L’illecito endofamiliare fa ingresso nella famiglia di fatto

Carla Nassetti, L’illecito endofamiliare fa ingresso nella famiglia di fatto, in Responsabilità civile e Previdenza – n.6 – 2013

 

IL DANNO NELLA FAMIGLIA DI FATTO: IL RISARCIMENTO DEL CONVIVENTE

Cass. civ., 20 giugno 2013, n. 15481 – Sez. I – Pres. Luccioli – Rel. San Giorgio

(cost. artt. 2, 3, 32; c.c. artt. 2043, 2059)

La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di un’unione di fatto, purché avente le caratteristiche di serietà e stabilità, in considerazione dell’irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. (Nella fattispecie, si è cassato il provvedimento impugnato recante la revoca del provvedimento di ammissione di una cliente del ricorrente, quale legale, al patrocinio a spese dello Stato in un giudizio dalla stessa instaurato per ottenere il risarcimento dei danni causati dalla violazione degli obblighi familiari da parte del suo convivente, giacché tale decisione era scaturita in assenza di ogni verifica circa la sussumibilità del diritto di cui si denunciava la lesione nella categoria dei diritti fondamentali della persona, a prescindere dal tipo di unione al cui interno detta lesione si sarebbe verificata).

[In senso parzialmente conforme Cass. civ., 21 marzo 2013, n. 7128]

FATTO. – 1. Con ordinanza emessa in data 9 aprile 2009 il giudice istruttore del Tribunale di Treviso rigettò l’istanza dell’avvocato F.P. di liquidazione del compenso per l’attività professionale dallo stesso prestata quale difensore di M.L., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella causa n. 3877/2008, promossa nei confronti di D.M.G. ed avente ad oggetto il risarcimento dei danni per violazione degli obblighi familiari, poi dichiarata estinta a seguito di rinuncia agli atti.

Il predetto g.i. rilevò che la M. non aveva la qualità di coniuge ed aveva agito a seguito della cessazione di una convivenza more uxorio, con la conseguenza che la pretesa fatta valere era manifestamente infondata ai fini dell’applicazione dell’art. 126, d.P.R. n. 115/2002, sicché sussistevano i presupposti per la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, e, comunque, non era apprezzabile l’attività svolta dal difensore ai fini della liquidazione a carico dello Stato nel rispetto dei criteri posti dall’art. 82 del d.P.R. n. 115/2002.

2. Con ordinanza del Presidente del Tribunale di Treviso del 18 giugno 2009, fu rigettato il ricorso proposto dal F. ai sensi degli artt. 84 e 170 del d.P.R. n. 115/2002 nei confronti dell’ordinanza in data 9 aprile 2009, di cui venne rilevata la correttezza, evidenziandosi la insussistenza sia normativa che giurisprudenziale della ipotesi di violazione degli obblighi familiari con riguardo a persone non coniugate ma conviventi more uxorio.

3. Il ricorso avverso tale ordinanza si fonda su due motivi, illustrati anche da successiva memoria. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

DIRITTO. 

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– 1. Deve, preliminarmente, essere esaminata la eccezione, sollevata dall’Agenzia delle Entrate, relativa al proprio difetto di legittimazione passiva, spettante, secondo la controricorrente, al Ministero dell’Economia e delle Finanze ai sensi dell’art. 99 del d.P.R. n. 115/2002.

2. L’eccezione non merita accoglimento.

Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 8516/2012, emessa a composizione di un contrasto giurisprudenziale sul punto, hanno chiarito che la legittimazione passiva nelle controversie aventi ad oggetto la liquidazione di compensi ed onorari suscettibili di restare a carico dello Stato relativi a giudizi civili e penali spetta al Ministero della Giustizia (e non a quello dell’Economia e delle Finanze, come erroneamente affermato dalla controricorrente).

Tuttavia, nella specie, il Collegio ritiene che sulla questione della legittimazione passiva della Agenzia delle Entrate, parte nel giudizio di merito originato dalla richiesta dell’avv. F. di liquidazione delle spese sostenute per l’attività professionale svolta quale difensore della M., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, si sia formato un giudicato implicito, non risultando dagli atti del giudizio alcuna contestazione sul punto da parte dell’Agenzia ed apparendo al riguardo ellittico il controricorso.

4. Con il primo motivo del ricorso, si lamenta violazione degli artt. 126 del d.P.R. n. 115/2002, 2043 c.c., 2, 3 e 32 Cost. Avrebbe errato il Presidente del Tribunale di Treviso nel non ravvisare nella fattispecie de qua – caratterizzata dall’improvviso allontanamento di D.M.D. dall’abitazione nella quale viveva con la M. ed il bambino nato dalla loro unione per intraprendere una nuova relazione sentimentale disattendendo la promessa di matrimonio fatta alla stessa M., e privando costei ed il bambino di un anno della necessaria assistenza morale e materiale, oltre a privare la donna, nel corso della convivenza, del diritto alla sessualità – la lesione di un interesse in capo alla M. giuridicamente rilevante, e, pertanto, suscettibile di ristoro in forza della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. Ciò sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza di merito, sempre più incline a ravvisare una responsabilità risarcitoria per la violazione degli obblighi familiari, sussistenti anche nell’ambito della convivenza more uxorio in quanto attinente a diritti fondamentali della persona.

La illustrazione della censura si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile nella specie ratione temporis: «Posto che la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante è suscettibile di ristoro in forza della clausola generale ex art. 2043 c.c. sulla base dei principi elaborati in materia di responsabilità aquiliana, dica la Suprema Corte se il diritto all’assistenza morale e materiale, il diritto alla fedeltà e alla sessualità e i doveri derivanti dal matrimonio quali diritti fondamentali della persona e, in quanto tali, posti al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, si riflettono sui rapporti tra le parti anche nella fase precedente il matrimonio».

5. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. e dell’art. 126 del d.P.R. n. 115/2002. Sarebbe illegittimo perché in contrasto con l’art. 126 del d.P.R. n. 115/2002 il provvedimento di revoca dell’ammissione della M. al patrocinio a spese dello Stato, che pregiudicherebbe il diritto della donna ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti fondandosi sulla presunta insussistenza degli obblighi familiari nella fase precedente l’assunzione del vincolo matrimoniale.

La illustrazione della doglianza si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: «Posto che la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante è suscettibile di ristoro in forza della clausola generale ex art. 2043 c.c. sulla base dei principi elaborati in materia di responsabilità aquiliana, dica la Suprema Corte se la revoca del decreto di ammissione al gratuito patrocinio con un giudizio prognostico ex ante che non tenga conto dell’orientamento in materia di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., sia contraria all’art. 24 della Costituzione».

6. I motivi, che, avuto riguardo alla stretta connessione logico-giuridica che li avvince, possono essere trattati congiuntamente, sono fondati nei termini che seguono.

6.1. La problematica relativa alla risarcibilità della lesione di diritti fondamentali della persona è stata, com’è noto, oggetto di ampia elaborazione nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, nel solco tracciato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 184/1986, che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. – sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 32 Cost, sotto il profilo che esso prevederebbe la risarcibilità del danno per lesione del diritto alla salute solo in conseguenza di un reato – ebbe ad affermare che la norma scrutinata riguarda soltanto i danni morali soggettivi, mentre il pregiudizio ai diritti fondamentali della persona, come il decoro, il prestigio, la dignità e la salute, deve trovare indefettibile ristoro, in applicazione dell’art. 2043 c.c., al di là dei limiti previsti per il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti da reato.

Nei due fondamentali arresti del 2003 (sentt. n. 8827 e n. 8828) si è espresso l’orientamento di questa Corte, secondo il quale la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d’animo) nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse di rango costituzionale relativo alla persona. In tale prospettiva, nell’ambito dell’art. 2059 c.c. trovano collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non patrimoniali subite dalla persona, per fatti illeciti determinanti un danno ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificamente tutelati da leggi speciali: ciò vale a dire che il rinvio recettizio dell’art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge non riguarda le sole ipotesi del danno morale soggettivo derivante da reato, ma vale ad assicurare la tutela anche alla lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che in forza del rilievo costituzionale di tali diritti il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla loro lesione non è soggetto alla riserva di legge posta dalla norma richiamata.

Sulla base di tale impostazione, che ha ricevuto l’avallo della Corte costituzionale con la sentenza n. 233/2003, e che è stata seguita dalle successive pronunce di questa Corte (v. Sez. Un. sent. n. 26972/2008; e le successive Sez. Lav. sent. n. 12593/2010; Sez. III sentt. n. 450/2001 e n. 543/2012), il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi individuati ex ante dalla legge ordinaria, ma anche in quelli, da selezionare caso per caso ad opera del giudice, di lesione di valori della persona costituzionalmente protetti, non potendo il legislatore ordinario rifiutare, per la forza implicita nell’inviolabilità di detti diritti, la riparazione mediante indennizzo, che costituisce la forma minima ed essenziale di tutela. E, dunque, assume rilievo essenziale, non solo in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale, ma anche, e prima ancora, ai fini della esperibilità dell’azione di responsabilità, l’indagine se il diritto oggetto di lesione sia riconducibile a quelli meritevoli di tutela secondo il parametro costituzionale.

6.2. Come già sottolineato nella citata sentenza di questa Corte n. 9801/2005 – che ha ampliato le frontiere della responsabilità civile nelle relazioni familiari –, il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria trova spazio applicativo anche all’interno dell’istituto familiare, pur in presenza di una specifica disciplina dello stesso, configurandosi la famiglia come sede di autorealizzazione e di crescita, segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli, nell’ambito della quale i singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che come coniugi, come persone, in adesione al disposto dell’art. 2 Cost., che, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di ogni individuo si esprime e si sviluppa (v., sul punto, anche la successiva Cass. sent. n. 18853/2011).

E pertanto il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, così come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare. La richiamata sentenza ha altresì precisato che non vengono qui in rilievo i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’interno della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza, ma unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona. Deve pertanto escludersi che la mera violazione dei doveri matrimoniali o anche la pronuncia di addebito della separazione possano di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria; così come deve affermarsi la necessità che sia accertato in giudizio il danno patrimoniale e non patrimoniale subito per effetto della lesione, nonché il nesso eziologico tra il fatto aggressivo ed il danno.

6.3. L’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi – come pure chiarito dalla sentenza n. 9801/2005 – sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro, pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo, un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà.

6.4. La violazione dei diritti fondamentali della persona – deve ora aggiungersi, alla stregua delle argomentazioni sin qui svolte – è, altresì, configurabile, alle condizioni descritte, all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo (v., in tal senso, Cass. sent. n. 4184/2012).

