Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (il caso, non riuscito, del M5S)

Cecilia Vigilanti, Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (Il caso, non riuscito, del m5s), in www.lexenia.it

 

Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento”

(il caso, non riuscito, del M5S)

di

  1. S. Vigilanti*

 

Indice-sommario: 1. Premessa: i nuovi spazi della partecipazione politica nell’ordinamento giuridico italiano.-2. Il nodo del divieto di mandato imperativo e la sua contraddizione intra-partitica. –3. Il Codice di comportamento del MoVimento 5 stelle per le elezioni europee e la proposta di revoca del mandato elettivo: disciplina e criticità. –4. La revoca degli eletti nell’ordinamento italiano: prime conclusioni.

 

  1. 1. Premessa: i nuovi spazi della partecipazione politica nell’ordinamento giuridico italiano.

Le forme della partecipazione politica costituiscono un elemento caratterizzante ogni Stato democratico. La loro disciplina nel nostro ordinamento deve necessariamente svilupparsi entro i confini definiti dalla Carta Costituzionale che ne fissa gli assi portanti.

Com’è noto, il tema della partecipazione popolare fu centrale nella definizione dell’assetto costituzionale nel 1948: i padri costituenti si confrontarono puntualmente sulle sue possibili modalità di espressione alla ricerca di tecniche e procedure che potessero rispondere efficacemente alle esigenze dell’Italia repubblicana1. Si definirono allora i tasselli costituzionali che oggi identifichiamo con gli strumenti classici della partecipazione: il diritto di voto (art. 48 Cost.), il diritto di concorrere alla politica nazionale per il tramite dei partiti politici (art. 49 Cost.); il diritto di petizione (art. 50 Cost.); l’iniziativa legislativa (art. 71 Cost.) e il referendum (art. 75 Cost.); gli enti locali come forme“indirette” di partecipazione (titolo V Cost.)2.

Si tratta di strumenti di lunga tradizione, espressione di una concezione top-down della partecipazione che si è nel tempo rivelata incapace di controbilanciare la dimensione rappresentativa degli Stati contemporanei in favore di quella propriamente democratica. Tale incapacità è divenuta ancora più evidente proprio nel momento in cui ha iniziato a farsi chiara la portata della crisi della rappresentanza: dinanzi alla crescente e diffusa richiesta di partecipazione, infatti, si è palesata nettamente l’insufficienza degli strumenti ordinari. Da qui l’esigenza – nel permanere di un sistema rappresentativo di tipo democratico – di metter mano ad una riforma degli istituti partecipativi affinché essi non rimanessero mera immagine di un ideale democratico solo utopico.

Ciò passa, anzitutto, dalla riscoperta degli spazi lasciati “liberi” dalla Carta Costituzionale in relazione ai quali è possibile, da una parte, ripensare gli strumenti partecipativi classici e, dall’altra, ipotizzare l’istituzionalizzazione di nuove pratiche che non si limitino ad avvicinare gli organi decidenti ai cittadini ma che consentano a quest’ultimi di inserirsi attivamente entro i processi decisionali.

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Sei sono, a ben vedere,i principali “puntelli” costituzionali che definiscono il quadro entro cui è possibile immaginare nuove pratiche partecipative nel nostro ordinamento. Dati ben noti, ma che talvolta sembra abbiamo dimenticato3:
  • l’art. 1 Cost., che nel definire la Repubblica “democratica”, esplicita la necessità che essa sia governata se non in modo diretto dal demos, comunque con modalità tali da ricondurre l’esercizio del kratòs al popolo. Tale articolo evidenzia, inoltre, un altro attributo fondante il nostro sistema democratico, che si riflette sul modo di essere della partecipazione, vale a dire la natura costituzionalmente orientata del potere sovrano4;
  • l’art. 2 Cost., che getta le basi per la tutela della c.d. partecipazione sociale, presupposto per il realizzarsi della partecipazione politica. Lo stesso articolo si riferisce, poi, ai doveri di solidarietà politica che sono, dal mio punto di vista, anzitutto doveri partecipativi che generano nei cittadini una responsabilità su cui dovrebbero strutturarsi le stesse pratiche partecipative;
  • l’art. 3 Cost., che più esplicitamente pone a carico della Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che possono impedire l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione del Paese, intervenendo sulle situazioni di minorità – sia essa di tipo sociale o economica – affinché, almeno in potenza, siano garantite eguali condizioni e opportunità partecipative5;
  • gli artt. 18 e 21 Cost., che nel disciplinare in via generale il diritto di associazione e il diritto di informazione e di manifestazione del pensiero, pongono le condizioni essenziali perché la partecipazione abbia luogo, vale a dire: lo stare insieme, il dialogare, l’informarsi, l’associarsi in forme diverse da quelle propriamente “partitiche” di cui all’art. 49 Cost.;
  • l’art. 118, co. 4, Cost. che disciplina la sussidiarietà orizzontale come strumento per il perseguimento di interessi di carattere generale in forma partecipata6.

Al di là di tali agganci costituzionali, la democrazia partecipativa gode in Italia di un interessante humus storico, fatto di radici diversificate che ben possono essere rilette come i precedenti, alle volte anche solo embrionali, di tale modello democratico di cui è necessario tenere conto ai fini del suo sviluppo. Tra queste si collocano, ad esempio, il c.d. magma utopistico che segnò il periodo della ricostruzione post-fascista, i movimenti giovanili degli anni ’70, le coeve esperienze sindacali e i comitati di quartiere. Due, in particolare, le stagioni della partecipazione vissute dal nostro ordinamento: quella della partecipazione politica (anni ’60-70) e quella della partecipazione tecnica (anni ’80-90) cui si aggiunse, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, una terza fase segnata dal forte interesse dell’Ue in materia di sviluppo locale sostenibile7. Se la prima fase fu animata soprattutto da rivendicazioni di tipo politico, che avevano come obiettivo principale la conquista ai cittadini di spazi entro i processi propriamente decisionali, la seconda si caratterizzò, invece, per una nuova interpretazione dei fini della partecipazione, pensata non più come strumento per la difesa dell’autonomia e della libertà dei singoli rispetto allo Stato e alle usurpazioni messe in atto dalla politica tradizionale, quanto piuttosto come mezzo per vivere con maggiore consapevolezza gli spazi, fisici e non, della cittadinanza8.

Le sperimentazioni legate a quest’ultima stagione si sono concretizzate, anche di recente, in pratiche diverse e dalle alterne vicende, in genere di dimensione comunale e ispirate a pregresse esperienze europee o extra-europee mostrando, da questo punto di vista, una certa incapacità dei nostri amministratori a leggere la realtà e le sue esigenze e a costruire risposte “su misura” per le comunità locali. Pur non essendo qui possibile rendere conto di tali esperienze nel dettaglio, può ad ogni modo essere utile provare a tirare le somme sugli esiti che, specie le pratiche a noi temporalmente più vicine, hanno prodotto.

Diversi sono gli elementi che depongono nel senso di una non auto-sufficienza delle pratiche partecipative pure e di una non ancora completa maturazione delle stesse. Esse, infatti, pur correttamente costruite secondo modalità che presuppongono sempre le strutture della democrazia rappresentativa, finiscono con l’essere schiacciate da tali strutture, dipendendo spesso la loro concreta capacità di produrre effetti giuridici, oltre che propriamente politici, dalla sola discrezionalità delle autorità pubbliche. La maggior parte delle pratiche partecipative di ultima generazione si esaurisce, pertanto, in un mero esercizio di democrazia incapace di produrre effetti permanenti sulla realtà politica. Il popolo, in virtù di tali pratiche, è informato sulle questioni di maggiore rilevanza politica ed è chiamato a deliberare, a discutere, a manifestare le proprie preferenze senza alcuna garanzia circa il fatto che la sua volontà potrà produrre effetti.

Perché tali garanzie siano offerte occorre, a mio avviso, immaginare strumenti nuovi, almeno per il nostro ordinamento, che vadano a toccare il cuore dei fragili equilibri della relazione rappresentativa. Mi riferisco, in particolare, agli strumenti partecipativi di controllo capaci di dar vita ad un’interazione continua, formalizzata e di tipo circolare tra elettori ed eletti9. Il potere di controllo, infatti, se ben congegnato, è l’unico potere in grado di consentire al demos di essere parte fattiva nei processi di decisione e azione politica10. L’attribuzione di un tale potere ai cittadini comporta l’abbandono della rigida dicotomia democrazia diretta/democrazia rappresentativa a favore di una terza via, quella della democrazia semi-rappresentativa o rappresentativo-partecipativa, rispetto alla quale la democrazia partecipativa opera come una sorta di traghettatore11.

Tra le pratiche frutto dell’esercizio del potere popolare di controllo si pone proprio la revoca del mandato elettivo, un’ipotesi partecipativa di particolare interesse per il modo in cui interagisce con il funzionamento della relazione rappresentativa e su cui periodicamente il dibattito si accende, come è avvenuto negli ultimi mesi in Italia. Una pratica di cui, fino ad oggi, nel nostro Paese si è, appunto, solo dibattuto nella convinzione che si trattasse, almeno rispetto ai parlamentari, di qualcosa di totalmente estraneo al nostro ordinamento e alla sua tradizione costituzionale. Le ragioni oggettive di una tale convinzione sono evidenti e si possono, di fatto, sintetizzare nell’esistenza di un ostacolo costituzionale effettivo rappresentato dal divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost.

Proprio di tale nodo costituzionale proverò brevemente ad occuparmi preliminarmente all’analisi della proposta di revoca del mandato elettivo avanzata dal MoVimento 5Stelle in vista delle prossime elezioni europee.


2. Il nodo del divieto di mandato imperativo e la sua contraddizione intra-partitica.

Il divieto di mandato imperativo, secondo un’ormai consolidata tradizione storica, fece la sua prima apparizione in Europa con l’ordinanza emessa da Luigi XVI il 24 gennaio 1789 per la convocazione degli Stati generali e trovò una prima formalizzazione nell’art. 7, sez. III (Assemblee elettorali. Nomina dei rappresentanti), della Costituzione francese del 179112. Con tali provvedimenti si realizzò un’importante inversione di tendenza rispetto a quanto inizialmente verificatosi entro gli organi rappresentativi post-rivoluzionari che operavano sulla base dei c.d. quaderni di istruzioni (cahiers des doleànces o d’instructions)13. Fu un cambio di regime reso necessario dall’evidente farraginosità del precedente meccanismo di delega, che imbrigliava le possibilità di azione e di giudizio autonomi degli eletti, trasformandoli in meri esecutori della volontà degli elettori14.

Con l’introduzione del divieto di mandato imperativo, fu così restituita ai rappresentanti una piena autonomia ed indipendenza rispetto ai loro elettori finendo, tuttavia, con il legittimare una delle più caratteristiche dinamiche delle moderne democrazie rappresentative, vale a dire il trasferimento della sovranità dal suo titolare formale, il popolo, al suo esercente reale, gli eletti15.Il fine fu, dunque, duplice: da una parte, sganciare l’azione dei rappresentanti dagli interessi degli elettori al fine di connetterla ad un interesse superiore e generale che la nostra Costituzione, in continuità col modello francese, identifica con l’interesse della Nazione (art. 67 )16; dall’altra, garantire la piena libertà di coscienza e di azione dei rappresentanti, per la cui protezione si ritenne – e si ritiene ancora – accettabile pagare anche il prezzo della loro infedeltà, nella convinzione che solo su questa libertà possa poggiare il corretto svolgersi della dialettica democratica17.

Questi, pertanto, i due poli intorno ai quali ha continuato nei secoli a strutturarsi l’intero dibattito circa l’introduzione e l’interpretazione del divieto di mandato imperativo: da un lato, il riconoscimento della libertà degli eletti – che si radicalizza laddove il mandato sia addirittura negato in ogni sua forma – e, dall’altro, la tutela dell’interesse generale connesso al compito che sono chiamati a svolgere.

La storia francese post-rivoluzionaria, con i suoi cambiamenti repentini di sfondo, testimonia come all’interno del medesimo ordinamento, e quindi della stessa scelta sistemica a favore della democrazia rappresentativa, sia però possibile approntare soluzioni diverse quanto alla definizione del modo di atteggiarsi in concreto del rapporto rappresentativo18. Ciò rileva ai nostri fini poiché il permanere del divieto in questione o la sua rimozione dipende proprio da come si intende impostare quel rapporto che sorge per effetto dell’esercizio del diritto di voto: se l’elezione, infatti, è strumento di delega in senso giuridico da essa non potrà che derivare la costituzione di un vincolo di mandato, più o meno stringente o esplicito19; se, invece, essa è mezzo per la selezione dei migliori, per la designazione di capacità, per suo effetto non si origina alcun rapporto di mandato in senso giuridico, essendo gli eletti scelti perché considerati più capaci di agire e decidere rispetto agli elettori e, dunque, a prescindere da loro20.

