L’effetto (non) devolutivo del reclamo conto la sentenza dichiarativa di fallimento

Alberto Tedoldi, L’effetto (non) devolutivo del reclamo conto la sentenza dichiarativa di fallimento, in Fallimento, 2011, 3, 291

L’effetto (non) devolutivo del reclamo conto la sentenza dichiarativa di fallimento

Sommario: 1. Il caso – 2. L’intendimento del legislatore con il decreto correttivo – 3. Procedimento a contenuto oggettivo e secondo forme predeterminate – 4. La doppia riforma dell’art. 18 l.fall.: prima l’appello… – 5. (Segue) … il reclamo secondo il rito differenziato fallimentare – 6. La struttura bifasica del processo secondo il rito cameral-fallimentare – 7. Il reclamo: non è mera revisio prioris instantiae, sub specie di “appello mascherato” – 8. Il reclamo: è novum iudicium ad efficacia devolutiva piena e automatica
1. Il caso
Il socio accomandatario e legale rappresentante della società fallita, nell’impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento mediante reclamo ex art. 18 l.fall., si era doluto che il tribunale in prime cure, nel determinare la sussistenza dei requisiti di fallibilità di cui all’art. 1, secondo comma, l.fall., avesse erroneamente calcolato gli investimenti e i ricavi lordi degli ultimi anni di attività sociale effettiva. Nulla egli aveva lamentato circa il triennio da prendere in considerazione ai sensi di tale norma, ancorché la società, negli ultimi tre esercizi, fosse risultata di fatto inattiva. Ciò nonostante, la corte d’appello adita aveva revocato il fallimento, sulla considerazione che il triennio da esaminare dovesse essere quello anteriore al deposito dell’istanza di fallimento in senso strettamente cronologico, e quindi il triennio di inattività sociale, anziché l’ultimo periodo di esercizio effettivo dell’impresa. La Suprema Corte, adita dalla curatela fallimentare nonché, con ricorso incidentale, dall’Inps già creditrice istante, ha annullato con rinvio la sentenza di revoca del fallimento, escludendo che la cognizione della corte d’appello potesse estendersi a questioni non fatte valere dal reclamante mediante apposito motivo di doglianza, quale era la quaestio inerente al triennio anteriore all’istanza di fallimento da prendere in considerazione per i parametri di cui all’art. 1, secondo comma, l.fall.

2. L’intendimento del legislatore con il decreto correttivo
La Cassazione perviene alla conclusione compendiata nel paragrafo precedente consapevolmente discostandosi dall’intenzione del legislatore, quale esplicitata nella Relazione di accompagnamento al decreto correttivo n. 169/2007, che ha riscritto l’art. 18 l.fall. e sostituito al termine “appello” la parola “reclamo” già nella rubrica, sostituzione che non saremmo inclini a ritenere tout court “una, perniciosa, espressione decettiva” (1).
Nel passo di tale Relazione si legge a chiare lettere che la modifica è volta “ad escludere l’applicabilità della disciplina dell’appello dettata dal codice di rito e ad assicurare l’effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione, com’è necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito”. Non vennero, infatti, accolte le osservazioni della Commissione Giustizia del Senato, che aveva proposto di non sostituire l’appello con il reclamo.

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Ora, se è pur vero che, tra i due criteri ermeneutici della littera e dell’intentio conditoris, apparentemente posti dall’art. 12, primo comma, prel. sul medesimo piano assiologico, si suol dare prevalenza alla prima per tralatizio ossequio ad assai discutibile massima onde in claris non fit interpretatio, sì che all’intenzione del legislatore si fa ricorso in via sussidiaria, sol quando l’elemento testuale sia ambiguo ed equivoco, vero è anche che da un lato, a parer nostro e come vedremo nei successivi paragrafi, la lettera dell’art. 18 l.fall. e il sistema cameral-fallimentare dettati e voluti dal conditor con le riforme del 2006-2007 depongono in un senso diametralmente opposto a quello abbracciato dalla Suprema Corte nella sentenza in epigrafe, dall’altro lato e comunque, nel dubbio, i due criteri ermeneutici dovevano essere armoniosamente utilizzati, senza obliterare e cancellare del tutto il secondo, tenendolo in completo non cale e respingendolo funditus, quasi non possa esercitare influenza veruna (2).
Se il conditor legum, nel 2007 e dopo poco più di un anno di applicazione della riforma di cui al D.Lgs. n. 5/2006, è intervenuto nuovamente sul testo normativo dell’art. 18 l.fall. con il preciso scopo di por fine a diatribe sui caratteri e, specialmente, sull’efficacia devolutiva dell’appello contro la sentenza di fallimento, non pare possibile prescinderne e discostarsi, se non a fronte di elementi testuali che manifestamente smentiscano l’intentio conditoris (3) o che si pongano in palese e inconciliabile contrasto con imprescindibili e dirimenti valori costituzionali, doverosamente rimettendo, in tale ultimo caso, ogni valutazione alla Consulta.
Si ha insomma la sensazione che la scelta della Corte regolatrice sia stata, ancor qui, dettata da esigenze di “autodifesa” e di “filtro” all’insostenibile quantità dei ricorsi che giungono innanzi ad essa anche in subiecta materia, adoprando stilemi argomentativi che poggiano su un utilizzo del principio costituzionale di ragionevole durata in funzione modificatrice delle regole processuali (4).
Tutto ciò avviene nonostante la riserva di legge incisa nell’incipit dell’art. 111 Cost., prima d’ogni altra norma, costituisca un freno evidente all’arbitrio soggettivo del giudice e fondamentale garanzia per le parti di quel “giusto processo” che la nostra Carta fondamentale vuole appunto “regolato dalla legge”, vietando per ciò stesso operazioni nomopoietiche nel campo processuale a nocumento, talora esiziale, degli interessi sostanziali (5).

3. Procedimento a contenuto oggettivo e secondo forme predeterminate
Principi questi di rigorosa legalità e di predeterminazione delle regole processuali che valgono viepiù nel contesto e nell’esercizio di una giurisdizione a contenuto oggettivo, entro i quali da illustre e diffusa dottrina è ricondotto il processo di fallimento, sia pure non senza acuti tentativi di ripensamento alla luce della riforma organica della legge fallimentare (6).
Un concetto quello di processo a contenuto oggettivo che continua a conservare attualità pur dopo le recenti novelle, dacché non pare possibile ravvisare nell’oggetto del processo dichiarativo del fallimento una situazione giuridica soggettiva (7), neppure su un piano esclusivamente processuale e come situazione potestativa volta a sostituire alla regolazione privatistica dei crediti una regolazione concorsuale, attraverso un “accertamento costitutivo processuale” efficace nei confronti di una pluralità di soggetti (8).
A noi sembra che la modificazione del credito dell’istante, come dei crediti in genere verso l’imprenditore dichiarato insolvente, costituisca semmai un effetto della procedura concorsuale una volta aperta, ma non possa formarne direttamente e immediatamente l’oggetto: il contenuto del processo dichiarativo di fallimento è predeterminato ex lege e a rime obbligate, verte sui presupposti del fallimento (qualità di imprenditore fallibile e stato d’insolvenza) e conduce a un accertamento costitutivo, che apre la procedura concorsuale e produce effetti soggettivi allargati a coloro i quali hanno intrattenuto o intrattengono rapporti con l’imprenditore fallito e, dunque, erga omnes, dove gli omnes sono, appunto ed essenzialmente, i titolari di posizioni giuridiche soggettive con il fallito, attive o passive, pendenti o preterite, non certo la generalità dei consociati (9).
L’istanza di un creditore non consiste, dunque, in una domanda giudiziale in senso tecnico, avente ad oggetto un potere processuale di trasformazione strutturale del credito, da assoggettare non più agli ordinari strumenti privatistici di tutela, bensì a regolazione concorsuale, ma è mera sollecitazione ad avviare il processo dichiarativo del fallimento, che corrisponde a un potere di impulso, a una “mera azione” avulsa dalla titolarità di un diritto soggettivo, sostanziale come processuale (10). È la legge a individuare una serie di soggetti interessati ad aprire il procedimento giurisdizionale di fallimento, ritenendoli i più adatti a sollecitare l’intervento del giudice, perché prossimi alla situazione obiettiva esistente (11) ovvero istituzionalmente preposti a tutelare l’interesse generale (e oggettivo, appunto) dell’ordinamento giuridico, qual è il pubblico ministero (12). Tant’è che la titolarità e l’esistenza del credito in capo al creditore istante è mero requisito di legittimazione al ricorso per dichiarazione di fallimento, con carattere di pura questione pregiudiziale, soggetta a cognizione incidenter tantum e in nessun caso da decidere con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. (13).