6.4.1. Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Si pensi, a titolo esemplificativo, oltre che al campo della filiazione, in cui la legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha eliminato ogni residua discriminazione tra figli «legittimi» e «naturali», agli ordini di protezione contro gli abusi familiari, estesi al convivente dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter; al requisito della stabilità della coppia di adottanti, soddisfatto, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come sostituito dall’art. 7 della legge 28 marzo 2001, n. 149, anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni; alla possibilità, prevista dall’art. 408 c.c., novellato dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, che la scelta dell’amministratore di sostegno cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario dell’amministrazione; ed ancora, alla possibilità, a norma dell’art. 417 c.c., come novellato dall’art. 5 della citata legge n. 6/2004, che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; alla accessibilità alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto, ai sensi dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40; all’applicabilità della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; alla esclusione dei conviventi, in quanto non qualificabili come terzi, dai benefici derivanti dall’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti in caso di danni alle cose.

Si tratta di segnali di una crescente attenzione del legislatore verso fenomeni di consorzio solidaristico e modelli familiari in cui per libera scelta si è escluso il vincolo, e, con esso, le conseguenze legali, del matrimonio.

6.4.2. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, già nella sentenza n. 237/1986, ebbe ad affermare che «un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche».

Tale convincimento ha originato la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio (sent. n. 404/1988). L’affermazione secondo la quale per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, si trova poi ribadita nella sentenza n. 138/2010.

6.4.3. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce di questa Corte che hanno, tra l’altro, riconosciuto il diritto del convivente di soggetto deceduto a causa di un terzo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (v. sent. n. 12278/2011, n. 23725/2008), e attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di mantenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923/2012, n. 17195/2011).

6.4.4. Né può, infine, sottacersi l’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, fornita dalla Corte EDU, che ha chiarito che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio (v., per tutte, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft c. Austria).

6.5. È alla luce del richiamato quadro normativo e giurisprudenziale che va apprezzata la correttezza giuridica e motivazionale del provvedimento impugnato, il quale ha ritenuto manifestamente infondata, ai fini dell’applicazione dell’art. 126 del d.P.R. n. 115/2002 in tema di patrocinio legale dei non abbienti, la richiesta della M. – in relazione alla quale costei si era valsa dell’assistenza legale dell’avv. F. – di conseguire il risarcimento dei danni causati dalla violazione degli obblighi familiari da parte del suo convivente.

Tale giudizio di manifesta infondatezza, con il conseguente effetto della ritenuta ricorrenza dei presupposti per la revoca dell’ammissione della M. al patrocinio a spese dello Stato, si è fondato sulla «insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell’ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite da solo vincolo di convivenza more uxorio»: affermazione, codesta, compiuta in assenza di ogni verifica, evidentemente necessaria, per quanto fin qui evidenziato, circa la sussumibilità del diritto di cui si denunciava la lesione nella categoria dei diritti fondamentali della persona, a prescindere dal tipo di unione al cui interno detta lesione si sarebbe verificata.

7. Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto. Va, pertanto, cassato il provvedimento impugnato e la causa va rinviata ad altro giudice – che viene designato nel Presidente del Tribunale di Treviso in persona di diverso giudicante, cui viene demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio – che riesaminerà la questione, sollevata dall’avv. F., della revoca del provvedimento di ammissione della M. al patrocinio a spese dello Stato, alla stregua dei rilievi svolti sub 6.1.-6.5. (Omissis).

L’ILLECITO ENDOFAMILIARE FA INGRESSO NELLA FAMIGLIA DI FATTO

di Carla Nassetti Avvocato in Bologna

La sentenza segna un passaggio importante nell’evolversi della materia dell’illecito endofamiliare che acquista un diritto di cittadinanza nella famiglia di fatto, intesa quale formazione sociale ove si svolge la personalità dell’individuo ex art. 2, Cost., introducendo schemi di tutela innovativa allineati con le decisioni della CEDU.

Following settled ECtHR case-law, the judgement provides for new forms of legal protection and marks a watershed in the development of the criminal law in respect of offences committed within family nuclei, insofar as it gives rise to a right of nationality as a result of de facto familial ties that may be deemed to constitute a social formation within which the personality of the individual is considered to evolve within the meaning of article 2 of the Italian Constitution.

Sommario 1. Premessa: i presupposti dell’illecito endofamiliare. – 2. L’inidoneità del sistema sanzionatorio tipico e la progressiva apertura verso l’illecito endofamiliare nel percorso giurisprudenziale nazionale. – 3. L’importanza dell’efficacia lesiva della violazione. – 4. Gli effetti della promessa di matrimonio in termini di legittimo affidamento. – 5. La prospettiva della costituzione di un vincolo: il requisito della stabilità e serietà dell’unione di fatto. – 6. L’evolversi della legge e della giurisprudenza verso la famiglia di fatto.

1. I PRESUPPOSTI DELL’ILLECITO ENDOFAMILIARE

Gli obblighi tipici nascenti dal matrimonio quali la fedeltà, la coabitazione e l’assistenza morale materiale trovano la loro collocazione nella disciplina ante riforma1, sebbene fossero coniugati con modalità punitiva, tant’è che la separazione e la cessazione del vincolo erano vissuti dallo stesso legislatore come un mero rimedio ad una situazione familiare patologica determinata dalla colpa ovverosia dalla violazione di un obbligo.

Con la riforma del ’75 l’affermazione del principio di uguaglianza fra coniugi, seppure con i limiti imposti dalla legge a garanzia dell’unità familiare di cui all’art. 29 Cost. esplicatesi con la riformulazione dell’art.143 c.c. che introduce il concetto di reciprocità, ha messo in crisi la teoria secondo la quale gli obblighi nascenti dal matrimonio sono dotati di rilevanza giuridica.

In altre parole la sostituzione nella separazione della colpa con l’intollerabilità della convivenza ha dato vita – secondo alcuni – ad un processo di degiuridicizzazione dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio.

Questa opinione, tuttavia, non ha trovato riscontro2, in primo luogo perché se così fosse il principio dell’uguaglianza e della parità fra coniugi non avrebbe alcun effetto, in quanto il coniuge non potrebbe validamente pretendere dall’altro il rispetto della propria persona e degli accordi comuni presi nell’interesse della famiglia.

In altre parole il principio solidaristico che ispira e regola la materia del diritto di famiglia risulterebbe destituito di fondamento e privo di ogni efficacia, tanto da ridurre la famiglia legittima ad un’aggregazione senza stabilità.

Al contrario il rilievo giuridico degli obblighi nascenti dal matrimonio è testimoniato oltre che dalla previsione dell’addebito anche dalla presenza di altre norme civilistiche quali l’art.146 c.c. (sanzione per il coniuge che si allontani senza giusta causa dalla residenza familiare: viene meno il suo diritto all’assistenza morale e materiale) e penalistiche, art. 570 c.p. (reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare) nonché dall’art. 342-bis circa gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Ed ancora la giuridicità dei doveri matrimoniali è testimoniata anche dagli artt. 123 c.c. e 160 c.c.

Preso atto del contenuto giuridico degli obblighi reciproci dei coniugi, si deve subito rilevare che proprio i rimedi del diritto di famiglia sono inadeguati ad apprestare una tutela efficace per il soggetto che abbia subito un pregiudizio nella famiglia.

Si prenda ad esempio l’addebito della separazione ex art. 151, comma 2, c.c., che per giurisprudenza consolidata, assurge a motivo di addebito, qualora sia stata la causa determinante della separazione3.

Peraltro, sul piano processuale, la prova della responsabilità della separazione, di cui è onerato il coniuge che richiede l’addebito non è oggettivamente agevole, rendendosi necessario riportare l’inizio della crisi al comportamento lesivo; occorre, in altre parole, stabilire un nesso di causalità fra la violazione dell’obbligo e il processo disgregativo dell’unione coniugale, il che nella pratica, limita notevolmente la portata applicativa dell’addebito.

Sul piano dell’efficacia sanzionatoria, quindi, l’addebito della separazione non può certamente ritenersi un meccanismo satisfattivo e tutelante per il coniuge che si assuma leso, sia per la sua portata applicativa, sia per l’ambito giuridico nel quale opera. In altre parole il coniuge tradito con modalità tali da denigrarne la personalità e comunque tali da ledere un diritto costituzionalmente protetto, quale l’immagine, la reputazione o la salute, non può trovare ristoro nell’addebito della separazione che rimane un retaggio del vecchio sistema della separazione per colpa pur con conseguenze irrisorie sul piano pratico4.

La disciplina della famiglia e quindi gli strumenti sanzionatori che sovraintendono l’osservanza dei diritti e degli obblighi che dal matrimonio derivano, sono quindi nettamente insufficienti ad apprestare meccanismi risarcitori efficaci, se non affiancando a essi quelli afferenti all’illecito civile ove trovano spazio criteri risarcitori idonei a indennizzare colui che abbia subito un danno.

Le diverse tutele si esplicano su due piani diversi nel senso che l’una sanziona il comportamento del coniuge inadempiente nell’ambito del matrimonio, l’altra è diretta a risarcire il pregiudizio subito dall’altro coniuge che assuma la lesione di un diritto costituzionalmente garantito a causa e in ragione della violazione suddetta.

Potrebbe dirsi che il diritto al risarcimento del coniuge che subisce la violazione sorge o può sorgere in occasione della violazione stessa.

La Suprema Corte ha recepito questo principio nella sentenza n. 9801 del 10 maggio 20055 ove afferma che «…la lesione di un diritto inviolabile della persona costituisce presupposto logico della responsabilità civile, provenga essa da un terzo o da un componente del proprio nucleo familiare».

Del resto diversamente, si creerebbero delle sacche d’immunità proprio all’interno del nucleo aggregativo dove la personalità dell’individuo dovrebbe trovare adeguato spazio di esplicazione.

2. L’INIDONEITÀ DEL SISTEMA SANZIONATORIO TIPICO E LA PROGRESSIVA APERTURA VERSO L’ILLECITO ENDOFAMILIARE NEL PERCORSO GIURISPRUDENZIALE NAZIONALE

Le prime pronunce sul danno da adulterio si sono espresse in termini negativi, sostenendo che la violazione degli obblighi coniugali trovava già apposita sanzione nell’ambito del diritto di famiglia ed in particolare nell’addebito, rappresentandolo quindi come un sistema chiuso e finalizzato a proteggere la libertà personale dei coniugi di separarsi.

La Suprema Corte si esprimeva in termini assolutamente preclusivi, escludendo che dal fatto separativo potesse derivare il diritto del coniuge al risarcimento del danno6.

La lettura delle norme che regolano il rapporto fra coniugi in sede di separazione da parte dei Giudici di legittimità, era tale da farne un sistema chiuso, quasi un fatto «privato» in cui la violazione delle regole trovava la sua sanzione specifica senza considerarne l’efficacia in termini compensativi.

