penale italiana: quelli che andrebbero sciolti per assicurare al contempo efficienza di sistema e rispetto dei diritti individuali.

Non rientra nell’economia di questo contributo analizzare o presentare nel dettaglio il contenuto di possibili riforme. Numerose commissioni ministeriali si sono prodigate, in questi anni ( 13), nel tentativo di riformare o correggere la normativa processuale penale, oscillando fra riscritture integrali del testo codicistico ( 14), elaborazione di linee guida per una revisione del codice ( 15), proposte di carattere organizzativo ( 16), proposte di tipo settoriale ( 17), proposte di più ampio respiro volte a modificare la struttura del processo e a riequilibrare i rapporti fra le parti ( 18).

Lo scopo del presente scritto è assai più limitato. L’intento non è tanto quello di aggiungere altre proposte o interloquire a distanza con i progetti elaborati dalle citate Commissioni ministeriali. Quella qui affrontata è una questione di metodo, più che di contenuti. Si cercherà sì di illustrare, a grandi linee, i diversi “capitoli” di auspicabili riforme processuali, corrispondenti ai più significativi punti di sofferenza del nostro attuale sistema, ma con l’intento prevalente di mostrarne i molteplici effetti sulla dinamica processuale ( 19). Al contempo, ci si sforzerà di ragionare sui diversi tipi di intervento novellatore, secondo che la riforma riguardi la struttura del procedimento giudiziario, con le sue ordinate scansioni in fasi e gradi, ovvero la tutela dei diritti fondamentali implicati nel suo svolgimento.

Le scelte riguardanti l’assetto strutturale del processo vanno comprensibilmente elaborate tenendo conto di altri fattori contigui, quali l’organizzazione degli uffici giudiziari e la quantità dei casi da trattare. adattamenti e bilanciamenti Sul terreno dei diritti fondamentali si impongono invece adatamenti e bilanciamenti che esigono l’adozione di altri criteri.

L’intervento riformistico dovrebbe pertanto riguardare diversi ambiti concettualmente distinti e sintetizzabili in quattro punti programmatici: a) Completare la riforma e razionalizzare la struttura dell’ordinamento processuale; b) razionalizzare l’organizzazione del lavoro giudiziario; c) regolare l’input della macchina giudiziaria; d) assicurare la tutela “progressiva” dei diritti fondamentali.

I primi tre rinviano a riforme riguardanti (o strettamente connesse con) i profili strutturali del processo. In considerazione dell’intimo rapporto che le caratterizza sul piano dei contenuti, saranno trattate distintamente in un unico paragrafo. Sarà invece dedicato un paragrafo apposito al quarto punto, perché il tema dei diritti fondamentali (principalmente, dei diritti di libertà) e della loro tutela nel processo penale pone questioni particolari che trascendono la struttura del processo.

3. Correggere la struttura del processo e ottimizzare l’organizzazione del lavoro giudiziario.

a) Completare la riforma e razionalizzare la struttura dell’ordinamento processuale. — Conviene avviare la riflessione muovendo dalla struttura del nostro rito penale, generalmente ritenuta inadeguata ad assicurare decisioni in tempi ragionevoli.

C’è del vero in questa credenza diffusa. E c’è di più. La riforma del 1988 è intervenuta — a ben vedere — sul solo procedimento di primo grado. Il sistema delle impugnazioni riecheggia nelle sue linee fondamentali l’impostazione del codice previgente. Inoltre, a distanza di un quarto di secolo, lo stesso procedimento di primo grado si è andato appesantendo in misura superiore all’utile e al necessario: alludo in particolare all’udienza preliminare che, grazie alla l. n. 479 del 1999, è divenuta elemento di ulteriore complicazione della procedura, senza sensibili contropartite, né sul terreno del diritto di difesa, né, tanto meno, su quello dell’efficienza processuale. Ma andiamo con ordine.

C’è infatti un vizio d’origine nella riforma processuale degli anni Ottanta: aver sostanzialmente confermato l’assetto dei rimedi contro le decisioni di merito del giudice di primo grado. La scelta chiama in causa il legislatore delegante del 1987 e, in particolare, le direttive da nr. 83 a 95 della legge. n. 81 ( 20). Scelta discutibile, perché incoerente con l’asserito carattere accusatorio del procedimento di primo grado. Il discorso vale soprattutto per il giudizio di appello, ancora configurato come un secondo giudizio di merito, idoneo a rovesciare l’esito del giudizio di primo grado, a seguito di un dibattimento monco di essenziali garanzie.

L’incoerenza sistematica è divenuta evidente dopo che la revisione dell’art. 111 cost., detta del “giusto processo”, ha fatto del contraddittorio nella formazione della prova un presupposto di validità dell’accertamento di colpevolezza ( 21). Il tema si è poi imposto all’attenzione di una vasta platea di studiosi ed operatori, dopo che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno segnalato la strana e “ingiusta” posizione dell’imputato prosciolto in primo grado, che rischia la condanna in appello senza poter proporre propri motivi e proprie richieste al giudice di seconda istanza ( 22). Ne è scaturita — come si ricorderà — una discussione sull’opportunità di togliere al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento ( 23). Un’iniziativa legislativa (l. n. 46 del 2006, c.d. Legge Pecorella) ha tradotto in norma quell’auspicio. Su di essa gravava però il sospetto — forse non del tutto infondato — di esser stata concepita in maniera pretestuosa, per allontanare la prospettiva di una condanna in secondo grado di qualche “imputato eccellente” che, proprio in quel periodo, versava nello status di “prosciolto in primo grado”. Di qui, principalmente, l’ostilità manifestata da una parte consistente della dottrina, in prevalenza orientata a denunciare la disparità di trattamento fra un’accusa improvvisamente priva della facoltà di appellare le sentenze di proscioglimento e una difesa che manteneva integro il diritto di appellare quelle di condanna ( 24). L’argomento sarà poi ritenuto decisivo dalla Corte costituzionale la quale restituirà al pubblico ministero ministero l’esercizio di quella facoltà, con un paio di decisioni che sembrano aver definitivamente chiuso la partita ( 25).

Io sono invece dell’opinione che la partita vada riaperta, considerato che quelle decisioni poggiano su una discutibilissima (e a mio avviso erronea) valorizzazione del principio di soccombenza. Principio che ha un robusto ancoraggio nel processo civile, dove le parti sono effettivamente sullo stesso piano, ma che è invece privo di fondamento nel diverso contesto del processo penale, dove la posizione dell’accusa è del tutto asimmetrica rispetto a quella della difesa ( 26). Qualificare il pubblico ministero come “parte” provoca gravi fraintendimenti. Di lui si è detto che è “parte pubblica” o, addirittura, “parte imparziale”, con un ossimoro che rivela, già sul piano linguistico, l’estrema relatività del concetto che sta dietro quel discutibile sostantivo. In realtà, l’espressione “pubblico ministero” designa una “funzione”, più che una parte processuale: tant’è vero che, nell’esercizio di quella funzione, possono avvicendarsi nel corso di uno stesso processo più magistrati. È indifferente il soggetto (persona fisica) che accusa, proprio perché è la funzione accusatoria ad essere attivata da quel soggetto.

Orbene, privare l’organo chiamato a svolgere quella funzione della facoltà di appellare sarebbe costituzionalmente illegittimo, solo se risultasse seriamente pregiudicato l’esercizio della funzione stessa ( 27). Ma così non è. Il potere (che è anche un dovere incondizionato, a mente dell’art. 112 cost.) di coltivare l’accusa non viene intaccato dal divieto di appellare. Ne risultano semmai condizionate le concrete modalità di attuazione. Il pubblico ministero che sa di non poter contare sul mezzo dell’appello, dovrà sforzarsi di sfruttare al meglio il procedimento di primo grado, cominciando con l’effettuare indagini complete. In ciò non vi sarebbe nulla di patologico e, men che meno, di incostituzionale. Si tratterebbe anzi di scelta provvida, perché tesa a raddrizzare una vistosa stortura sistematica del nostro attuale ordinamento processuale, troppo squilibrato in favore della funzione accusatoria, specialmente nella sua fase iniziale: è ragionevole che l’indiscussa superiorità dell’accusatore nella fase investigativa sia compensata da un freno in fase di gravame ( 28). La proposta sarebbe del resto in linea con Convenzioni e Patti internazionali, dove il secondo grado di giurisdizione trova spazio come possibile occasione difensiva, non come prerogativa dell’accusa ( 29).

Questo, in estrema sintesi, il contenuto di una prima possibile proposta di riforma strutturale. L’appello dovrebbe essere consentito al solo imputato, esclusivamente contro le sentenze di condanna e contro le sentenze che dichiarano la sua non imputabilità. Contro le restanti sentenze di proscioglimento resterebbe esperibile il ricorso per cassazione.

Usi strumentali o temerari del gravame andrebbero prevenuti, sospendendo il corso della prescrizione fino alla definizione del giudizio di secondo grado ( 30). Inoltre, la legge dovrebbe tipizzare i motivi dell’appello ( 31), facendovi rientrare sia questioni di diritto (errores in iudicando ed errores in procedendo), sia le questioni (prevalentemente di fatto) che darebbero luogo a revisione, se la sentenza fosse definitiva ( 32). Il giudizio andrebbe inoltre ammesso solo se i motivi illustrati dall’imputato non apparissero manifestamente infondati.

Al pubblico ministero resterebbe la facoltà di ricorrere per cassazione, così come alla parte civile ( 33). Se poi si volesse ridurre ulteriormente l’eventualità di un nuovo giudizio di merito provocato dall’accusa, si potrebbe limitare alle sole violazione di legge il ricorso di legittimità del pubblico ministero ( 34).

Un intervento sul sistema delle impugnazioni penali come quello qui sommariamente prospettato sortirebbe effetti fisiologicamente salutari sula dinamica dell’intero procedimento di primo grado. Risulterebbe accresciuta la centralità (quanto meno ideale) del dibattimento. Inoltre, il pubblico ministero dovrebbe fare indagini complete, allo scopo di evitare azioni penali azzardate, destinate a sfociare in proscioglimenti pressoché irreversibili. Per agevolare l’accusa nell’assolvimento di questo difficile compito, si potrebbe pensare a una misurata dilatazione dei tempi dell’indagine oltre i limiti segnati oggi dall’art. 405.