La prevalenza del secondo modello interpretativo nelle democrazie europee liberaldemocratiche, che pure è spesso data per scontata, non è stata in realtà così lineare come può sembrare, essendosi registrati nel corso del XX secolo alcuni interessanti casi di ordinamenti che non solo ammettevano il vincolo di mandato ma anche esplicitamente lo ipotizzavano nella forma del mandato di partito, sottoponibile a revoca21. La teorizzazione del mandato di partito si legò in questa prima fase alla nascita dei grandi partiti di massa nella loro funzione propriamente rappresentativa, per poi finire oggi con l’essere causa e conseguenza tacita della loro crisi22. Frutto della spersonalizzazione della vita politica esso, infatti, si è trasformato nel suo opposto, divenendo il prodotto della progressiva ri-personalizzazione mediante la leadership, anche laddove non sia stato formalmente riconosciuto. Le direttive che l’eletto riceve, pertanto, non sono più quelle del partito ma direttamente quelle del suo vertice23.

Se, dunque, con l’affermarsi dei c.d. partiti pigliatutto si è assistito alla rivendicazione di una maggiore autonomia e indipendenza per gli eletti formalizzata nel divieto di mandato popolare, essa si è tuttavia accompagnata al progressivo, ancorché silente, rafforzarsi del mandato di partito24.

Proprio per tale circostanza è, anzitutto, con riferimento ai partiti, più che rispetto agli elettori, che oggi il tema del mandato e della sua imperatività deve essere trattato, a partire dalle garanzie e dalle tutele che dovrebbero essere predisposte a vantaggio dell’eletto nei confronti del suo gruppo politico di appartenenza e dei suoi vertici. Ciò vale ancor più per l’ordinamento italiano in cui anche su questo aspetto continua ad operare una vera e propria fictio che genera contraddizioni e tensioni di sistema25. L’affermarsi in via di fatto del mandato di partito mai positivizzato comporta, infatti, una discrasia tra i fini del divieto di mandato imperativo popolare e gli effetti dello stesso: gli eletti preservarti dai vincoli di una rappresentanza di tipo privatistico rispetto agli elettori, vengono trasformati in una categoria a se stante, una nuova classe, cementata al suo interno da interessi specifici di tipo neo-corporativo cui debbono rispondere26. Si evita così la rappresentanza degli interessi “particolaristici” degli elettori ma si finisce con l’ammettere la rappresentanza di interessi di una nuova“categoria”, quelli degli eletti27.

Per evitare, ancora una volta, gli effetti derivanti della fictio giuridica occorre ripartire dal reale: la democrazia va letta partendo dal dato empirico perché essa non sia trasformata in mero feticcio, anche col rischio di scoprire che, nella realtà, ha finito col tradursi in meccanismi e procedure che propriamente democratiche non sono.

In questa logica può ben dirsi che il mandato di partito – dal punto di vista di un’analisi scientifica astratta – non costituisce in sé un male, ma è anzitutto un dato oggettivo di cui prendere coscienza: solo con la consapevolezza della sua vincolatività e delle modalità con cui esso opera in concreto, de facto: ci piaccia o meno, si potranno approntare le garanzie necessarie a far sì che forse si resti entro lo schema della “democrazia rappresentativa”, piuttosto che deviare verso forme indefinite di partitocrazia.

Entro tale cornice, e quindi prendendo atto del concreto atteggiarsi del mandato rappresentativo oggi, è comprensibile, a mio avviso, che si facciano strada soluzioni tese a re-interpretare il diritto di voto/revoca in senso “partitico”, legando il mandato al partito più che al singolo eletto, o che si arrivi a teorizzare forme di revoca del mandato ad attivazione partitica e ad effetto intra-partitico (del partito nei confronti dei propri membri eletti), come è appunto avvenuto nel caso qui oggetto di studio, con la precisazione che ad essere coinvolto non è un partito ma un movimento al quale tuttavia sembra si possa adattare perfettamente la figura del mandato di partito. Secondo quest’impostazione, un tale meccanismo avrebbe il vantaggio di non mettere del tutto in discussione il divieto fissato nell’art. 67 Cost. e, dall’altra parte, consentirebbe di superare lo scetticismo weberiano riguardo alle capacità di scelta dei cittadini, chiamati a pronunciarsi non sulla competenza dei candidati quanto piuttosto sulla loro adesione all’azione di partito e ai suoi indirizzi. Se pure risultano comprensibili le ragioni che hanno spinto alla teorizzazione di tali forme di mandato imperativo e di revoca del mandato di tipo partitico, gli esiti non sono condivisibili proprio a fronte di quel concreto atteggiarsi dei partiti e del vincolo rappresentativo cui sopra facevo riferimento. Introdurre tale forma di responsività partitica, considerata la progressiva estraneità dei cittadini ai partiti che si è venuta realizzando, significa tagliare ulteriormente fuori i cittadini dalle dinamiche politiche, sancendo in via definitiva la vittoria della partitocrazia anti-democratica. Il mandato di partito potrebbe prodursi in esiti “accettabili” solo laddove fosse garantita una maggiore e reale democraticità interna ai partiti che consentisse di recuperare ex ante il momento partecipativo.

Si noti bene: ammesso, e non concesso, che l’impostazione soprarichiamata sia costituzionalmente praticabile, ad ogni modo è evidente che la versione “partitica” del recall ecceda rispetto alla sua originaria configurazione nordamericana: esso, infatti, nacque con l’obiettivo di offrire ai cittadini uno strumento per riassumere il controllo della relazione rappresentativa, loro sottratto proprio in ragione del distorto funzionamento dei partiti28.

Numerosi, dunque, sono gli aspetti critici rilevabili in un’ipotesi di tal fatta, alcuni dei quali cercherò di evidenziare attraverso l’analisi della proposta del MoVimento 5 stelle.


3. Il Codice di comportamento del MoVimento 5 stelle per le elezioni europee e la proposta di revoca del mandato elettivo: disciplina e criticità.

Al di là dei dibattiti politici e scientifici che in questi ultimi anni si sono sviluppati in Italia sul tema della revoca del mandato, il Codice di comportamento adottato dal MoVimento 5 stelle (M5S) in vista delle elezioni europee del 25 maggio 2013, rappresenta il primo vero tentativo di introdurre questo meccanismo nel nostro ordinamento. Un tentativo dinanzi al quale non è possibile non nutrire alcune perplessità, sia per le modalità con le quali è stato posto in essere, sia per gli esiti che ha avuto e che potrebbe avere.

La prima riflessione è imposta dalla lettura del “Preambolo” al Codice suddetto, in base al quale: «il Codice di comportamento per i candidati del M5S alle elezioni europee e per gli eletti al Parlamento europeo nelle liste del M5S si ispira alla trasparenza nei confronti dei cittadini attraverso una comunicazione puntuale sulle scelte politiche attuate con le votazioni in aula e nelle commissioni. I deputati dovranno mantenere una relazione con gli iscritti, tenere conto delle loro proposte ed operare in sintonia con le loro indicazioni».

Se nessuna questione sorge rispetto all’invocato principio della trasparenza, che ovviamente pone a carico dei rappresentanti l’onere della comunicazione/informazione, almeno due sono i dubbi generati dal secondo periodo dell’introduzione. Anzitutto, sembra farsi strada l’idea – su cui meglio tornerò infra – secondo cui i deputati del M5S, una volta eletti, sarebbero rappresentanti solo degli iscritti allo stesso. In secondo luogo, è sintomatico di un’interpretazione regressiva della relazione rappresentativa il richiamo alle indicazioni che i deputati dovrebbero ricevere dagli iscritti al M5S. Esse, infatti, almeno prima facie, sembrano una ri-edizione in forma generica delle istruzioni contenute nei cahiers des doleànces.

Rispetto a tali indicazioni è legittimo sollevare più di un dubbio: quale vincolatività deve ad esse riconoscersi?In base a quale criterio, o secondo quale interesse prevalente, le indicazioni dovrebbero essere ordinate, specie nel caso in cui siano in contrasto tra loro?

Stando a quanto ricostruibile in base alle procedure interne al MoVimento le indicazioni dovrebbero essere sottoposte a continue integrazioni e aggiornamenti. Una possibilità è che ciò avvenga – com’è noto – organizzando apposite votazioni online, su temi ulteriori o integrativi rispetto ai “Sette punti per l’Europa” che costituiscono in un certo senso il programma per i candidati alle europee, mediante il portale disponibile al link https://sistemaoperativom5s.beppegrillo.it/ e, nota bene, accessibile esclusivamente a coloro che risultino “iscritti certificati” alla data del 30 giugno 2013. Ciò porterebbe, di fatto, all’attivazione di una campagna referendaria permanente interna al MoVimento che, al di là di quanto dichiarato dai membri del M5S, a mio avviso presuppone la tacita esistenza di un mandato vincolante e… fluttuante. Altra possibilità che si prospetta è che tali indicazioni assumano la forma di semplici “commenti” pubblicabili sul blog di B. Grillo rispetto ai quali il gestore del blog potrebbe svolgere un’attività preventiva di censura o successiva di selezione 29. Nell’attesa che tale aspetto si vada chiarendo, è possibile compiere alcune valutazioni su entrambe le opzioni prospettate.

Se si procederà ad un’apposita votazione in rete per l’approvazione delle c.d. “indicazioni”, essa avverrà, presumibilmente, a maggioranza applicando per la partecipazione alla stessa le medesime limitazioni previste per l’esercizio del diritto di revoca: saranno cioè ammessi a partecipare esclusivamente gli iscritti al MoVimento che risultino tali e siano stati “certificati” entro la data sopraindicata. Il rischio – ma meglio sarebbe dire: la certezza – è che a definire il contenuto delle istruzioni sia una maggioranza (iscritti: magari pochi) diversa da quella che ha conferito l’incarico (elettori: certo molti), con la conseguenza, per tacer d’altro, che l’eletto potrebbe essere considerato inadempiente rispetto ad indicazioni diverse da quelle originariamente ricevute. Le istruzioni in questione, pertanto, non sarebbero tanto espressione della relazione fiduciaria tra eletti e base elettorale (che come tale potrebbe/dovrebbe ricomprendere anche soggetti ulteriori rispetto agli iscritti al M5S), quanto solo della volontà espressa dai membri “formali” del M5S – melius: dal numero, magari esiguo, di votanti online – unici titolari del potere di sanzionare mediante la revoca l’eventuale “tradimento” di tale rapporto.

Al meccanismo di votazione qui ipotizzato – sia consentito il gioco di parole: sugli “eletti”(dal corpo elettorale) ad opera degli “eletti”(del M5S) – si assocerebbe, probabilmente, una maggiore vincolatività delle istruzioni che di per sé potrebbe comportare aggravi procedurali non sostenibili entro i processi decisionali europei, limitandosi di fatto il potere di valutazione autonoma e indipendente da parte dell’eletto e l’immediatezza che esso garantisce.

Nel caso in cui, diversamente, le indicazioni dovessero esprimersi esclusivamente attraverso i commenti nel blog ne risulterebbe evidentemente ridimensionata la portata, trattandosi di generiche opinioni che potrebbero acquisire una qualche incisività soltanto laddove venissero “preferite” dal capo del M5S, di modo che il loro mancato rispetto potrebbe divenire condizione di espulsione30. È discrezionale, dunque, la scelta del gestore del blog di lasciare pubblicati i commenti e altrettanto discrezionale quella del capo del M5S di dare ad essi rilievo. Nessuna garanzia, rispetto ad una tale ipotesi, sembra prevista a tutela della libertà di espressione dei singoli iscritti.

La vaghezza iniziale delle indicazioni e la loro determinazione in itinere si pone, infine, in contrasto con la gravosità della sanzione prevista per il caso di inadempimento (dimissioni o penale) per cui il candidato si impegna a rispettare tale sanzione pur non conoscendo preventivamente le condotte alla cui commissione essa dovrebbe associarsi.

Occorre, tuttavia, precisare che allo stato attuale la revoca del mandato non è direttamente collegata al mancato rispetto delle indicazioni degli elettori, probabilmente anche al fine di schivare l’accusa di introduzione in forma esplicita di un mandato imperativo. Ad ogni modo, combinando la genericità del Codice di comportamento con la dicitura riportata nella lettera di impegno, allegata a questo lavoro, secondo cui si «suppone la sussistenza, per tutta la durata del mandato, del rapporto fiduciario con la base elettorale di riferimento», il rischio che ciò si verifichi mi sembra sufficientemente concreto da essere preso in considerazione.

L’introduzione del sistema delle istruzioni vincolanti proporrebbe, ancora una volta, la risalente questione del bilanciamento tra la libertà e l’indipendenza del deputato e la necessità che si mantenga un qualche collegamento tra la sua azione e la volontà popolare. Tale problema potrebbe, a mio avviso, risolversi chiarendo preventivamente il contenuto delle istruzioni, di natura generale, e attribuendo ad esse una funzione di indirizzo. Esse, infatti, risulterebbero realmente lesive dell’indipendenza del rappresentante, ostacolando il suo operato, se si traducessero in prescrizioni di dettaglio o indicazioni di voto stringenti e reiterate, non anche, a mio avviso, laddove si trattasse di indicazioni di principio, di indirizzo appunto, dei fini piuttosto che dei mezzi. Il mezzo potrebbe, pertanto, divenire oggetto di discussione solo nelle ipotesi in cui esso alterasse la sostanza del fine. La definizione dei “fini” dovrebbe avvenire all’interno del M5S in modo democratico e partecipato aggiornandosi periodicamente in base ai processi decisionali in corso. L’eventuale revoca del mandato potrebbe, pertanto, muovere dal mancato rispetto delle indicazioni di indirizzo così determinate ma, come dirò meglio di seguito, non potrà essere limitata al solo voto degli iscritti al M5S.