Il sistema della violazione dei doveri derivanti dal matrimonio che ne emergeva era tale da consentire al Giudice della separazione esclusivamente di dichiarare l’addebito e di regolare gli aspetti economici attribuendo, ove ne ricorressero i presupposti, un assegno di mantenimento a carico di un coniuge a favore dell’altro.

L’orientamento dei Giudici di legittimità in tema di illecito endofamiliare, inizia ad evidenziare qualche minima apertura nel 1995 con una decisione7 che sembra deporre le armi rispetto alla categorica esclusione del diritto al risarcimento del coniuge che lamenti di aver subito un danno a causa del comportamento dell’altro, quantomeno nella parte in cui afferma.

Non si ravvedono di certo, in questa decisione, neppure i presupposti minimi dell’elaborazione giurisprudenziale successiva in materia di illecito endofamiliare, assistita poi dalla tendenza crescente ad ampliare l’ambito del danno risarcibile; tuttavia, la decisione del ’95, testé citata, testimonia il superamento del convincimento (motivo ispiratore della giurisprudenza precedente) secondo il quale la materia familiare sarebbe stato un sistema chiuso e completo.

In altre parole, nel corso degli anni ’90, la giurisprudenza soprattutto di merito, comincia a recepire la lacuna interpretativa creata dal convincimento che il comportamento del coniuge, anche il più subdolo o denigratorio, dovesse necessariamente trovare la sua sanzione all’interno del sistema «famiglia» con conseguente esclusione dell’illecito civile, e quindi della fattispecie suscettibile di risarcimento.

Il progressivo processo di ampliamento delle possibilità risarcitorie è segnato da pronunce significative8, che hanno avuto il merito di aver contribuito a fornire una lettura dell’art.2059 c.c. idonea a ricomprendere nella categoria del danno non patrimoniale oltre al danno morale «…tutte le lesioni di valori costituzionalmente protetti, inerenti alla persona, non connotati da rilevanza economica…»9; al venir meno dello stretto collegamento fra danno non patrimoniale e reato, corrisponde la caduta di quegli ostacoli dogmatici che avrebbero di certo impedito l’avvicinarsi di istituti tradizionalmente dissimili fra di loro, quali l’illecito civile e la famiglia, stabilendo così la concorrenza di due rimedi, quello previsto dalla disciplina in materia di famiglia e quello – più ampio – risarcitorio.

La consapevolezza dell’insufficienza del rimedio interno al sistema famiglia, ha portato la giurisprudenza di merito alle soglie dell’anno 2000, a esprimersi in modo favorevole in materia di illecito civile consumato all’interno del nucleo familiare10, fino a pervenire all’elaborazione dogmatica/dottrinale dell’illecito endofamiliare, inteso quale danno esistenziale conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto che va ad incidere sostanzialmente sulla condotta di vita della persona, e che si sussume alla categoria delle ripercussioni relazionali di segno negativo, in coerenza con la tendenziale valorizzazione della persona, e quindi anche dei profili di tutela della stessa, già espressi da diverse disposizioni sovranazionali, in particolare dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948: dalla Convenzione di New York, del 20 novembre 1989 (ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176), sui diritti del fanciullo, dalla Carta di Nizza (art. 8), e non ultimo, dall’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo11.

Le fattispecie sulle quali la Giurisprudenza di merito è stata chiamata a decidere sono molteplici e si caratterizzano per la comune affermazione della risarcibilità del danno esistenziale subito da un coniuge a causa del comportamento dell’altro la cui violazione dell’obbligo coniugale trascende in atteggiamenti tali da tradursi nella violazione di diritti fondamentali della persona.

Si tratta di casi in cui il coniuge non si limita a violare gli obblighi che discendono dal matrimonio, ma pone in essere comportamenti tali da violare la dignità e il decoro dell’altro coniuge e destinati ad avere effetti negativi sulla vita di relazione del coniuge leso, in modo talmente penetrante da potersi ritenere responsabile del pregiudizio da questi subito12.

Può dirsi, dunque, che se dalla separazione può derivare la sanzione del comportamento lesivo tramite l’addebito, dal medesimo comportamento può derivare un pregiudizio risarcibile ex art.2043 c.c. che solo casualmente si sia verificato nell’ambito di rapporti familiari, tal che la crisi coniugale diviene semplicemente l’occasione per chiedere il risarcimento.

La risarcibilità dell’illecito endofamiliare è stata riconosciuta anche nell’ambito del rapporto di filiazione in alcune significative pronunce13, fra le quali si distingue quella riconosce il diritto al risarcimento del danno subito dal figlio giudizialmente riconosciuto, nei confronti di un padre colpevole di aver violato il dovere di tutelare lo status del figlio, che sorge ex art. 30, Cost.14 per il fatto stesso della procreazione.

Sul ricorso del padre decideva la Suprema Corte confermando in toto la decisione impugnata chiarendo con un basilare passaggio che si riporta che «…ciò che la Corte veneziana nella specie ha inteso risarcire è la lesione in sé che dal comportamento del ricorrente (…), ne è scaturita, di fondamentali diritti della persona, in particolare inerenti alla qualità di figlio e di minore (…). Ed è poi del pari innegabile che la lesione di diritti siffatti, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, vada incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) e indipendentemente dalla sussistenza di un reato, trattandosi – appunto – del ristoro del danno (non già morale, da illecito penale) da lesione in sé di diritti fondamentali, riferibili alla condotta del genitore»15.

Nella fattispecie, al pari di molte altre risalenti al medesimo periodo, essendo vigente l’orientamento precedente all’avvento delle note sentenze gemelle, la natura del danno risarcito è stata falsamente indicata16, ovverosia per non ricorrere alla controversa figura del danno esistenziale, il risarcimento era accordato sotto forme diverse e quindi il pregiudizio veniva ricondotto alla lesione del bene salute estensivamente inteso.

La forzatura contenuta nell’elaborazione giurisprudenziale sopra detta, era infine risolta con la decisione della Suprema Corte n. 9801 del 10 maggio 2005, che affermando la non autosufficienza del sistema «diritto di famiglia», ammetteva che il comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio pur trovando una sanzione specifica all’interno della separazione o del divorzio, potesse essere foriero di un pregiudizio risarcibile ex art. 2043 c.c.

In particolare, la Corte, riportandosi alla ormai consolidata giurisprudenza che affermava il principio della risarcibilità del danno non patrimoniale non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche in quelli di lesione di valori della persona costituzionalmente protetti17, superando la tradizionale affermazione secondo la quale il danno di cui all’art. 2059 c.c. si identificherebbe con il danno morale soggettivo, conferiva il diritto di ogni componente del nucleo familiare al rispetto della proprie personalità nella sua interezza, valore di diritto inviolabile la cui lesione – afferma la Corte – «…costituisce il presupposto logico della risarcibilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare».

Quest’ultima importante decisione sottolineava come in questa direzione sembrava muoversi la giurisprudenza di merito «…sempre più incline a ravvisare una responsabilità risarcitoria per violazione degli obblighi familiari».

3. L’IMPORTANZA DELL’EFFICACIA LESIVA DELLA VIOLAZIONE

È fondamentale inoltre, per evitare il rischio del profilarsi di un abuso ideologico del principio testé affermato, l’ulteriore precisazione sulla portata applicativa della responsabilità risarcitoria in ambito familiare.

La decisione18 testé citata, decide sulla domanda risarcitoria avanzata dalla moglie per aver il marito violato il cd. obbligo informativo. Il marito, infatti, aveva omesso di informare la futura moglie di una patologia che lo affliggeva e che si traduceva nella sostanziale incapacità coeundi di quest’ultimo, di tale gravità da poter ritenere che la moglie, ove informata adeguatamente, non avrebbe mai contratto matrimonio. Ella, tuttavia, scoperta la malattia non l’aveva lasciato sperando che il marito si sottoponesse alle opportune cure mediche.

Il marito si era però sempre rifiutato arrogando molteplici insensate giustificazioni, fino a che la moglie decise di chiedere l’annullamento del matrimonio per inconsumazione.

La Corte aveva individuato l’illecito nella suddetta omissione informativa, cogliendo l’occasione per precisare il principio secondo il quale «…non vengono in rilievo i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’interno della famiglia in forza di quello spirito di compressione e di tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza, ma unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona», con ciò escludendo che la mera violazione dei doveri coniugali o la pronuncia di addebito possano di per sé e in forza di una sorta di automatismo integrare una responsabilità risarcitoria.

Viene quindi in rilievo «…una violazione della persona umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà – dignità, nella sua autonoma determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e sulla piena esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.»19.

È appropriato ricordare che occorre bilanciare le reciproche posizioni dei coniugi calate nel contesto della crisi allo scopo di far emergere la posizione soggettiva prevalente, costituzionalmente protetta.

In altre parole è possibile che alla condotta lesiva ne corrisponda un’altra uguale e contraria, tal che nel bilanciare gli interessi in gioco può derivarne un giudizio di non prevalenza reciproca, che muove dal ragionamento per cui il comportamento trasgressivo può corrispondere all’esplicazione di diritti di rango costituzionale da porsi sul medesimo piano di quelli di colui che si assume danneggiato.

L’addebito della separazione e quindi il riconoscimento della violazione di un dovere coniugale non produce automaticamente in capo al coniuge «virtuoso» il diritto al risarcimento del danno, diversamente si produrrebbe l’effetto di un illegittimo recupero del sistema sanzionatorio abbandonato dal legislatore con la riforma del diritto di famiglia che ha cambiato lo scenario dell’impianto separativo svincolando la crisi coniugale dall’individuazione del coniuge colpevole.20

Il consolidarsi di un automatismo risarcitorio finirebbe per «trasformare l’istituto in uno strumento di coazione rispetto al rapporto di coppia»21, stravolgendo il senso della riforma che ha consegnato ai coniugi la facoltà di separarsi in ragione dell’oggettiva impossibilità di proseguire il rapporto coniugale conformemente ad una lettura costituzionalmente orientata del matrimonio e della libertà dei singoli individui che ne sono i protagonisti22.

Era prevedibile, quindi, che il passaggio successivo della giurisprudenza, che già aveva riconosciuto l’applicabilità nell’ambito dei rapporti familiari all’ipotesi risarcitoria ex art. 2043 c.c. superando la tradizionale impostazione dell’autosufficienza del sistema sanzionatorio tipico della famiglia, sarebbe stato distinguere, in termini processuali, l’addebito e l’azione di risarcimento.