Del resto, se l’indagine del pubblico ministero fosse completa, se l’accusa fosse ben coltivata, non vi sarebbe bisogno di quel tempo supplementare costituito dall’odierna udienza preliminare, la cui riforma nel 1999 è stata giustificata, tra l’altro, dall’esigenza di colmare lacune investigative: ne sono conferma i novellati artt. 421bis e 422.

Omettere l’udienza preliminare non significa disconoscere l’importante funzione che la legge assegna a questo delicato snodo processuale. Quella stessa funzione (assicurare un controllo giurisdizionale sulla fondatezza dell’accusa) potrebbe essere assolta altrimenti, da un contraddittorio cartolare, senza bisogno di convocare un’udienza, assai più dispendiosa in termini di tempo e di risorse logistiche ( 35). La richiesta di rinvio a giudizio andrebbe presentata al giudice delle indagini preliminari entro un termine (ordinatorio) prefissato in ragione della gravità e complessità del caso. Alla difesa — doverosamente informata di tale richiesta — andrebbe assegnato un termine per presentare proprie memorie e contro-richieste, con l’allegazione di eventuali esiti d’investigazione privata. Una procedura affine a quella oggi in uso per il giudizio immediato, ma con l’importante differenza di uno spazio assegnato all’interlocuzione difensiva ( 36).

b) Regolare l’input processuale. — Le proposte formulate al punto precedente promettono tempi più rapidi per la chiusura del giudizio di merito, senza ledere i diritti della difesa. Nemmeno la funzione accusatoria ne risulterebbe pregiudicata, a condizione però che la massa dei procedimenti destinati a culminare in una richiesta di rinvio a giudizio sia ridotta entro limiti realisticamente gestibili.

Si è solito invocare, a tal proposito, una robusta depenalizzazione dei reati, nell’illusione che sia sufficiente trasformare in amministrativi numerosi illeciti penali disseminati nella nostra variopinta legislazione speciale, per fronteggiare il carico di lavoro in quotidiana entrata negli uffici requirenti. Ma l’esperienza insegna che la depenalizzazione, per ampia che sia, non basta a fronteggiare il problema. La fabbrica degli illeciti penali, specie quelli di lieve entità, è sempre attiva e contribuisce a produrre flussi crescenti di notitiae criminis.

Non c’è settore di intervento legislativo (ambiente, lavoro, famiglia, salute, immigrazione, traffico stradale, economia, fiscalità etc.) che non veda lievitare la massa dei reati in misura superiore al volume delle depenalizzazioni effettuate e ragionevolmente effettuabili.

Vero che il principio di obbligatorietà dell’azione penale vieta soluzioni ispirate a scelte discrezionali, volte a selezionare — da parte del pubblico accusatore — i reati meritevoli di essere in concreto perseguiti. Non c’è però bisogno di trasgredire tale divieto per allentare la presa del principio in questione, il quale non impedisce di definire il procedimento penale con modalità alternative all’esercizio dell’azione penale quale, ad esempio, l’estinzione del reato conseguente a condotte virtuose e/o riparatorie, da attestare con provvedimento di archiviazione ( 37). Si tratta di una depenalizzazione in concreto, attuata per via processuale, che trova nella grande quantità dei reati di pericolo, presenti in gran quantità nella nostra legislazione speciale, il suo coerente terreno di applicazione ( 38): L’attivo adoperarsi per rimuovere la situazione di pericolo (più che l’irrogazione di una pena) è, infatti, lo scopo da perseguire già sul piano sostanziale. Eliminato il pericolo, l’illecito si degrada da penale ad amministrativo: residua, in capo al trasgressore, il pagamento di una sanzione pecuniaria e il processo penale diventa superfluo.

L’applicazione su larga scala di questa modalità procedurale sortirebbe effetti capaci di liberare risorse di tempo e di energie utili per effettuare indagini complete in ordine ai reati che esigono davvero di essere portati a giudizio ( 39).

c) Ottimizzare l’attività investigativa del pubblico ministero. — La completezza dell’indagine va perseguita anche (e soprattutto) sul piano di un’adeguata organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. A dispetto della sua crescente importanza, il tema riguardante questo versante dell’esperienza giudiziaria è oggetto di scarsa attenzione nella dottrina, incline a trascurare le concrete modalità attuative della burocrazia accusatoria, anche quando queste si rivelano capaci di incidere sui contenuti dell’attività giudiziaria, alla stessa maniera (se non più) delle norme processuali stricto sensu intese. A questa trascuratezza nella riflessione teorica corrisponde un’assenza di elaborazione concettuale e di proposte del tutto ingiustificata per chi ha a cuore i problemi di funzionamento degli uffici giudiziari.

Esaminando l’organizzazione interna di un determinato ufficio requirente, ci si fa un’idea realistica di come i magistrati ad esso assegnati intendano assolvere, in concreto, l’obbligo di coltivare l’accusa. Sono raccomandabili tecniche investigative, conoscenze e abilità adeguate alla varietà degli illeciti da perseguire, Di qui la tendenza ad istituire gruppi requirenti specializzati per tipologie di reati. Una tendenza spontanea, incoraggiata dalla normativa ordinamentale ( 40), che trova riscontro soprattutto negli uffici giudiziari di grandi dimensioni.

Ad esempio, presso la Procura della Repubblica di Milano operano sette “dipartimenti” mirati sui seguenti settori: criminalità economica; reati contro la pubblica amministrazione; reati sessuali; terrorismo, eversione e criminalità informatica; criminalità organizzata; infortunistica del lavoro e malattie professionali; reati contro il patrimonio ( 41). Analogamente, presso la Procura di Torino sono attivi otto “gruppi specializzati”, riguardanti rispettivamente: criminalità organizzata; riciclaggio; sicurezza del lavoro e tutela del consumatore; criminalità economica; fasce deboli; reati contro la pubblica amministrazione; sicurezza urbana; patrimonio artistico ( 42). Nella Procura di Catania troviamo sei “gruppi di lavoro” focalizzati su: delitti contro la pubblica amministrazione; delitti contro la persona; criminalità economica; ambiente, urbanistica e immigrazione; delitti contro la personalità dello Stato, ordine pubblico e reati informatici; infortunistica del lavoro ( 43). Altre Procure della Repubblica, specie negli uffici giudiziari di grandi dimensioni, seguono questo esempio, sul quale conviene soffermarsi brevemente, prima di abbozzare una proposta.

L’indagine preliminare, diversamente dalle fasi propriamente processuali (udienza preliminare, giudizio), si caratterizza per l’indeterminatezza dell’ordo procedendi. Essa consta di attività la cui sequenza non è predeterminabile in astratto, bensì in concreto, in ragione del tipo di illecito da perseguire e delle tecniche più efficaci per impostare i dovuti accertamenti: una sequenza comprensibilmente lasciata all’estro dell’autorità requirente. Ciò giustifica interventi diversificati per classi di illeciti e favorisce la creazione di routine investigative destinate a modificarsi nel tempo, anche in relazione alle nuove disponibilità offerte dalla scienza e dalla tecnologia.

Gli esempi sopra riportati, in particolare quelli delle procure milanese e torinese, mostrano come i settori di specializzazione corrispondano, in larga parte, allo sviluppo di saperi specialistici divenuti essenziali già per scoprire l’esistenza di taluni illeciti, oltre che per acquisire elementi circa le relative responsabilità individuali. Ad esempio, il sapere contabile è indispensabile per orientarsi con cognizione di causa nel complicato mondo della criminalità economica; rudimenti di sapere medico-scientifico sono utili per orientarsi nella realtà delle malattie professionali, dell’infortunistica del lavoro; il sapere informatico è essenziale per la repressione del cybercrime, ma anche in indagini su reati comuni per l’accertamento dei quali si riveli indispensabile l’uso di banche-dati elettroniche; il sapere socio-criminologico è utile per orientarsi nel mondo della crimine organizzato, etc.

Come già accennato, la specializzazione dell’attività investigativa, se ben congegnata, assicura buoni risultati sul piano (che qui particolarmente interessa) della completezza dell’indagine. Lo sguardo guidato dall’esperienza è in grado di distinguere all’impronta le notizie di reato da coltivare con verosimile successo, da quelle inconsistenti o insuscettibili di sfociare in accuse fondate. Donde l’opportunità che la riforma processuale si occupi anche di questo ( 44).

Si tratterebbe, in particolare, di superare lo “spontaneismo” oggi dominante in questo campo. Almeno nelle procure di dimensioni medio-grandi converrebbe istituire gruppi di lavoro uniformi, sulla scorta di criteri generali che spetterebbe al Consiglio superiore della magistratura indicare. Ciò favorirebbe, da un lato, un più efficace coordinamento investigativo fra i centoquaranta uffici requirenti oggi presenti sul territorio nazionale (art. 371), e renderebbe possibile, d’altro lato, il progressivo aggiornamento della “specializzazione” attraverso l’auspicabile scambio di esperienze fra diversi gruppi di lavoro.

Un salto ulteriore sarebbe rappresentato dall’attribuzione, ad alcune procure della Repubblica, del potere investigativo in ordine a specifiche materie (es. corruzione; malattie professionali; criminalità economica), sull’esempio di quanto già accade con le direzioni distrettuali antimafia per un più efficace contrasto al crimine organizzato. Ciò comporterebbe, ovviamente, un intervento legislativo sull’art. 51 c.p.p. Intervento opportuno anche per arginare quei fenomeni di “auto-attribuzione” di inchieste penali da parte di solerti magistrati requirenti che la cronaca giudiziaria italiana fornisce con una certa frequenza ( 45).

Oltre ad assicurare indagini più rapide e complete, l’istituzione di gruppi di lavoro negli uffici d’accusa persegue lo scopo di adeguare l’organizzazione del pubblico ministero all’attività di polizia, la quale tende a sua volta a organizzarsi secondo criteri di specializzazione. Ciò che contribuirebbe ad accrescere, in termini di effettività, ladipendenza della polizia dall’autorità giudiziaria (art. 109 cost.).

Una riforma sul tipo di quella qui auspicata non è peraltro priva di aspetti problematici, dei quali è bene essere consapevoli. Il principale riguarda il rischio (o il timore, o la convinzione) che dietro l’istituzione dei gruppi specializzati si celino scelte di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in sostanziale contrasto con l’obbligo fissato nell’art. 112 cost.