Proseguendo nell’esame del Codice di comportamento, occorre prendere in considerazione la disposizione di chiusura denominata “Impegno al rispetto del Codice” che fa da cornice al corpo del Codice. In base ad essa: «ciascun candidato del MoVimento 5 Stelle al Parlamento europeo, prima delle votazioni per le liste elettorali, dovrà sottoscrivere formalmente l’impegno al rispetto del presente Codice di comportamento, con assunzione di specifico impegno a dimettersi da deputato sia in caso di condanna penale sia nell’ipotesi in cui venisse ritenuto gravemente inadempiente al rispetto del Codice di comportamento e, in difetto, a versare l’importo di €250.000 al Comitato Promotore Elezioni Europee MoVimento 5 Stelle che lo devolverà ad ente benefico».

L’assurdità e illegittimità costituzionale di una tale previsione si esprime, dal mio punto di vista, ad almeno tre livelli: l’uno attinente alla sostanza dell’impegno assunto, l’altro relativo alla forma della sottoscrizione, e l’ultimo che potremmo definire il livello del principio di uguaglianza e di libertà.

Quanto al primo livello, la disposizione soprarichiamata non fa altro che recuperare il logoro schema delle dimissioni in bianco (démission en blanc), in sé inaccettabile per l’eccessiva vaghezza delle condizioni a cui l’operatività delle dimissioni viene ancorata, nonché per la gravosità della sanzione economica che si prevede scatti laddove non si intenda rassegnarle e per le limitate garanzie poste a tutela del dimissionario31.

Con riferimento al secondo livello individuato, l’elemento che viene subito in evidenza è rappresentato dalla natura della sottoscrizione imposta ai candidati che assume la forma di un atto unilaterale di diritto privato. L’elemento non è di secondaria importanza tenuto conto che la forma condiziona l’efficacia dell’atto e influisce sulle conseguenze che esso è in grado di spiegare, ancora una volta, tanto in relazione all’operatività della sanzione, quanto rispetto alle tutele che potranno attivarsi per far valere l’eventuale inadempimento, o alle garanzie di cui il sottoscrittore potrà godere per il caso in cui gli sia ingiustamente imputata la violazione del Codice di comportamento.

Mi sembra, in particolare, che il presente atto di impegno possa inquadrarsi nello schema delle promesse unilaterali disciplinate dall’art. 1987 c.c., e più specificamente delle promesse di pagamento di cui all’art. 1988 c.c.32. Da tali disposizioni, oltre che più in generale dalla natura privatistica dell’atto in questione deriva che esso non potrà spiegare effetti in contrasto con la legge e, ancor più, ovviamente con la Costituzione, né avere efficacia obbligatoria se non che nelle ipotesi in cui ciò sia esplicitamente ammesso dal legislatore, il che comporta che il soggetto promittente possa recedere dall’impegno assunto facendo valere la contrarietà dello stesso alla legge.

Tale considerazione rileva in quanto l’introduzione di un sistema di revoca del mandato per gli euro-deputati e, quindi, il riconoscimento di fatto di un mandato di tipo imperativo, si oppone ai princîpi che regolano il funzionamento della democrazia rappresentativa italiana ed europea, ponendosi in contrasto tanto con il diritto interno (art. 67 Cost.) quanto con quello dell’Unione. In particolare, con riferimento al diritto dell’Unione, questa considerazione è confermata anzitutto dall’art. 6 dell’atto relativo all’elezione dei parlamentari europei a suffragio universale diretto allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, 76/787/CECA, CEE, Euratom, come modificato e rinumerato con la decisione del Consiglio del 25 giugno 2002, 2002/772/CE, Euratom33. Ad esso si associa la decisione assunta dal Parlamento europeo il 28 settembre 2005 in merito al c.d. Statuto dei deputati del Parlamento europeo34. Quest’ultima nell’art. 2 prescrive che «i deputati sono liberi e indipendenti. Qualsiasi accordo sulle dimissioni dal mandato prima della scadenza o al termine della Legislatura è nullo» e nell’art. 3, co.1, stabilisce che «i deputati […] non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere mandato imperativo» di modo che, prosegue il co. 2, «qualsiasi accordo sulle modalità di esercizio del mandato è nullo»35. Nota bene: ancora più esplicito rispetto al caso oggetto di studio è il quarto “considerando” della medesima decisione, per cui «eventuali dichiarazioni con cui i deputati assumono l’impegno di cessare il mandato a un determinato momento oppure dichiarazioni in bianco per le dimissioni dal mandato, che un partito possa utilizzare a sua discrezione, sono incompatibili con la libertà e l’indipendenza dei deputati e pertanto non possono avere alcun valore giuridico vincolante» (c.vo mio ).

A ciò si aggiunge che la relazione rappresentativa che si istaura per effetto delle elezioni europee ha, evidentemente, una dimensione sovranazionale pur svolgendosi queste entro i singoli Stati secondo le loro normative nazionali. Gli eletti, infatti, pur avendo un collegamento genetico con gli elettori dello Stato in cui sono stati scelti, non siedono in Parlamento europeo come rappresentanti di quello Stato ma piuttosto come rappresentanti dei cittadini europei36.

Se questo è il quadro normativo di riferimento, è ad ogni modo vero che l’operatività del divieto di mandato imperativo ha risentito nell’ordinamento europeo, così come del resto in quello italiano, dell’azione dei partiti ˗ o forse meglio nel caso europeo dei non partiti ˗ e dei corpi, quali i gruppi che entro il Parlamento si muovono37. L’obiettivo originario che aveva ispirato la costruzione della disciplina dei gruppi parlamentari europei, ad esempio, era quello di dar vita ad entità plurinazionali fondate sulla comunanza di valori e visioni ideali più che sull’appartenenza territoriale, al fine anche di consolidare il formarsi di un’identità europea come tale extra-territoriale. Tuttavia, si è dovuto fare i conti con un’interpretazione restrittiva del requisito dell’“affinità politica” posto dall’art. 29, co. 1, del Regolamento Parlamentare (CE) del 15 febbraio 2005. Tale condizione, infatti, è stata utilizzata come “paravento” dietro cui legittimare la nascita di gruppi parlamentari rappresentativi di interessi professionali se non addirittura localistici e nazionali. In tal modo, si è finito spesso con il trasformare i rappresentanti dei cittadini europei in rappresentanti dei cittadini degli Stati membri, con evidenti ricadute sulla teorizzazione e concretizzazione del divieto di mandato imperativo che, come una sorta di fisarmonica, si espande o si comprime a seconda dell’attenuarsi o del rafforzarsi degli interessi di marchio neo-corporativo o, in questo caso, nazionalisti38.

In astratto, e nel rispetto di alcune condizioni, a mio avviso è ipotizzabile – forse anche de iure condito – un meccanismo di revoca del mandato, ma certo non è immaginabile né auspicabile che esso si riduca a una mera delega contenente istruzioni “particolari”, disattese le quali l’eletto debba intendersi automaticamente dimesso, o ancor peggio, che possa essere revocato in maniera del tutto discrezionale per generica violazione delle istruzioni “di principio”, senza ancorare tale rimozione a circostante oggettive, verificabili e preventivamente fissate39. Ciò non solo perché risulterebbe del tutto compromessa l’indipendenza del rappresentante, condizione preliminare al libero svolgimento dei suoi compiti, ma anche perché ne sarebbe inficiato l’intero funzionamento della macchina politica. Quale politica può, infatti, costruirsi entro una dinamica che costringe i rappresentanti del M5S a irrigidire sempre e comunque le loro posizioni, chiudendosi al dialogo e al buon “compromesso” con il reale che la naturale logica del parlamentarismo, come ci insegna Kelsen, impone?

Il terzo livello, che ho definito del principio di uguaglianza e di libertà, è quello che si sviluppa considerando la penale prevista per gli inadempienti che non si dimettano. Tale previsione, infatti, risulta a mio avviso lesiva dei due princîpi richiamati. Da una parte, come già si è cercato di argomentare, l’imposizione delle dimissioni in bianco o, in alternativa, della penale opera come una sorta di “spada di Damocle” sulla libertà dei candidati, specie se si considera che per come è costruito il sistema sanzionatorio del Codice di comportamento è ben possibile che il deputato si trovi a dover subire ingiustamente un’accusa di inadempimento, fondata esclusivamente sulla valutazione del tutto discrezionale degli iscritti. Quanto, invece, al principio di uguaglianza mi sembra che, per tacer d’altro, esso possa dirsi violato rispetto all’esercizio in concreto del diritto di elettorato attivo, non potendosi considerare egalitaria l’entità della penale stessa, che potrebbe aver sortito un effetto deterrente rispetto a taluni soggetti interessati a candidarsi col M5S.

Passando ad un’analisi più dettagliata di tale sistema sanzionatorio e quindi delle situazioni in cui è previsto sorga l’obbligo di dimissioni, stando al testo del Codice di comportamento, sono tre i casi che vengono in rilievo.

La prima ipotesi è così descritta: «il deputato eletto dovrà dimettersi obbligatoriamente se condannato per un reato penale, anche solo in primo grado; nel caso di rinvio a giudizio sarà invece sua facoltà decidere se lasciare l’incarico». Si tratta, a ben vedere, di un’estensione di quanto già previsto dalla normativa in materia di incandidabilità40. La presente disposizione appare sospetta di incostituzionalità, poiché riconnette l’obbligo di dimissioni ad una pronuncia di condanna non definitiva, a fronte della quale fortunatamente resta valido e prevalente il principio di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. La violazione di tale principio appare ancora più significativa se si rapporta anche alla genericità dell’imputazione posta a fondamento dell’obbligo di dimissioni, potendosi trattare di un qualsiasi reato penale, senza distinzione in base alla natura dell’elemento soggettivo sotteso alla sua commissione o in base alla pena comminata per la consumazione o il tentativo.

Quanto alla seconda ipotesi prevista, essa è così declinata entro il Codice di comportamento: «il deputato dovrà altresì dimettersi obbligatoriamente se ritenuto gravemente inadempiente al Codice di comportamento ed all’impegno al rispetto delle sue regole assunto al momento della presentazione della candidatura nei confronti degli iscritti al M5S. Il deputato sarà ritenuto gravemente inadempiente laddove, secondo il principio della democrazia diretta, detto “recall”, già applicato negli Stati Uniti: i) almeno 500 iscritti al MoVimento 5 Stelle alla data del 31/12/2012 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto abbiano motivatamente proposto di dichiararlo gravemente inadempiente; ii) la proposta sia stata approvata mediante votazione in rete a maggioranza dagli iscritti al MoVimento 5 Stelle al 30/6/2013 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto». Il primo appunto che può farsi rispetto a tale previsione riguarda l’erroneo inquadramento dello strumento della revoca del mandato qui richiamato, che rileva come indice sintomatico della superficialità con cui è stata avanzata la proposta di introduzione dello stesso nel nostro ordinamento. Non si tratta, anzitutto, di uno strumento di democrazia diretta in senso stretto e lo dimostra la circostanza che esso venga attivato nei confronti di un soggetto eletto in virtù del rapporto rappresentativo istaurato mediante il voto. Il richiamo all’ordinamento nord-americano, per quanto in sé legittimo, è senza dubbio fuorviante e inutile, non potendo quel precedente bastare a legittimare l’introduzione del recall nel nostro ordinamento che tanto si differenzia da quello statunitense. A ciò si aggiunge il fatto che la proposta del M5S – a differenza del modello americano – prevede l’attivazione della procedura di revoca come procedura del tutto interna al movimento, pur avendo evidenti effetti esterni. È noto che invece, negli Stati d’America, essa si svolge come procedura extra-partitica ancorché dominata da logiche partitiche o lobbistiche.

Inoltre, come in parte anticipato e riprendendo una delle storiche critiche mosse al recall già nelle sue prime apparizioni nord-americane, risulta del tutto contestabile la genericità dei motivi addotti a sostegno della revoca, la quale fa il paio con la genericità delle disposizioni del Codice di comportamento che dovrebbero fungere da parametro per la valutazione della condotta del deputato, nonché con quella del richiamo alle istruzioni che dovrebbero essere fornite dagli elettori.

Come accennato, l’inadempienza che si considera rilevante ai fini della revoca non riguarda, almeno in forma diretta e allo stato attuale, le istruzioni che gli elettori dovrebbero ricevere dagli eletti, ma piuttosto il mancato rispetto del Codice di comportamento, rilevato il quale potrà essere avviata la procedura di recall. Nonostante si richieda a tal fine la presentazione di una richiesta motivata, la mancata predeterminazione delle fattispecie rilevanti costituisce una scelta poco garantista che dà eccessivo spazio alla discrezionalità dei proponenti. Giova a tal proposito sottolineare che le ragioni giustificative della revoca giocano un ruolo centrale nell’intera disciplina dell’istituto divenendo queste criteri in base ai quali valutarne la legittimità41. Dalla tipologia dei motivi dipende la natura, politica o meramente giuridica della procedura di revoca, costituendo la loro specificazione, o meglio la loro identificazione con fattispecie e condotte puntualmente individuate, una prima e fondamentale garanzia per il targeted officer secondo una logica propriamente giurisdizionale42. La loro disciplina è, inoltre, uno dei principali elementi di differenziazione tra gli ordinamenti che hanno ammesso il recall43.