In linea con la digressione logica secondo la quale il diritto al risarcimento nei rapporti familiari è collegato alla violazione di un dovere afferente la famiglia, ma trova causa nella oggettiva lesione, subita da un familiare, di un valore costituzionalmente protetto, tal che il contesto in cui si è perpetrata la violazione assume un ruolo che può definirsi di «partenza» ma non di «arrivo», in quanto crea l’occasione dell’illecito, 23la Suprema Corte nel 2011 con una decisione determinante sul punto, esclude che l’addebito della separazione possa ritenersi pregiudiziale all’azione di risarcimento del danno24; il percorso della giurisprudenza prosegue nel 201225 introducendo, allo scopo di evitare ogni automatismo, il ricorso alla clausola generale dell’ingiustizia del danno che permette di valutare se il danno lamentato dal familiare in conseguenza alla violazione di un dovere afferente i rapporti familiari, sia o meno un danno «che l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull’autore del fatto in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale»26.

4. GLI EFFETTI DELLA PROMESSA DI MATRIMONIO IN TERMINI DI LEGITTIMO AFFIDAMENTO

La sentenza annotata ha l’innegabile merito di ampliare in senso qualitativamente evolutivo la portata applicativa dell’illecito endofamiliare riconoscendo il diritto al risarcimento di una donna che non ha la qualità di coniuge e che agisce a seguito della cessazione di una convivenza more uxorio.

La questione verte sull’improvviso abbandono del convivente dall’abitazione in cui costui viveva con la donna e il figlio in tenera età della coppia. L’uomo avrebbe disatteso la promessa di matrimonio fatta alla donna che aveva peraltro privato, durante la convivenza, del diritto alla sessualità.

Il quesito sottoposto alla Suprema Corte è il seguente: «…ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile nella specie ratione temporis, posto che la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante è suscettibile di ristoro in forza della clausola generale ex art. 2043 c.c. sulla base dei principi elaborati in materia di responsabilità aquiliana, dica la Suprema Corte se il diritto all’assistenza morale e materiale, il diritto alla fedeltà e alla sessualità e i doveri derivanti dal matrimonio quali diritti fondamentali della persona, e in quanto tali, posti al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, si riflettano sui rapporti tra le parti anche nella fase precedente il matrimonio».

Il quesito sottoposto alla Corte è provocatorio ove si consideri che l’ingresso dei principi appartenenti alla materia della responsabilità civile, nell’ambito del conflitto familiare, ha immediatamente evidenziato la criticità afferente la portata applicativa dell’istituto al fine di evitare abusi intollerabili per l’ordinamento27.

I confini della responsabilità aquiliana nei rapporti familiari, in altre parole, impongono la ricorrenza di un quid pluris, occorrendo che la condotta del familiare inadempiente sia foriera di un danno ingiusto nella sfera giuridica del danneggiato, derivante dalla lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico28.

È evidente, per quanto finora detto, che l’illecito endofamiliare e la responsabilità derivante, benché ormai pacificamente ritenuto uno strumento utilizzabile all’interno della famiglia, si muova su un piano diverso da quello in cui si collocano le sanzioni previste dall’ordinamento nell’ipotesi di violazione degli artt. 143 e 147 c.c.

La complessità dei rapporti familiari è tuttavia tale da suggerire l’individuazione di filtri idonei a delimitare nettamente l’ambito operativo dell’illecito endofamiliare, al fine di evitare che la crisi della famiglia generi automatismi risarcitori che troverebbero certamente, in questa materia, molteplici occasioni di sperimentazione29.

Si rende quindi necessario fare riferimento ad un criterio in grado di discernere nell’ambito dei conflitti familiari il discrimen fra i comportamenti sanzionabili esclusivamente attraverso i meccanismi tipici previsti dalle norme che impongono i doveri familiari e quelli che vanno oltre ai quali si applicano meccanismi risarcitori più ampi e comunque idonei a compensare effettivamente il danno subito.

Immaginiamo tre cerchi concentrici: nel primo sono collocabili i comportamenti tipici di ogni normale menage familiare che possono anche essere costituiti da scorrettezze, dispetti e ripicche, ma tali comunque da rimanere neutri rispetto ad ogni possibile meccanismo sanzionatorio; nel secondo, vi sono quelli costituiti da violazioni agli obblighi coniugali e/o genitoriali, destinati ad essere sanzionati secondo le norme del libro primo del Codice, per esempio, con l’addebito della separazione; nel terzo, infine, quelli in cui i comportamenti del familiare appaiono di tale gravità da meritare la sanzione derivante dall’applicazione delle regole della responsabilità civile, in quanto lesivi di una posizione giuridicamente tutelata30.

È evidente che, in altre parole, nel terzo cerchio si collocano quelle situazioni familiari foriere di danni tali da non poter trovare giusto ristoro nelle misure tipicamente ricollegate dalla legge alla violazione dei doveri derivanti dal matrimonio o dal rapporto di filiazione.

Abbandonando lo schema di riferimento tipico, ovverosia la famiglia legittima, e quindi la tesi della necessità della violazione dell’art. 143 c.c. quale presupposto indefettibile dell’ipotesi risarcitoria, la dottrina aveva già avanzato l’ipotesi per cui l’esistenza di un formale vincolo matrimoniale avrebbe potuto non essere necessario al fine di prendere in considerazione il danno lamentato31, ricomprendendo quindi nel proprio ambito sia i rapporti di fatto, sia i rapporti pre-matrimoniali32.

Tuttavia, la promessa di matrimonio, di cui agli artt. 79 ss. c.c. è oggetto di una disciplina sistematica che sembra non lasciare spazio ad altre forme di risarcimento del danno che sfuggano dalle previste quanto prevedibili conseguenze risarcitorie della rottura senza giusto motivo della promessa di matrimonio.

D’altro canto la lesione di interessi meritevoli di tutela (la salute psichica, l’integrità morale, la dignità l’onore, la reputazione, ecc. …) può presentarsi con tratti di significativa gravità anche e più che mai in un rapporto di fatto piuttosto che in un fidanzamento che sfoci in un triste abbandono in prossimità delle nozze.

5. LA PROSPETTIVA DELLA COSTITUZIONE DI UN VINCOLO: IL REQUISITO DELLA STABILITÀ E SERIETÀ DELL’UNIONE DI FATTO

È ovvio che l’ipotesi di inquadramento della rottura della promessa di matrimonio nell’ambito della responsabilità aquiliana, presuppone l’inesistenza di un giusto motivo di rottura, in quanto il meccanismo risarcitorio di cui all’art. 81 c.c., che si limita alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte a causa del matrimonio, implica una situazione di fatto che vede il promesso sposo vittima di un abbandono ingiustificato.

Si tratta di uno strumento risarcitorio caratterizzato da un impianto normativo che presuppone l’esistenza di elementi ben diversi da quelli alla base dell’illecito civile.

La Suprema Corte ebbe ad affermare il principio secondo il quale l’art. 81 c.c., al contrario di quanto sia previsto dai principi generali che regolano la responsabilità aquiliana, pone la prova dell’elemento soggettivo a carico del danneggiante, imponendo a quest’ultimo di dimostrare l’esistenza di un giusto motivo di recesso33.

È evidente che tale impostazione sia sovversiva rispetto a quella che sovraintende la responsabilità extracontrattuale, nella quale la prova della colpevolezza al pari del danno e del collegamento causale è posto a carico di colui che si assume danneggiato.

Tale elemento, giustamente rilevato dalla decisione citata, deporrebbe a favore dell’affermazione sulla sostanziale autonomia e singolarità dell’obbligazione risarcitoria derivante dall’art. 81 c.c., che non appartiene al tradizionale meccanismo risarcitorio dal quale si discosta fortemente a sottolineare l’esigenza di tutela della libertà assoluta di poter decidere di non sposarsi costituzionalmente tutelata.

La giurisprudenza di merito era infatti unanime nell’affermare il principio secondo il quale il recesso dalla promessa di matrimonio è manifestazione di una libertà fondamentale, che non può e non deve trovare limitazione nel fondato timore di incorrere in un meccanismo sanzionatorio più gravoso di quello previsto dalla norma34.

In altre parole, i possibili pregiudizi derivanti dalla rottura di un fidanzamento, anche se talmente lungo da indurre l’ingenuo promesso sposo a investire tutte le sue energie lavorative e personali sul prossimo matrimonio senza remora o dubbio alcuno, rifiutando occasioni lavorative all’estero o diversamente non compatibili con la famiglia, non erano, per giurisprudenza costante, risarcibili secondo le regole dell’illecito civile, rimanendo relegati ad essere semplicemente «conseguenze dannose dell’amore», che ciascun promesso sposo correva il rischio di subire per il solo fatto di avere riposto legittime speranze sul suo rapporto affettivo.

Ben potrebbe, il grave pregiudizio subito dal nubendo abbandonato, che si riveli esorbitante rispetto alla categoria di cui alla seconda area sopra indicata, essere ricompreso nella terza area, andando a far parte di quelle ipotesi in cui il ricorso alle regole della responsabilità civile risulti lo strumento più adeguato a sanzionare quei comportamenti pre-matrimoniali talmente gravi da meritare una sanzione più gravosa di quella prevista dall’art. 81 c.c.

Tuttavia, è evidente che in questi casi, scenda in gioco da un lato, la fondamentale osservazione circa l’inesistenza di un obbligo violato (art. 79 c.c.), dall’altro, la forte esigenza di tutelare la libertà dei nubendi fino alla celebrazione del matrimonio, escludendo ogni forma, anche indiretta di coazione35.

È indubbio che la norma miri a reintegrare il patrimonio del fidanzato incolpevole delle diminuzioni che abbia subito per erogazione di somme o impegno di spese, effettuati a causa della promessa non mantenuta, contemperando in tal modo due opposte esigenze, da una parte la libertà del consenso del promittente e dall’altra quella dell’affidamento incolpevole del fidanzato che in presenza di una scambievole promessa rivestita di una certa forma, abbia subito conseguenze patrimoniali dannose, dalla preparazione inutile del matrimonio.

6. L’EVOLVERSI DELLA LEGGE E DELLA GIURISPRUDENZA VERSO LA FAMIGLIA DI FATTO

Fino alla decisione in commento, che segna un vero e proprio arresto rispetto all’orientamento precedente, lo schema apprestato in tema di illecito endofamiliare, non sembrava quindi riproducibile nell’ambito dei rapporti pre-matrimoniali, in cui l’esigenza di tutelare il libero ed incondizionato «diritto di ripensamento» del fidanzato era talmente forte da vedersi riconoscere una supremazia assoluta sulla posizione dell’altro, sulla base dell’evidente considerazione che «al cuor non si comanda» e che, su tutti, quest’ultimo è il primo precetto da tutelare.