Indubbiamente, la ripartizione del lavoro investigativo in aree specialistiche evoca subito l’idea di un impegno particolare nel perseguire i reati presenti nell’organigramma dell’ufficio e un corrispondente scarto di attenzione per altri reati. Ma l’obiezione sarebbe facilmente superabile. Il perseguimento di reati che non comportano particolari abilità investigative potrebbe essere distribuito fra i diversi “gruppi specializzati”, in maniera da assicurare l’osservanza dell’obbligo in questione. Oppure, se le dimensioni dell’ufficio lo consentissero, si potrebbe istituire un gruppo di lavoro col compito di perseguire i reati per così dire ordinari, quelli che non esigono conoscenze specialistiche o particolari tecniche investigative. Ciò dovrebbe essere sufficiente ad allontanare il sospetto che la creazione di team investigativi ratione materiae favorisca o agevoli — di fatto — scelte discrezionali nell’esercizio dell’azione penale. Del resto, i gruppi specializzati già esistono e ci sono ottime ragioni (pratiche) per mantenerli. Quel che si auspica è una loro regolamentazione a livello ordinamentale, sulla base di criteri che il CSM dovrebbe elaborare tenendo conto delle diverse dimensioni degli uffici requirenti. Lungi dall’insidiare il principio di obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, una simile misura ordinamentale varrebbe a rendere trasparente, nei limiti del possibile, sotto questo delicato profilo l’organizzazione interna delle procure della Repubblica.

4. Assicurare la tutela “progressiva” dei diritti fondamentali. — La rassegna degli interventi dei quali la vigente normativa processuale penale italiana avverte il bisogno si chiude con qualche osservazione sulla tutela di diritti fondamentali.

È questo un settore che esige continui adattamenti e messe a punto. Al riguardo si può parlare di tutela “progressiva” dei diritti di libertà e ciò in un duplice senso: da un lato, l’aggettivo “progressiva” intende segnalare la necessità di aggiornare via via la mappa delle garanzie, attraverso il riconoscimento di nuovi diritti la cui esistenza trova fondamento nella diffusione di novità tecnologiche idonee a pregiudicare posizioni personali meritevoli di protezione giuridica; dall’altro, esso allude all’esigenza di sorvegliare il confine mobile che — sulla scorta di valutazioni e bilanciamenti mutevoli nel tempo — divide l’area dei diritti individuali da quella di una loro compressione giustificata dalla necessità di reprimere e/o prevenire attività criminose. Nuovi diritti di libertà premono per essere ufficialmente riconosciuti anche sul piano del diritto processuale penale. Diritti di libertà, tradizionali ( 46) e non, godono di una tutela sensibile al clima socio-culturale dominante, solitamente riflesso negli umori della politica: una tutela per ciò stesso mutevole nel tempo, oscillante fra istanze di libertà ed esigenze repressive.

a) Il doveroso riconoscimento di nuovi diritti della persona. — Ci sono diritti che ambiscono a essere riconosciuti. Si tratta di fenomeno legato essenzialmente alle nuove tecnologie informatiche. La loro diffusione ha contribuito a creare situazioni inedite sul piano dei diritti individuali. Si pensi alla tutela dei dati personali. L’avvento dei personal computers ha reso possibili operazioni prima impensabili, capaci di estendere in misura formidabile il potere sui propri simili da parte di chi controlla masse di dati sensibili. La possibilità di archiviare, conservare, elaborare, incrociare in tempi rapidi milioni di informazioni ha correlativamente accresciuto in misura significativa il valore giuridico dei dati personali. Tant’è vero che essi sono divenuti oggetto di tutela penale ( 47).

Qui interessa però il versante processuale del problema, a partire da una corretta individuazione del rango che va riconosciuto a questa specie di diritto. Se fossimo in presenza di un diritto inviolabile della persona, la sua compressione per finalità repressive si giustificherebbe solo su atto motivato dell’autorità giudiziaria, sulla scorta di presupposti previsti da una legge dello Stato, così come previsto dagli artt. 13-15 cost. per i classici diritti di libertà e nel rispetto del principio di proporzionalità.

La normativa italiana non considera inviolabile il diritto alla privacy. Non espressamente, quanto meno. Una legge ordinaria lo enuncia ( 48). Se ne ricava che la sua limitazione per fini di accertamento giudiziario può avvenire senza le particolari cautele (riserva di legge, riserva di giurisdizione nel rispetto del criterio di proporzionalità) imposte per la limitazione di diritti fondamentali ( 49). Fa eccezione l’acquisizione di dati personali archiviati dai fornitori di servizi telefonici e telematici, acquisibili entro i limiti previsti dall’art. 132 e su autorizzazione o convalida dell’autorità giudiziaria ( 50), verosimilmente in ragione della loro contiguità con il diritto inviolabile alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 cost.).

Per il resto, l’acquisizione di dati personali sensibili non è soggetta a particolari garanzie: la polizia vi può procedere senza bisogno di farsi autorizzare, ad esempio quando usa le banche dati pubbliche o quando effettua pedinamenti (anche satellitari) od osservazioni a distanza prolungate nel tempo. Eppure vi sono buoni argomenti per affermare, oggi, il carattere inviolabile del diritto in questione.

Nella società contemporanea, l’individuo è in buona misura dominabile da chi controlla informazioni sulla sua vita privata, sulle sue abitudini e inclinazioni sessuali, sulle sue preferenze politiche, sulle sue appartenenze religiose, sulle sue frequentazioni sociali e amicali etc. È facile intuire quanto possa essere scossa la personalità di un individuo che si trovi ad essere in balia di chi controlla sistematicamente quelle informazioni. È in gioco il suo essere e, con esso, la sua dignità. E, siccome la dignità della persona costituisce il fulcro di ogni diritto inviolabile ( 51), coerenza vuole che anche il diritto alla privacy partecipi di questa qualità e vada pertanto considerato di rango costituzionale.

Che la natura inviolabile di tale diritto non trovi riscontro nelle costituzioni dell’immediato dopoguerra, che di esso ci si sia resi conto solo in epoca recente, dipende dalla circostanza — già in precedenza ricordata — che solo la diffusione dei computers ha reso possibile l’uso rapido, su vasta scala di informazioni personali, con tutti i vantaggi e i rischi insiti nell’uso di banche dati per finalità pubbliche, ivi comprese le finalità investigative.

Proprio questa formidabile novità indusse la Corte costituzionale tedesca, già nel 1983, a ravvisare nel diritto all’autodeterminazione informativa (informationelles Selbstbestimmungsrecht), un’espressione della personalità individuale e della dignità umana meritevole, in quanto tale, di essere annoverata fra i diritti inviolabili ( 52).

La presa di posizione del Bundesverfassungsgericht ha avuto conseguenze rimarchevoli per il diritto interno. La normativa processuale ha dovuto adeguarsi al riconoscimento di questa nuova prerogativa individuale, assoggettando a controllo giudiziario e regolando in base al criterio di proporzionalità tutte le attività di polizia che comportano la raccolta e l’elaborazione di dati personali ( 53).

Un esempio più recente è rappresentato dall’affermazione del diritto fondamentale all’uso riservato di sistemi informatici (Grundrecht auf Gewährleistung der Vertraulichkeit und Integrität informationstechnischer Systeme) ( 54). Anche qui il Bundesverfassungsgericht, preso atto dell’impatto che le tecnologie informatiche hanno nell’esistenza quotidiana di chi se ne serve, ha ravvisato nelle pratiche di perquisizioni on-line usate dalla polizia una lesione del diritto al libero sviluppo della personalità (art. 2 comma 1 Grundgesetz) ( 55). Ancora una volta, l’affiorare di un nuovo diritto inviolabile costringe la legge processuale ad adeguarsi. Le perquisizioni on-line sono ammesse, purché effettuate con le cautele che spettano ai diritti fondamentali: vale a dire, riserva di legge, riserva di giurisdizione e rispetto del principio di proporzionalità ( 56).

Rapportata a quella tedesca, la normativa italiana appare obsoleta e non adeguata alle sfide del tempo. Da noi non si è ancora affermata — sul piano della legislazione processuale — l’idea di un diritto fondamentale alla disponibilità dei dati personali o all’uso riservato delle tecnologie informatiche ( 57). Eppure anche il nostro art. 2 Cost., così come l’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, riconoscono e garantiscono la dignità e i diritti inviolabili dell’uomo, lasciando aperta — a mio avviso — la serie di tali diritti.

Sarebbe dunque auspicabile che pure la legge italiana adeguasse la lista dei diritti fondamentali all’evoluzione tecnologica, così da trarne le dovute conseguenze sul piano della disciplina processuale ( 58). Tale adeguamento sembra oggi imporsi sia in forza dell’art. 8 CEDU, quale norma interposta rispetto all’art. 117 cost., sia rispetto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 7 e 8).

Un intervento atteso, sotto tale profilo, riguarda anche la disciplina italiana delle banche dati genetiche, censurabile per una sua grave incompletezza.

Com’è noto, la l. n. 85 del 2009, oltre a regolare il prelievo coattivo di campioni biologici, ha previsto la creazione di una banca dati nazionale per la conservazione dei profili genetici (art. 5 comma 1 e art. 7 l. cit.) e un laboratorio centrale per la conservazione dei campioni biologici (art. 5 comma 2 e art. 8 l. cit.). Anche per assicurare la necessaria riservatezza sulle informazioni personali ricavabili da codesti risultati dell’attività investigativa, la legge si affida a regolamenti attuativi, che si sarebbero dovuti emanare entro metà novembre 2009 (art. 16 l. cit.). È scandaloso che, a distanza di cinque anni da quella scadenza, nulla si sia fatto nella direzione imposta dalla legge. Ed è altresì censurabile la scelta di affidarsi alla normativa regolamentare per il varo di regole destinate a incidere su un diritto individuale, il cui rango costituzionale imporrebbe l’intervento di una legge statale. Questa trascuratezza trova una spiegazione proprio nella scarsa sensibilità che, nella nostra cultura giuridica, circonda il nuovo diritto all’uso riservato (e perciò giudizialmente controllato) dei dati personali.

b) Confini mobili nella tutela dei diritti fondamentali. — I diritti fondamentali sono oggetto di tutela “progressiva” non solo nel senso, appena precisato, di un loro opportuno adeguamento all’evoluzione tecnologica e alle sfide del tempo, ma altresì per il fatto di trovarsi in rapporto di costante tensione con l’esigenza — anch’essa di rango costituzionale — di un efficace perseguimento dei reati.