Sempre dal punto di vista procedurale non possono non segnalarsi sia i criteri stabiliti per l’individuazione dei soggetti cui è riconosciuto il diritto di attivare la procedura e di parteciparvi, sia il quorum richiesto per l’approvazione della proposta. Quanto al primo aspetto viene, anzitutto, in rilievo la scelta di limitare il diritto di proposta ai soli iscritti al M5S alla data del 31/12/2012 e il diritto di partecipare alla consultazione a coloro che risultino iscritti alla data del 30/06/2013, rispetto alla quale è possibile sollevare alcune obiezioni non solo perché non è chiara la ragione per cui i due bacini di elettori dovrebbe essere così differenziati (tutti gli iscritti fino a una data – e perché quella? – “propongono” e quelli fino all’elezione “deliberano”. E gli altri, perché no?), ma anche perché da tale previsione si evince la visione di fondo che i capi/dirigenti del M5S hanno dell’istituto della revoca, interpretato, a mio avviso, quale strumento ad efficacia interna, come se il mandato che si intende far cessare rappresentasse un fatto rilevante solo entro il MoVimento.

L’idea di poter limitare il diritto di voto agli iscritti al MoVimento risulta totalmente “a-sistemica”: se il diritto di revoca è l’altra faccia del diritto di voto, esso va considerato alla sua stregua sul piano delle garanzie e della tutela44. Si tratta – almeno nella dottrina giuspubblicistica americana – di un diritto politico fondamentale e come tale non può subire limitazioni che non siano quelle stabilite dalla legge conformemente alla Carta costituzionale. In questo caso dovremmo dire anche dal diritto europeo, ma non certo per il tramite di atti di autonomia privata. Il ricordato Codice di comportamento – atto appunto di natura privatistica – avrebbe invece l’assurda pretesa di incidere sullo statuto di un diritto fondamentale ridefinendone le condizioni per l’esercizio e gli effetti ad esso riconnessi.

Riconoscere il diritto di revoca dell’eletto esclusivamente agli iscritti al M5S, e agli iscritti, entro una certa data, significa sostenere che i suoi candidati una volta eletti non agiranno nell’interesse generale, e quindi per la realizzazione di un bene che possa considerarsi “comune”, ma quali rappresentati di una specifica categoria di elettori, vale a dire nell’interesse dei soli iscritti al MoVimento certificati.

Si tratta, a mio avviso, di un assunto facilmente contestabile già solo per il fatto che sulla sua base si potrebbe finire col riconoscere tale diritto partecipativo (revoca dell’eletto) a soggetti iscritti al MoVimento che non hanno però votato a suo favore e, viceversa, ne potrebbero rimanere esclusi soggetti che, pur avendo votato per i candidati 5 stelle, non sono formalmente iscritti ad esso. All’interno di quella che potremmo definire la catena del voto si ingenera in tal modo una disfunzione per cui, mentre il voto elettivo continua ad essere appannaggio di tutti, solo gli iscritti al MoVimento possono concorrere alla selezione dei candidati e, poi, elemento non meno rilevante, alla loro rimozione.

Proprio in quanto espressione e specificazione del diritto di voto, il riconoscimento del diritto di revoca – ove se ne ravvisassero i margini di applicazione – non potrebbe fondarsi sull’impiego di fonti private e comunque subordinate alla legge. Inaccettabile, pertanto, deve considerarsi l’idea di associare tale diritto al semplice requisito dell’iscrizione al M5S e della residenza nella circoscrizione in cui il deputato è stato eletto, prescindendosi dal possesso dei requisiti fissati per l’esercizio del diritto di elettorato attivo per le elezioni europee. In tal modo, infatti, si crea ancora una volta una discrasia tra il diritto di voto e il diritto di revoca che, pur speculari, dovrebbero viaggiare sullo stesso piano.

La conferma del carattere populistico e piuttosto superficiale di tutta la disciplina è data, infine, da un ultimo aspetto che merita di essere menzionato. Si accenna al quorum richiesto per la proposta: 500 iscritti alla data del 31/12/2012, residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto. Con ogni evidenza si tratta, infatti, di una cifra irrisoria se rapportata alle dimensioni demografiche delle circoscrizioni elettorali costituite per le elezioni europee.


4. La revoca degli eletti nell’ordinamento italiano: prime conclusioni.

La previsione del ricordato meccanismo di revoca, entro il Codice di comportamento adottato dal M5S in vista delle elezioni europee, non è ovviamente passata sotto silenzio non solo a livello mediatico ma anche più propriamente politico.

Risale al 27 marzo 2014 l’interrogazione n. 4-01959 rivolta dai senatori Buemi, Fravezzi, Mastrangeli, Laniece, Tonini, Battista, Casaletto, Campanella, Bencini, Bocchino, Orellana, Zin, De Pin, Gambaro, Longo ai Ministri dell’Interno e della Giustizia al fine di accertare la compatibilità con il diritto europeo delle previsioni contenute nel suddetto Codice e la conseguente validità delle candidature raccolte e formalizzate secondo quanto stabilito nello stesso45. In tale interrogazione si ricostruiscono, anzitutto, le motivazioni giuridiche per cui è da considerarsi vigente nell’ordinamento europeo il divieto di mandato imperativo risalendo sino alle sue prime, e più famose, applicazioni in Europa, ossia all’art. 7, sez. III, della Costituzione francese del 13 settembre 1791, già richiamato. Accanto a tali dati giuridici sono, inoltre, menzionati alcuni rapporti elaborati dalla Commission européenne pour la démocratie par le droit, confermativi dell’appartenenza dell’istituto in questione alle più risalenti tradizioni costituzionali degli ordinamenti nazionali europei46. Tra i punti toccati dalla richiesta, oltre quelli più propriamente procedurali, risultano i seguenti quesiti:

1) se risultasse al Governo che è «in distribuzione un modello, sottoposto alla firma di ciascun candidato alle elezioni europee del 25 maggio 2014 per una determinata forza politica, contenente l’impegno a dimettersi da deputato europeo»;

2) se, in caso di veridicità della notizia, «il Governo non ritenga che il primato del diritto dell’Unione […] imporrebbe di disapplicare la designazione del candidato effettuata in tal modo, in quanto l’ammissione di una lista che lo includesse sarebbe in violazione manifesta del diritto europeo, e qualunque autorità amministrativa o giurisdizionale vi contribuisse (compresi quindi gli uffici elettorali) potrebbe essere chiamata a risponderne a titolo di responsabilità […], oltre a rientrare tra i soggetti nei cui confronti sarebbe possibile esercitare il potere di rivalsa previsto dall’articolo 43, comma 10, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, in conseguenza del pagamento di somme imposto per condanna allo Stato italiano da parte della Corte europea».

Sembra dunque di poter dire che, anche alla luce di quanto evidenziato con tale interrogazione, l’atto di impegno sottoposto alla sottoscrizione dei candidati del M5S per le prossime elezioni europee possa essere considerato nullo per contrasto con il diritto interno e con il diritto europeo, con la conseguenza che tale nullità potrà essere fatta valere dal singolo candidato, nonché da qualsiasi autorità amministrativa e giurisdizionale nazionale e dall’Unione europea, potendo arrivare a configurare una forma di inadempimento rilevante da parte dello Stato italiano laddove dovesse darsi seguito al suo contenuto per le ipotesi di revoca/dimissioni.

Pur non essendo possibile in questa sede approfondire l’intera problematica connessa all’introduzione del recall in Italia – oltre a ribadire l’assurdità/illegittimità di una revoca a rilevanza partitica solo interna (esito della consultazione popolare attivata in rete) e disciplinata privatisticamente (con il Codice di comportamento e la lettera di impegno sottoscritta dai candidati) – residuano numerosi altri dubbi legati allo svolgimento della procedura, tipici dei problemi connessi al grado e alle forme di democrazia che devono essere garantite entro i corpi intermedi di natura politica.

Soprattutto emerge la necessità di garantire un’autentica democraticità interna ai partiti, anche europei47. Questa condizione di democraticità potrebbe forse, e almeno in parte, recuperarsi, ad esempio, prevedendo che l’eventuale decadenza sancita all’interno di un partito venga poi sottoposta ad una ratifica a più ampio raggio che coinvolga tutti i titolari del diritto di voto48.

In senso più ampio, ragionando sulla procedura di revoca “ordinaria”, vale a dire ad attivazione popolare ed “extrapartitica”, una soluzione interpretativa al problema della rappresentanza – “intermedia” rispetto alle interpretazioni che nel tempo sono state date del stesso e che potrebbe tra l’altro lasciare aperta la strada all’introduzione di meccanismi di revoca anche negli ordinamenti che prevedono il divieto di mandato – potrebbe essere riconoscere che il voto origina non un rapporto di delega in senso proprio, ma piuttosto una relazione fiduciaria, la cui tutela pure potrebbe apprestarsi attraverso la previsione di vere e proprie fattispecie costituzionalmente e politicamente rilevanti49. Il concetto di fiducia ben si legherebbe a mio avviso al principio di responsabilità, centrale per la dinamica rappresentativa. Esso, inoltre, potrebbe servire a spiegare la relazione di derivazione/dipendenza che si istaura tra l’eletto, gli elettori e il partito, secondo gli schemi propri della continuità/circolarità di cui sopra50.

In una prospettiva de iure condendo, la rilettura in chiave fiduciaria del mandato porterebbe a liberare il fiduciario dal vincolo di istruzioni specifiche e rigide, proprie della delega in senso giuridico-privatistico, imponendogli una duplice “aderenza”, politico-partitica e costituzionale: a) nel primo senso, all’attuazione del programma politico del partito di appartenenza cui, nei suoi tratti essenziali, dovrebbe conformarsi per non alterare il principio di sovranità popolare51; b) nel secondo senso, al sistema dei valori sotteso alla Carta costituzionale, la cui violazione – anche dovuta a comportamenti ritenuti indegni ai sensi dell’art 54 Cost.52 – potrebbe divenire oggetto di apposite procedure di controllo.

In questa stessa prospettiva merita un ulteriore accenno anche il problema dei motivi della revoca, cui ho infra fatto riferimento. A mio avviso, come in parte già enunciato, l’unica via percorribile per un’eventuale introduzione del meccanismo della revoca nel nostro ordinamento potrebbe essere quella della previsione di un istituto politico a cause giuridiche. Se, infatti, di natura politica devono considerarsi gli effetti che la revoca è in grado di produrre, non solo perché tale è il rapporto rappresentativo entro cui essa può prodursi e giustificarsi ma anche per le conseguenze che la sua attivazione determina a livello istituzionale, propriamente giuridiche, o giuridicizzate, dovrebbero essere le sue ragioni giustificative. Tale giuridicità dovrebbe esprimersi in due aspetti: da un lato dovrebbe prevedersi un elenco tassativo di condotte o circostanze tipizzate, conoscibili a priopri e non del tutto sovrapponibili a fattispecie di reato, al ricorrere delle quali i cittadini potrebbero legittimamente promuovere la petizione di revoca; dall’altro, la disciplina dell’istituto della revoca non dovrebbe prescindere dalla previsione di adeguate garanzie giurisdizionali sia in favore del targeted officer, per il caso in cui sia violato il suo diritto di difesa, sia in favore dei cittadini laddove siano lesi i loro diritti partecipativi.

In conclusione, se è indubbio che oggi più che mai, sia necessario immaginare meccanismi nuovi mediante i quali far valere la responsabilità dei rappresentanti eletti, tuttavia, pensare tali innovazioni al di fuori della cornice costituzionale, e anzi in opposizione ad essa, significherebbe non solo attentare alla tenuta del sistema ma anche “sparare a vuoto”, trattandosi di tentativi vani perché privi di efficacia giuridica. Né tanto meno può pensarsi che sia sufficiente l’effetto (populistico?) di un presunto coinvolgimento dell’opinione pubblica, prodotto dal semplice sventolare la bandiera partecipativa di un recall, senza una precisa e rigorosa disciplina giuspublicistica. Non è l’emotività a guidare i cambiamenti di lungo periodo né a radicarli.

Al di là di ogni considerazione di stampo propriamente giuridico, ritengo che l’aspetto più preoccupante/inquietante della proposta del M5S sia rappresentato dall’accettazione tacita – da parte degli aderenti allo stesso e dei suoi candidati – dell’idea che il “diritto di revoca” possa seguire logiche diverse rispetto al “diritto di voto”, specie quanto alle condizioni soggettive che ne legittimano l’esercizio e, quindi, quanto all’estensione del suo riconoscimento.

Il diritto di revoca, come si è cercato di argomentare, è l’altra faccia del diritto di voto e solo in questa luce potrebbe correttamente interpretarsi il suo collocarsi ed operare entro la relazione rappresentativa. Per ciò, ove venisse introdotto, la sua “titolarità” non potrebbe che coincidere con quella del diritto di voto, essendo inimmaginabile opporre ad esso limiti e condizioni ulteriori. Per converso, credo che permangano due tentazioni striscianti entro il M5S: da una parte, quella di pensare l’azione dei suoi rappresentanti come un fatto privato, che inizia ed esaurisce i suoi effetti entro il MoVimento e solo a vantaggio dei suoi aderenti, e dall’altra, quella più subdola, di percepirsi non solo come forza politica in opposizione alle forze tradizionali, ma anche come pars melior dei cittadini in opposizione ai cittadini stessi, per cui solo gli iscritti avrebbero diritto a pronunciarsi sui suoi candidati/eletti.