La famiglia di fatto, tuttavia, è ormai giunta ad acquisire la dignità di formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost., il che ha spinto il legislatore a introdurre progressivamente nell’ordinamento norme volte a equiparare la posizione del convivente a quella del coniuge36.

La sentenza annotata fa riferimento infatti alla «…legge 10 dicembre 2012, n. 219, che ha eliminato ogni residua discriminazione tra “figli legittimi” e “figli naturali”, agli ordini di protezione contro gli abusi familiari, estesi al convivente dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter; al requisito della stabilità della coppia di adottanti, soddisfatto ai sensi dell’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come sostituito dall’art. 7, della legge 28 marzo 2001, n. 149, anche quando costoro abbiano vissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, alla possibilità, prevista dall’art. 408 c.c., novellato dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, che la scelta dell’amministratore di sostegno cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario dell’amministrazione…»37.

I segnali di avvicinamento a una revisione in senso internazionale del concetto di famiglia sono chiari precisi e concordanti e rivelano l’innegabile condizionamento della legislazione sovranazionale (in particolare, art. 8 – Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) che tutela la vita familiare in sé e per sé, che essa sia o meno fondata sul matrimonio.

È pacifico che dalla convivenza more uxorio derivano a carico delle parti doveri che hanno rilevanza solo sul piano morale, tant’è che, muovendo da questo presupposto, si è formato l’orientamento giurisprudenziale conforme e costante per cui l’eventuale pretesa restitutoria del convivente non può essere accolta in quanto spontanea adempimento di un obbligazione naturale, come tale, non ripetibile38.

Non di meno i meccanismi che sovraintendono la famiglia di diritto e quindi le dazioni reciproche o l’esecuzione di prestazioni l’uno a favore dell’altra, che corrispondono all’adempimento di obblighi di assistenza morale e materiale ex art. 143 c.c., si riproducono pedissequamente anche nella famiglia di fatto, ravvisandosi dunque interessi identici, seppure diversamente trattati dalla legge39.

Come per la famiglia di diritto, quindi, anche nella famiglia di fatto, la necessità di tutela sorge nel momento patologico, ovverosia in ragione della cessazione della convivenza.

Un’autorevole dottrina, aveva già ipotizzato di sopperire alla mancanza di tutela nella famiglia di fatto, ricorrendo al rimedio aquiliano «quando alla rottura si accompagnino circostanze tali da individuare una situazione abusiva o quando la rottura venga a porre in luce o venga a completare gli estremi di una fattispecie illecita, quale ad esempio, frequentemente si presenta, per una seduzione attuata nell’ambito di una promessa di sistemazione legale, o anche perché soltanto la convivenza abbia contribuito all’inganno per ottenere azioni dannose o prestazioni non dovute»40.

Lo studioso testé citato, sembra abbia precorso i tempi sia della giurisprudenza, sia della legge, prevedendo un percorso che ha portato all’elaborazione dell’illecito endofamiliare e al successivo spostamento della causa petendi dalla violazione del dovere derivante dal rapporto familiare, alla lesione dell’interesse costituzionalmente rilevante subita dal familiare, che assurge a presupposto necessario e sufficiente dell’azione, pur nell’alveo dell’ingiustizia del danno subito che ne segna il limite.

In questa prospettiva, poco importa se la famiglia sia fondata sul matrimonio, ciò che rileva ai fini di stabilire se nell’interazione dei rapporti familiari si sia verificata la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, è la verifica dell’esistenza di un’unione dotata dei caratteri della stabilità, continuità e serietà, che possa legittimamente assurgere a entrare a far parte del novero di quelle formazioni sociali ove la stessa Carta costituzionale riconosce un’esigenza di tutela.

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, dunque, fa un ulteriore passo in avanti nel processo di ampliamento dell’ambito applicativo dell’illecito civile che accede nell’area, molto più critica, della famiglia di fatto, apprestando di fatto un meccanismo di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità.

La modernità della decisione è certamente rinvenibile nell’importante passaggio contenuto nella sentenza41, in cui i giudici di legittimità si riportano all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e all’interpretazione della Corte EDU, che ha chiarito in varie pronunce come la nozione di famiglia si estenda ad «…altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio…», esprimendo il principio per cui la violazione del diritto inviolabile dell’individuo prescinde dall’esistenza di relazioni familiari giuridicamente rilevanti, ben potendo queste ultime svolgersi in ambiti diversi da quello tipico fondato sul matrimonio.

È evidente che nel quadro delineato vengano in rilievo quali requisiti essenziali la stabilità e la serietà dell’unione di fatto, che su tutti contribuiscono a replicare il modello familiare consacrato nell’ordinamento42, superando in fatto e in diritto il rapporto tipico dei nubendi a cui si aggiunge il legittimo affidamento di colui che vive già da tempo una dimensione familiare.

Il rapporto familiare già instaurato, seppure di fatto, in altre parole, vale a connotare la fattispecie in senso concreto, conferendo al rapporto fra coloro che si erano scambiati una promessa di matrimonio un approccio più aderente alla logica per cui la lesione dei diritti fondamentali della persona meritano un risarcimento adeguato, e ciò proprio in ragione della perdita di quella situazione stabile e consolidata sulla quale almeno uno di loro aveva riposto fiducia.

Contributo approvato dai Referee.

1 In dottrina: Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, artt. 143-148, in Il Codice Civile – Commentario, diretto da Busnelli, II ed., 2012, 4, rileva, che «oltre alla sostanziale diversità degli obblighi reciproci, la disciplina previgente si caratterizzava anche per una prospettiva di “sinallagmaticità” o scambio – piuttosto che di integrazione o concorso nell’attuazione del consorzio familiare – inevitabilmente connaturata all’idea di una sostanziale diversità di attitudini e capacità dei coniugi»; è comunemente rilevato in dottrina il carattere compromissorio della disposizione, derivante dalla necessità di contemperare le istanze cattoliche con quelle laiche e progressiste, per tutti: cfr. Rescigno, Il Diritto di famiglia a un ventennio dalla riforma, in Riv. dir. civ., 1998, I, 109; Sesta, Diritto di Famiglia, II ed., Padova, 2005, 22; Biagi- Guerini, Famiglia e Costituzione, Milano, 1998, 7; Contiero, I Doveri coniugali e la loro violazione, Milano, 2005, 3.

2 Ha qualificato l’obbligo di fedeltà coniugale come regola di condotta imperativa Cass. civ., 9 giugno 2000, 7859, in Giur. it., 2001, 239, con nota di Enriquez, in Fam. dir., 2000, 514, La valutazione comparativa del comportamento dei coniugi, che afferma: «La reiterata violazione, in assenza di una consolidata separazione di fatto, dell’obbligo della fedeltà coniugale, particolarmente se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave dell’obbligo della fedeltà coniugale, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi di regola causa della separazione personale dei coniugi e quindi circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempreché non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. Né ad escludere la rilevanza della infedeltà è ammissibile la qualificazione della stessa quale reazione a comportamenti dell’altro coniuge, non essendo possibile una compensazione delle responsabilità nei rapporti familiari, e potendo invece essere addebitata la separazione a entrambi i coniugi, ove sussistano le relative domande. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza annullata con rinvio dalla S.C., pur in presenza dell’ammissione da parte del marito della relazione adulterina intrattenuta, aveva affermato che nel fallimento dell’unione coniugale aveva avuto un’incidenza decisiva la condotta della moglie, caratterizzata dall’impiego di espressione spiccatamente volgari e oscene nei confronti del coniuge – con coinvolgimento anche dei figli – omettendo l’esame dei fatti rilevanti nel loro complesso, nel rispetto dei criteri suindicati, oltre che inadeguatamente accertando le stesse circostanze di fatto concretamente valorizzate»; Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Guida dir., 2002, 24, 37, con nota critica di Finocchiaro, La ricerca di tutela per la parte più debole non deve “generare” diritti al di là delle legge; Arceri, Dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio, sub art. 143, in Sesta (a cura di), Codice della famiglia, I, Milano, 2007, 423; Zatti, I diritti e doveri che nascono dal matrimonio, cit. 27, per il quale «la parità implica una più estesa giuridicizzazione del rapporto fra coniugi»; Pilla, La responsabilità civile nella famiglia, Bologna, 2006, 13; Arceri, Dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio, cit., 423, la quale con riferimento al valore dei negozi fra coniugi afferma che «del resto, dal nostro impianto normativo non è dato cogliere un chiaro veto all’ingresso del negozio in ambito familiare: al contrario l’affermazione di liceità di tali negozi è insita nei principi affermati dalla nostra Costituzione, ribaditi nelle successive leggi fondamentali, consacrati nel diritto vivente».

3 L’orientamento giurisprudenziale sull’addebito della separazione qualora l’infedeltà sia stata la causa della crisi è costante; come afferma Trib. Milano, Sez. IX, 23 settembre 2011, «la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei medesimi coniugi essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale o sia invece intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza; deve pertanto essere pronunciata la separazione senza addebito allorché non sia stata raggiunta la prova che il comportamento contrario ai doveri del matrimonio tenuto da uno o da entrambi i coniugi, abbia concretamente causato il fallimento della convivenza (Cass. civ., 16 novembre 2005, n. 23071; Cass. civ., 28 aprile 2006, n. 9877; Cass. civ., 5 febbraio 2008, n. 2740)».

4 L’istituto dell’addebito della separazione ha avuto un riscontro assai altalenante nella pratica. Negli anni successivi alla riforma del diritto di famiglia, molte erano le pronunce di separazione con addebito, retaggio della vecchia concezione della colpa, quale presupposto necessario della separazione medesima. Successivamente la giurisprudenza ha mutato indirizzo, valorizzando l’elemento della sopravvenuta mancanza dell’affectio coniugalis rispetto a quello della responsabilità per il fallimento dell’unione matrimoniale. In questi ultimi tempi, l’addebito sembra aver ritrovato una sorta di nuova giovinezza, verosimilmente in concomitanza con l’evoluzione del tema dell’illecito endofamiliare. I fatti che legittimano la proposizione di una domanda di danni sono infatti gli stessi che sono dedotti ai fini dell’addebito (ossia la violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio). Sebbene le due istanze siano indipendenti ed autonome non sono mancate pronunce secondo cui la domanda risarcitoria presupporrebbe la presentazione (e il contestuale accoglimento) di quella di addebito. Si veda di recente, tra le altre, la sentenza Cass. civ., 10 luglio 2008, n. 19065, che ha respinto il ricorso del marito a cui era stata addebitata la separazione a causa della sua indifferenza alla depressione della moglie; secondo la Suprema Corte la convivenza non era dunque divenuta impossibile per la psicosi della moglie ma, all’opposto, per la violazione, da parte del marito, dell’obbligo di assistenza con conseguente abbandono fisico e morale della donna ex art. 143 c.c.; in dottrina: cfr. Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004, 43, il quale ritiene con riferimento al comportamento del coniuge che costituisca presupposto del provvedimento di allontanamento dalla casa familiare ex art. 342-bis c.c. che siffatto comportamento integrante un danno ingiusto possa anche essere fonte di responsabilità civile, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni.