Orbene, se tale ricostruzione del giudizio dichiarativo del fallimento come processo a contenuto oggettivo resta attuale pur dopo la riforma della legge fallimentare, risulta particolarmente pernicioso, ancor più che nei processi tra privati su rapporti giuridici soggettivi, che il singolo interprete, sia pure autorevole e nomofilattico, prenda le distanze dalla voluntas legis qual palesata dal legislatore nel dettare un testo normativo, accompagnandolo con inequivoche manifestazioni circa l’intentio perseguita: pena la violazione della riserva di legge fissata nell’art. 111, primo comma, Cost. e, con questa, del principio basilare del “giusto processo regolato dalla legge”, cioè dal legislatore, non dal singolo giudice.

4. La doppia riforma dell’art. 18 l.fall.: prima l’appello…
Tale conclusione si giustifica viepiù alla luce della riforma scritta e voluta dal legislatore nel biennio 2006-2007 per i procedimenti di apertura delle procedure concorsuali e per quelli endoconcorsuali in genere, sì da creare (almeno tendenzialmente) un modulo cameral-fallimentare, certamente disomogeneo e con incongruenze e contraddizioni non lievi, eppure nettamente differenziato da ogni altro rito processuale, a cognizione piena o sommaria, ordinario o speciale, camerale e non (14).
È noto come il D.Lgs. n. 5/2006 avesse finalmente abrogato l’opposizione alla sentenza di fallimento, che dava luogo a un processo a cognizione piena, dinanzi al medesimo tribunale e con efficacia devolutiva piena (15), destinato a concludersi con una sentenza soggetta ad appello e, deciso questo, a successivo ricorso per cassazione, nella piana e integrale applicazione del rito ordinario, salvo alcune concessioni ai poteri istruttori d’ufficio dei giudici di merito (16). È chiaro che in una struttura così congegnata, che si protraeva per i non esigui lustri di normale durata di un processo ordinario di cognizione, l’appello rispondeva agli ormai consolidati canoni della revisio prioris instantiae, avendo le parti ogni agio di far valere, nei tempi e nei modi prescritti, tutte le proprie difese e le proprie ragioni già in primo grado. Sicché il progressivo ridursi e “rastremarsi” del thema decidendum tra un grado e l’altro del giudizio era la naturale conseguenza di un giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento già assai ampio e devolutivo, nonché informato a tutte le garanzie del rito ordinario a cognizione piena, dipanantesi in due gradi di merito e uno di legittimità.
Abrogata l’opposizione alla sentenza di fallimento, la riforma della legge fallimentare non esitò a intervenire, in guise pur tuttavia asistematiche, sui procedimenti endoconcorsuali, su quelli comunque attinenti al fallimento e, in apicibus, già sul processo che lo generava e vi dava ingresso, snellendoli e, in linea di massima, conformandoli al modulo camerale (17). Anzi, si era giunti a prevedere non soltanto una (per vero, consueta) vis attractiva del foro, ma finanche del “rito fallimentare” rispetto a tutti i procedimenti comunque inerenti al fallimento o da esso nascenti (v. il secondo comma dell’art. 24 l.fall., contenente un generico rinvio ai procedimenti camerali ex artt. 737 ss. c.p.c., giustamente abrogato dal decreto correttivo n. 169/2007) (18).
Le contraddizioni asistematiche del conditor del 2006 s’ebbero anche nel testo dell’art. 18 l.fall., che allora vide bensì l’abolizione del giudizio di opposizione a sentenza di fallimento, per sostituirlo tout court con l’appello; ma la struttura e il regime di questo, lasciati pressoché in bianco, parevano destinate ad atteggiarsi, quanto meno per chi fosse stato già parte del procedimento in prime cure (non certo pei terzi che pure l’art. 18 l.fall. legittima a impugnare la sentenza di fallimento), a immagine e somiglianza dell’appello secondo il rito ordinario o, meglio, secondo quello laburistico, che inizia con ricorso ed è strutturato come revisio prioris instantiae anziché novum iudicium (19).
Il risultato, probabilmente né cercato né consapevolmente voluto dal conditor del 2006, non era scevro di coerenza e ragionevolezza per chi fosse convinto della necessità assoluta, in base a indeclinabili valori costituzionali, di avere almeno un grado di giudizio a cognizione piena ed esauriente dopo un procedimento camerale informato a canoni di speditezza e sommarietà, imposti dalla necessità di provvedere celeriter sull’istanza di fallimento (20): l’appello more (quasi) ordinario di cui al pregresso art. 18 l.fall. poteva dunque servire alla bisogna e dar conforto a tale tesi, accordando almeno un grado di processo a cognizione piena (21).
Sennonché è proprio la conformazione dell’appello nel diritto vivente qual tratteggiato, prima ancora che dal legislatore delle molteplici novelle processuali, dalla giurisprudenza della Suprema Corte consolidatasi dal 1987 a questa parte (22), a impedire che il secondo grado di giudizio si connoti come luogo idoneo ad accogliere una cognizione piena ed esauriente, considerati soprattutto i numerosi e sempre più severi limiti all’introduzione di nova in seconde cure. Tant’è che, nell’introdurre il procedimento sommario di cognizione, il legislatore del 2009 ha sentito il bisogno di riaprire l’appello a nuove prove precostituite e costituende (art. 702 quater c.p.c.), distaccandosi da quel che normalmente avviene nei giudizi di seconde cure che, alla stregua dell’art. 345, terzo comma, c.p.c. (o dell’art. 437, secondo comma, c.p.c. per il rito del lavoro, ma con minor sicurezza per i documenti, il cui tendenziale divieto non è stato ivi riprodotto), non danno ingresso a nuovi mezzi di prova, salvo che siano indispensabili o da essi la parte sia decaduta per causa a sé non imputabile.
E tant’è che molti commentatori, pur applicando di massima all’appello della sentenza di fallimento, ai sensi dell’ante vigente art. 18 l.fall., le norme sull’appello ordinario o, segnatamente, laburistico, non esitavano ad ampliare la facultas nova deducendi in seconde cure a seconda di chi fosse l’impugnante (il fallito o il terzo interessato) (23) e, anche per chi fosse parte, in proporzione inversa rispetto alla compressione delle garanzie e delle difese nel primo grado cameral-fallimentare, a guisa di postuma compensazione (24), con ciò creando una forma di appello “ad assetto variabile” in base alla discrezione del giudice del gravame cui verrebbe, in ultima analisi, rimesso il compito di stabilire ad nutum quali difese la parte non avesse avuto la possibilità di sollevare tempestivamente dinanzi al primo giudice, essendo peraltro agevole preconizzarne una completa e tendenziale, oltre che discrezionale e imponderabile, esclusione per le già evidenziate ragioni d’autodifesa di fronte alla mole insostenibile del carico giudiziario.

5. (Segue) … il reclamo secondo il rito differenziato fallimentare
Sotto qualsiasi luce lo si volesse osservare, il processo per dichiarazione di fallimento partorito dal conditor nel 2006 non poteva non apparire distonico e lesivo delle garanzie difensive. A un primo grado camerale, concentrato e rapido, seguiva un appello tendenzialmente chiuso ai nova, almeno per il fallito che, costituito o contumace che fosse in prime cure, non avrebbe potuto, salvo eccezionali casi di rimessione in termini, allegare nuovi fatti né produrre nuovi documenti né avanzare nuove istanze istruttorie in appello, ma al più sollecitare il rilievo ex officio di effetti giuridici scaturenti da risultanze probatorie già acquisite al fascicolo del procedimento, giusta l’inveterato brocardo della Scolastica medievale, onde quod non est in actis non est in hoc mundo.