Il caso qui brevemente esaminato rappresenta l’ennesima dimostrazione del fatto che le buone intenzioni, se non accompagnate da diritto e ragionevolezza, non bastano. La vera essenza, e forse anche la potenza, della politica nell’età della democrazia a suffragio universale risiede, dal mio punto di vista, nella capacità di superare gli egoismi, di smussarli per ricomporli in unità comunitaria. Proprio per questo gli eletti non dovrebbero mai essere intesi come “proprietà” di un partito, di un gruppo politico, professionale o locale, divenendo una volta scelti, indipendentemente dalla loro appartenenza, i missionari di un impegno pro omnes. Questo il limite di ogni forma, esplicita o implicita, di neo-corporativismo.

Tutto ciò premesso, resta ad ogni modo fuor di dubbio che la revoca del mandato costituisca uno strumento partecipativo, se non proprio, almeno compatibile con i sistemi rappresentativi: essa, infatti, altro non è che un mezzo di valutazione della resa della relazione rappresentativa, che trova la sua prima fonte di legittimazione nel voto53. La revoca presuppone la rappresentanza, anzi ne è figlia54. Tuttavia – per poter funzionare senza troppi rischi demagogici – il suo riconoscimento in forma piena dovrà passare, paradossalmente, dall’abbandono di uno dei princîpi cardini, o feticci, della democrazia contemporanea classica, vale a dire il principio di sovranità popolare55. Gli elettori, infatti, possono disporre del potere di revoca non in quanto titolari di un vero potere sovrano, ma in quanto fonte materiale di legittimazione del potere dei rappresentanti e custodi “diffusi” della Costituzione, unico vero sovrano degli ordinamenti liberaldemocratici56. La revoca popolare potrà, pertanto, dirsi legittima solo in virtù della decisione costituente in forza della quale i cittadini hanno dismesso la loro sovranità in favore della Costituzione e istaurato con gli eletti una relazione fiduciaria57.

L’eventuale introduzione, adeguatamente disciplinata, di una revoca renderebbe effettivo il potere di controllo dei cittadini, attivando il circuito di responsabilità/responsività. Non condivisibile appare, in tal senso, la posizione di quanti ritengono che la revoca sia sintomo di un andamento patologico o addirittura del fallimento della democrazia rappresentativa: anche laddove le elezioni potessero garantire effettivamente la scelta dei migliori, il riconoscimento ai cittadini della possibilità di disporre di uno strumento di controllo nei confronti dei loro eletti resta, a mio avvio, indispensabile per mantenere vivo e vitale il collegamento tra società civile e politica di cui si nutre ogni sano governo democratico58.

 

Fac-simile lettera di impegno firmata da candidati del M5S per le elezioni europee.

 

A Beppe Grillo

nella sua qualità di Presidente del MoVimento 5 Stelle

e del Comitato Promotore Elezioni Europee MoVimento 5 Stelle

c/o Comitato Promotore Elezioni Europee MoVimento 5 Stelle

Via Vittor Pisani 24

20124 Milano

Io sottoscritto ____________________________, nato a ___________, in data _____________ residente a _________________________ Codice fiscale ________________

PREMESSO CHE

– sono iscritto al MoVimento 5 Stelle, di cui condivido i valori;

– conosco, ed ho accettato, le regole per la selezione dei candidati e la formazione delle liste di candidati che saranno presentate sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle alle elezioni europee 2014;

– ho proposto la mia candidatura nella lista circoscrizionale _______ del M5S, che, a seguito della votazione in rete, mi è stata accordata;

– sono consapevole che il MoVimento 5 Stelle mette a disposizione gratuitamente il proprio sistema operativo in rete e l’organizzazione di supporto per la presentazione delle candidature sotto il proprio simbolo esclusivamente a favore dei cittadini iscritti al MoVimento 5 Stelle che si riconoscano nei suoi valori e si siano impegnati a rispettare incondizionatamente le sue regole;

– ho sottoscritto il “Codice di comportamento per i candidati del MoVimento 5 Stelle alle elezioni europee e per gli eletti al Parlamento europeo” che […] mi sono impegnato a rispettare;

– detto “Codice di comportamento” prevede l’obbligo di dimissioni dalla carica per gli eletti che, durante l’espletamento del mandato, dovessero subire una condanna penale, anche in primo grado, o dovessero essere ritenuti gravemente inadempienti, a seguito dell’espletamento della procedura in rete prevista dal “Codice di comportamento”, dagli iscritti al MoVimento 5 Stelle aventi residenza nella circoscrizione elettorale di presentazione della candidatura;

– sono conscio che l’accettazione della candidatura, secondo i princîpi che ispirano il MoVimento 5 Stelle, suppone la sussistenza, per tutta la durata del mandato, del rapporto fiduciario con la base elettorale di riferimento e l’impegno del candidato a mantenerlo.

Tutto ciò premesso, e per l’ipotesi in cui, essendo risultato eletto, ed essendosi verificata una delle fattispecie cui è correlato dal “Codice di comportamento” l’obbligo di dimissioni, non rispettassi tale obbligo

MI IMPEGNO IRREVOCABILMENTE

a versare al Comitato Promotore Elezioni Europee MoVimento 5 Stelle la somma di € 250.000,00 a semplice richiesta del Presidente del MoVimento 5 Stelle indicante gli estremi della condanna penale e/o gli esiti della votazione in rete di approvazione della dichiarazione di grave inadempienza. Il versamento verrà da me effettuato entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta del Presidente del MoVimento 5 Stelle esclusa ogni eccezione e senza oneri di documentazione o altra prova da parte Vostra, semprechè, nel frattempo, non mi fossi dimesso.

_________, lì ___________

Firma autenticata da notaio

 

*Phd candidate, Corso di perfezionamento “Individual person and legal protections”, curriculum “Tutela costituzionale della persona e delle formazioni sociali”, presso Scuola Superiore di studi universitari e Perfezionamento Sant’Anna, Pisa ().

1 Il riferimento è, in particolare, ai lavori della Seconda Sottocommissione (ordinamento costituzionale dello Stato) operante entro l’Assemblea costituente, i cui verbali sono ora facilmente consultabili in http://legislature.camera.it/.

2 Sulla definizione degli enti locali come strumenti partecipativi si veda, in particolare, Corte costituzionale, sent. n. 106/2002: «in base all’art. 1 non ci sono luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale in cui la sovranità si insedia esaurendosi; i suoi modi di svolgersi permeano l’intera intelaiatura costituzionale, si rifrangono in una molteplicità di situazioni e istituti, assumono la loro configurazione ricomprendendo anche il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali».

3 Per tutti U. Allegretti, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, in Dem. e dir., n. 2/2008, 180 ss., ma anche dello stesso A., Basi giuridiche della democrazia partecipativa in Italia: alcuni orientamenti, in Dem. e dir., n. 3/2006, 151 ss.

4 La sovranità popolare deve esprimersi «nelle forme e nei limiti» segnati dalla Costituzione, il che significa ammettere nella nostra democrazia l’esistenza di una dimensione, o cornice, sostanziale necessitata che si identifica con i valori costituzionali.

5 Lo stesso articolo si riferisce, più specificamente, alla partecipazione dei lavoratori, notazione da leggersi in combinato disposto con l’art. 4 Cost. che delinea la doppia natura del lavoro, oggetto insieme di un diritto e di un dovere. Il lavoro “dovuto” cui si riferisce la Costituzione ricomprende ogni contributo materiale e spirituale che ciascun soggetto sia in grado di dare, ed è il fondamento dell’intero impianto democratico (art. 1 Cost.) perché l’impegno del soggetto per contribuire alla crescita della propria comunità, la sua partecipazione materiale e spirituale alla stessa, diventa un’integrazione della partecipazione politica. Sul punto, per tutti, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali. Relazione al XXVIII Convegno annuale dell’Aic, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, n. 4/2013, 18.

6 La definizione del rapporto tra sussidiarietà e partecipazione costituisce un tema ancora dibattuto in dottrina. Mi sembra, tuttavia, che non sia possibile negare che tali princîpi abbiano una natura “complementare” condividendo uno stesso presupposto – ossia la necessità che l’interesse generale non sia rimesso al monopolio dello Stato e dei partiti, ma affidato anche solo parzialmente alla collettività – pur esprimendosi essi su piani diversi: dell’azione, la sussidiarietà, e della deliberazione in senso ampio, la partecipazione. In questa prospettiva la sussidiarietà in forma orizzontale diventa una specificazione della partecipazione, intesa come agire concreto sul territorio passando da canali di natura essenzialmente privatistica e, dunque, estranei ai circuiti decisionali propriamente politici. Per questo potrebbe anche dirsi che la partecipazione è il presupposto generale degli interventi sussidiari ipotizzati nell’art. 118, co. 4, Cost.

7 Sono propri di questa terza fase i progetti integrati di sviluppo locale, i gruppi di azione locale, i patti territoriali, le c.d. Agende 21 locali che hanno preso avvio dall’Agenda 21 stilata durante il Summit di Rio del 1992 ove la partecipazione ai processi decisionali venne posta quale requisito fondamentale per la realizzazione dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile. Sulle radici e sulle principali tappe storiche della partecipazione in Italia si veda G. Paba, Partecipazione, deliberazione, auto-organizzazione, conflitto, in Aa.Vv., Partecipazione in Toscana. Interpretazioni e racconti (Strumenti per la didattica e la ricerca), Firenze University Press, 2009, 15 ss.

8 Tal tipo di partecipazione è stata qualificata “tecnica” poiché essa si espresse nello sviluppo di pratiche e processi decisionali che mettevano in campo competenze tecnico-specialistiche (ad es. ambientali ed urbanistiche) avendo delle ricadute pratiche nel quotidiano dei cittadini, nel loro modo di vivere il proprio quartiere, gli spazi lavorativi, il proprio territorio di appartenenza.

9 Il concetto di circolarità è qui impiegato similmente a quello di continuità di cui si serve N. Urbinati per definire la dinamica che si istaura tra società civile e Stato per mezzo dello strumento elettorale, in virtù della quale i cittadini possono riconoscersi titolari del potere di controllo sugli eletti. Cfr. N. Urbinati, Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri, Donzelli, Roma, 2010, 27 ss. Sulla formalizzazione delle pratiche partecipative si veda P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino, 2006, 72: «se la partecipazione non assume forme solide, realizzabili e costanti tutto il gran parlare di empowerment resterà poco più che una presa in giro».

10 Il potere che qui denomino di controllo può a mio avviso accostarsi alla funzione assegnata da N. Urbinati (op. cit., 29 ss.) alla facoltà di giudizio, in opposizione all’azione/volontà, trattandosi di un attributo del potere sovrano del popolo, secondo una re-interpretazione moderna dello stesso. L’interpretazione qui data al modo di ripartirsi di giudizio e volontà è opposta a quella rousseuniana che ricollegava il primo ai saggi/magistrati, delegati del popolo, e identificava nella seconda la prerogativa dei cittadini.

11 Il modello ibrido della democrazia semi-rappresentativa è stato oggetto di un’interessante teorizzazione proposta da M. Luciani in Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, intervento al Convegno “Esposito, Crisafulli, Paladin. Tre costituzionalisti nella cattedra padovana”, Padova 19-21 giugno 2003. Vicino a tale modello, immaginato con riferimento all’interazione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, è quello proposto da N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, 46, che in merito parla piuttosto di democrazia integrale. Appare, invece, insufficiente – nella prospettiva da me assunta – il modello della c.d. democrazia di prossimità tanto caro alla letteratura francese giacché esso, pur valorizzando correttamente la dimensione locale e micro-locale quale dimensione ottimale per i processi democratici, costituisce una semplice variante in scala della democrazia rappresentativa, non prevedendo meccanismi di empowerment della cittadinanza, ma costruendosi esclusivamente attraverso processi top down. Sul punto Y. Sintomer, A. Röcke, Il bilancio partecipativo nei licei di Poitou-Charentes: verso una democrazia partecipativa?, in Dem. e dir., n. 4/2006, 58.

12 Art. 7, sez. III, Cost. Francia, 1791: «i rappresentanti nominati nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma della Nazione intera, e non si potrà dar loro alcun mandato». In generale sull’esperienza francese A. Barbera, Rappresentanza e diritti di partecipazione nell’eredità della Rivoluzione francese, in Aa.Vv., Nuove dimensioni nei diritti di libertà, Scritti in onore di Paolo Barile, Cedam, Padova, 1990, 33 ss.

13 Mi riferisco, ovviamente, ai noti “libretti di istruzioni” che gli elettori consegnavano ai rappresentanti designati, fornendo loro le indicazioni sui comportamenti da tenere, pena la revoca del mandato. Gli eletti erano così costretti a fare continuo ricorso (ad audiendum et referendum) ai loro elettori per ricevere istruzioni e mandati specifici sulle questioni che emergevano, esaurendosi il loro ruolo in quello di semplici delegati, posto che il potere di sintesi e quello di decisione rimanevano di competenza esclusiva del Re.