5 Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801, in Fam. dir., 2005, 365, con note di Sesta e Facci segna un passaggio fondamentale rompendo i rigidi schemi che avevano prodotto l’esclusione dell’ipotesi risarcitoria nella famiglia. I Giudici di legittimità affermano che «…Nella risalente sentenza n. 2468/1975 la soluzione positiva della questione appare quasi scontata, lì dove si afferma non potersi escludere a priori che l’adulterio, nel particolare ambiente in cui vivono i coniugi, sia causa di tanto discredito da costituire per l’altro coniuge fonte di danno, a carattere patrimoniale, nella vita di relazione, e che pertanto la violazione da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà, a prescindere dalle conseguenze sui rapporti di natura personale, possa determinare, in concorso di particolari circostanze, un obbligo risarcitorio in favore del coniuge danneggiato. A diversa soluzione sono pervenute le due sentenze n. 3367 e n. 4108 del 1993, la prima delle quali ha affermato che nel caso di addebito della separazione la tutela risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, non integrando l’addebito della separazione la violazione di un diritto dell’altro coniuge, mentre la seconda ha osservato che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico, soltanto il diritto all’assegno di mantenimento, sempre che ne sussistano i presupposti di legge, e che tale diritto esclude la possibilità di chiedere anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo subiti a causa della separazione imputabile all’altro coniuge, costituendo la separazione personale un diritto attinente alla libertà della persona ed avendo il legislatore specificamente, e quindi esaustivamente previsto le sue conseguenze all’interno della disciplina del diritto di famiglia. Da tale orientamento, che chiaramente si fonda sul convincimento che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e completo, a sua volta si è discostata la successiva sentenza n. 5866/1995, la quale, pur affermando che l’addebito della separazione non costituisce di per sé fonte di responsabilità extracontrattuale, ha ammesso in linea teorica la risarcibilità del danno, oltre l’eventuale diritto all’assegno, ove i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrino gli estremi dell’illecito ipotizzato dall’art. 2043 c.c. Va infine richiamata la più recente sentenza di questa Sezione n. 7713/2000, relativa alla diversa pretesa risarcitoria di un figlio nei confronti di un genitore, riconosciuto tale a seguito di dichiarazione giudiziale di paternità, che per anni gli aveva rifiutato i mezzi di sussistenza, secondo la quale siffatta condotta da luogo ad una lesione in sé di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, e conseguentemente può costituire fonte di responsabilità risarcitoria, indipendentemente dalla esistenza di perdite patrimoniali del danneggiato: si è osservato in tale decisione che una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c. impone di ritenere che tale disposizione sia diretta a compensare il sacrificio che detti valori subiscono a causa dell’illecito, così che la norma stessa, correlata agli artt. 2 ss. Cost., deve necessariamente intendersi come comprensiva del risarcimento di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzataci della persona umana, indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la lesione possa comportare...». In dottrina: cfr. Bona, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?, in Fam. dir., 2001, 198; Pilla, La responsabilità civile nella famiglia, cit., 203 e 227.

6 Cass. civ., 22 marzo 1993, n. 33671; e Cass. civ., 6 aprile1993, n.4108, in Giur. it., 1993, in cui è stigmatizzato il principio della totale autonomia del sistema sanzionatorio tipico del diritto di famiglia: «…Dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affido dei figli e della casa coniugale), solo il diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro, quando ne ricorrano le circostanze specificamente previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di chiedere, ancorché la separazione sia addebitabile al’altro, anche il risarcimento dei danni, a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa: e ciò non tanto perché l’addebito del fallimento del matrimonio soltanto ad uno dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi, – proprio in omaggio al principio secondo cui “inclusio unius, esclusio alterius“, – che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquilana ex art. 2043 c.c. che pur senza citare espressamente, la ricorrente sembra chiaramente voler porre a fondamento della sua pretesa risarcitoria per la perdita dei vantaggi insiti in qualsiasi convivenza coniugale…». In dottrina, Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003, 104; Pilla, La responsabilità civile nella famiglia, cit., 201, per il quale il carattere giuridico dei doveri che nascono dal matrimonio è elemento sufficiente per qualificare come ingiusto il danno relativo alla loro violazione.

7 Cass. civ., 26 maggio 1995, n. 5866, in Giur. it., 1997, I, 1, 843, con nota di Amato, che discostandosi dall’orientamento prevalente afferma «…Privo di fondamento è anche il sesto motivo, poiché l’addebito della separazione non rientra, per sé considerato, nel catalogo dei criteri di imputazione della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel concorso delle altre circostanze specificamente previste dalla legge, solo il diritto del coniuge incolpevole al mantenimento (Cass. n. 4108/1993, Cass. n. 3367/1993) e potendosi, quindi, configurare la risarcibilità degli ulteriori danni solo se i fatti che hanno dato luogo alla dichiarazione di addebito integrino gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma ora citata…», ammettendo implicitamente l’ipotesi dell’applicabilità alla famiglia di un diverso sistema risarcitorio che non si pone come alternativa, ma che affianca la sanzione tipica.

8 Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053; Sez. Un. civ., 22 luglio 1999, n. 500, in questa Rivista, 1999, 981; in Foro it., 1999, I, 2487; Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in questa Rivista, 2003, 675; avallata da Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, in questa Rivista, 2003, 1036; In dottrina, cfr., Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta nel danno alla persona, in Corr. giur., 2003, 1032, 1033; Id., Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona, in questa Rivista, 2001, 783, secondo il quale «il danno non patrimoniale include tanto il danno biologico, che il danno morale e il danno esistenziale». Sul tema del rischio di sovrapposizione del danno morale con quello esistenziale, inteso come disagio soggettivo che incida negativamente sulle attività realizzatrici della persona, Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., 100; Cassano, Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale, Padova, 2006, 252.

9 Spangaro, La responsabilità per violazione dei doveri coniugali, in Sesta (a cura di), La Responsabilità nelle relazioni Familiari, Torino, I ed., 2008, secondo la quale «l’avvento della giurisprudenza che ha reinterpretato l’art. 2059 c.c. ampliandone l’ambito applicativo ha prodotto la caduta della tradizionale coincidenza tra il danno non patrimoniale e il c.d. pretium doloris, e dunque il collegamento prima ritenuto indefettibile tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 185 c.p.; venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegue sia soggetto alla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. Una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti».

10 Emblematico il caso su cui si esprime Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Fam. dir., 2001, 161, con nota di Dogliotti; il giudice di merito era stato adito per decidere sulla richiesta risarcitoria di una donna che aveva sofferto di una patologia depressiva a causa della quale si era rinchiusa in casa e precisamente nel salotto, senza che il marito per 4 anni dimostrasse il minimo interesse per il suo stato di salute psicologico, abbandonandola a sé stessa e omettendo di prestarle le cure necessarie, tant’è che il caso venne ad evidenza solo in seguito al trasloco della coppia dall’abitazione coniugale. Ebbene in questo caso il Tribunale affermò la risarcibilità del danno lamentato dalla moglie nei confronti del marito.Anche Trib. Milano, 4 giugno 2002 (in Giur. it., 2002, 2290, con nota di Castagnaro), si è occupato di una fattispecie di illecito civile in ambito familiare (fattispecie in cui il marito aveva annunciato alla moglie incinta di non essere interessato a diventare padre rendendosi latitante in termini di assistenza morale e materiale anche quando quest’ultima si era sentita male) affermando che ove si fosse negata l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. all’illecito endofamiliare, si sarebbe finiti per violare la stessa Carta costituzionale, che tutela i diritti inviolabili dell’individuo in quanto tale, ma anche in quanto coniuge.

11 Spangaro, op. cit., 103-104.

12 Con riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, la casistica è ampia:costituzione del coniuge fedifrago di una seconda famiglia in altro continente (Trib. Trento, 22 giugno 2007, in Resp. civ., 2009, 378); reazione violenta del coniuge infedele (Trib. Venezia, 3 luglio 2006, in Resp. civ., 2006, 951); violazione dell’obbligo di fedeltà con una relazione omosessuale (App. Brescia, 7 marzo 2007, in Fam. dir., 2008, 483, con nota di Facci, Infedeltà omosessuale del marito: alla moglie non spetta il risarcimento perché non vi è stato danno ingiusto; Trib. Brescia, 14 ottobre 2006, in Fam. dir., 2007, 59, con nota di Facci, Relazione omosessuale ed illecito endofamiliare); punito inoltre il raggiro finalizzato ad indurre il partner al matrimonio millantando una falsa gravidanza (App. Milano, 12 aprile 2006, in Fam. dir., 2006, 459, con nota di Facci, L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa e risarcimenti ultramilionari).

13 La nota l. n. 54/2006, ha introdotto l’affido condiviso consegnando al genitore non convivente il potere di esercitare congiuntamente all’altro la potestà genitoriale. Abbandonando lo schema legislativo che nella crisi familiare, relegava il genitore non affidatario a un ruolo meramente residuale, ha posto al centro della disciplina il minore riservandogli il diritto di sviluppare la propria personalità attraverso il corretto svolgimento del rapporto non solo con entrambi i genitori ma anche con i rispettivi rami parentali, diritto che trova la sua fonte nella Carta costituzionale.Per garantire l’attuazione dei provvedimenti giudiziali di affidamento la giurisprudenza ha ammesso l’esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di consegna del bambino da parte di un genitore all’altro ex art. 612 c.p.c., pur precisando l’iter procedimentale a cui ricorrere nei diversi casi in cui:

il provvedimento minorile sia contenuto in una sentenza passata in giudicato e dotata di un attendibile grado di stabilità; il provvedimento minorile sia emesso all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, inidoneo come tale al giudicato, ma pur tendenzialmente stabile; il provvedimento minorile abbia natura cautelare o interinale, e quindi privo di stabilità (provvedimento all’esito della fase Presidenziale nei procedimenti di separazione e divorzio).