Tutto ciò rendeva, come ognun scorge, troppo brusco, se non addirittura incostituzionale, il passaggio dalle distese garanzie dell’opposizione alla sentenza di fallimento, quale prevista nella legge fallimentare del 1942 ante riforma – con tutti gli annessi crismi, ma anche le intollerabili lungaggini, del processo ordinario a cognizione piena con i suoi tre gradi di giudizio – alla concentrazione di un solo grado concentrato e camerale, sgorgante nella pronuncia di fallimento, la quale restava soggetta soltanto a un appello chiuso ai nova e a susseguente impugnazione di mera legittimità innanzi alla Suprema Corte.
Ecco che allora il legislatore del 2007, ravvisando la necessità di apportare delle modifiche al D.Lgs. n. 5/2006, atteso che dottrina e giurisprudenza hanno evidenziato numerosi aspetti critici e problematici della “riforma organica” delle procedure concorsuali (25) e, nondimeno, restando fedele agli originari propositi ed anzi affinando, per coerenza e sistematicità, la ricerca di un modello unitario per le controversie endofallimentari (26), riscrisse l’art. 18 l.fall. e introdusse il reclamo, in luogo dell’appello, con l’esplicito scopo di accordare un rimedio appropriato alla struttura camerale del procedimento e ad efficacia devolutiva piena e automatica (27).
E ad evitare censure di violazione della riserva di legge di cui all’art. 111, primo comma, Cost., ebbe avvertenza di non limitarsi a rinviare sic et simpliciter alle norme generali sui procedimenti in camera di consiglio contenute negli artt. 737 ss. c.p.c. – che, nella loro estrema e laconica genericità, lasciano invero spazio eccessivo alla discrezione del singolo organo giudicante, scoprendo il fianco a non peregrine censure d’incostituzionalità – ma di prevedere disposizioni in certa misura dettagliate sul contenuto degli atti, sui termini e sui poteri del giudice, volte a conferire un minimo comune denominatore di forma, sia pur spedita e concentrata, al procedimento cameral-fallimentare, in prime come in seconde cure, per la dichiarazione di fallimento come per i reclami stricto sensu endofallimentari ex art. 26 l.fall. o per l’impugnazione dello stato passivo ex art. 99 l.fall., con previsioni testuali non a caso pressoché coincidenti anche ex litteris: si confrontino, exempli gratia, il sesto comma dell’art. 26, il secondo comma dell’art. 18 e il 2° comma dell’art. 99 l.fall., tutti nel testo post decreto correttivo n. 169/2007, dove si adoprano enunciazioni linguistiche tratte ictu oculi dalle norme sul rito laburistico (art. 414 c.p.c.), assunto dal legislatore della riforma fallimentare a modello di processo rispondente ai canoni chiovendiani di oralità, immediatezza e concentrazione.
Ne risulta, a parer nostro, il superamento e il tramonto della tradizionale contrapposizione tra cognizione piena e cognizione sommaria, assistendosi qui alla creazione di un nuovo rito processuale differenziato, cameral-fallimentare (o fallimentare tout court), frutto di sincretismi e ibridismi non ignoti ai legislatori processuali, antichi come moderni (si pensi, in via puramente esemplificativa, al procedimento sommario di cognizione introdotto nel 2009 agli artt. 702 bis ss. c.p.c.), che vedono l’adozione di modelli processuali viepiù semplificati e con formalità ridotte all’essenziale.

6. La struttura bifasica del processo secondo il rito cameral-fallimentare
L’abnorme durata dei processi sul fallimento e nel fallimento, da celebrarsi secondo il rito ordinario e lungo tre interi gradi di giudizio, non era più tollerabile: che dopo lustri, quando l’attivo era già stato liquidato e l’impresa non esisteva più o l’azienda era stata acquisita da terzi, ci si trovasse ancora a discutere dei presupposti per la declaratoria di fallimento, era uno di quei paradossi che risultavano ormai involontariamente comici, se non addirittura farseschi, in questa nostra terra che ha visto nascere e celebrare i fasti dell’opera comica e della farsa.
La scelta del legislatore del 2006, emendata, perfezionata, raffinata e resa più coerente nel 2007, era perciò inevitabile: snellire e accelerare le procedure concorsuali, giusta i principi dettati nella legge delega n. 80/2005, erano ormai urgenze indifferibili. E il legislatore delegato, nelle due tornate del 2006 e del 2007, a ciò ha provveduto, creando un nuovo rito cameral-fallimentare mediante norme dotate di quel tanto di specificità da soddisfare, al contempo, il principio di predeterminazione legale delle forme e dei poteri processuali ex art. 111, primo comma, Cost. e il bisogno di concentrazione e speditezza prepotentemente imposto dalla società e dal mondo tecnologico, economico e finanziario, entro cui si muovono e si collocano l’impresa contemporanea e i problemi generati dalla sua crisi.
Fonte d’ispirazione, già si è notato, è il rito laburistico, massimamente improntato ai canoni dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza, viepiù semplificato poiché innestantesi su un procedimento camerale di nuova foggia, mediante norme che cercano di colmare i vuoti normativi dello schema generale, per vero oltremodo scheletrico e di sospetta legittimità costituzionale per le materie contenziose, contenuto negli artt. 737 ss. c.p.c. Un procedimento in buona misura disciplinato ex positivo iure e, nondimeno, bastevolmente elastico e adatto ad accogliere quel contenuto oggettivo e predeterminato in cui consiste la cognizione sui presupposti e l’accertamento costitutivo in cui si risolve la declaratoria di fallimento.
Più non conta, in questa nuova foggia procedurale, la dicotomia tra cognizione piena e cognizione sommaria, tra procedimento camerale contenzioso o inter volentes: il legislatore spariglia le carte e supera d’emblée, con un taglio netto, ogni categoria processuale, utilizzando il procedimento camerale quale “contenitore neutro”, come dichiara sin dalla Relazione al D.Lgs. n. 5/2006 sulla scia di numerosi interventi della Consulta nel campo dei procedimenti in camera di consiglio, per creare un modello unitario di processo cameral-fallimentare, radicalmente nuovo, poiché non riducibile a rigide classificazioni sistematiche (28).
È un sistema processuale a sé stante ed autonomo, che tollera prestiti e innesti di regole generali del rito ordinario soltanto nella misura strettamente necessaria a colmare lacune o a porre rimedio a incongruenze palesi, ma che non sopporterebbe e tosto rigetterebbe deformazioni e trapianti. Si potranno anche discutere le scelte del conditor sul piano della politica generale del diritto, ma non è dato all’interprete discostarsene o porle nel nulla, se non sollevando questioni di legittimità costituzionale innanzi alla Consulta. Questioni che, a parer nostro, risulterebbero prima facie infondate, sulla scorta della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha sempre ritenuto pienamente ammissibili scelte legislative in favore di procedimenti camerali contenziosi, in funzione acceleratoria dei processi e per garantire, con prontezza e senza dilazioni eccessive, l’effettività della tutela giurisdizionale in base alle peculiarità delle materie che ne costituiscano l’oggetto (29).
Né il sistema imperniato sugli artt. 15 e 18 l.fall. presta il fianco a censure di violazione del principio di predeterminazione legale dei poteri processuali (30): potrà anche convenirsi sulla circostanza che non ci si trovi dinanzi a un processo a cognizione piena, ove si faccia coincidere questo concetto con la predeterminazione rigida dei poteri processuali delle parti e del giudice nella fase preparatoria, istruttoria e decisoria; ma il legislatore della riforma fallimentare, specie con il decreto correttivo del 2007, si è indubbiamente sforzato di dettare una disciplina in massima parte legalmente precostituita, in un campo come quello delle procedure concorsuali in cui l’indisponibilità della materia e il carattere oggettivo dello Streitgegenstand non lasciano larghi margini discrezionali al giudicante, pur se dotato di poteri inquisitori nella ricerca delle fonti del suo convincimento (sempre, s’intende, in seno all’hortus conclusus del processo e secundum allegata), in considerazione degli interessi e degli effetti superindividuali della declaratoria ch’egli è chiamato ad emettere.
