Paolo Scognamiglio, Le controversie di licenziamento nella riforma Fornero (numero monografico di Guida al Lavoro, marzo 2013.
Le controversie di licenziamento nella riforma Fornero
Cenni storici
La legge 28 giugno 2012, n. 92 ha introdotto una nuova disciplina processuale per le controversie in tema di licenziamento.
Il dichiarato scopo della norma è quello di prevedere un procedimento più snello e semplice per tali controversie, accelerando in tal modo la tutela del lavoratore in caso di licenziamenti illegittimi e tenendo presente l’interesse datoriale a non subire le onerose conseguenze di una declaratoria di illegittimità a distanza di un rilevante lasso di tempo dalla declaratoria stessa.
L’articolo 1, comma 1, della legge 92/2012 esprime chiaramente le finalità perseguite ed individua nella riforma del processo delle controversie nelle quali trova applicazione l’art. 18 della legge 18 maggio 1970, n. 300, uno degli strumenti necessari a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica ed alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione.
Già in passato erano state ipotizzate riforme del genere ed in particolare nel progetto della commissione Foglia, istituita nel 2000 dai Ministri del Lavoro e della Giustizia, si prevedeva un “peculiare rito accelerato a cognizione sommaria, ma non superficiale, il regime di reclamabilità ed impugnabilità dell’ordinanza, l’introduzione di una misura coercitiva sul modello dell’astreinte a garanzia dell’ottemperanza all’ordine giudiziale di reintegrazione, la priorità nella trattazione di siffatte controversie”.
Alcune di queste idee, come vedremo, sono state trasfuse nella legge 92/2012 anche se è da segnalare che il testo della Commissione Foglia aveva un respiro più ampio e prevedeva un progetto complessivo di riforma del sistema processuale del lavoro, incidente anche sulle controversie previdenziali ed assistenziali1.
Campo di applicazione
L’articolo 1, comma 47, legge 92/2012 testualmente recita: “Le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”.
Il successivo comma 48 poi precisa che con il ricorso non possono essere presentate domande diverse da quelle di cui al comma 47, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi.
Ne consegue che la nuova normativa si applica:
- alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni;
- a quelle controversie che presuppongono, inoltre, una risoluzione di una questione relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro;
- a domande diverse dalla impugnativa di licenziamento, purché avanzate congiuntamente e fondate sugli stessi fatti costitutivi della domanda di impugnativa di licenziamento.
[thrive_lead_lock id=’4487′]Il chiaro tenore letterale della disposizione non consente dubbi sul fatto che il rito speciale (o meglio specifico come lo definisce l’articolo 1, comma 1, lettera c) si applica a tutti i casi in cui il lavoratori invochi una tutela prevista dall’art. 18 St.Lav, sia che chieda la reintegra, sia che richieda solo l’indennità risarcitoria prevista dai nuovi commi quinto e sesto dell’art. 18 St.lav.
Poiché l’articolo 1, comma 42, prevede l’applicazione dell’art. 18 in ogni caso di licenziamento nullo, la normativa si applica a tutte le controversie nelle quali venga in rilievo un licenziamento nullo (perché discriminatorio o perché intimato in concomitanza col matrimonio o comunque irrogato in presenza di uno dei divieti dettati in materia di tutela e sostegno della maternità od ancora perché ispirato da motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. oppure perché intimato oralmente) indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro rientri, per natura giuridica e quantità di occupati, nell’area di applicazione dello Statuto dei lavoratori2.
Dovrebbero rientrarvi anche i licenziamenti collettivi, la cui disciplina è contenuta nella legge 223/1991, ma per i quali l’art.1, comma 46, legge 92/2012 prevede in caso di illegittimità l’applicazione dell’art. 18 St. Lav: sarebbe del resto illogico ipotizzare che il legislatore abbia voluto lasciare fuori da un rito pensato per ridurre i costi indiretti dei licenziamenti giusto quelle controversie che, per la molteplicità delle posizioni coinvolte, siano suscettibili di far lievitare tali costi in maniera esponenziale3.