14 Tale impostazione, però, riprese poi forma nel pensiero di Lenin per il quale i funzionari dello Stato dovevano essere ridotti a meri esecutori dell’incarico affidato loro dal popolo, sorveglianti e contabili, responsabili e revocabili, al servizio della rivoluzione proletaria, anche se a ben vedere la revoca veniva in realtà piegata dai vertici di partito a proprio vantaggio per disfarsi di indesiderati antagonisti. Cfr. V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione, 1917, disponibile in www.ousia.it, 21 o anche V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione. Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965, 867ss. Di questa impostazione si ritrova traccia anche nel Progetto di programma del PCR(B), 18-23 marzo 1919, sempre a sua firma, in cui esplicitamente si riconosce il diritto degli elettori di revocare i propri eletti. Per il testo completo di tale progetto si veda www.marxists.org/italiano/lenin/1919/3/progprog.html. Interpretò diversamente il mandato rappresentativo nei termini di una procura straordinaria di derivazione popolare, E. J. Sieyès, Opere e testimonianze politiche, tomo I: scritti editi, trad. it. a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffré, Milano, 1993, 209 ss.

15 Sul punto D.G. Bianchi, Èlite in crisi. La revoca degli eletti in democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012, 27 ss., che richiamando l’insegnamento di J. Bodin secondo cui il sovrano è tale se è libero nell’esercizio del suo potere di governo, afferma che, ancorché chiamati rappresentanti, gli eletti altro non sono che sovrani, liberi da ogni mandato, espressione della nuova èlite politica dell’età moderna. Sulla natura fittizia dell’indipendenza istaurata con il libero mandato per nascondere l’abietta soggezione a tutti i governi degli eletti, si veda K. Marx, La guerra civile in Francia, trad. it. a cura di G. M. Bravo, Newton Compton, Roma, 1973, 112 ss. Sulle controversie da sempre implicite alla relazione rappresentativa di tipo politico, H.F. Pitkin, La controversia mandato-indipendenza, in Aa.Vv., La rappresentanza politica, a cura di D. Fisichella, Giuffrè, Milano, 1983, 185 ss.

16 Il richiamo al concetto di interesse generale è da intendersi in questa sede in senso ampio, volendosi con esso rinviare agli schemi classici di interpretazione dell’azione politica entro la democrazia rappresentativa, per i quali gli eletti sono investiti del potere di rappresentanza per la soddisfazione di un interesse che fa capo ad un’entità pluripersonale, il popolo, titolare in forma unitaria della sovranità. Tale collegamento tra l’azione dei parlamentari e la realizzazione dell’interesse generale opera come un “Giano bifronte”, immagine utilizzata da G. Sartori, Democrazia e definizioni, Appendice, Il Mulino, Bologna, ed. VIII, 1989, 356 ss.: nell’impegnarsi per il perseguimento di tale interesse, gli eletti rappresentano i cittadini presso lo Stato e lo Stato presso i cittadini.

17 La libertà dei rappresentanti deriverebbe dal fatto che essi non sono espressione degli elettori singolarmente considerati, ma di un’entità unitaria e astratta, la Nazione appunto, che in sé non esiste, il che li slegherebbe dai legacci della dipendenza da una qualsiasi entità reale. Sul punto, per tutti, si veda G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, trad. it. a cura di S. Forti, Giuffrè, Milano, 1989, 41 ss. e 359, per il quale il rappresentante è autonomo perché rende presente ciò che è assente, reale ciò che in natura non esiste: la Nazione.

18 Il riferimento è in tal caso soprattutto all’esperienza della Comune di Parigi che vide la luce nel 1871, entro la quale come lo stesso Lenin, suo sostenitore, ebbe modo di evidenziare, non furono soppresse le istituzioni rappresentative ma si contestò il parlamentarismo come sistema a salvaguardia delle prerogative e dei privilegi dei deputati. La teorizzazione del mandato imperativo era stata ad ogni modo ripresa già prima, durante la svolta giacobina successiva alla proclamazione della Repubblica (1792) e alla decapitazione di Luigi XVI: basti pensare al famoso discorso sulla Costituzione pronunciato da M. de Robespierre alla Convenzione del 10 maggio del 1793 ove egli, riaffermando con forza il principio della sovranità popolare, arrivò a sostenere che i rappresentanti eletti dal popolo potessero da questi sempre essere revocati, essendo la revoca un diritto “imprescindibile” del popolo. Evidente, nelle parole di Robespierre, il segno del pensiero di Rousseau e della sua idea di inalienabilità della sovranità. Il discorso qui richiamato era stato preceduto nell’aprile dello stesso anno dalla redazione di un progetto legislativo il cui art. 14 lasciava intravedere anche la possibilità di una responsabilità penale degli eletti da attivarsi mediante l’esercizio del potere di revoca. L’esperienza della Comune di Parigi ha, ad ogni modo, costituito il modello (purtroppo solo ideale) di riferimento per alcune delle costituzioni sovietiche dei primi del Novecento. Sul punto, per tutti, K. Marx, La guerra civile in Francia (1870-71), Ed. Acrobat, in www.ousia.it, il quale riformula la teoria del mandato imperativo associandolo alla previsione della revocabilità degli eletti come strumento per far valere la loro responsabilità. Più in generale sulle sorti della rappresentanza politica in Francia, P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Il Mulino, Bologna, 2008.

19 La distinzione qui richiamata rappresenta, a ben vedere, uno dei punti fermi dell’elaborazione teorica di J.J. Rousseau, che pur con sfumature diverse considerò sempre valida la contrapposizione delega/rappresentanza, ritenendo che la prima potesse essere legittima solo nella misura in cui si fosse conservata distinta dalla seconda e che la loro differenza si esprimesse nel fatto che la delega, escludendo qualsiasi forma di decisione definitiva da parte dei delegati, si traduceva in un esercizio diretto, ancorché con mezzi indiretti, del potere sovrano, mentre la rappresentanza ne comportava sempre e comunque l’alienazione. Sul punto interessante il percorso sul pensiero di J.J. Rousseau proposto da N. Urbinati, op. cit., 203 ss.

20 Vedi V. E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Barbera editore, Firenze, 1920, 88 ss. Resta vero che quale che sia il mandante – elettori o partito – occorre in ogni caso evitare di derivare automaticamente dall’esistenza di un mandato la sua vincolatività: non ogni mandato è di per sé imperativo, e il divieto che la dottrina costituzionalistica ha teorizzato attiene, di fatto, solo a quello imperativo.

21 Il riferimento è, tra gli altri, allo svizzero abberufungsrecht tardo-ottocentesco e agli esperimenti dei Länder di Baden, Bavaria, Brumen, Brunswick, Lippa, Mecklenburg- Schwerin, Oldenburg, Saxon and Thuringia dei primi del ’900; all’art. 3 della Costituzione sovietica del 1977 (in linea per altro con le precedenti versioni del 1918, 1925 e 1936); agli artt. 56 e 57 della Costituzione della Repubblica Democratica Tedesca del 1974. Fuori dai confini europei, si pensi ai 19 Stati americani che oggi lo prevedono a livello costituzionale; all’art. 145 della Costituzione della Repubblica di Panama del 1972 che attribuisce ai partiti la possibilità di revocare il mandato secondo le disposizioni dei loro statuti; agli artt. 29 e 35 della Costituzione cinese del 1978 che disciplinano, in combinato, la revoca del mandato; o all’art. 66, lett. b) e c), della Costituzione cubana del 1976; all’art. 40 della Costituzione colombiana del 1991 e all’art. 31 della Costituzione peruviana del 1993; alla Costituzione della Repubblica Sudafricana del 1996 che ammette la revoca del mandato quale misura atta ad assicurare i princîpi di responsabilità e trasparenza su cui l’intero ordinamento democratico si fonda ex art. 1; al più recente caso della British Columbia canadese; all’art. 70 della Costituzione venezuelana e all’art. 61 della Costituzione ecuadoriana del 2008. Sul punto si veda, inoltre, la teorizzazione di H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1984, 82, il quale riconosce che ogni relazione rappresentativa per potersi dire “vera” presuppone tanto la regola del mandato imperativo quanto la predisposizione di meccanismi atti a garantire che il mandato sia rispettato, quale il recall, ma proprio per questo richiamandosi alla necessaria indipendenza legale degli eletti dagli elettori, esclude che un tal tipo di rappresentanza sia compatibile con la sovranità popolare.

22 Sulla non rappresentatività dei partiti di massa si veda G. Leibholz, op. cit., 334, il quale arriva a sostenere che le democrazie del XX sec. non possano definirsi propriamente rappresentative, essendo stata la relazione rappresentativa sostituita da una di tipo identitario agevolata proprio dai partiti di massa. Interessante la ricostruzione sul punto di M. Luciani il quale interpreta la crisi del partiti come crisi del soggetto rappresentato prima ancora che del rappresentante: M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in Aa.Vv., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon, F. Biondi, Giuffré, Milano, 2001, 109 ss., disponibile anche in http://documenti.camera.it/bpr/9588_testo.pdf.

23 Il ruolo giocato a tal proposito dai vertici di partito non rappresenta in realtà una novità degli ultimi anni. Si pensi alla riflessione sul punto di T. Martines, Partiti, sistemi di partiti, pluralismo, in Studi parl. e di pol. cost., nn. 43-44/1979, 9 ss.

24 L’espressione “partiti pigliatutto”, ormai entrata nel linguaggio politologico comune, è ascrivibile a O. Kirchheimer, La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale, in Aa.Vv., Sociologia dei partiti politici, a cura di A. Sivini, Il Mulino, Bologna, 1971, 177 ss. Definisce il mandato di partito come un dato di fatto di cui prendere atto, J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica¸ Laterza, Roma-Bari, 1977, 244.

25 Sul punto particolarmente vigorosa fu la presa di posizione di C. Esposito, il quale già in uno scritto del 1952 (I partiti nella costituzione italiana, in Aa.Vv., Studi di diritto costituzionale in memoria di L. Rossi, Giuffrè, Milano, 1952, 133) affermava che «una Costituzione legale adeguata alla realtà dovrebbe abbandonare le finzioni delle assemblee legislative composte da liberi deputati […] e riconoscere che nella comunità statale il potere di direzione politica spetta ai partiti».

26 Cfr. N. Bobbio,op. cit., 50. L’iniziale applicazione delle categorie proprie del diritto privato in questo settore del diritto pubblico determinò gli eccessi interpretativi che irrigidirono per lungo tempo lo studio del mandato politico: chi, infatti, era contrario al configurarsi del mandato imperativo in capo agli eletti finiva con l’escludere ogni forma di delegazione a loro vantaggio; chi diversamente riteneva che un mandato comunque intercorresse non poteva far altro che considerarlo vincolante secondo l’insegnamento del diritto privato. Sul punto v. A. Spadaro, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parl. e di pol. cost., n. 67/1985, 23, che – approfondendo la distinzione, soprattutto tedesca, fra mandato in senso privatistico e pubblicistico – invece immagina l’esistenza di un “mandato”, ma non vincolante. Sulla necessità di non sovrapporre le due sfere del diritto, per tutti, P. Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 1948, 164 ss. Si avvicina ad una rappresentanza di tipo corporativo anche se su basi diverse, il tipo di partecipazione promosso dal Libro bianco sulla Governance europea del 2001, ove si fa riferimento all’attivazione della società civile organizzata per categorie.

27 Da questo punto di vista, se il mandato di partito rinvia ad un’idea di rappresentanza quasi neo-corporativa perché strumentale ai soli interessi della classe politica o comunque del partito di appartenenza, non può non segnalarsi un altro fenomeno tipico degli ultimi decenni che pure sembra esprimere una controtendenza a vantaggio di una rappresentanza fortemente personalizzata che riguarda il singolo eletto più che il partito entro cui egli si inserisce, vale a dire il fenomeno della mobilità parlamentare. Sul punto, per tutti, S. Curreri, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, University Press, Firenze, 2004, 16. Interessante lo studio condotto da D. Sossi, L’efficienza del caso, in Le scienze, gennaio 2013, 90, dal quale risulta come la scarsa indipendenza dei deputati rispetto alle indicazioni di partito incida sull’efficienza delle leggi approvate in Parlamento in termini di promozione del benessere sociale. La via per accrescere tale efficienza potrebbe, a mio avviso, essere quella del recupero della base democratica dei partiti politici e della riattivazione della loro funzione di interpreti del benessere, dei desideri e degli interessi della società che rappresentano. L’A. diversamente prospetta come soluzione per l’inefficienza soprarichiamata l’introduzione di un meccanismo misto di selezione dei deputati, in cui selezione casuale ed elezioni si combinino insieme. In tal modo sarebbe garantita, almeno per la quota dei sorteggiati, la loro indipendenza rispetto alle dinamiche di partito.