Il bilanciamento fra le due esigenze in contrasto — lo si è già accennato — è comprensibilmente esposto ai mutevoli umori della politica. Accade così che i diritti di libertà subiscano compressioni significative in corrispondenza di fenomeni criminosi percepiti come allarmanti. Mafia, terrorismo internazionale, pedofilia, tratta di esseri umani, sono le attuali parole d’ordine che, sulla linea del bilanciamento, giustificano — presso l’opinione pubblica — spostamenti del cursore a vantaggio dell’esigenza repressiva, con sacrificio dei diritti di libertà. Un terreno fertile per le pratiche di populismo penale che trovano facile diffusione nelle società post-ideologiche, soprattutto in ragione degli elevati dividendi che promettono sul mercato del consenso politico-elettorale ( 59).

Gli impulsi di riforma processuale provenienti da questo versante raramente intaccano la struttura del processo ( 60). Quasi sempre si esauriscono in una particolare compressione dei tradizionali e, per così dire, classici diritti di libertà (personale, domiciliare, di comunicazione), giustificata da contingenti emergenze criminali. Una testimonianza eloquente viene, al riguardo, dalle frequenti modifiche normative che, anche nell’esperienza italiana, hanno coinvolto le misure limitative di libertà personale.

Il rischio, qui, è che il legislatore — incalzato da un’opinione pubblica spesso allergica alle ragioni del garantismo e incline piuttosto a una decisa affermazione di esigenze securitarie — abusi della discrezionalità intrinseca alla sua funzione politico-costituzionale.

Non è difficile tracciare i limiti giuridici entro i quali le riforme in questo campo vanno contenute.

Va in primo luogo rispettata la dignità umana, quale nucleo essenziale dei diritti inviolabili della personalità. Ciò comporta, ad esempio, il divieto di sottoporre l’imputato a trattamenti degradanti oppure a misure che ne annullino o ne mortifichino l’autodeterminazione ( 61). E questo a prescindere dalla gravità del reato addebitato o del fenomeno criminoso da contrastare. Persino il detenuto e l’arrestato hanno diritto a una porzione di libertà, quando si trovano dentro la struttura carceraria ( 62) e non possono essere costretti a sopportare afflizioni che, in base agli standard trattamentali comunemente accettati nel presente contesto culturale, appaiano lesive della dignità personale ( 63).

In secondo luogo, una legge che intervenga a modificare il bilanciamento fra garanzie individuali ed esigenze repressive, deve orientarsi a quel criterio di razionalità pratica che dottrina e giurisprudenza hanno sintetizzato nel principio di proporzionalità. Ad esso conviene riferirsi per stabilire fin dove è lecito spingersi nella limitazione del diritto dichiarato inviolabile, facendo comunque salvo quel nucleo incomprimibile comune a ogni diritto fondamentale, rappresentato, conviene ribadirlo, dalla dignità umana.

Stando alla versione ormai affermatasi, grazie soprattutto ai contributi della letteratura tedesca, il test di proporzionalità implica una valutazione della misura limitativa del diritto alla luce di un triplice criterio: (a) l’idoneità della misura stessa a raggiungere lo scopo dichiarato nella corrispondente norma (Geeignetheit); (b) la sua indispensabilità a raggiungere quello scopo (Erforderlichkeit); (c) la giustificabilità del sacrificio imposto rispetto alla gravità del reato (Angemessenheit o Verhaltnismässigkeit im engeren Sinne) ( 64).

L’imposizione di sacrifici inidonei, inadeguati o non indispensabili è sintomo di un eccesso di potere legislativo da considerare costituzionalmente illegittima per la sua intima irragionevolezza. Di qui la necessità che le riforme volte a comprimere diritti individuali, si muovano all’interno delle coordinate segnate da tale principio.

Un chiaro esempio di discrezionalità abusata è rintracciabile nell’art. 275 comma 3, seconda parte. In presenza di gravi indizi di reati gravi e allarmanti, la legge esonera l’accusa sia dal provare la sussistenza di esigenze cautelari, sia dal documentare la necessità della custodia in carcere. Siamo di fronte a un’evidente manifestazione di “populismo penale”, censurabile alla luce del principio di proporzionalità. Al bisogno di sicurezza che contagia ampi settori dell’opinione pubblica, la politica risponde irrigidendo il criterio di idoneità e mettendo pressoché fuori gioco quello di indispensabilità. Una presunzione iuris tantum assiste l’accertamento di sussistenza della esigenze cautelari, semplificando la valutazione di idoneità della misura cautelare a raggiungere il proprio scopo. Una presunzione iuris et de iure rende superfluo accertare l’indispensabilità della custodia in carcere quale mezzo per neutralizzare il periculum libertatis.

Proprio facendo leva sul principio in questione, la Corte costituzionale ha censurato questo eccesso di discrezionalità legislativa, quanto meno con riguardo ad alcuni tipologie criminose e con esclusivo riferimento alla suaccennata presunzione iuris et de iure ( 65).

Conviene soffermarsi brevemente sul modo di argomentare della Corte, la quale avverte l’esigenza di valutare la scelta legislativa in base a “motivi” che giustifichino l’automatismo legislativo. Nel fare questo si appoggia a “regole d’esperienza sufficientemente condivise” e a “basi statistiche” capaci di giustificare la presunzione di pericolosità. Linguaggio insolito, se lo si pensa riferito a un testo legislativo. Di “massime d’esperienza” e di “basi statistiche” si parla, semmai, con riguardo alle motivazioni dei provvedimenti giudiziari. Le leggi sono solitamente prive di motivazione e, quand’anche ne fossero fornite, sfuggirebbero al controllo di logicità riservato invece alle sentenze dei giudici di merito. Tuttavia, nella sue sentenze sull’art. 275 comma 3 seconda parte, la Corte costituzionale censura le scelte del legislatore proprio per i “vizi di motivazione” ad esse intrinseci.

Oltre a documentare un palese attrito col principio di proporzionalità, l’art. 275 comma 3 nella sua attuale versione ci dà dunque la rappresentazione plastica di un’invasione del potere legislativo nell’ambito di competenza del giudiziario. Le decisioni sul caso singolo spettano al giudice, non possono essere predeterminate da automatismi legislativi che, oltre a limitare o annullare la fisiologica discrezionalità del giudice nell’applicare la regola astratta al caso concreto, finiscono col mortificare le chances difensive.

Nella sua giurisprudenza sull’art. 275 comma 3, la Corte cost. salva la presunzione assoluta di indispensabilità della custodia carceraria solo con riguardo al delitto di associazione mafiosa), sul rilievo che solo del “mafioso” si possa ragionevolmente supporre la costante e perdurante pericolosità ( 66). In relazione alle restanti fattispecie incriminatrici, quella presunzione assoluta non si giustificherebbe e sarebbe perciò illegittima. Si giustifica semmai una duplice presunzione relativa, con riguardo alla sussistenza di esigenze cautelari e alla indispensabilità della custodia carceraria. È fatta salva, almeno in parte, la discrezionalità giudiziale e, con essa, uno spiraglio si apre anche per la difesa, ammessa a provare la non indispensabilità della carcerazione cautelare.

È molto istruttiva la storia dell’art. 275 comma 3, con le sue molteplici versioni legislative e gli aggiustamenti della giurisprudenza costituzionale ( 67). Mostra come la materia dei diritti individuali sia oggetto di bilanciamenti mutevoli nel tempo, in ragione degli umori che attraversano l’opinione pubblica e delle corrispondenti risposte della politica: una linea mobile marca il confine che divide le ragioni delle libertà individuali da quelle di un efficace perseguimento dei reati.

La tensione costante fra codeste esigenze rende provvisoria ogni riforma sul terreno dei diritti fondamentali della persona.

Da tempo si parla, ad esempio, di riformare la disciplina delle intercettazioni telefoniche, in presenza di una normativa come quella scritta negli artt. 266-271, passibile di fondate critiche alla luce del principio di proporzionalità. È certamente censurabile la scarsa tutela che l’art. 269 appresta a persone vulnerate nella loro riservatezza, pur essendo casualmente coinvolte nell’indagine: il criterio di proporzione in senso stretto impone al legislatore di minimizzare i danni individuali che l’attività investigativa comporta. Censurabile appare altresì, alla luce questa volta del criterio di idoneità, l’assenza di limiti soggettivi al potere di disporre l’intercettazione. L’art. 267 comma 1 indica quale presupposto la sussistenza di “gravi indizi di reità”. Sarebbe altrettanto sbagliato — come ventilato in passato in qualche frettoloso disegno di legge — subordinare la legittimità dell’intercettazione alla sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza”: è evidente che l’intercettazione (analogamente a sequestro e perquisizione) deve potersi dirigere verso persone estranee al procedimento penale. Ciò non esime tuttavia il legislatore dall’essere più preciso nell’indicare i presupposti dell’operazione investigativa, tipizzando le situazioni in cui essa si giustifichi anche nei confronti di terzi estranei ( 68). Qui va prevenuto l’eccesso di discrezionalità giudiziale che il lasco presupposto del nostro art. 267 rende di fatto possibile.

Anche la disciplina relativa all’acquisizione di tabulati telefonici e telematici (art. 132 codice privacy) parrebbe esigere qualche adattamento alla stregua del principio di proporzionalità, soprattutto dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha invalidato la direttiva 2006/24/CE ( 69), sulla quale quella disciplina si fondava. Sarebbe in particolare auspicabile una limitazione dello strumento investigativo ai reati di una certa gravità o a quelli che resterebbero altrimenti impuniti (per corrispondere quanto meno al criterio di proporzione in senso stretto).

Questi pochi esempi dovrebbero esser sufficienti a chiarire perché, per il cultore del diritto processuale, ha un senso parlare di confine mobile nella protezione di diritti fondamentali o di tutela “progressiva” di questi ultimi. Pochi sono i punti fermi ai quali aggrapparsi quasi fossero degli a priori indiscutibili.

Finché sopravvivono i valori espressi nelle costituzioni liberal-democratiche e in fonti normative internazionali che affermano l’inviolabilità di tali diritti, il primo punto fermo è il rispetto della dignità umana, da intendere quale nucleo intimo e incomprimibile dei singoli diritti individuali. L’altro punto fermo ha carattere eminentemente procedurale: la limitazione di quei diritti deve avvenire per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e modi prescritti da una legge dello Stato, entrambi tenuti al rispetto del principio di proporzionalità.

Di questa tendenziale mutevolezza nella tutela dei diritti fondamentali è bene essere consapevoli, quando si progettano riforme del sistema processuale.

Particolare attenzione va posta nel sorvegliare possibili abusi sia di discrezionalità legislativa, favoriti dall’inclinazione della politica verso forme di populismo penale, sia di discrezionalità giudiziale, favoriti dall’imprecisione legislativa nella formulazione dei presupposti applicativi delle misure che limitano diritti di libertà della persona.