Venute meno, dunque, le ampie e persino eccessive garanzie del giudizio a cognizione piena susseguente a opposizione alla sentenza di fallimento, quale originariamente previsto dal conditor del 1942 in ben altro contesto socio-economico, al legislatore della riforma organica del 2006-2007 è parso sufficiente presidio alle difese delle parti un doppio grado camerale ex artt. 15 e 18 l.fall., concependo il rimedio avverso la declaratoria di fallimento quale prosecuzione, riesame e autentico novum iudicium sul medesimo thema decidendum: i presupposti per la declaratoria di fallimento.
Due gradi camerali, sei diversi giudici che esaminano e riesaminano, senza particolari limitazioni all’ampiezza della cognitio, i presupposti di merito per la dichiarazione di fallimento, con identici poteri istruttori, concentrandosi sui profili fondamentali e sostanziali della materia del contendere, in forme rapide e snelle, simpliciter et de plano, ac sine strepitu et figura iudicii (come si leggeva già nella Clementina Saepe del 1306 sul procedimento sommario) (31) costituiscono, ci pare, bastevole garanzia di un “giusto processo” di fallimento rapido ed efficiente, salvaguardando ad un tempo le esigenze difensive delle parti, dei terzi reclamanti e, anzitutto, del fallito, pesantemente inciso dalla pronuncia emessa a suo carico.
Né a ciò pare d’ostacolo una “sacralizzazione” del processo a cognizione piena, siccome garanzia costituzionale imprescindibile per almeno un grado di giudizio, ogni volta che il provvedimento del giudice sia suscettibile di trascorrere in rem iudicatam (32). Ben può, a parer nostro, il conditor approntare moduli processuali non informati ai consueti canoni del processo ordinario a cognizione piena, allorché lo esigano la particolarità della materia del contendere o l’effettività e la prontezza della tutela giurisdizionale da apprestare in quei casi. Importa, semmai, che il modulo processuale prescelto discrezionalmente dal legislatore risponda ai principi del giusto processo e, dunque:
1. predetermini in massima parte forme, termini e poteri delle parti e del giudice;
2. garantisca il contraddittorio in ogni sua fase;
3. si svolga dinanzi a un giudice terzo e imparziale;
4. sia organizzato in modo da assicurarne la ragionevole durata.
Due gradi camerali di merito dinanzi a giudici diversi, con gli stessi poteri e senza particolari limitazioni cognitorie, ci pare assicurino al processo per dichiarazione di fallimento uno sviluppo ragionevole e sufficiente, garantistico e al contempo efficace, immediato e concentrato: conforme, insomma, agli anzidetti canoni costituzionali.

7. Il reclamo: non è mera revisio prioris instantiae, sub specie di “appello mascherato”
Il processo camerale bifasico che il legislatore del 2007 ha definitivamente voluto e scritto, accordando al reclamo ex art. 18 l.fall. efficacia devolutiva piena e automatica, in guise prosecutorie del giudizio collegiale reso in prime cure e sempre in forme cameral-fallimentari, riesce per taluni versi affine al procedimento cautelare uniforme e, segnatamente, al reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. (33), con disciplina pur tuttavia ben più dettagliata ex positivo iure rispetto a questo e, dunque, secondo forme non abbandonate alla discrezione del giudice, avuto riguardo alla delicatezza della pronuncia di fallimento, che investe il patrimonio e lo status dell’imprenditore, trascorre in rem iudicatam ed è destinata a estendere i propri effetti ultra partes, nei confronti di una pluralità dei soggetti con i quali il fallito ha intrattenuto o intrattiene rapporti giuridico-economici (34).
L’autorevole pronuncia in esame respinge completamente la ricostruzione qui offerta e l’intentio legis (35), per aderire alle tesi dottrinali che vedono nella sostituzione della parola “appello” con l’espressione “reclamo” null’altro che una vuota e nominalistica etichetta, che maschera in realtà un rimedio impugnatorio a efficacia devolutiva circoscritta al quantum appellatum e limitata alle specifiche questioni sollevate dal reclamante nel proprio atto d’impugnazione, alla stregua della struttura dell’appello nel diritto comune, ordinario o laburistico non importa, qual disegnata dalla giurisprudenza della Cassazione, assai più che da esplicite norme processuali (36).
Tra l’altro, nel medesimo torno di tempo e senza menzionare la pressoché coeva pronuncia qui commentata, la stessa Sezione della Suprema Corte ha riconosciuto la piena apertura del reclamo ex art. 18 l.fall. ai nova, ben potendo il debitore, benché non costituito avanti al tribunale, indicare anche per la prima volta i mezzi di prova di cui intenda avvalersi, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all’art. 1, secondo comma, l.fall., tenuto conto altresì che permane un ampio potere di indagine officiosa in capo all’organo giudicante anche in sede di reclamo (37).
Orbene, gli argomenti addotti dalla dottrina e ripresi dalla pronuncia in commento a sostegno di una così marcata presa di distanza dall’intentio legis dell’art. 18 l.fall. non paiono irresistibili.
Si sostiene anzitutto che, allorquando il legislatore adotti il reclamo come strumento di impugnazione di un provvedimento giudiziale avente forma di sentenza, appare opportuno applicare, sia pure selettivamente anziché en bloc, le norme generali sulle impugnazioni e, tra queste, le disposizioni del codice di rito sulle quali si fondano meccanismi di consolidamento progressivo della pronuncia giudiziale, per effetto di iniziative impugnatorie a carattere oggettivamente o soggettivamente parziale (38).
S’aggiunge, in secondo luogo, che davanti al giudice adito con un mezzo d’impugnazione, come si desume dagli artt. 400 e 406 c.p.c., si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui, in quanto non derogate dalla specifica disciplina del mezzo d’impugnazione de quo, essendo oltretutto funzione primaria e generale della corte d’appello quella di esercitare la giurisdizione nelle cause d’appello delle sentenze del tribunale, a norma dell’art. 53, lett. a), ord. giud. (39).
In terzo luogo, la lettera dell’art. 18, secondo comma, n. 3, l.fall., prevede che il ricorso contenga “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni”, determinando tale dettato la necessità di specificare i “motivi” del reclamo (40).
Infine, la giurisprudenza della Cassazione tende ad applicare la disciplina dell’appello ai reclami contro provvedimenti che, pur se resi in camera di consiglio e in forma di decreto, siano suscettibili di acquisire autorità di giudicato, come avviene, ad es., nei reclami avverso i provvedimenti resi su ricorsi per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (41).
A noi pare che tali argomenti, in buona parte ripresi anche dalla pronuncia in commento, provino troppo e non bastino a confutare e respingere la volontà fatta palese dal conditor del 2007.
La forma del provvedimento giudiziale, sentenza, decreto od ordinanza che sia, non riveste ormai da tempo particolare rilievo al fine di determinarne il regime impugnatorio, nonostante le autorevoli opinioni professate in passato (42): è quanto mai consolidato l’insegnamento per cui, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza e sia quindi soggetto ai mezzi di impugnazione previsti per questa, occorre avere riguardo non già alla forma adottata dal giudice, ma al contenuto, in ossequio al cosiddetto principio di prevalenza della sostanza sulla forma (43). Ciò tanto più vale dopo la riforma del 2009, alla cui luce non è più neppure possibile affermare che gli artt. 323 ss. c.p.c. siano le norme tipicamente applicabili all’impugnazione delle sentenze: le questioni di competenza si risolvono ora, anziché con sentenza, con ordinanza soggetta pur tuttavia a regolamento di competenza e alle norme generali sulle impugnazioni dettate dal codice di rito.
Il legislatore gode, insomma, di ampia discrezionalità nello stabilire il mezzo d’impugnazione di un provvedimento giudiziale e nel disciplinarne i canoni, purché rispetti i principi costituzionali sul giusto processo. Ed è altresì libero di derogare alla regola per cui, dinanzi al giudice adito con un mezzo d’impugnazione, si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui, deroga appositamente prevista e dettata, appunto, con l’art. 18 l.fall. per la sentenza di fallimento.