28 Sulla funzione originaria del recall negli ordinamenti nord-americani si vedano N. A. Persily, The peculiar geography of direct democracy: why the initiative, referendum and recall developed in the american west, in Michigan Law & Policy Review, vol. 2, 1997, 18, e H. S. Swann, The use of the recall in the United States, in Aa.Vv., The initiative, referendum and recall, W. Munro ed., New York, 1912, 298: «in particular, the recall express[ed] the idea that a public office is so vitally affected with the public interest that when its occupant ceases to perform his duties to the interests of the community his official tenure may be terminated. The recall is based on the theory that the people must maintain a more direct and elastic control over their elected officials».

29 L’iscrizione al MoVimento può effettuarsi mediante due siti (http://www.movimento5stelle.it/ o https://sistemaoperativom5s.beppegrillo.it/) distinti rispetto al blog di B. Grillo. Ai fini del suo perfezionamento è richiesto l’inserimento di alcuni dati personali (nome, cognome, email, numero di cellulare) e l’allegazione della carta di identità digitalizzata, il cui controllo di “autenticità” è svolto, in back, da un operatore della società Casaleggio Associati, in seguito al quale avviene il rilascio della certificazione.

30 Si rileva, incidenter, che B. Grillo – mentre nella lettera di impegno, di cui alla fine del presente lavoro è allegato un fac-simile, è definito “Presidente del MoVimento” – all’interno del Codice di comportamento è denominato “Capo” e gli è riconosciuta la titolarità di alcuni poteri propriamente direttivi. In particolare, nel paragrafo denominato “Gruppo politico”, si prevede che la costituzione in seno al Parlamento europeo di un gruppo politico con deputati di altri Paesi possa avvenire solo su proposta di B. Grillo «in qualità di capo politico del M5S, ratificata tramite votazione in Rete da parte degli iscritti al M5S» (c.vo mio). Quale ulteriore attribuzione di competenza al “capo” nel Codice di comportamento si stabilisce che: «ogni deputato si impegna a prescegliere e designare due dei predetti assistenti di propria competenza fra i soggetti indicati come componenti del “gruppo di comunicazione M5S” da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio», o ancora, sempre con riferimento ai gruppi di comunicazione, che «la consistenza del “gruppo di comunicazione”, in termini di organizzazione, strumenti, scelta dei membri e del coordinatore, sarà definita da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio». La stessa previsione era stata già introdotta per i gruppi di comunicazione dei parlamentari eletti alla Camera o al Senato. Tali disposizioni si commentano da sé e fanno impallidire le pur legittime critiche di “personalizzazione” cui sono oggi soggetti i partiti tradizionali, segnatamente il PD (per l’assertiva “onnipresenza” di M. Renzi) e FI (per il carattere “proprietario” che sembra legare il leader S. Berlusconi a tale forza politica).

31 Tale modello fu già utilizzato dal MoVimento in occasione delle elezioni per l’Assemblea regionale siciliana, imponendo ai candidati la presentazione di dimissioni in bianco che avrebbero dovuto considerarsi sempre valide anche laddove nel frattempo la volontà dei consiglieri eletti si fosse modificata. Sul punto venne presentata alla Camera dei deputati apposita interrogazione n. 3-02562 del 25 ottobre 2012, in www.camera.it.

32 Art. 1987 c.c.- Efficacia delle promesse: «La promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge»; art. 1988 cc.-Promessa di pagamento e ricognizione di debito: «La promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale. L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria».

33 Esso dispone che: «i membri del Parlamento europeo votano individualmente e personalmente. Non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere mandato imperativo».

34 Quanto all’efficacia della decisione europea può essere utile ricordare che essa costituisce un atto obbligatorio in tutti i suoi elementi e dai destinatari individuati o individuabili, siano essi Stati membri, persone fisiche o persone giuridiche, adottata per intervenire su specifiche situazioni (art. 288 TFUE). Pur richiedendo ordinariamente un atto interno di recepimento, le decisioni possono essere tuttavia direttamente applicabili alle stesse condizioni previste per le direttive. Il loro regime di efficacia si specifica diversamente a seconda che sia loro attribuito carattere legislativo o non legislativo. In caso di mancata esecuzione da parte degli Stati membri la Commissione potrà esperire la procedura di infrazione per violazione del Trattato come disposto dall’art. 258 TFUE.

35 Si interroga sulla conciliabilità di tale divieto con l’assenza di un vero e proprio demos europeo, F. Laudani, Rappresentanza europea, gruppi parlamentari e deficit democratico, in www.forumcostituzinale.it, 24 marzo 2011, 3. L’A., in particolare, considera il suddetto divieto incomprensibile entro l’ordinamento europeo data l’attuale assenza di una volontà generale europea, come quella della Nazione richiamata dall’art. 67 della nostra Costituzione, alle cui esigenze rappresentative si è storicamente ancorato il funzionamento del divieto di mandato imperativo: «mentre negli ordinamenti interni il divieto di mandato imperativo “costituisce la logica conseguenza e la pratica attuazione del principio della rappresentanza nazionale”, nell’ambito dell’Unione ˗ non essendovi un popolo europeo da rappresentare ˗ esso assume per così dire una mera funzione di garanzia delle condizioni minime di autonomia del parlamentare europeo da ogni forma di condizionamento da parte di interessi nazionali e lobbistici, che […] continuano tuttavia ad esercitare un’influenza molto forte sulle scelte del Parlamento europeo».

36 Questa l’indicazione contenuta nell’art. 14 del TUE secondo cui «il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell’Unione». Per una ricostruzione delle principali questioni aperte sul sistema rappresentativo europeo e sugli esiti e la disciplina delle elezioni europee si vedano, tra i tanti, D. Del Gaizo, Elezioni europee o nazionali? Riflessioni sul voto e sulla cittadinanza europea, in Aa.Vv., Le elezioni del Parlamento europeo del 2009, a cura di B. Caravita, Iovene, Napoli, 2009, 14ss.; A. Ciancio, I Partiti politici europei e il processo di democratizzazione dell’Unione, in www.federalismi.it, n. 9, 6 maggio 2009, 2.

37 Per approfondire sulle vicende, sulla consistenza e l’azione dei partiti europei e sulla composizione dei gruppi entro il Parlamento, si segnalano, tra i tanti: V. Lippolis, I Partiti Politici Europei, in Rass. Parl., n. 4/2002, 945; S. Baroncelli, I gruppi parlamentari nell’esperienza del Palamento europeo, in Aa.Vv., Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, a cura di S. Merlini, Giappichelli, Torino, 2001, 8; E. Gianfrancesco, I limiti alla costituzione di gruppi politici all’interno del Parlamento europeo, in Dir. Pubbl. comp. Eur., n. 1/2002, 281; V. Vanacore, La crisi della democrazia rappresentativa fra ordinamento interno e comunitario. In particolare, i partiti politici europei, in www.amministrazioneincammino.luiss.it.

38 F. Laudani, op. cit., 10-11. Per una diversa interpretazione dell’“affinità politica” già G. Guidi, I gruppi parlamentari del Parlamento europeo, Maggioli, Rimini, 1983, 34-35, il quale considera tale requisito un’efficace argine rispetto al possibile emergere di gruppi di interesse forti, siano essi di carattere neo-corporativo o nazionalisti.

39 La soluzione più ragionevole potrebbe forse essere quella che combina istruzioni generali e addebiti specifici, per cui l’eletto riceve indicazioni di indirizzo e viene poi giudicato in relazione a condotte particolari, individuate a priori, che appaiono in contrasto con quelle indicazioni. Naturalmente la procedura, e le connesse garanzie, sono molto complesse ed esigerebbero approfondimenti impossibili in questo breve studio, ma che saranno oggetto della mia tesi di dottorato – attualmente in fase di redazione – nella quale riporterò, in particolare, gli esiti di un lavoro di ricerca svolto negli Stati Uniti.

40 La disciplina delle cause di incandidabilità al Parlamento europeo è ora contenuta nel d.lgs. n. 235 del 31 dicembre 2013 il cui art. 4 uniforma il regime dei parlamentari europei a quello previsto per i parlamentari nazionali, stabilendo che «non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia coloro che si trovano nelle condizioni di incandidabilità stabilite dall’articolo 1». Tali condizioni possono così sintetizzarsi: a) aver riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del Codice di procedura penale; b) aver riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del Codice penale; c) aver riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del Codice di procedura penale.

41 I c.d. grounds of recall rappresentano a ben vedere i limiti posti all’esercizio del potere sovrano del popolo che secondo le più risalenti teorizzazioni in materia troverebbe espressione in tale istituto. Essi sono una manifestazione di quei checks and balances che devono opporsi alla sovranità e la cui presenza fa si che si possa parlare di una democrazia costituzionale. Cfr. R. G. Brown, The judicial recall. A fallacy repugnant to constitutional government, in The Annals of the American Academy of Political and Social Science, n. 3/1912, 249. L’A. richiama a tal proposito le parole di A. Lincoln secondo cui: «a majority held in restraint by constitutional checks and limitations, always changing easily with deliberate changes of popular opinion and sentiment, is the only true sovereign of a free people. Whoever rejects it does of necessity fly to anarchy or despotism».

42 Tra gli esempi di recall propriamente politico e, quindi, sottratto ad un controllo di tipo giuridico o giurisdizionale, emblematico è il caso dello Stato di Washington in cui sul punto si registrarono, nel corso dei decenni, significative evoluzioni giurisprudenziali. Rifacendosi alla disposizione costituzionale di cui all’art. I, sez. 33 (Declaration of Rights), ove vengono puntualmente elencati i motivi che possono giustificare la revoca, assimilabili a condotte penalmente rilevanti (atto illecito, cattiva amministrazione, negligenza nell’adempimento dei doveri d’ufficio), la Supreme Court a partire dalla sent. Cudihee vs. Phelps (76 Wash. 314, 331, 136 P. 367, 373) del 1913 sviluppò un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale ai giudici competeva esclusivamente il controllo sulla sufficienza delle motivazioni, essendo rimessa al popolo ogni valutazione circa la loro veridicità o fondatezza. La Corte escluse, inoltre, l’applicabilità al procedimento di revoca del due process of law federale, garantito dal XIV emendamento. Tale posizione, se per un verso sembrò dettata da una sorta di self-restraint della Corte, dall’altro finì con l’ampliare oltre misura i confini della proponibilità del recall, sottraendolo a controlli preventivi di tipo propriamente giuridico. Essa si mantenne invariata per circa cinquant’anni, venendo rafforzata dalla sentenza Danielson vs. Faymonville del 1967 (72 Wn. 2d 854, 435 P.2d 963) con la quale la Corte arrivò ad affermare che la presenza di anche un solo motivo “sufficiente” potesse giustificare l’attivazione del recall, divenendo irrilevanti gli altri. Al fine di precisare il requisito della sufficienza, l’anno successivo con la sent. State ex rel. La Mon vs. Town of Westport (73 Wash. Dec. 2d 265, 438 P.2d 200) ritornò sul punto stabilendo due soglie minime da rispettare perché l’addebito potesse considerarsi adeguato: 1) the charges must allege malfeasance or misfeasance; 2) the allegations must be sufficiently definited. L’indirizzo in questione suscitò non poche reazioni facendo nascere la necessità di rimettere mano ad una regolamentazione della materia. A questa possibilità la Corte rispose con un cambiamento di rotta che assunse contorni più nitidi a partire dal 1984 (sent. Cole vs. Webster, 103 Wn.2d 280, 692 P.2d 799), fino ad arrivare ad etichettare come “superata” la precedente giurisprudenza sul punto, ammettendo quindi un più ampio potere di controllo delle corti sulle procedure in questione. Quali ulteriori esempi di ordinamenti che hanno attribuito una natura meramente politica alla procedura di revoca è possibile richiamare l’art. II, §8, della Costituzione del Michigan in cui è rintracciabile una delle formule più utilizzate nei casi di recall come political process, parlandosi di «sufficiency of any statement of reasons or grounds», e l’art. 1, sez. 2b, della Costituzione del New Jersey, cui ha fatto eco la giurisprudenza della Superior Court (sent. Westpy vs. Burnett, 82 N.J. Super. 239, 197 A.2d 400, 1964) escludendo che qualsiasi tipo di controllo di merito possa attivarsi sui motivi della petition for recall al di fuori di quello propriamente popolare.

43 Può essere interessante segnalare che con riferimento agli ordinamenti statali nord-americani, si è rilevato che i motivi della revoca rappresentano un significativo elemento di differenziazione tra le discipline adottate ai diversi livelli di governo. In particolare, si è riscontrata una tendenziale e progressiva indeterminatezza dei grounds of recall man mano che ci si muove dal livello di governo statale a quello locale: se le previsioni costituzionali tendono, infatti, a precisare e circoscrivere le categorie di condotte perseguibili, gli statuti locali preferiscono impiegare formule ampie che hanno negli anni consentito la proposizione di petizioni di revoca giustificate dalla sola non corrispondenza dell’azione dell’eletto all’opinione del corpo elettorale.