5. Rilievi conclusivi. — L’intento perseguito nelle pagine che precedono non è tanto di proporre un piano dettagliato di riforme capaci di sollevare la procedura penale italiana dalle difficoltà nelle quali si dibatte da tempo. È piuttosto quello di porre alcune questioni di metodo, col pretesto di abbozzare un piano di riforme a grandi linee. È perciò di secondaria importanza che il piano sommariamente abbozzato conquisti dei consensi. Assai più importante è le cose dette e gli esempi illustrati nei poaragrafi precedenti favoriscano riflessioni sulla distinzione fra riforme strutturali (con annessi aspetti organizzativi del lavoro giudiziario) e tutela di diritti fondamentali.

Nelle discussioni specialistiche così come nei lavori delle Commissioni ministeriali, questi profili risultano spesso mescolati e confusi, col risultato di lasciare in ombra i diversi criteri metodologici che dovrebbero ispirare le riforme nell’uno e nell’altro campo.

Le riforme di struttura si impongono oggi principalmente come risposta al grave problema della patologica durata dei processi. La proposta, sopra abbozzata, di partire da un ripensamento del giudizio di secondo grado muove inizialmente dall’idea di completare la riforma processuale entrata in vigore venticinque anni fa e persegue al contempo l’obiettivo di snellire lo svolgersi del procedimento ordinario di primo grado attraverso un riequilibrio delle posizioni dei soggetti principali del processo. La scelta di riservare al solo imputato condannato (o prosciolto perché non imputabile) il diritto di appellare le sentenze di primo grado compensa la posizione di indiscussa superiorità che il pubblico ministero vanta nella fase preliminare del processo. Fatta questa scelta, non dovrebbero esservi problemi, nemmeno da parte dell’avvocatura, ad accettare l’idea di una tipizzazione dei motivi di gravame e di un corrispondente controllo di ammissibilità sulla fondatezza degli stessi. Né dovrebbero esservi ostacoli ad accogliere la proposta di una sospensione del corso della prescrizione dopo la chiusura del giudizio di primo grado. Dal canto suo, il pubblico ministero, avendo a disposizione un solo grado di merito, si vedrebbe costretto a compiere indagini complete. E, detto per inciso, se la magistratura requirente riuscisse in questo compito, anche i riti alternativi al dibattimento troverebbero più facile applicazione, contribuendo così in misura più significativa di quanto oggi non accada a quell’effetto deflativo in vista del quale sono stati concepiti. Sarebbe tuttavia inutile e, anzi, controproducente, rendere rapido — sulla carta — il giudizio di merito, quando poi la quantità di casi da esaminare e da investigare raggiunge numeri ingestibili. Per questo, l’auspicata riforma strutturale deve accompagnarsi a interventi capaci di ridurre la quantità delle richieste di rinvio a giudizio, principalmente attraverso meccanismi di archiviazione condizionata o, se si preferisce, di depenalizzazione processuale. E si rivela altresì essenziale l’organizzazione del pubblico ministero secondo criteri di razionalità manageriale, attraverso la costituzione di gruppi specializzati, come già sta accadendo in numerosi uffici giudiziari per spontanea iniziativa di alcuni procuratori della Repubblica.

Né vanno trascurate altre immaginabili istanze razionalizzatrici del lavoro giudiziario non menzionate nei paragrafi precedenti per ragioni di brevità. Un ulteriore passo avanti verso lo snellimento della procedura (senza aggravio per le garanzie difensive) potrebbe infatti derivare da un uso accorto delle tecnologie informatiche. Ciò al fine sia di rendere più rapide e meno costose le comunicazioni fra soggetti processuali, sia di favorire un controllo costante sullo stato di avanzamento di ogni singolo processo, attraverso la digitalizzazione dei fascicoli, già avviata nel diverso contesto del processo civile. Meritano di essere valorizzate, a questo riguardo, le esperienze degli Osservatori sulla giustizia penale, anch’essi sorti da iniziative spontanee, frutto di intese locali fra magistratura e avvocatura, per far fronte a urgenze organizzative in sedi giudiziarie (come Milano, Roma, Bologna) sovraccariche di lavoro e a corto di personale. La qualità della giustizia dipende anche dall’aggironamento delle tecniche di comunicazione interna al procedimento penale. Di esse la dottrina processualistica tende a disinteressarsi, considerandole di scarso interesse teorico e, comunque, non meritevoli di particolare attenzione. È un errore. Se la pratica avverte il problema come acuto e urgente, è bene che anche la teoria se ne occupi, magari muovendo da un esame delle buone pratiche messe a punto da quegli Osservatori.

Si capisce, da questi pochi cenni, che le ventilate riforme strutturali, lato sensu intese, non esigono solo interventi legislativi. Preziosa si rivelerebbe l’azione uniformatrice del CSM nell’agevolare e nel regolare l’istituzione di gruppi specializzati presso l’ufficio del pubblico ministero. Essenziale il lavoro dei capi degli uffici requirenti, le cui idoneità direttive vanno misurate principalmente sulla capacità di organizzare e motivare il lavoro di gruppo di procuratori aggiunti e sostituti. Altrettanto prezioso il contributo di idee che può venire dall’esperienza dei menzionati Osservatori, soprattutto per quanto concerne i cruciali aspetti delle comunicazioni fra soggetti del processo,.

Altra caratteristica di questo tipo di riforma è il suo risolversi pressoché integralmente sul piano del diritto interno. Scarso, infatti, è l’impulso che alle riforme strutturali proviene dalle decisioni delle Corti europee o da fonti normative internazionali o UE ( 70). Di queste ultime si può dire, semmai, che trovano più facile applicazione in un modello adversary, verso il quale si sono orientati o si vanno orientando quasi tutti gli ordinamenti (ad esempio, il francese, il tedesco, ora anche lo spagnolo, oltre all’italiano) un tempo improntati al cosiddetto sistema misto. Ma la struttura del procedimento, le modalità e scansioni del suo svolgimento, rientrano nell’esclusiva competenza dei parlamenti nazionali. Del resto, se guardiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, vediamo che le condanne emesse a norma dell’art. 6 CEDU non dipendono necessariamente dalla struttura (accusatoria o inquisitoria) del giudizio, né dai modi del suo svolgimento, bensì da inosservanze della procedural fairness, spesso singolari od occasionali e comunque suscettibili di verificarsi anche negli ordinamenti di common law dove, vige da secoli un sistema adversary ( 71).

Diverso il discorso per le riforme che toccano diritti fondamentali della persona. Qui l’equilibrio (inteso come bilanciamento fra interesse repressivo e diritti di libertà individuale) risulta refrattario a sistemazioni definitive: è destinato a mutare nel tempo, seguendo quegli orientamenti e quegli umori dell’opinione pubblica che la politica decide di ascoltare. Questa parte della normativa processuale è, pertanto, soggetta a modifiche frequenti, rivelandosi così piuttosto tetragona a tentativi di codificazione. Ciò non significa rinunciare a qualsiasi certezza in questo delicatissimo settore dell’esperienza processuale. Indiscutibile è, innanzitutto, il rispetto della dignità umana, da intendere come nucleo intimo e incomprimibile di ogni libertà individuale. Giurisprudenza e dottrina hanno inoltre individuato nel principio di proporzionalità il criterio adeguato a valutare la legittimità di norme limitative di tutti i diritti della persona considerati come fondamentali e pertanto meritevoli di una tutela adeguata al loro rango.

Nemmeno questo tipo di riforme processuali è affidato in via esclusiva al legislatore nazionale. Ma i soggetti che egli si trova a fianco non solo gli stessi che lo aiutano (o lo dovrebbero aiutare) nel completare e rendere effettive le riforme di tipo strutturale. Nel settore dei diritti fondamentali e della loro tutela processuale assumono crescente rilievo sia le decisioni dei giudici europei, sia le norme di fonte comunitaria.

Renzo Orlandi

(1) Nei primi mesi del 1990, all’interno di Magistratura indipendente (la corrente conservatrice dell’Associazione Nazionale Magistrati), alcuni magistrati organizzarono un Movimento per la revisione del nuovo codice di procedura penale, col dichiarato intento di “contro-riformarne” le parti reputate errate e irragionevoli. La riforma era infatti considerata « “strutturalmente” inidonea e garantire, nel rispetto delle libertà individuali, un minimo di sicurezza ai cittadini, nei confronti sia della grande che della microcriminalità; sia delle piccole che delle grandi violenze (maltrattamenti, violenze carnali, sfruttamento di donne e minori …); sia dei fenomeni di inquinamento e degrado dell’ambiente e della salute che  del malcostume politico-amministrativo, etc.” ». Il programma del Movimento è rintracciabile al seguente sito web http://www.giustiziacarita.it/archmag/per_la_revisione.htm (ultima consultazione nel settembre 2014).

(2) Si allude al triplice intervento (sent. 24, 254 e 255 del 1992) col quale la Corte costituzionale, incalzata da numerose questioni di legittimità, ha sostanzialmente sconfessato l’impostazione accusatoria del nuovo codice, riabilitando la fase investigativa a scapito di quella dibattimentale.

(3) Ad es. il d.l. n. 306 del 1992, approvato pochi giorni dopo la strage di Capaci.

(4) Ad. es. l. n. 335 del 1995 e l. n. 267 del 1997.

(5) Per una più dettagliata illustrazione delle tortuose vicende caratterizzanti la storia recente della nostra procedura penale si rinvia agli studi di F. Colao, Giustizia e politica. Il processo penale nell’Italia repubblicana, Milano, Giuffrè, 2013, in particolare cap. XI; E. Amodio, Verso una storia della giustizia penale nell’Italia repubblicana, in Criminalia 2010, 2011, 19 ss.; R. Orlandi, Processo penale e diritti individuali nell’Italia repubblicana, in Quaderni per la storia del pensiero giuridico moderno, nr. 93, Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, a cura di D. Negri e M. Pifferi, Milano, Giuffrè, 2011, 51-83.

(6) Se si prescinde da alcuni ritocchi risalenti all’autunno 1944 (in tema di libertà personale, di diritti della difesa e di procedura d’archiviazione), il codice di procedura penale del 1930 si mantenne fedele al testo originario fino alla riforma del giugno 1955.