Non poteva, d’altronde, il conditor del 2007 ignorare l’ormai consolidata giurisprudenza della Cassazione sulla funzione dei motivi specifici d’appello e sulla corrispondente limitazione della cognitio del secondo giudice alle sole questioni fatte valere e riproposte dall’appellante e dalle altre parti (44). Come il legislatore del caduco rito societario non aveva avuto esitazioni a imporre a chiare lettere che l’atto di appello contenesse, a pena di inammissibilità, specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata (art. 20, primo comma, D.Lgs. n. 5/2003, ora abrogato), nel correggere la riforma organica delle procedure concorsuali il conditor del 2007 non si sarebbe certo limitato a riprodurre, con lievi modifiche, l’art. 414 c.p.c. sul rito del lavoro (nell’art. 18, secondo comma, come negli artt. 26, sesto comma, e 99, secondo comma, l.fall., exempli gratia), ma ben avrebbe imposto di specificare i motivi di reclamo, comminando anche un’esplicita sanzione d’inammissibilità pel loro difetto, anziché lasciarla in balìa degli interpreti, tanto più in una materia così delicata e sensibile come quella che costituisce oggetto del processo per declaratoria di fallimento (45).
Ed invece, analogamente a quanto scritto negli altri articoli dianzi ricordati e sul modello laburistico, al n. 3 l’art. 18 l.fall. si limita a esigere che il reclamo contenga “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni” (cfr. il testo dell’art. 414, n. 4, c.p.c.), che non è esattamente come imporre che siavi la specificazione dei motivi a pena d’inammissibilità del reclamo.
Semplicemente si dovrà dire che, in attuazione dell’intentio dichiarata già in sede di D.Lgs. n. 5/2006 e viepiù con il decreto correttivo n. 169 del 2007, il legislatore della riforma organica delle procedure concorsuali ha cercato di creare un modello processuale autonomo da ogni altro, da nomarsi a questa stregua come rito fallimentare, frutto di ibrida sintesi che trae linfa, al contempo, dal rito del lavoro e da quello camerale ed è forgiato, nel caso degli artt. 15 e 18 l.fall., sul contenuto oggettivo e indisponibile del processo per dichiarazione di fallimento, che mal tollera una rigorosa applicazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (46).
Un reclamo privo della “esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni” di cui all’art. 18, secondo comma, n. 3, l.fall., non è inammissibile, bensì nullo, come lo è il ricorso laburistico privo dei requisiti di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 414 c.p.c. (47). Precisamente esso è affetto da una nullità che, investendo l’editio actionis, potrà essere sanata soltanto con efficacia ex nunc e non certo con la semplice costituzione delle altre parti controinteressate al gravame, pur se silenti sul punto, ché il rilievo del difetto va compiuto anche ex officio e non consente rimessioni in termini del reclamante (salvo che ricorra una causa non imputabile ex art. 153, secondo comma, c.p.c.); sicché la ristrettezza del termine ad impugnandum (di soli trenta giorni) ben difficilmente consentirà tempestive rinnovazioni o integrazioni dell’atto, utili a evitare la decadenza per decorso del termine breve, salvo che la sentenza di fallimento non sia stata notificata né iscritta nel registro delle imprese, rendendosi in tal modo applicabile, ex art. 18, quarto comma, l.fall., il termine lungo ex art. 327 c.p.c. e, in tal caso, essendovi agio per una sanatoria sia pure ex nunc, ma comunque rispettosa di tale ultimo termine.
La norma in esame (il n. 3 dell’art. 18 l.fall.), come il termine ante udienza per la costituzione dei resistenti (v. il settimo comma art. cit.), persegue lo scopo di favorire la maggior concentrazione possibile del procedimento, affinché l’udienza dinanzi alla corte d’appello sia pienamente fruttuosa e tendenzialmente unica (48). Tuttavia, da simili regole acceleratorie, tese alla massima concentrazione del processo, non è possibile desumere, contra intentionem legis e nel silenzio di questa, una limitazione alla cognitio dei secondi giudici alle sole questioni fatte valere dal reclamante, senza alcuna netta imposizione di “specifici motivi” di censura né alcuna esplicita comminatoria d’inammissibilità del reclamo (49).
Perciò, l’opinione cui aderisce la pronuncia in commento non può essere condivisa, neppure nella parte in cui invoca, a suffragio della scelta operata, la giurisprudenza formatasi sull’impugnazione di provvedimenti decisori resi all’esito di procedimenti camerali, la quale esige che nel reclamo avverso tali provvedimenti si specifichino le ragioni di doglianza: anche in tal caso l’utilizzo di codesto argomento a simili et a posteriori prova troppo e, oltre a non dar conto di diversi orientamenti che, viceversa, scorgono nel reclamo camerale uno strumento impugnatorio pienamente devolutivo (50), non si fa carico di spiegare perché il reclamo ex art. 18 l.fall. debba informarsi alla suddetta giurisprudenza la quale, tra l’altro, o non appare condivisibile (51) ovvero concerne procedimenti dall’oggetto assai circoscritto e limitato, come quelli per la revisione delle condizioni di separazione e divorzio richiesta a partibus, che non possono certamente assurgere a modelli generali di procedimento camerale né tanto meno valere nel ben diverso milieu del processo per dichiarazione di fallimento.
A ciò s’aggiunga che, proprio in considerazione dell’efficacia ultra partes della sentenza di fallimento, la legittimazione al reclamo viene accordata a “qualunque interessato”, il quale non può certamente subire limitazioni difensive né soggiacere alle restrizioni assertive e probatorie applicabili nell’appello di diritto comune. Ed infatti, la tesi che estende al rimedio ex art. 18 l.fall. le norme dell’appello è poi, coerentemente, costretta a costruire, praeter litteram, un “doppio regime” processuale: uno per il fallito, un altro per i terzi interessati e, per vero, un altro ancora, quanto alla facultas nova deducendi e sia pure nella posizione di resistente al reclamo, per il curatore, che prima della sentenza di fallimento non c’era neppure (52).

8. Il reclamo: è novum iudicium ad efficacia devolutiva piena e automatica
Se, infine, si getta uno sguardo alle conseguenze che la sentenza in rassegna determina sul piano delle garanzie, si nota come la compressione che le difese delle parti subiscono in prime cure per effetto della disciplina cameral-fallimentare di cui all’art. 15 l.fall., lungi dal trovare adeguata compensazione in secondo grado mercé l’integrale riesame dei presupposti del fallimento, si accentua in misura intollerabile con un reclamo limitato al quantum appellatum e chiuso ai nova, sul piano sia assertivo che probatorio, per il fallito che impugni la grave e assai nociva sentenza emessa a suo carico.
Appare irragionevole e contrario ai prevalenti canoni dettati dagli artt. 3, 24 e 111 Cost. comprimere sino a tal segno il diritto di difesa. Anche se non si aderisca alla già ricordata tesi, per quanto autorevole e assai diffusa, che ritiene irrinunciabile almeno un grado di giudizio a cognizione piena, da celebrarsi secondo le forme e le previsioni del rito ordinario (o di quello laburistico) compiutamente predeterminate ex lege, soprattutto allorché una parte subisca un provvedimento giudiziale suscettibile di divenire irrevocabile e di produrre effetti di res iudicata (53), la compressione degli spazi difensivi risulterebbe intollerabilmente marcata, dacché a un procedimento camerale quanto mai concentrato già in primo grado, ai sensi dell’art. 15, seguirebbe un rimedio impugnatorio ex art. 18 l.fall. limitato e chiuso.
Ci pare, invece, che il sistema processuale disegnato dal legislatore negli artt. 15 ss. l.fall. per la pronuncia di fallimento, con i relativi strumenti di controllo, possieda un’intima coerenza: attraverso un duplice esame dei presupposti del fallimento da parte di due collegi diversi, uno di tribunale l’altro di corte d’appello, senza limitazioni del thema decidendum e con la possibilità per le parti di introdurre nova, nonostante la concentrazione degli atti insita nel doppio grado camerale, i diritti di difesa riescono pienamente garantiti e hanno l’agio di esprimersi in un contesto compatibile sia con l’esigenza di “far presto” sia con quella di “far bene”.