44 Tale notazione può essere compresa soprattutto guardando al diritto di voto non come atto puntuale che si esaurisce nel momento elettorale, ma piuttosto come diritto dalla dimensione processuale che attraverso le sue manifestazioni è in grado di coprire l’intero svolgimento del mandato elettivo fino al suo esaurimento, naturale o meno. In particolare sul rapporto tra voto elettivo e voto di revoca si veda H. S. Swann, op. cit., 29, il quale giunge ad affermare che: «the right to elect and the right to recall, each complements the other. A full and complete electoral franchise includes both». In merito interessante anche la distinzione proposta da C. Urcuyo, per il quale mentre attraverso il voto i cittadini conferiscono la legittimità d’origine all’azione dei loro rappresentanti, mediante le procedure di revoca essi si esprimono sulla legittimità di esercizio. Cfr. C. Urcuyo, Reforma política y governabilidad, Editorial Juricentro S.A., San José de Costa Rica, 2003.

45 Per il testo dell’interrogazione si veda www.senato.it.

46 Vengono, in particolare, richiamati: il rapporto “Closa Montero” su the imperative mandate and similar practices, adottato dal Consiglio per le Elezioni democratiche in occasione del suo 28° meeting internazionale tenutosi a Venezia il 14 marzo 2009, e ri-adottato dalla Venice Commission nel corso della sua 79° Seduta Plenaria svoltasi a Strasburgo il 16 giugno 2009; il rapporto “Jensen-Scholsem”sul Projet d’avissur le projet de loi “modifiant et amendant la loi relative à l’élection des membres du parlement” de la république de Serbie, CDL(2011)013, adottato a Strasburgo nel marzo del 2011 (Avis n. 619/2011); il rapporto “Kvalöy” intitolato La démocratie locale et régionale en Serbie, presentato durante la 92°Sessione Plenaria della Venice Commission, tenutasi il 12-13 ottobre 2012; il rapporto Siljanovska-Davkova e Karakamisheva-Jovanovska in tema di Democracy, limitation of mandates and incompatibility of political functions,adottato dalla stessa Commissione il 14-15 Dicembre 2012.

47 Può essere utile richiamare incidentalmente a tal proposito le riflessioni di G. Rizzoni (Demos europeo e partiti politici: l’Europa alla ricerca di un regolamento, in www.archivio.rivistaaic.it) in merito alla proposta di regolamento in materia di statuto e finanziamento dei partiti politici europei, adottata dalla Commissione in via definitiva il 21 giugno 2001. Tale proposta fu oggetto di animate discussioni entro il Consiglio risultando evidenti rispetto ad essa le divergenze esistenti tra i diversi ordinamenti nazionali in tema di statuto giuridico dei partiti politici. Per questo, in relazione alla stessa, fu sollecitato l’intervento di numerosi Parlamenti degli Stati membri, compreso quello italiano che intervenne con due pareri emessi nell’ottobre del 2001 dalle Commissioni Affari Costituzionali delle due Camere. Stando a tale proposta le condizioni richieste per il riconoscimento dello statuto di partito politico europeo (e, quindi, per accedere ai relativi finanziamenti) erano le seguenti: registrazione del partito presso il Parlamento europeo; presenza del partito in almeno tre Stati membri (c.d. requisito della transnazionalità); partecipazione alle elezioni del Parlamento europeo o dichiarazione espressa di voler partecipare a tali elezioni; deposito dello statuto che, oltre alla struttura organizzativa del partito, dimostri il rispetto da parte del partito dei princîpi di libertà, e di democrazia, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Per accedere ai finanziamenti fu inoltre richiesto ai partiti il possesso della personalità giuridica e la pubblicazione annuale di un rendiconto nel quale fossero dichiarate le entrate e le uscite e le donazioni ricevute. Come evidenzia G. Rizzoni, molte di queste condizioni si ponevano in contrasto con la disciplina dei partiti vigente in Italia o ancor più con la situazione di fatto consolidatasi, basti pensare solo all’acquisizione dello status di persona giuridica puntualmente evitata dalle nostre formazioni partitiche, o agli eventuali controlli sulla democraticità interna o dei programmi dei partiti. «E’ vero», scrive Rizzoni, «che – come la dichiarazione allegata al trattato di Nizza si è affrettata a precisare – le norme del futuro regolamento comunitario sono destinate a lasciare intatte le diverse previsioni costituzionali e legislative esistenti sui partiti nei singoli Stati membri. E’ tuttavia abbastanza evidente che la definizione di un “modello europeo” di partito politico difficilmente sarà privo di conseguenze anche per i partiti nazionali». Alcune delle previsioni contenute nella suddetta proposta si sono smorzate con l’approvazione del regolamento (CE) n. 2004/2003. La Commissione è tornata con forza sul punto con una nuova proposta del 12 settembre 2012 su cui il Parlamento europeo ha espresso parere in prima lettura il 16 aprile 2014 proponendo anche il rafforzamento della democraticità interna ai partiti mediante l’adozione di norme minime tra cui quelle volte ad introdurre forme di elezione democratica degli organi di partito e criteri chiari e trasparenti per la selezione dei candidati e l’elezione dei titolari di cariche pubbliche.

48 Emblematico in tal senso il caso della Costituzione di Panama 1972, come modificata nel 1994, che conferisce ai partiti il potere di dichiarare la decadenza dell’eletto al ricorrere di specifiche cause previamente individuate nello statuto del partito, posto che la sussistenza delle ragioni giustificative della decadenza deve essere confermata dal Tribunale elettorale (art. 151 Cost.). Si tratta di una soluzione ragionevole il cui grado di democraticità potrebbe ulteriormente innalzarsi prevedendo forme di partecipazione popolare nella fase di stesura dello statuto e quindi di determinazione delle cause di giustificazione. Un ampliamento dei soggetti legittimati si è ad ogni modo registrato con la l. n. 60 del 29 dicembre 2006 per effetto della quale il diritto di iniziativa è ora riconosciuto anche ai cittadini del distretto elettorale interessato nel caso in cui il deputato da revocarsi non appartenga ad un partito ma sia un candidato indipendente. Interessante nella sua forma “ibrida” il meccanismo previsto nell’art. 13 della Costituzione slovacca del 1920 per il caso di decadenza dell’eletto conseguente ad una decisione di partito. Tale Costituzione, infatti, assegnava il potere di controllare la legittimità delle motivazioni addotte dal partito tanto alla Camera di appartenenza del rappresentante, quanto ad un apposito tribunale elettorale, combinando insieme controllo di tipo politico e di tipo giuridico. Il controllo democratico veniva in tal caso previsto nella sola forma rappresentativa, ossia mediato dalla Camera di appartenenza.

49 Convince a tal proposito la proposta teorica formulata da N. Urbinati, Representative democracy: principles and genealogy, University of Chicago Press, 2006, 45- 47, che sviluppa la relazione fiduciaria in questione secondo il modello dell’advocacy, per cui gli advocates, nel rispetto delle regole e delle procedure vigenti, agiscono per la difesa appassionata della causa dei loro “clienti”. Ad essi non è richiesta l’imparzialità del giudice, né l’isolamento del filosofo: sono legati ai loro clienti e non possono prescindere dagli interessi di questi nella lettura che danno alla realtà. Essi aderiscono alla causa, senza tuttavia rimanerne schiavi: devono tener conto degli altri punti di vista, combinarli insieme alla ricerca del miglior risultato possibile.

50 L’idea del rappresentanza come relazione fiduciaria non è ovviamente nuova alla dottrina costituzionalistica. Tuttavia nuova potrebbe considerarsi l’impostazione secondo cui, per effetto dell’istaurarsi del vincolo fiduciario, si originerebbe un mandato sui generis, tale da giustificare una possibile revoca successiva. Può in modo incidentale notarsi che la figura del fiduciario risulterebbe, inoltre, più calzante posto che essa è sorta proprio in opposizione alla delega e associata alla rappresentanza di interessi generali. Interpreta il rapporto tra eletti ed elettori in termini di procura generale per la quale i primi diventano fiduciari ad omnia dei secondi, G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1969, 61.

51 Tale prospettiva presupporrebbe, probabilmente, il recupero dell’identità partitica, come identità ideologica, espressione di una certa visione del realtà, contenuto anch’essa della rappresentanza politica. Pur sulla scia, in parte, dell’impostazione seguita da A. Spadaro, Riflessioni sul mandato imperativo, cit., 37, me ne discosto quanto alle conseguenze pratiche, non escludendo la possibilità di un mandato politico vincolante anche in senso giuridico, intendendo la revoca quale strumento giuridico ˗ quanto meno nei motivi che ne possono giustificare l’attivazione ˗ per l’applicazione di una sanzione propriamente politica.

52 Su cui v., ora, A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano, 2013.

53 Sul punto particolarmente netta la posizione di J. F. Zimmerman, The recall. The Tribunal of the People, Westport, Connecticut, London, 1997, 151, il quale arriva a definire il recall un’ovvietà del governo rappresentativo che esige che gli elettori abbiano riconosciuta «the authority to reserve to themselves the right to reverse decisions of their representatives and to remove representatives failing to follow majority opinion or betraying the public’s trust by their egregious behavior», senza considerare il possibile contrasto con il divieto di mandato imperativo.

54 Contra, almeno nel senso che la democrazia rappresentativa si caratterizzerebbe per il divieto di mandato imperativo, per tutti, A. Spadaro, op. cit., 21 ss., per il quale – mentre la rappresentanza politica delinea un mandato giuridico di tipo giuspubblicistico (Repräsentation) – l’istituto della revoca del mandato sembra piuttosto di derivazione giuridico-privatistica (Vertretung).

55 Di diverso avvisoJ. F. Zimmerman, op. cit.,131: «recall recognizes […] the electorate as the fountainhead of sovereign power [it is] a perpetual reminder that sovereignty resides in the voters». Sulla necessità di “smantellare” il principio di sovranità, anche popolare, v. invece, soprattutto A. Spadaro, Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffré, Milano, 1994, spec.85 ss. e G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino, 2005.

56 Non si discute ovviamente del fondamentale ruolo della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica, ma si sottolinea che la Costituzione è un bene che va custodito e garantito da tutti. In particolare, la natura “diffusa” degli organi preposti alla custodia del potere sovrano diventa manifestazione della diffusione di quest’ultimo, cui si riferiva già N. Irti, Tramonto della sovranità e diffusione del potere, in Dir. e soc., n.3-4/2009, 465 ss.

57 Sul punto si vedano, tra gli altri, J. Plamenatz, M. E. Plamenatz, R. Wokler, Man and Society. Political and Social Theories from Machiavelli to Marx, From Montesquieu to the Early Socialists, 1992, Longman Publishing Group, Londra, 228 e J. Dunn, Political Obligation in its historical Context: essays in Political Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1980, 36-37; nonché più in generale la riflessione di J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici¸ a cura di L. Pareyson, UTET, Torino, 1982, 337 ss., per il quale una volta conferito il mandato ai rappresentanti si istaurerebbe un rapporto fiduciario, la permanenza del quale riposa nel rispetto da parte di questi del contratto originario e degli impegni assunti a sua garanzia.

58 Vedi D.G.Bianchi, op. cit.,14, che vede nella revoca del mandato «il sintomo di un problema», anziché la prospettazione di una via, di una soluzione. Dello stesso avviso G. Urbani, che nella Prefazione al testo di Bianchi descrive il recall come una patologia della democrazia rappresentativa, la cui attivazione potrebbe evitarsi laddove quest’ultima funzionasse correttamente. Si tratta, a mio avviso, di un’interpretazione di tipo statico che non lascia spazio a letture alternative entro le quali potrebbe dirsi che non è in atto una forzatura del modello della democrazia rappresentativa quanto piuttosto un suo riadattamento o al massimo un superamento della forma “pura” in cui siamo abituati a concepirla. Conformemente alla posizione di D. G. Bianchi, tra i tanti, anche R. J. Mc Grath, Electoral competition and the frequency of initiative use in the U.S. States, in American Politics Research, n. 39/2011, 611, il quale definisce la direct democracy, cui riconduce il recall, «a stop gap for failing representative institution». Di diverso avviso, invece, e a favore di un’integrazione della revoca nel tessuto della democrazia rappresentativa, K.P. Miller, The Davis Recall and the Courts, in American Politics Research, n. 33/2005, 139: «with the direct referendum and the recall process, citizens do not circumvent the representative system but rather add checks to it. The popular referendum thus tends to make legislators more accountable and responsive to public opinion, but it does so within the basic framework of representative government. The recall device similarly seeks to make elected officials more accountable and responsive. It is based on the assumption that voters should be able to make judgments about a representative’s performance and, if they so choose, to remove the representative from office.[…]The recall can be best characterized as a hybrid between direct and representative democracy that operates within the framework of the representative system». Gli istituti di controllo,quale che sia la forma che assumono, non fanno altro che aggiungere contrappesi al potere reale degli eletti in favore del potere sovrano e fittizio, o meglio partecipativo, degli elettori.

Dottoranda presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Corso di Perfezionamento in “Individual Person and Legal Protections”, curriculum in “Tutela costituzionale della Persona e delle Formazioni sociali”. Ha svolto ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Columbia University (New York) in qualità di Visiting scholar. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria con votazione di 110 e lode/110 e diritto alla parziale pubblicazione, discutendo una tesi interdisciplinare in Diritto Costituzionale e Filosofia del Diritto-Bioetica su “Il diritto di morire con dignità: tra l’illiceità dell’eutanasia attiva e il divieto di accanimento terapeutico”. È autrice di saggi e contributi in opere collettanee, prevalentemente in materia di Diritto costituzionale e di Diritti della persona.

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