(7) A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, riforme processuali penali anche di notevole importanza diventano frequenti pure in ordinamenti di civil law (come il francese, lo spagnolo o il tedesco) di tradizione codicistica. Al riguardo, si veda l’ampia ricerca comparata di T. Armenta Deu, Sistemas procesales penales. La justicia penal en Europa y America. ¿Un camino de ida y vuelta?, Madrid, Barcelona, Buenos Aires 2012, ed. Marcial Pons, con riferimenti dettagliati sulle recenti riforme in Spagna (p. 184 ss.). Per la Francia si veda Jean-Paul Jean, Le système pénal, Paris 2008, ed. La Découverte (in particolare il cap. V su Le juge et le mutations du procès pénal, 74 ss.). Quanto alla Germania, è sufficiente scorrere l’introduzione di Th. Weigend al testo della Strafprozeßordnung pubblicato annualmente da Beck (ultima edizione, München, 2013) per rendersi conto di quanto frequenti siano stati, anche nell’ordinamento tedesco, gli interventi novellatori dell’ultimo ventennio.

In generale si nota un po’ ovunque una tendenza all’abbandono del modello processuale misto, di tipo bifasico, ispirato al napoleonico Code d’instruction criminelle del 1808, verso modelli adversary, variamente articolati, che hanno tuttavia un tratto comune nel maggior ruolo assegnato alle facoltà di intervento dell’accusa e della difesa. Su tale evoluzione dei sistemi processuali si possono utilmente consultare R. Vogler, Reform Trends in Criminal Justice: Spain, France and England & Wales, in Washington University Global Studies Law Review, 2005, 631 ss. nonché R. Colson e S. Field, The Transformation of Criminal Justice. Comparing France with England and Wales, L’Harmattan, Paris 2011, p. 31 ss. e p. 105 ss. (edizione bilingue anglo-francese).

(8) Ad esempio, l’introduzione del c.d.” patteggiamento allargato” (l. n. 134 del 2003), non ha sortito l’effetto auspicato di estendere in misura significativa l’area delle alternative al dibattimento.

(9) Ad esempio, la riforma dell’udienza preliminare (l. n. 479 del 1999), effettuata per sopperire a possibili incompletezze dell’indagine preliminare, ha comportato un allungamento dei tempi processuali, senza, in compenso, accrescere il ricorso a patteggiamento e giudizio abbreviato. La riprova viene dai dati ministeriali sulla bassa frequenza dei riti alternativi al dibattimento nel periodo 2003-2008: percentuali che si aggirano intorno al 15% per i patteggiamenti (sul totale delle azioni penali esercitate), mentre i giudizi abbreviati superano a mala pena la soglia dell’8%. Per una sintetica illustrazione dei dati in questione v. R. Orlandi, Insostenibile durata del processo penale e sorti progressive dei riti speciali, in Tempi irragionevoli della giustizia penale. Alla ricerca di una effettiva speditezza processuale, Atti del convegno della Associazione tra gli studiosi del processo penale, Bergamo 24-26 settembre 2010, a cura di F. Ruggieri, Milano, Giuffrè 2013, 137-138.

(10) Essenzialmente al fine di evitare un così perverso risultato, fu introdotta nell’art. 533 la regola di giudizio dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”. Essa, a ben vedere, nulla aggiunge sul piano del contenuto normativo all’altra regola di giudizio (in dubio pro reo) che compare nel precedente art. 530 comma 2. Logica vuole che la linea di demarcazione fra dubbio e certezza sia una sola. Non può esistere, insomma, una zona grigia fra il dubbio e la certezza (morale). La modifica ha avuto una motivazione psicologica più che normativa: una sorta di memento pensato soprattutto per il giudice di primo grado; un invito a non emettere condanne con eccessiva disinvoltura, sulla premessa che — non avendo la l. n. 46 del 2006 posto limiti particolari all’appellabilità delle condanne — l’eventuale dubbio sarebbe stato poi risolto in favore dell’imputato dal giudice di secondo grado.

(11) Un paziente giornalista de Il Sole-24 ore (edizione del 30 novembre 2009, p. 9) ha conteggiato i ritocchi subiti dal codice di rito penale nei primi vent’anni di vigore: complessivamente 1.016 modifiche, 846 per iniziativa del legislatore e 170 a seguito di pronunce della Corte costituzionale. Il conteggio è notevolmente cresciuto nei successivi cinque anni.

(12) L’aggettivo è qui usato nella sua accezione sociologica, non certo giuridica.

(13) L’elenco di tutte le Commissioni istituite (dal 1988) presso il ministero della giustizia è riportato nel sito del dicastero ai seguenti indirizzi web http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_7_6_1.wp?previsiousPage=mg_14_7 (per quelle istituite dal 1988 al 2008 – ultima consultazione: settembre 2014) http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_7_6_2.wp?previsiousPage=mg_14_7 (per quelle istituite negli anni 2012-2013 – ultima consultazione: settembre 2014).

(14) Commissione Dalia per la riforma del codice di procedura penale (istituita il 29 luglio 2004).

(15) Commissione Riccio per la riforma del codice di procedura penale (istituita il 27 luglio 2006).

(16) Commissione Mastella per lo studio e la proposta di riforme e di interventi sul piano normativo e organizzativo che razionalizzino l’esercizio della giurisdizioni e conferiscano efficienza al sistema (istituita il 25 settembre 2006).

(17) Commissione Fiorella (istituita nel novembre 2012 per elaborare una proposta di revisione complessiva delle norme in tema di prescrizione).

(18) Questo l’impegnativo programma della Commissione Canzio, istituita con d.m. del 10 giugno 2013.

(19) Anche per non complicare troppo un’esposizione già piuttosto articolata, mi asterrò qui dall’affrontare direttamente il tema dei riti speciali, ai quali pur vien spontaneo pensare essendo essi parte integrante dell’assetto strutturale del processo. Riflessioni e proposte di riforma al riguardo sono contenuti in un precedente studio al quale si rinvia: cfr. R. Orlandi, Insostenibile durata del processo penale, cit., 135 ss.

(20) Già il dato quantitativo è eloquente: su 105 direttive, poco più di una decina sono dedicate alle impugnazioni. Sul piano qualitativo, poi, non si nota una sostanziale differenza di impostazione rispetto al codice previgente.

(21) Si veda, a questo riguardo, la puntuale denuncia di F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel merito, in Riv. dir. proc. 2001, 678 ss.

(22) Sent. 30 ottobre 2003, n. 45276, Andreotti, in CED RV 226089.

(23) Si vedano gli interventi di F. Coppi, No all’appello del p.m. dopo la sentenza di assoluzione, in Il giusto processo 2003, 27 ss.; T. Padovani, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del p.m., principio del contraddittorio, in Cass. pen. 2003, 4023 ss.; F. Stella, Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, in ivi 2004, 756 ss.

(24) F. Caprioli, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento tra diritti dell’individuo e “parità delle armi”, in Aa.Vv., La legislazione penale compulsiva, a cura di G. Insolera, Padova, Cedam 2006, 181 ss.; M. Ceresa-Gastaldo, I limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento: discutibili giustificazioni e gravi problemi di costituzionalità, in Cass. Pen. 2007, 827 ss.; G. Ciani, Il doppio grado di giudizio: ambito e limiti, ibidem, 1388 ss. Tra le rare voci favorevoli, P. Gualtieri, Il secondo grado di giudizio: ambito e limiti, ibidem, 1813 ss.

(25) Sentt. n. 26 e n. 320 del 2007.

(26) La stessa Corte cost. ha più volte ribadito che “il principio della parità fra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato e del suo difensore”. Questa giurisprudenza ha altresì sottolineato come una diversità di trattamento rispetto a tali poteri possa, invero, risultare giustificata sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia”: così, testualmente, sent. n. 363 del 1991; per affermazioni di analogo tenore si vedano sent. n. 110 del 1980; sent. n. 155 del 1974 e sent. n. 190 del 1970).

(27) Si potrebbe allora configurare un attrito con l’art. 112 cost., che, nell’obbligare il pubblico ministero ad esercitare l’azione penale, suppone altresì l’esistenza di un contesto (normativo nonché organizzativo) favorevole al concreto assolvimento di quell’obbligo.

(28) F. Stella, Sul divieto per il pubblico ministero, cit. 759, segnalava, con buoni argomenti, le ragioni politico-costituzionali e socio-culturali che consigliano di vietare al pubblico ministero il mezzo dell’appello.

(29) Il riferimento è all’art. 2 del VII protocollo aggiuntivo alla CEDU, oltre che all’art. 14 comma 5º del Patto internazionale dei diritti civili e politici. In argomento si vedano anche i rilievi svolti da T. Padovani, Il doppio grado di giurisdizione, cit. 4026.

(30) In tal senso già T. Padovani, Il doppio grado di giurisdizione, cit., 4030.

Un’opinione assai diffusa ravvisa nell’attuale disciplina della prescrizione del reato uno dei punti cardinali di un’auspicata riforma del sistema penale: da ultimo, G. Ciani, La situazione della giustizia penale secondo il procuratore generale della Corte di cassazione: analisi e proposte, in Cass. pen., 2014, 435 ss. Certamente si verificano casi di uso pretestuoso di mezzi difensivi (e, in particolare, delle impugnazioni) allo scopo di guadagnare l’estinzione del reato per decorso del tempo. Una riforma normativa sarebbe opportuna per prevenire simili abusi. Dalle statistiche anche recenti si ha tuttavia l’impressione che il fenomeno sia sovrastimato. La stragrande maggioranza delle prescrizioni avviene già nella fase preliminare, con provvedimento di archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere. La quota delle prescrizioni dichiarate in fase di appello è piuttosto bassa. Ad esempio, nel triennio 2010-2012, le prescrizioni dichiarate in fase preliminare (art. 409 e art. 425) oscillano fra il 75% del 2010 e il 63% del 2012; quelle dichiarate in primo grado (art. 531) oscillano fra il 14% e il 18%; quelle dichiarate in secondo grado (art. 605) fra il 10% e il 17% (dati forniti dal Dipartimento generale di statistica del Ministero della giustizia, rintracciabili al seguente indirizzo web: https://reportistica.dgstat.giustizia.it/VisualizzatoreReport.Aspx?Report=/Pubblica/Statistiche%20della%20DGSTAT/Materia%20Penale/2.%20Modalit%C3%A0%20di%20definizione/3.%20definiti%20per%20prescrizione/1.%20dati%20nazionali/1.%20tutti%20gli%20uffici%20in%20serie%20storica — Ultima consultazione: settembre 2014).