Certo il reclamante avrà l’onere di esporre nel ricorso i fatti e gli elementi di diritto su cui basa l’impugnazione, con le relative conclusioni, come prescrive il n. 3 dell’art. 18 l.fall.: un reclamo apodittico o, peggio ancora, contraddittorio e incomprensibile non sarebbe idoneo a far conseguire lo scopo (non già, si badi, di limitare la cognitio dei secondi giudici alle questioni specificamente devolute, ché l’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento è “a rime obbligate”, bensì) di attivare un procedimento di seconde cure imperniato su una sola difesa scritta per ciascuna parte, immediato, concentrato e orale, così come voluto dal legislatore mediante la creazione di un “rito fallimentare” differenziato, sincreticamente tratto dai procedimenti camerali (artt. 737 ss. c.p.c.), dalle norme sugli atti nel rito del lavoro (art. 414 c.p.c.) e, quanto al nostro istituto, dal reclamo cautelare (art. 669 terdecies c.p.c.), con la piena efficacia devolutiva e i caratteri di gravame in senso proprio che connotano quest’ultimo, ancor più nelle riscritture additive più recenti (54).
La sentenza emessa dalla corte d’appello all’esito del reclamo, dopo il riesame completo della fattispecie, avrà efficacia interamente sostitutiva, senza possibilità di emettere pronunce solo rescindenti neppure nei casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., essendo anche la pronuncia della corte “a rime obbligate” (conferma o revoca del fallimento): il microcosmo in sé compiuto del rito fallimentare faticherebbe a tollerare innesti o trapianti di regole estranee e difficilmente compatibili, che rischierebbero soltanto di dar luogo a crisi di rigetto e di minarne la complessiva coerenza (55).
La possibilità di impugnare la sentenza della corte d’appello con ricorso per cassazione, secondo le consuete regole, completa il sistema, assicurando alfine un controllo di legalità e l’esercizio della nomofilachia in un campo delicato e sensibile come quello della pronuncia di fallimento.
La creazione di un rito fallimentare differenziato, che sfugge a ogni rigida contrapposizione tra cognizione piena e cognizione sommaria, viene incontro, d’altronde, alle esigenze sempre più pressanti di costruire moduli processuali elastici e variabili in relazione all’oggetto della controversia e alla complessità della lite, accordando al giudice poteri di case management che l’eccessiva rigidità di una procedura predeterminata per legge impedirebbe funditus (56). La soluzione rinvenuta negli artt. 15 ss. l.fall. ci pare in linea con le moderne correnti elastiche e “manageriali” per la gestione del contenzioso civile e tiene conto altresì delle particolarità del processo per dichiarazione di fallimento, che è a contenuto oggettivo, vertendo esclusivamente sui presupposti dello stato d’insolvenza di un imprenditore fallibile e potendo dar luogo soltanto a una declaratoria di fallimento o al rigetto dell’istanza (in tale ultimo caso, senza alcuna efficacia preclusiva) (57).
Viceversa, la soluzione imposta dalla Suprema Corte nella sentenza qui criticata, assimilando il reclamo ex art. 18 l.fall. all’appello di diritto comune, con cui normalmente s’impugna una sentenza resa all’esito di un primo grado a cognizione piena, celebrato con rito ordinario o speciale, appare violare non soltanto l’intentio legis, ma anche le garanzie della difesa e del “giusto processo”, congegnate dal conditor in un doppio esame pieno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.
“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”, si potrebbe ben obiettare alle considerazioni critiche all’arrêt della Suprema Corte svolte in questa nota. Gli è che anche i giudici, di legittimità e non solo di merito, quand’anche si voglia inserire motu proprio la c.d. “giurisprudenza normativa” nella gerarchia delle fonti del diritto (58), sono interpreti delle norme di legge, ad esse subiecti per disposto costituzionale (art. 101, secondo comma, Cost.): dunque, a lor volta vincolati a osservare la massima del divino Poeta di fronte a un’intentio apertamente manifestata dal conditor legum, per quanto imperfetto egli sia nel formulare enunciati normativi, salvo rimettere alla Consulta ogni valutazione circa la conformità di questi ai nostri principi costituzionali (59).
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(1) Così invece, icasticamente, M. Fabiani, Il decreto correttivo della riforma fallimentare, in Foro it., 2007, V, 225 ss.
(2) È invece ben noto che, “quando la lettera della norma sia ambigua e sia altresì infruttuoso il ricorso al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, attraverso l’esame complessivo del testo, della mens legis, l’elemento letterale e l’intenzione del legislatore, rivelatisi insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano, nel procedimento interpretativo della legge, un ruolo paritetico, sicché, mediante la valorizzazione della congiunzione “e” interposta, nel primo comma dell’art. 12 delle preleggi, fra un criterio interpretativo e l’altro, l’intenzione del legislatore funge da criterio comprimario di ermeneutica, atto ad ovviare all’equivocità della formulazione del testo da interpretare” (cfr., tra molte, Cass. 26 agosto 1983, n. 5493;Cass. 18 aprile 1983, n. 2663;Cass. 26 febbraio 1983, n. 1482). Utili approfondimenti storico-critici sull’argomento si rinvengono in G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1980, 364 ss.; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2004, 150 ss.; nonché E. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale. Artt. 10-15, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1974, 240 ss., spec. 254 ss., dove si osserva come la c.d. interpretazione “sistematica” possa portare “all’assurdo, anche se non sempre rilevato e talvolta espressamente accettato, di far mutare continuamente di senso alla stessa disposizione di legge, in un giuoco perenne di trasfigurazioni e di metamorfosi”.
(3) Non può, invero, “l’interprete correggere la norma, nel significato tecnico-giuridico proprio delle espressioni che la strutturano, sol perché ritiene che l’effetto giuridico risultante sia inadatto, in quanto eccessivo, rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa” (Cass. 6 agosto 1984, n. 4631, in Giust. civ., 1984, I, 2983; v. anche Cass. 6 aprile 2001, n. 5128).
(4) Per un quadro d’insieme su questi sviluppi v., da ultimo, M. Bove, Il principio di ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli, 2010, nonché, con una condivisibile e strenua reazione critica, R. Caponi – D. Dalfino – A. Proto Pisani – G. Scarselli, In difesa delle norme processuali, in Foro it., 2010, I, 1794 ss. Per ulteriori considerazioni e riferimenti v. sinteticamente, si vis, A. Tedoldi, Un discutibile obiter dictum delle Sezioni Unite: nell’opposizione a decreto ingiuntivo il termine di costituzione è sempre dimidiato a pena d’improcedibilità, in Corr. giur., 2010, 1455 ss.
(5) Cfr. in particolare A. Proto Pisani, Appunti sul valore della cognizione piena, in Foro it., 2002, V, 65 ss.; Id., Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, ivi, 2000, V, 241 ss.; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, 2010, Torino, 45 s., dove si sottolinea come l’art. 111, primo comma, Cost. contenga una “tipica riserva di legge, non da regolamenti e neppure dalla giurisprudenza, pur se fatalmente quest’ultima dovrà specificare aspetti concreti che una disciplina di legge anche molto minuziosa – quale è di solito quella processuale italiana – fatalmente lascerà scoperti”; v. ancora e da ultimo R. Caponi – D. Dalfino – A. Proto Pisani – G. Scarselli, In difesa delle norme processuali, cit.
(6) Cfr., in particolare, M. Fabiani, L’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento, in Riv. dir. proc., 2010, spec. 778 ss., ove ulteriori richiami.
(7) V., in particolare, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi del diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 483 ss.; L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 25 ss.; Id., voce Giurisdizione volontaria, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1989, 4 ss.; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss.; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, cit., 194 s.; G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 87 ss.; A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 263 ss.; M. Montanari, Clausole limitative della responsabilità dell’assuntore del concordato e giudicato di omologazione, in questa Rivista, 2005, 545 ss.; Id., In tema di giudicato e decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, ivi, 2008, 968 s., in critica a Trib. Monza 9 gennaio 2008; Id., La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto, ivi, 2007, 566 ss. In giurisprudenza v., su tutte, Cass. 27 novembre 2001, n. 15018, in Foro it., 2002, I, 374, con nota di M. Fabiani.
(8) Così M. Fabiani, nota a Cass. 27 novembre 2001, n. 15018, in Foro it., 2002, I, 374 s.
(9) Cfr. E.F. Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 132 ss. e 144 ss., il quale parla di accertamento di una “situazione giuridica mera”, consistente nella “legittimità e quindi necessità dell’apertura del fallimento a carico del debitore” e non descrivibile in termini di diritto soggettivo.
(10) Sul concetto di “mera azione” v. G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma, 1930, 3 ss.; R. Orestano, voce Azione in generale, in Enc. dir., IV, Milano 1959, 806.