Nei primi due casi, secondo lo schema tratteggiato dalla Suprema Corte e ripreso da altre pronunce (Cass. civ., 7 ottobre 1980, n. 5374; Cass. civ., 12 novembre 1984, 5696; App. Palermo, 20 aprile 1990; Trib. Roma, 8 aprile 1988) i provvedimenti sono eseguibili ricorrendo alle norme di cui agli artt. 612 ss. c.p.c.; nel terzo e ultimo caso, il provvedimento può essere eseguito esclusivamente in via breve, mediante forme processuali garantite dallo stesso Giudice del provvedimento anche attraverso organi amministrativi di polizia. È evidente, che l’utilizzo di tali strumenti, si è rivelato inefficace, nel senso che la mera consegna del figlio, pur attuata coattivamente, non è risolutiva in quanto in sé inidonea a predisporre gli strumenti per l’attuazione del provvedimento di affidamento che implica una complessità di rapporti difficilmente inquadrabili nell’asettica struttura normativa delle esecuzioni. Il ricorso, dunque, all’esecuzione forzata dell’obbligo di consegna di un minore in forza di un provvedimento giudiziale può avere quindi una portata esemplare e in qualche misura deterrente del comportamento del genitore alienante, ma non è certamente uno strumento idoneo a correggere comportamenti devianti che si ripetono quotidianamente fino a stabilizzarsi. In questo quadro normativo «colpevole» di consegnare delle pronunce sull’affidamento dei figli senza fornire idonei strumenti di attuazione, si inserisce, con l’avvento della l. n. 54/2006, l’art. 709-ter c.c. che titola: Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze e violazioni. Presupposto logico, quindi, è che vi sia un provvedimento giudiziale in punto all’affidamento e alle modalità di esercizio dello stesso, e che sia sorto un contrasto fra i genitori sull’esecuzione dello stesso, ravvisando inadempienze o comportamenti che comunque creino pregiudizio al minore. La norma è chiaramente finalizzata a tutelare la corretta esecuzione del provvedimento giudiziale nell’interesse del minore ovvero a evitargli quello stato di disagio e di sofferenza derivante dal conflitto, vissuto inevitabilmente con il distacco tipico delle coppie di genitori astratte da un contesto familiare. Il meccanismo utilizzato dalla norma è quello della coercizione indiretta, mutuato dall’esperienza Europea, che sfrutta la minaccia di una sanzione (ammonimento e pagamento di una pena amministrativa – pecuniaria e anche risarcimento del danno), per indurre il responsabile a comportarsi correttamente. In questo contesto, è evidente che la previsione di un risarcimento del danno (comma 2, n. 3 e 4) non può sovrapporsi, con effetto sostitutivo, all’ipotesi risarcitoria ex art. 2043 c.c. che presuppone, come già sopra detto, la lesione di diritti della persona di rango costituzionale. La giurisprudenza di merito (Trib. Messina, 5 aprile 2007; Trib. Vallo della Lucania, 7 marzo 2007; App. Firenze, 29 agosto 2007, in senso contrario Trib. Reggio Emilia, 5 novembre 2007) fin dagli esordi, in effetti si è orientata in questo senso, attribuendo alla previsione di un risarcimento, una funzione pubblicistica di deterrenza e di punizione e ritenendo conseguentemente che anche il risarcimento si collochi nel novero degli strumenti consegnati dal legislatore al Giudice per ottenere la corretta esecuzione del provvedimento sull’affidamento attraverso la coercizione indiretta, senza tuttavia ambire a introdurre meccanismi di risarcimento con natura compensativa che trovano spazio in ambiti processuali e sostanziali specificamente previsti dall’ordinamento. In altre parole, anche l’art.709-ter c.p.c., può essere compreso nel sistema sanzionatorio tipico del diritto di famiglia, che rispondendo a finalità specifiche, trova la sua ratio nei principi che ispirano la complessità dei rapporti che contraddistingue la forma di aggregazione primaria in cui il singolo individuo deve poter trovare occasione di sviluppare la propria personalità e di realizzarsi correttamente. In dottrina: per Facci, Violazione dei doveri familiari e responsabilità civile, in Resp. civ., 2007, 281, con tale norma, l’illecito endofamiliare «ha ottenuto il decisivo avallo del legislatore»; Id., L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa e risarcimento ultramilionari, cit. 516; cfr. anche De Marzo, Interruzione volontaria di gravidanza, addebito della separazione e responsabilità risarcitoria per lesione del diritto alla paternità, in Fam. dir., 2006, 200, nota a Trib. Monza, 26 gennaio 2006; Paladini, Responsabilità civile della famiglia: verso i danni punitivi?, in questa Rivista, 2007, 191, che ipotizza de iure condendo, l’ingresso nel nostro ordinamento dei c.d. punitive damages, per reprimere condotte caratterizzate da slealtà e mala fede; Arceri, L’affidamento condiviso. Nuovi diritti e nuove responsabilità nella famiglia in crisi, Milano, 2007.

14 Significativa è la motivazione di App. Trieste, 8 febbraio 2012, inedita, secondo la quale «un interpretazione conforme al dettato dell’art. 30, Cost., descrittivo del “principio di responsabilità per la procreazione” impone di ritenere sufficiente la mera contestazione (accompagnata dalla consapevolezza di aver avuto un rapporto sessuale completo e non protetto) di paternità per far sorgere nell’obbligato uno specifico dovere di attivarsi per tutelare quello status di filiazione non già sotto il profilo formale mediante riconoscimento, ma per proteggere lo status sostanziale se non con uno spontaneo adempimento (almeno parziale) dei doveri genitoriali, almeno assolvendo l’obbligo imposto da norma di comune diligenza di approfondire la situazione di paternità senza contestare apoditticamente pur a fronte di indizi contrari univoci».

15 Cass. civ.7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, 159, con nota di Dogliotti, La Famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico e danno esistenziale; in Corr. giur., 2000, 873, con nota di De Marzo, La Cassazione e il danno esistenziale; in Danno resp., 2000, 835, con note di Monasteri e Ponzanelli; in questa Rivista, 2000, 923, con nota di Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale. Nella fattispecie, il padre aveva omesso di prestare al figlio non solo l’assistenza morale ma anche quella materiale. La domanda era stata introdotta dalla madre e poi dal figlio stesso divenuto maggiorenne, ma subito dopo l’instaurarsi del giudizio, il padre si era affrettato a versare al figlio una somma a titolo di contributo al mantenimento arretrato, finalizzando la sua inaspettata «generosità» a evitare l’insorgenza del reato di cui all’art. 570 c.p. e quindi il rischio della sussistenza del danno morale come tale risarcibile. Tuttavia, l’Autorità Giudiziaria adita accolse la domanda attribuendo al figlio una somma di denaro, la cui natura risarcitoria/indennitaria era resa evidente dal fatto che il padre aveva già precedentemente assolto all’obbligo contributivo maturato.

16 Spangaro, op. cit., 109.

17 Cass. civ., 7 novembre 2003, n. 16716 in Guida dir., 2003, 50, 50; Cass. civ.,18 novembre 2003, n. 17429, in Giur. it., 2003; in Arch. civ., 2004, 162 e 1087; in Arch. giur. circol., 2004, 1038; Cass. civ., 12 dicembre 2003, n. 19057, in Giur. it., 2003; in Arch. civ., 2004, 1231; in Arch. giur. circol., 2004, 1140; in Danno resp., 2004, 762, in Gius, 2004, 2260. In dottrina, hanno evidenziato come l’art. 30 Cost., tuteli la condizione di figlio in conseguenza del fatto naturale della procreazione, in modo incondizionato, ed indipendente dall’accertamento di stato, Ferrando, La filiazione naturale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Persone e famiglia, 4, III, Torino, 1997, 163; Id., La Filiazione – Note introduttive, in Il nuovo diritto di famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Ferrando, III, Bologna, 2007, 33; Lena, sub art. 261 c.c., in Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2009, 1308.

18 Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801, cit.; in dottrina: Facci, Il danno da adulterio, in questa Rivista, 2012, 1486, secondo il quale «prima dell’arresto di legittimità del 2005, la S.C. aveva esaminato la questione soltanto attraverso obiter dicta, riguardanti spesso casi non attinenti alla fattispecie in esame (Cass. civ., 6 aprile 1993, n. 4108, cit.; Cass. civ., 22 marzo 1993, n. 3367, cit.; Cass. civ., 26 maggio 1995, cit.). In un precedente ad esempio si è negato che nell’ambito della separazione personale dei coniugi, fosse possibile chiedere anche il risarcimento dei danni, a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione (Cass. civ., 6 aprile 1993, n. 4108); nel caso di specie, riguardante una separazione senza addebito, la moglie lamentava, senza invocare le norme della responsabilità civile, la perdita di quei vantaggi economici insiti nella convivenza coniugale. Un’apertura, seppure in forma di obiter dictum nei confronti dell’applicabilità dei principi della responsabilità civile nei rapporti fra coniugi vi è stata in un’ipotesi riguardante la domanda di risarcimento del danno proposta in un giudizio di separazione, per i costi derivanti dal trasferimento in un domicilio diverso da quello coniugale e per provvedere al relativo arredamento (Cass. civ.26 maggio anno …, n. 5866, cit.). Senza dubbio potrebbe essere molto interessante Cass. civ., 19 giugno 1975, n. 2468, in Giust. civ. Mass., 1975, la cui massima è la seguente: «la violazione da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà a parte le conseguenza di natura personale, può anche costituire in concorso con determinate circostanze, fonte di danno patrimoniale per l’altro coniuge, per effetto del discredito derivantegli; trattandosi però di un danno non necessariamente derivante dalla subita infedeltà, né da essa desumibile come potenziale, ma solo possibile nel caso concreto, per la pronuncia di una condanna generica al risarcimento di esso, non è sufficiente la semplice dimostrazione dell’infedeltà medesima, occorrendo anche la prova delle circostanze che abbiano determinato, nel caso specifico, l’incidenza patrimoniale concreta o quantomeno potenziale, di quell’illecito». Tuttavia, di tale pronuncia si conosce solo la massima, mentre rimane sconosciuto il caso specifico da cui la sentenza ha tratto origine.

19 È stato riconosciuto il danno endofamiliare anche nelle ipotesi in cui alla condotta omissiva del genitore nei confronti del figlio non riconosciuto sia conseguito un pregiudizio derivante dal non aver potuto il figlio sviluppare la propria personalità anche attraverso il genitore assente. Si sono espresse in tal senso: Trib. Venezia, 18 aprile 2006, in Resp. civ., 2007, 927, con nota di Facci; App. Bologna, 10 febbraio 2004, in Fam. dir., 2006, 511, con nota di Facci; ed in Resp. civ., 2009, f. 12.

20 Carraro, Il nuovo Diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1975, I, 105, sottolinea come il vecchio sistema giuridico fondasse la stabilità della famiglia sul diritto, mentre il nuovo sembra riporre minor fiducia nella disciplina imposta dal legislatore e fa invece affidamento sulla stabilità dei sentimenti e degli interessi che legano i coniugi.

21 Trib. Venezia, 14 maggio 2009, in questa Rivista, 2009, 1885, con nota di Cendon; in Fam. dir., 2009, 1147, con nota di Facci.