(31) Auspicano una tipizzazione dei motivi di appello allo scopo di contenere possibili intemperanze degli appellanti, delimitando al contempo l’effetto devolutivo del gravame, F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione, cit. 729 nonché M. Bargis-H. Belluta, Linee guida per una riforma dell’appello, in M. Bargis-H. Belluta, in Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Torino, Giappichelli 2013, 290.

(32) Il giudizio di appello dovrebbe caratterizzarsi come mezzo volto sia a eliminare errori nell’applicazione della legge (penale e processuale), sia a prevenire errori giudiziari. Di qui, da un lato, la parziale sovrapponibilità con il ricorso per cassazione e, d’altro lato, l’affinità con la revisione del giudicato di condanna, che costituisce rimedio per così dire tardivo rispetto ad errori che non si sono potuti evitare prima della chiusura del giudizio di merito. Sull’affinità qui evocata si sofferma anche M. Pisani, Durata ragionevole del processo in sede d’appello. L’appellabilità, in Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, Giuffrè 2006, 188.

(33) Il danneggiato subirebbe così un trattamento diverso rispetto al processo civile per risarcimento del danno da reato, dove l’appello sarebbe per lui esperibile. Si tratterebbe tuttavia di una ragionevole disparità, posto che sarebbe lecito far prevalere nel processo penale l’interesse difensivo dell’imputato. Del resto, il danneggiato saprebbe in partenza cosa l’aspetta costituendosi parte civile. Se preferisse giovarsi della facoltà di appellare, non gli resterebbe che coltivare sin dall’inizio l’azione risarcitoria nella sede propria.

(34) Vale a dire per i motivi indicati nell’art. 606 comma 1 lett. b (errores in iudicando), lett. c (errores in procedendo) e lett. d (che, a suo modo, è un ulteriore caso di error in procedendo per omissione di un doveroso attivarsi del giudice). Resterebbe così precluso il ricorso per vizio di motivazione. Una proposta analoga è già stata avanzata da F. Coppi, No all’appello del p.m, cit., 33.

(35) Come accade, ad esempio, nell’ordinamento processuale tedesco con lo Zwischenverfahren (§§ 198-211 StPO).

(36) Per ulteriori dettagli su questa proposta si rinvia al precedente scritto R. Orlandi, Insostenibile durata del processo penale e sorti progressive dei riti speciali, cit. 143-154.

(37) È la via già percorsa con l’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000 (procedimento penale davanti al giudice di pace) e, prima ancora, con gli artt. 19-24 d. lgs. n. 758 del 1994 in materia antinfortunistica.

(38) In letteratura si parla di archiviazione del reato per inoffensività o particolare tenuità del fatto. Questa terminologia si è imposta anche nella titolazione di iniziative legislative volte ad ampliare i casi di archiviazione condizionata. Si veda, al riguardo, il resoconto di F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen. 2012, 7 ss.

(39) L’esperienza tedesca è istruttiva nel dimostrare l’efficacia deflativa delle archiviazioni condizionate all’adempimento di specifici obblighi (§§ 153a e 153b StPO). Anche la dottrina più scettica sull’introduzione di queste “uscite collaterali” dal procedimento penale riconosce che, senza di esse, la massa dei procedimenti in entrata causerebbe il collasso del sistema penale. Circa il 50% dei casi viene definito con tali modalità: il dato, risalente all’inizio del decennio scorso, è fornito da F. Dünkel e Ch. Morgenstern, Aktuelle Probleme und Reformfragen des Sanktionenrechts in Deutschland, in Juridica International 2003, 24.

Come accennato nel testo, la questione non va riguardata unicamente sotto il profilo di una selezione quantitativa di casi da archiviare. C’è un aspetto qualitativo (la crescita, impetuosa nei tempi moderni, dei reati di pericolo) che consiglia di affrontare le corrispondenti situazioni di illiceità con strumenti diversi dall’ordinario accertamento penale e maggiormente adeguati ai fenomeni che si intendono contrastare. Anche per questo, una riforma che intenda muoversi su questo piano, dovrebbe avvalersi del sapere congiunto e della collaborazione interdisciplinare di penalisti, processualisti e criminologi.

(40) Il procuratore della Repubblica può “delegare ad uno o più procuratori aggiunti ovvero anche ad uno o più magistrati addetti all’ufficio la cura di specifici settori di affari, individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell’ufficio che necessitano di uniforme indirizzo” (art. 1 comma 4 d. lgs. nr. 106 del 2006). Il successivo art. 4 comma 2 Egli può inoltre “definire criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti” (art. 4 comma 2 d. lgs. cit.).

(41) Dati ricavati dal sito web: http://www.procura.milano.giustizia.it/giudiziaria-.html — ultima consultazione — settembre 2014).

(42) Dati ricavati dal sito web http://www.procura.torino.it/mag_gruppi.aspx — ultima consultazione — settembre 2014).

(43) Dati ricavati dal sito http://www.procuracatania.it/gruppi_lavoro.aspx — ultima consultazione — settembre 2014).

(44) E sarebbe altresì auspicabile che la dottrina processualistica includesse la specializzazione investigativa fra i temi di proprio interesse. Costituisce un precedente degno di nota, in tal senso, la monografia di S. Emrich-Katzin, Schwerpunktstaatsanwaltschaften im Wirtschaftstrecht und die Stellung der Wirtschaftsreferenten, PL Verlag, Franfkfurt a. M. 2013. Lo studio — pur dedicato principalmente alla criminalità economica — offre nella parte iniziale utili riflessioni di carattere generale sul fenomeno delle “specializzazioni investigative” negli uffici del pubblico ministero di alcuni ordinamenti: Germania, Austria, Svizzera, USA. La scelta comparatistica è caduta su ordinamenti federali, in ragione dei particolari problemi, anche costituzionali, che le specializzazione investigative pongono, quando si tratta di superare limiti di attribuzione territoriale (statale, cantonale o regionale) posti all’attività degli uffici requirenti. Un problema che non riguarderebbe l’ordinamento italiano.

(45) Penso, ad esempio, alle inchieste — certo meritorie — della procura torinese sui danni alla salute provocati da sostanze nocive (amianto, anabolizzanti, sostanze dopanti), non tutte relative a fatti accaduti nella corrispondente circoscrizione giudiziaria. Talvolta l’attribuzione del caso è avvenuta in base al criterio residuale della prevenzione (art. 51 comma 1 e art. 9 comma 3 c.p.p.), essenzialmente perché quella procura è stata pronta a individuare situazioni di illiceità, grazie all’esperienza acquisita sul campo.

(46) Sono da intendere come „tradizionali“ i diritti tutelati dagli artt. 13. 14 e 15 cost.

Fra i diritti di libertà qui considerati non va incluso il diritto di difesa, essendo questo necessariamente associato alla posizione di uno dei soggetti principali del procedimento: variazioni o modifiche che riguardano questo fondamentale diritto toccano l’equilibrio di forze fra i soggetti processuali e sono pertanto destinate a incidere sulla struttura del procedimento giudiziario.

(47) Cfr. art. 615-bis c.p. e artt. 167-168 d. lgs. 196 del 2003 (codice privacy).

(48) Art. 1 codice privacy: “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali”.

(49) Artt. 53 ss. codice privacy.

(50) Art. 132 commi 3 e 4-quinquies codice privacy.

(51) L’idea della Menschenwürde come principio etico-giuridico capace di „fecondare“ diritti inviolabili è presente nella letteratura tedesca e merita attenta riflessione anche da parte della dottrina italiana. Sono convincenti, al riguardo gli argomenti svolti da E. Böckenförde, Schutzbereich, Eingriff, verfassungsimmanente Schranken – Zur Kritik gegenwärtiger Grundrechtsdogmatik, in Wissenschaft, Politik, Verfassungsgericht, Suhrkamp, Frankfurt 2011, 235, essenzialmente fondati sul postulato della preminenza o preesistenza della dignità umana rispetto a ogni valore pubblicistico. Si vedano inoltre, nello stesso senso, gli approfonditi studi monografici di J. M. Barrot, Der Kernbereich privater Lebensgestaltung. Zugleich ein Beitrag zum dogmatischen Verständnis des Art. 2. Abs. 1 GG i.V.m. Art. 1 Abs. 1 GG, Nomos Verlag, Baden Baden 2012 e di M. Meister, Das System des Freiheitschutzes im Grundgesetz, Duncker & Humblot, Berlin 2011, favorevole ad estendere la sfera delle libertà oltre le esplicite previsioni del testo costituzionale (lückenloser Freiheitsschutz: p. 176 ss.).

(52) La sentenza del Bundesverfassungsgericht alla quale si allude risale precisamente al 15 dicembre 1983. Essa annullò una legge del 1982 che, nell’istituire il censimento della popolazione, non poneva limiti all’uso (anche a fini penali) dei dati personali raccolti dai rilevatori e destinati ad archivi pubblici. In Germania (come del resto in Italia) da tempo i censimenti si ripetono regolarmente all’inizio di ogni decennio. Non costituiva una novità la regola che permetteva un uso così esteso e indiscriminato dei dati raccolti. La novità era semmai rappresentata dall’avvento di nuove tecnologie che — a partire dagli anni 80 del secolo scorso — permettono di raccogliere, archiviare, elaborare, trasmettere quantità di dati personali in tempi così rapidi e in quantità tanto considerevoli da costituire un inedito pericolo per la personalità e la vita di relazione dell’individuo. Oltre una certa misura, il problema da quantitativo diventa qualitativo.

(53) Si spiega così l’introduzione nella Strafprozessordnung di appositi paragrafi volti a disciplinare attività di polizia quali l’uso di banche dati a fini investigativi (§§ 98a-98c), il pedinamento satellitare (§ 100a), la captazione di immagini in luoghi pubblici (100h), l’osservazione a distanza e l’annotazione di comportamenti di individui sospetti (§§ 163e, 163f).

(54) Sentenza del 27 febbraio 2008 (il testo è accessibile al sito del Bundesverfassungsgericht http://www.bverfg.de/entscheidungen/rs20080227_1bvr037007.html).

(55) Sub iudice era una legge regionale del dicembre 2006 (del Land Nordrhein-Westfalen) che per l’appunto autorizzava la polizia a perquisire i computers di persone reputate pericolose, agendo a distanza con l’uso di worm, di virus o di spyware e senza previo controllo giudiziario..