(11) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., 194; F. Carpi, L’efficacia “ultra partes” della sentenza civile, Milano, 1974, 57, dove si osserva che l’interesse individuale è tutelato solo di riflesso e occasionalmente.
(12) V. M. Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto, cit., 566.
(13) Cfr. M. Fabiani, L’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento, cit., 768 s.; v. anche F. De Santis, Istruttoria prefallimentare e giudicato di rigetto, in questa Rivista, 2008, 963.
(14) Cfr. F. De Santis, Sub art. 15, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, I, Bologna, 2006; v. anche C. Cavallini, Sub art. 15, in Id. (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, I, Milano, 2010, 304 s.
(15) Cfr., da ultimo, Cass. 19 novembre 2009, n. 24415, secondo cui il giudizio di opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento costituiva la prosecuzione del procedimento, di natura inquisitoria, che dava luogo all’apertura del fallimento; v. anche Cass. 11 giugno 2004, n. 11079;Cass. 17 marzo 1997, n. 2323, in questa Rivista, 1998, 29.
(16) V., infatti, la citata Cass. 11 giugno 2004, n. 11079. Sul principio inquisitorio in senso formale e in senso sostanziale nell’ambito del fallimento v., sia pure ante riforma, E.F. Ricci, Lezioni sul fallimento, cit., I, 176 s.
(17) V. la Relazione al D.Lgs. n. 5/2006, sub art. 15.
(18) Nella cui Relazione la provvida abrogatio viene puntualmente giustificata, rilevando come tali controversie siano cause aventi ad oggetto diritti soggettivi, che pur derivando dal fallimento (come le revocatorie fallimentari) si svolgono al di fuori della procedura concorsuale, nei confronti di terzi estranei al fallimento, che verrebbero privati delle garanzie dei due gradi di cognizione piena.
(19) V., in luogo di molti, M. Fabiani, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, I, cit., 349 ss.
(20) V., per tutti, A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., I, 63 e 431; L. Lanfranchi, voce Giusto processo. I) Processo civile, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1989, agg. 2001, sulla cui scia si pone, tra gli altri e nel campo delle procedure concorsuali, M. Montanari, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 111 s., e Id., I procedimenti di liquidazione e ripartizione dell’attivo fallimentare, Padova, 1995, 78 s., anche in nota; Id., In tema di giudicato e decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, cit., 969.
(21) V. M. Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto cit., 564, dove di parla di “indiscutibile recuperabilità dei valori della cognizione piena in corrispondenza della successiva istanza d’appello”; v. anche M. Fabiani, in A. Jorio – M. Fabiani, (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, cit., 372 s.
(22) Cioè dal grand arrêt di Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro it., 1987, I, 3037, con nota di G. Balena sui motivi specifici di appello, raffinato e successivamente prodotto ad consequentias da Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16/SU, in Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena e C.M. Barone ed in Corr. giur., 2000, 750, con nota di M. De Cristofaro, infine condotto oltre il segno, con discutibile forzatura, da Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it., 2006, I, 1433, con nota congiunta, fortemente critica, di G. Balena, R. Oriani, A. Proto Pisani e N. Rascio, in Corr. giur., 2006, 1083, con nota di A. Parisi e in Riv. dir. proc., 2006, 1397, con nota di R. Poli. Un’efficace sintesi delle conseguenze della qualificazione come appello del rimedio impugnatorio della sentenza di fallimento si rinviene in A. Scala, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., 382 s.
(23) M. Fabiani, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, cit., 355 ss.
(24) M. Fabiani, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, cit., 372 s., dove si legge che “l’eventuale deficit di tutela, emergente dalla fase prefallimentare, deve essere recuperato nel giudizio di appello, con la conseguenza che potranno essere dedotti fatti nuovi nella misura in cui non sia stato possibile rappresentarli al tribunale (ed analogo ragionamento va riproposto a proposito delle prove). In sostanza la maggiore o minore apertura del processo di appello sarà inversamente proporzionale alla maggiore o minore tutela accordata alle parti nella prima fase; tanto più le parti hanno avuto la possibilità di svolgere le proprie difese, tanto più limitata sarà la possibilità di introdurre questioni con il ricorso in appello”.
(25) Così la Relazione al decreto correttivo n. 169/2007.
(26) V. la Relazione al D.Lgs. 5/2006, sub art. 15.
(27) V. la Relazione al decreto correttivo n. 169/2007.
(28) Si muove, ci pare, in analogo senso anche M. Fabiani, L’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento, cit., 767. Sono orientati verso un modello semplificato di cognizione piena C. Cavallini, in Id. (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., I, 312 s. e C. Cecchella, Il diritto fallimentare riformato, Milano, 2007, 73 ss.; F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalle riforme, Bologna, 2010, 19 ss.; Id., Sulla cd. “degiurisdizionalizzazione” del concorso collettivo e sui limiti dei giudicati endofallimentari dopo le riforme, in Riv. dir. proc., 2008, 375 ss.; F. Santangeli, Sub art. 15, in F. Santangeli (a cura di), Il nuovo fallimento, Milano, 2006, 74 ss.; C. Punzi, La dichiarazione di fallimento, in Riv. dir. proc., 2008, 1506 s.; S. De Matteis, Istanza di fallimento del debitore. L’istruttoria prefallimentare, in G. Fauceglia – L. Panzani (diretto da), Fallimento e altre procedure concorsuali, I, Milano, 2009, 142 ss.; S. Bonfatti – P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 63 s.; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 59; in giurisprudenza v. Trib. Roma 18 giugno 2008, in questa Rivista, 2008, 1202. Continuano invece a ritenere cameral-sommario il procedimento per dichiarazione di fallimento M. Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto, cit., 568; A. Carratta, Liquidazione e ripartizione dell’attivo nel fallimento e tutela giurisdizionale dei diritti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2008, 853 ss. e 1271 ss.
(29) V., ex plurimis, Corte cost. 23 aprile 1998, n. 141, in Foro it., 1999, I, 767, con nota di M. Annecchino.
(30) V. l’autorevole impostazione di A. Proto Pisani, Appunti sul valore della cognizione piena, in Foro it., 2002, V, 65 ss. e, in particolare, Id., Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. (appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi devoluta al giudice), in Riv. dir. civ., 1990, I, 393 ss. e 412 ss.
(31) Su cui v. classicamente H.K. Briegleb, Einleitung in die Theorie der summarischen Processe, Leipzig 1859, 15 ss.; nonché A. Carratta, voce Processo sommario (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Annali, II, 1, Milano 2008, par. 1; G. Scarselli, La condanna con riserva, Milano, 1989, 59 ss., ove ampi richiami bibliografici.
(32) Così invece A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., I, 63 e 431 e, con notevole vis polemica, L. Lanfranchi, I procedimenti camerali decisori nelle procedure concorsuali e nel sistema della tutela giurisdizionale dei diritti, in Id., La roccia non incrinata, Torino, 2004, 81 ss.; Id., voce Giusto processo: I) Processo civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001; cfr. inoltre A. Proto Pisani, Il nuovo art. 111 cost. e il giusto processo, in Foro it., 2000, V, 242 ss.; L. Montesano, La garanzia costituzionale del contraddittorio e i giudizi civili di “terza via”, in Riv. dir. proc., 2000, 943 ss.; A. Carratta, Liquidazione e ripartizione dell’attivo nel fallimento e tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 1271 ss.; M. Montanari, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 111 ss., e Id., In tema di giudicato e decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, cit., 969.
(33) V. Corte cost. 17 marzo 1998, n. 65, in Foro it., 1998, I, 1759, in Giust. civ., 1998, I, 1193 e in Giur. it., 1998, 2244, con nota di P.L. Nela. In dottrina v. ampiamente S. Recchioni, Il procedimento cautelare uniforme, in S. Chiarloni – C. Consolo (a cura di), Trattato sui procedimenti speciali, II, Torino, 2005, 726 ss.; G. Arieta, Problemi e prospettive in tema di reclamo cautelare, in Riv. dir. proc., 1997, 408 ss.; F. Corsini, Il reclamo cautelare, Torino, 2002, 106 ss.