22 Evidenzia come l’attuale disciplina della crisi coniugale tenda a contenere piuttosto che accentuare il ricorso a strumenti sanzionatori, Ferrando, Responsabilità civile e rapporti familiari alla luce della L. 54/2006, in Fam. pers. succ., 2007, 596; sul rischio che il risarcimento del danno fra coniugi da eventualità eccezionale divenga, invece, la regola dei conflitti coniugali, Basini, Infedeltà matrimoniale e risarcimento, Il danno endofamiliare fra coniugi, in Fam. pers. succ., 2012, 102, nota 71.

23 Ferrando, Responsabilità civile e rapporti familiari alla luce della L. 54/2006, cit., 591 ss., secondo la quale«finita l’era dell’immunità la giurisprudenza si trova ora impegnata a tracciare i confini della responsabilità civile in famiglia».

24 Nel mutato scenario giurisprudenziale attraverso il quale il tema della responsabilità civile aveva trovato una precisa collocazione nell’ambito dei rapporti familiari, l’addebito al coniuge inadempiente era pur sempre pregiudiziale all’azione di risarcimento, tal che l’ipotesi risarcitoria non era meramente collegata alla violazione ma alla pronuncia giudiziale sulla violazione stessa.Pur non essendo rinvenibile una norma di diritto positivo o motivi di ordine sistematico idonei ad affermare tale pregiudizialità, la giurisprudenza si era arrestata sull’esigenza di ricondurre l’azione di risarcimento all’accertamento giudiziale della responsabilità della separazione.

Tale arresto è superato dalla decisione della Suprema Corte con Cass. civ., 15 settembre 2011, n. 18853 (in Fam. pers. succ., 2012, 94, con nota di Basini, L’infedeltà matrimoniale e il risarcimento. Il danno endofamiliare tra coniugi) e dalla successiva Cass. civ., 17 gennaio 2012, n. 610 (in Fam. dir., 2012, 254) che affermano l’autonomia dell’azione risarcitoria ribadendo che «…la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di un illecito civile…» e che la domanda di risarcimento possa essere formulata a prescindere da quella di separazione e di addebito, in quanto è pacifico che dalla stessa causa petendi possano derivare una pluralità di azioni distinte ciascuna con diverso petitum, tal che ove non vi sia stata né domanda né pronuncia di addebito «…il giudicato si forma coprendo il dedotto e il deducibile in relazione al petitum azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale». In dottrina, Facci, L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa e risarcimenti ultramilionari, cit., 521, sottolinea come la due pronunce della S.C. del 2003 abbiano respinto la tesi del danno in re ipsa sottolineando che il risarcimento del danno ha funzione rimediale, opera cioè per «neutralizzare la perdita sofferta concretamente dalla vittima, mentre l’attribuzione (…) di una somma di denaro in conseguenza del mero accertamento della lesione finirebbe per configurarsi come somma – castigo, come una sanzione civile punitiva».

25 In particolare la sentenza Cass. civ., 17 gennaio 2012, n. 610, cit., delimita l’ambito applicativo dell’illecito endofamiliare evidenziando che il presupposto logico dell’azione di risarcimento è l’ingiusta lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

26 Sez. Un. civ., 22 luglio 1999, n. 500, cit.

27 Ferrando, Rapporti familiari e responsabilità civile, in Cendon (a cura di), Persona e danno, Milano 2004, vol. III, 2788.

28 Facci, L’infedeltà coniugale e l’ingiustizia del danno, nota a Trib. Milano, 24 settembre 2002, in questa Rivista, 2003, 468.

29 Nassetti, Le conseguenze dannose dell’amore: la rottura della promessa di matrimonio, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 1133, secondo la quale «si rende più che mai opportuno circoscrivere l’area di operatività dell’illecito endofamiliare, tenendo in debita considerazione che il processo di importazione dei criteri tipici della responsabilità aquiliana in ambito familiare, si rivela inevitabilmente più che mai delicato, andando ad operare in un contesto contraddistinto da formazioni sociali in divenire, ove alla sistematicità delle norme impositive di diritti e obblighi, si sovrappone la sfera sentimentale ed affettiva dei soggetti, confondendo giustizia ed equità.In questa materia, la percezione da parte del giudice dei fatti che si pongono a fondamento di ogni domanda è più che mai importante: la relazione extraconiugale integra certamente la violazione di un dovere coniugale, ma è anche causa di addebito della separazione se il coniuge tradito per tutta la durata del matrimonio ha mantenuto un atteggiamento totalmente distaccato e disinteressato, privativo di ogni forma di affetto, complicità e condivisione, ed anzi al contrario generando deliberatamente nell’altro coniuge la convinzione di non essere adeguato sotto ogni aspetto della vita coniugale? Potrebbe dirsi che ogni coppia ha il suo equilibrio, e che tali meccanismi di vita siano tanto delicati quanto discutibili, seppure a volte efficaci fino a quando il rapporto coniugale non sfoci nella patologia».

30 Riccio, Famiglia e Responsabilità civile, in Autorino Stanzione (diretto da), Il diritto di famiglia nella Dottrina e nella Giurisprudenza, vol. I, Il matrimonio – I rapporti Personali, Torino, 2005, 394 ss.

31 Piccaluga, Famiglia, malattia, abbandono e responsabilità civile, in Fam. dir., 2003, 200 ss.

32 Scarso, Danno non patrimoniale e responsabilità prematrimoniale, in questa Rivista, 2006, 1013.

33 Cass. civ., 15 aprile 2010, n. 9052, in Nuova giur. civ. comm., con nota di Nassetti, op. cit.; Trabucchi, Della Promessa di matrimonio, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi, II, sub. Artt. 79-81, Padova, 1992, 29, parla di «una riparazione riconosciuta al di fuori di un presupposto di illeceità», evidenziando come: «opportunamente il legislatore non ha neppure usato, per l’art. 81 che limita il previsto risarcimento dei danni, il termine responsabilità perché la conseguenza circa l’onere delle spese è costituita da un’obbligazione che la legge lega direttamente all’esercizio di una facoltà attribuita in relazione al riconoscimento della promessa». Del medesimo orientamento è Oberto, La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, 205; OBERTO, Promessa di matrimonio, in Digesto civile, XV, Torino, 1997, 405La promessa di matrimonio, in Tratt. Dir. fam., diretto da Zatti, I, 1, Milano, 2002, 185.

34 App. Roma, Sez. IV, 18 ottobre 2006, in Fam. dir., 2007, 476, nota di Facci; Trib. Bari, Sez. I, 28 settembre 2006, in Corr. merito, 2007, 295; Trib. Reggio Calabria, 12 agosto 2003, in Dir. fam., 2004, 484, s.m.; e in Giur. merito, 2004, 282, s.m.

35 Tatarano, Rapporti da promessa di matrimonio e dovere di correttezza, in Riv. dir. civ., 1979, 675; Oberto, La Promessa di matrimonio, cit., 190.

36 Balestra, L’Illecito nella Convivenza, in Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 336; Id., La famiglia di fatto, Padova, 2004, 1 ss.

37 Analoghe considerazioni, aggiunge la sentenza annotata, sono da farsi riguardo il percorso giurisprudenziale che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno al convivente (Cass. civ. n. 12278/2011; Cass. civ. n. 23725/2008) oltre alla rilevanza giuridica della convivenza del coniuge separato o divorziato sul diritto all’assegno di mantenimento o divorzile (Cass. civ. n. 3923/2012; Cass. civ. n. 17195/2011)

38 Cass. civ., 20 gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ., 1989, 498; Trib. Roma, 13 maggio 1995, in Gius, 1995, 3593, con nota di Lascialfari secondo il quale «Non può (…) essere posto in dubbio che nella valutazione corrente della società moderna la convivenza more uxorio può essere fonte di doveri morali e sociali, per i quali, pur non essendo stata accordata dalla legge alcuna azione a tutela del loro adempimento, è stata però esclusa la tutela di quanto spontaneamente pagato»; Trib. Messina, 10 settembre 1997, in Fam. dir., 1988, 255, con nota di Ferrando: «La mancanza, in ipotesi di famiglia di fatto, di qualsiasi impegno giuridicamente vincolante a tal fine, non esclude che, dal punto di vista etico sociale, la convivenza more uxorio si integri comunque in sé (anche) nel reciproco darsi assistenza e nel contribuire di entrambi, secondo le rispettive possibilità, alle spese del menage familiare; la sussistenza di tale vincolo morale ha tuttavia l’unico effetto ( sul piano giuridico) di rendere non più ripetibili – da parte del convivente che li abbia effettuati – gli esborsi sostenuti per sopperire alle esigenze del compagno, integrando essi un adempimento di obbligazione naturale».

39La giurisprudenza di merito ha stigmatizzato l’irrepetibilità delle dazioni effettuate durante la convivenza in varie occasioni: Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1992, I, 2, 428, con nota di Calvo, in cui i giudici «hanno escluso la configurabilità di un mutuo o di un altro titolo negoziale in ordine ai versamenti operati dall’attrice», con conseguente irrepetibilità degli stessi; v. anche App. Napoli, 5 novembre 1999, in Giur. nap., 2000, 232, che ha ricondotto nell’alveo delle obbligazioni naturali, l’attribuzione patrimoniale a favore dell’ex convivente more uxorio, pur fatta a titolo di indennizzo per il sacrificio della sua aspirazione a un’esistenza economicamente autonoma e indipendente e quindi al fine di assicurargli adeguate risorse per il tempo successivo alla cessazione del rapporto.

40 Trabucchi, Morte della famiglia o famiglie senza famiglia?, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, 24; Bile, La famiglia di fatto: profili patrimoniali, in La famiglia di fatto, atti del Convegno Nazionale di Pontremoli 27-30 maggio 1976, Montereggio-Parma, 1977, 95 ss.; Busnelli, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 141.

41 «La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184/2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, già nella sentenza n. 237/1986, ebbe ad affermare che “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche”. L’affermazione secondo la quale per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, si trova poi ribadita nella sentenza n. 138/2010. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, riconosciuto il diritto del convivente di soggetto deceduto a causa di un terzo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (v. sent. n. 12278/2011, n. 23725/2008), e attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di mantenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923/2012, n. 17195/2011). Né può, infine, sottacersi l’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, fornita dalla Corte EDU, che ha chiarito che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio (v., per tutte, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria)».

42 Paradiso, La comunità familiare, Milano, 1984, 106; Santilli, Note critiche in tema di famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 842; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Padova, 1992, 113; D’Angeli, La tutela delle convivenze fuori dal matrimonio, Torino, 1995, 68 ss.; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. dir., 1998, 192; Polidori, Convivenza e situazioni di fatto (i rapporti personali), in Tratt. Dir. Fam., cit., 824.