(56) Soddisfano questi requisiti, ad esempio, due leggi regionali di polizia che prevedono l’uso di perquisizioni on-line: si veda il § 34d del Polizeiaufgabegesetz del Land Bayern e il § 31c del Polizei- und Ordnungdwidrigkeitengesetz del Rheinland-Pfalz.

(57) Bisogna dare atto alla nostra Corte costituzionale (sent. n. 173 del 2009) di aver correttamente qualificato come “fondamentale” il diritto alla riservatezza, riconoscendogli lo stesso rango del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni (punto 6 del Considerato in diritto). Agganciando tale atipico diritto inviolabile all’art. 2 Cost., la nostra Corte cost. sembra incamminata sulla stessa strada imboccata nel 1983 dal Bundeverfassungsgericht con la sentenza citata nel testo (e supra nt. 52). Senonché, diversamente da quanto accaduto in Germania, da una corretta premessa non si sono tratte le dovute conseguenze sul piano processuale penale. L’affermazione del carattere fondamentale del diritto alla privacy non trova alcun serio riscontro nella legge processuale, dove la raccolta e l’elaborazione di dati personali continua ad essere classificata come attività atipica di polizia. Si veda ad es. da ultimo, in tema di pedinamento satellitare, Cass. Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644, in CED Rv. 255542. Nessuna riserva di legge. Nessuna riserva di giurisdizione. Nessuna applicazione del criterio di proporzionalità.

(58) Si consideri che pure la giurisprudenza della Corte EDU usa con grande elasticità i principi della Convenzione: così, nell’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) viene ricompreso il diritto alla privacy così come il diritto all’autodeterminazione informativa (informationelles Selbstbestimmungsrecht). Si veda, al riguardo, la sentenza del 2 settembre 2010, caso Uzun c. Germania, in tema di pedinamento satellitare.

Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea arriva alle stesse conclusioni sulla scorta degli artt. 7, 8, 52 della Carta dei diritti fondamentali UE. La recente sentenza 8 aprile 54/2014 (nelle cause riunite C-293/12 e C-594/12 Digital Rights Ireland, nonché Seitlinger e altri), nell’annullare la direttiva 2006/24/EC in tema di conservazione e utilizzo di dati generati o trattati da fornitori di servizi telematici e telefonici, ha attestato la natura fondamentale del diritto alla protezione dei dati personali, proprio per il constatato contrasto con questo diritto fondamentale.

(59) La caduta delle grandi visioni ideali su cui si reggevano le organizzazioni partitiche novecentesche ha enfatizzare il valore politico della questione criminale. Il populismo penale può essere considerato un epifenomeno di tale evoluzione. Cfr. al riguardo J.V. Roberts, L.J. Stalans, D. Indermaur, M. Hough, Penal Populism and Public Opinion. Lessons from Five Countries, Oxford, OUP, 2003, nonché D. Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Paris, Hachette, 2005, 53.

(60) Ciò accade in particolare con le riforme che modificano il quadro delle chances difensive. Un esempio in tal senso è rappresentato dal d.l. n. 306 del 1992 già citato in precedenza, che, sull’onda dell’emozione suscitata dalla strage di Capaci, introdusse significative limitazioni al diritto di difesa, al punto da rendere pressoché sempre utilizzabili, come prove di colpevolezza, gli atti unilateralmente acquisiti dalla polizia e dal pubblico ministero. Ne risultò comprensibilmente alterato il rapporto fra fase preliminare e giudizio, così come la riforma del 1988 l’aveva concepito e strutturato. Bisogna peraltro aggiungere che l’equilibrio originario fra le due fasi era già stato fortemente modificato (a svantaggio della difesa) dalle sentenze della Corte costituzionale citate supra nt. 2.

(61) Sul tipo di quelle messe in atto negli USA, dopo il settembre 2001, per contrastare il terrorismo internazionale. Ad esempio, il Military Commissions Act del 2006 introduce speciali regole procedurali per perseguire gli enemy combatants, anche a costo di lederne la dignità. Si registra qui una marcata differenza di sensibilità fra la cultura giuridica nord-americana e quella europea, imperniata — a partire dalle costituzioni del secondo dopoguerra — sulla dignità umana quale valore intangibile, comunque predominante sulle esigenze securitarie.

(62) La Corte costituzionale ha più volte ribadito che « lo stato di detenzione lascia sopravvivere, in capo al detenuto, diritti costituzionalmente protetti e, in particolare, un “residuo” di libertà » (così sent. nr. 526 del 2000, nonché sent. nr. 351 del 1996 e sent. nr. 349 del 1993).

(63) Del tutto opportune e, anzi, imposte dalla Corte EDU con l’arcinota sentenza Torreggiani c. Italia, le recenti riforme varate per ridurre la popolazione carceraria, limitando l’uso della detenzione e della custodia cautelare. Ci si riferisce, in particolare, al d.l. 1º luglio 2013, nr. 92, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 94, nonché al d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 117. Ciò che si può rimproverare a questi provvedimenti è semmai il loro carattere improvvisato che ne fa dei rimedi “a corto raggio”, adeguati a tamponare il problema per un breve periodo. Il dramma carcerario merita di essere affrontato alla radice, con un ripensamento che metta in discussione la centralità della sanzione detentiva. Col che si otterrebbe anche l’effetto di ridurre l’area della custodia cautelare in carcere. Un buon punto di partenza, in tal senso, è la l. 28 aprile 2014, nella parte contenente linee-guida per una riforma del sistema sanzionatorio in senso decarcerizzante (artt. 1 e 2).

(64) È merito soprattutto della giurisprudenza costituzionale tedesca e dei corrispondenti approfondimenti dottrinali aver elaborato il criterio di proporzionalità, cesellandolo al punto da farne unno strumento molto efficace e molto usato (non solo in terra tedesca) per vagliare la legittimità costituzionale delle norme limitative di diritti fondamentali. Questo giustifica l’indicazione, in tedesco, delle parole-chiave che esprimono analiticamente il contenuto del principio.

Per un’accurata analisi si veda lo studio monografico di L. Clérico, Die Struktur der Verhältnismässigkeit, Nomos Verlaggesellschaft, Baden-Baden, 2001. Una sintetica ma efficace illustrazione del principio è offerta, nella letteratura italiana, da E. Belfiore, Giudice delle leggi e diritto penale, Milano, Giuffrè 2005, 278 ss.

(65) Cfr. sent. 21 luglio 2010, n. 265, relativamente ad alcuni delitti a sfondo sessuale; sent. 12 maggio 2011, n. 164, relativamente al delitto di omicidio volontario; sent. 22 luglio 2011, n. 231, riguardante l’associazione finalizzata al narcotraffico; sent. 16 dicembre 2011, n. 331, a proposito di alcune figure di favoreggiamento dell’immigrazione illegale; sent. 3 maggio 2012, n. 110, riguardante l’associazione finalizzata ai delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen.; sent. 29 marzo 2013, n. 57, relativa ai delitti cosiddetti di contesto mafioso.

(66) A sostegno della propria posizione, la Corte cost. cita un precedente della Corte EDU (sent. 6 novembre 2003, Pantano c. Italia), la quale, tuttavia, si limita a giustificare la sola presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari (non quella, assoluta, di indispensabilità della custodia carceraria).

(67) Alla versione originaria del codice appena approvato è seguita una prima riforma nel 1991 (art. 5 d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla l. n. 203 del 1991); una seconda riforma nel 1995 (art. 5 l. n. 332 del 1995); una terza riforma nel 2009 (art. 2 d.l. n. 11 del 2009, convertito dalla l. n. 38 del 2009), alla quale vanno aggiunte le modifiche imposte dalle declaratorie di illegittimità elencate nella nt. 65.

(68) Funge da possibile modello ispiratore il § 100a comma 3 della Strafprozessordnung, secondo il quale l’intercettazione può essere autorizzata nei confronti dell’utenza intestata alla persona sottoposta all’indagine, o di altre persone che, sulla base di fatti concreti, si abbia ragione di ritenere siano con lui in contatto o da lui abbiano ricevano qualche comunicazione o della quale siano soliti usare l’utenza.

(69) Corte giustizia UE 54/2014, cit. supra nt. 58.

(70) Le numerose condanne irrogate dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 6 CEDU hanno prevalentemente ad oggetto singole condotte dell’autorità pubblica (giudici, pubblici ministeri, polizia). Raramente si risolvono in censure tali da esigere modifiche strutturali del procedimento giudiziario. Può accadere, semmai, che, di fronte a violazioni frequenti del diritto di difesa, il legislatore nazionale reputi opportuno riformare la norma dalla cui applicazione pratica scaturiscono possibili violazioni del giusto processo (come avvenuto, ripetutamente, con le novelle in tema di contumacia). Del resto, è affermazione ricorrente nella giurisprudenza della Corte EDU che “l’art. 6 § 3 c) non precisa le condizioni di esercizio del diritto di difesa, ma lascia agli Stati contraenti la scelta dei mezzi atti a pemettere al loro sistema giudiziario di garantirlo” (così, da ultimo, sent. 2 luglio 2013, Plesic c. Italia).

(71) Cfr. R. Colson e S. Field, The Transformation of Criminal Justice, cit., 34 e 108, i quali segnalano peraltro il progressive avvicinamento dei sistemi processuali di common e di civil law (ivi, p. 83 e p.157).

Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bologna, Giurisprudenza. È Coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Nel 2000, è stato chiamato a far parte della Commissione ministeriale incaricata di elaborare il progetto di decreto legislativo sulla competenza penale del giudice di pace. Relatore per l'Italia in convegno internazionali e autore di numerose pubblicazioni, monografiche e saggi, in materia di Criminalità organizzata, di Giustizia penale e politica (immunità politiche) e di Prove penali. Membro del comitato direttivo dell'annuario di diritto penale "Criminalia". Nel 2008, è stato Coordinatore nazionale della ricerca PRIN 2007 “Le impugnazioni penali nel prisma del giusto processo". È membro del direttivo sezione italiana AIDP (Associazione Internazionale di Diritto penale). Nel 2001 ha fatto parte della Commissione esaminatrice nel Concorso di magistratura. Coordinatore per il Diritto processuale penale della Collana "Annali" (Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano). Membro del comitato direttivo della Rivista italiana di diritto e procedura penale.(ed. Giuffrè). Fellowship trimestrale (luglio settembre 2014) presso la Albert-Ludwig-Universität di Freiburg im Breisgau sul tema “Sicherheit, Gesellschaft und Recht”, nell'ambito dell'iniziativa KORSE (Kompetenznetzwerk für das Recht der zivilen Sicherheit in Europa)

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