(34) V. il passo della Relazione al decreto correttivo del 2007 trascritto nel paragrafo 1 della presente nota.
(35) Per l’efficacia devolutiva piena e automatica del reclamo si esprimono anche A. Scala, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., I, 385 ss.; F. Santangeli, Le modifiche introdotte dal decreto correttivo 169/2007 al processo per la dichiarazione di fallimento ed alla fase dell’accertamento del passivo, in Dir. fall., 2008, I, 160 ss.; G. Cavalli, in S. Ambrosini – G. Cavalli – A. Jorio, Il fallimento, in Trattato Cottino, 2009, 226 s.; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., 60 s.; nonché, anche prima del decreto correttivo, G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 85 ss.
(36) Cfr. N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv. dir. proc., 2008, spec. 973 ss.; Id., L’efficacia devolutiva del reclamo avverso la sentenza di fallimento: un risultato precluso dal sistema e dalla lettera della legge (nota adesiva ad App. Torino 4 agosto 2009), in questa Rivista, 2010, 590 ss.; M. Fabiani, Sub art. 18, in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Appendice di aggiornamento al d.lgs. 169/2007, Bologna, 2008, 12 ss.; F. De Santis, Le impugnazioni, in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, cit., 93 ss.; G. Minutoli, Le iniziative di fronte alla sentenza dichiarativa di fallimento tra appello e reclamo: impugnazione devolutiva o modifica “di facciata”?, in questa Rivista, 2008, 261 ss.; Id., Sub art. 18, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2007, 146 ss.; E. Forgillo, L’impugnazione della sentenza di fallimento, in P. Celentano – E. Forgillo (a cura di), Fallimento e concordati. Le soluzioni giudiziali e negoziate delle crisi d’impresa dopo le riforme, Milano, 2008, 172 ss. (sia pure con alcuni distinguo); S. Chimenti, in G. Fauceglia – L. Panzani (a cura di), Fallimento e altre procedure concorsuali, I, Milano, 2009, 251; E. Righetti, in G. Schiano di Pepe (a cura di), Il diritto fallimentare riformato. Commento sistematico. Appendice di aggiornamento, Padova, 2008, 14; V. Vitalone, in V. Vitalone – S. Chimenti – R. Riedi, Il diritto processuale del fallimento, Torino, 2008, 52 ss.; P. Genoviva, Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in questa Rivista, 2010, 451.
(37) V. Cass. 5 novembre 2010, n. 22546, in questa Rivista, 2011, 22 ss., con osservazioni di P. Genoviva.
(38) Così N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, cit., 973 ss.
(39) Cfr. N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, cit., 975.
(40) V. sempre N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, cit., 976.
(41) Cfr. ancora N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, cit., 977.
(42) C. Mandrioli, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 Cost., Milano, 1967, 104 ss.; Gius. Tarzia, Profili della sentenza impugnabile, Milano, 1967, 86 ss.
(43) V., tra molte, Cass., sez. un., sez. un., 31 ottobre 2006, n. 23395; Cass., sez. un., 24 febbraio 2005, n. 3816. V. poi, classicamente, E. Garbagnati, Sull’impugnazione dei provvedimenti decisori emessi in forma di ordinanza, in Giur. it., 1949, I, 1, 385.
(44) Sul tema v., sinteticamente e incisivamente, A. Proto Pisani, Note sull’appello civile, in Foro it., 2008, V, 257 ss.
(45) Cfr. anche A. Scala, Sub art. 18, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., 388.
(46) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, 194 s.
(47) Cfr. Cass. 25 febbraio 2009, n. 4557;Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro it., 2005, I, 1135, con nota di E. Fabiani.
(48) V. Cass. 5 giugno 2009, n. 12986, in Foro it., 2009, I, 2339, con nota di M. Fabiani e in questa Rivista, 2010, 445, con la già citata nota di P. Genoviva, Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.
(49) V., in termini, anche A. Scala, Sub art. 18, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., 387 s.
(50) E non solo con riguardo al reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. (come fa Corte cost. 17 marzo 1998, n. 65, in Foro it., 1998, I, 1759, in Giust. civ., 1998, I, 1193 e in Giur. it., 1998, 2244, con nota di P.L. Nela), ma anche in relazione al reclamo camerale avverso provvedimenti decisori (cfr. Cass. 18 luglio 2005, n. 15151, non condivisibilmente svalutata dalla pronuncia in commento), sul quale ultimo v., in dottrina, L. Montesano – G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova 2002, II/2, 1210 e 1219; G. Arieta, Procedimenti in camera di consiglio, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, par. 9.
(51) Così, ad es., Cass. 25 febbraio 2008, n. 4719, sul reclamo avverso declaratoria d’inammissibilità dell’azione per responsabilità civile del magistrato, ai sensi di quanto prevede l’art. 5 L. 13 aprile 1988, n. 117.
(52) V. M. Fabiani, in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, 2006, cit., 374 s. Il rilievo contenuto nel testo è conforme a quanto scrive anche A. Scala, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., I, 386.
(53) V. supra alla nota 32, cui adde S. Menchini, Nuove forme di tutela e nuovi modi di risoluzione delle controversie: verso il superamento della necessità dell’accertamento con autorità di giudicato, in Riv. dir. proc., 2006, 875, in nota 8. Si pensi, in via esemplificativa, all’apertura ai nova cui si assiste nell’appello avverso l’ordinanza resa all’esito di un procedimento sommario di cognizione (art. 702 quater c.p.c.), come avveniva, secondo la tesi più accreditata, anche nell’appello contro l’ordinanza sommaria di cui all’abrogato art. 19 D.Lgs. n. 5/2003 (su cui v. App. Milano 3 dicembre 2007, in Giur. it., 2008, 2552, con nota adesiva di A. Carratta, Processo sommario societario e limiti dell’appello avverso l’ordinanza: riflessioni de iure condito e prospettive de iure condendo).
(54) Cfr. anche A. Scala, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, cit., 394 ss.
(55) V. anche sul punto A. Scala, op. loc. cit.
(56) Sul principio di elasticità in base alla complessità della lite e sulla gestione manageriale del procedimento v. R. Caponi, Processo civile e nozione di controversia “complessa”: impieghi normativi, in Foro it., 2009, V, 136 ss.; M. De Cristofaro, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, 282 ss.
(57) Cfr. M. Montanari, In tema di giudicato e decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, cit., 964 ss.; contra F. De Santis, Istruttoria prefallimentare e giudicato di rigetto, in questa Rivista, 2008, 956 ss.: ambedue gli scritti, il primo criticamente, il secondo adesivamente, annotano Trib. Monza 9 gennaio 2008, decr., ibidem, 953 ss., che ha ritenuto precluso per il creditore istante il potere di riproporre un’istanza di fallimento anteriormente rigettata, senza addurre nuovi fatti non preesistenti, dacché il decreto di rigetto, secondo il Tribunale brianzolo, coprirebbe il dedotto e il deducibile. Sulla tale soluzione risultano pienamente condivisibili i rilievi critici svolti da M. Montanari nella nota dianzi citata.
(58) Come si legge in Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in Foro it., 2010, I, 141 (v. spec. 146 s.), con nota critica di F. Di Ciommo, “Giurisprudenza-normativa” e ruolo del giudice nell’ordinamento italiano, sia pure nel campo del diritto sostanziale e non in quello processuale, per il quale vige la riserva di legge di cui all’art. 111, primo comma, Cost.
(59) V., da ultimo, A. Castagnola – C. Consolo – E. Marinucci, Sul dialogo (impossibile?) fra Cassazione e dottrina nella specie… sulla natura (mutevole?) dell’arbitrato, in Corr. giur., 2011, 51 s., specialmente dove si osserva che “la subordinazione alla legge dell’interprete – di ogni interprete, e soprattutto del giudice che sentenzia – va tenuta ferma e non è (non può essere, per la natura delle cose) contraddittoria con l’affermazione del carattere in parte anche creativo dell’ermeneutica, che è notevolissimo ma – funzionalmente – né indipendente né originario: è creazione nel senso di una attività cui spetta di attualizzare una virtualità insita, se non sempre nella volontà c.d. costante dell’organo legislativo, nel sistema di enunciati che esso ha posto. È esercizio di congenialità (e quindi spontaneamente costretto), non già libera inventiva”.

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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