In relazione invece alle impugnazioni dei licenziamenti irrogati ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni il cui rapporto di lavoro sia stato contrattualizzato, occorre osservare che l’art. 1, comma 7, legge 92/2012 statuisce che «le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono princìpi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo».
L’articolo 1, comma 8, prevede poi che ai «ai fini dell’applicazione del comma 7» il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione «individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche».
Il problema sta nello stabilire se le disposizioni della legge n. 92 la cui applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è condizionata all’adozione, da parte del Ministro per la pubblica amministrazione, delle iniziative di cui al citato comma 8 siano tutte quelle contenute nella legge (e, dunque, anche quelle relative al nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti) ovvero solamente quelle aventi ad oggetto la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro ed in tal senso si sono orientati i primi commenti dottrinali che non hanno mancato di osservare come anche ai dipendenti pubblici si applica l’art. 18 St.Lav. a causa del rinvio operato dal secondo comma dell’art. 51 dlgs. 165/2001, per il quale “ la legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Di conseguenza le relative controversie dinanzi al giudice del lavoro saranno soggette al rito specifico, in coerenza con le opzioni di fondo della riforma che mira a dare certezza alle parti dei rapporti di lavoro ai quali si applica l’art. 18 St.lav, finalità presente anche nel settore del pubblico impiego4.
Vi restano quindi sicuramente escluse le controversie relative ai licenziamenti ingiustificati od inefficaci emessi nell’ambito della tutela obbligatoria e quelle relative a licenziamenti intimati da imprese di tendenza, cioè da datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, alle quali per espresso disposto dell’art. 4 legge 108/1990 non si applica l’art. 18 St.Lav5.
Ugualmente non si applicherà il rito specifico al licenziamento dei dirigenti, a meno che esso non abbia carattere discriminatorio, dal momento che il nuovo primo comma dell’art. 18 St.lav. estende espressamente la portata applicativa della disciplina sostanziale anche ai dirigenti.
Non sembra altresì che possano essere ricomprese nell’ambito di applicazione della nuova disposizione le controversie relative all’apposizione di un termine illegittimo, ove si tratta di valutare la illegittimità dell’apposizione, che non si equipara ontologicamente ad un licenziamento, trattandosi di considerare il termine apposto tamquam non esset e di considerare ex tunc il contratto come a tempo indeterminato6.
Ciò non tanto perché le relative controversie non involgano una questione di qualificazione in senso lato del rapporto, quanto piuttosto perché il petitum principale non è l’impugnativa di un licenziamento (fatto rilevante in un contratto a prestazioni corrispettive nel momento funzionale del sinallagma, ossia a rapporto sussistente), ma l’illegittima apposizione del termine (fatto rilevante nel momento genetico del sinallagma, ossia al momento della stipulazione del contratto e all’inizio del rapporto)7.
Del resto la giurisprudenza assolutamente maggioritaria è concorde nel ritenere che la comunicazione della scadenza del termine è qualcosa di ben diverso dal licenziamento ed in ogni caso, quand’ anche si volesse in qualche modo equipararle, le conseguenze per l’apposizione di un termine illegittimo sono disciplinate non dall’art. 18 St.Lav. ma dalla legge 183/20108.
In una delle prime pronunce sul punto si è poi ritenuto inammissibile un ricorso volto ad ottenere la reintegra del ricorrente presso società diversa da quella con la quale era stato instaurato un formale rapporto di lavoro sulla base della considerazione che ciò avrebbe richiesto una indagine istruttoria incompatibile con la sommarietà del rito adito9.
A conclusioni diverse è giunta altra parte della giurisprudenza secondo la quale l’espressione “ questioni relative alla qualificazione del rapporto” deve ritenersi comprensiva anche delle questioni relative alla qualificazione del medesimo anche in senso atecnico ovvero laddove si tratta di imputare il rapporto di lavoro in capo a terzi10.
In particolare si è osservato che, diversamente interpretando, si arriverebbe ad una disparità di trattamento dall’avere un rito con una corsia preferenziale per alcuni datori di lavoro ed un rito ordinario per altri, ancorché il fatto costitutivo della pretesa sia il medesimo.
Può essere che la domanda di applicazione dell’art. 18 St.lav. venga proposta in conseguenza della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato e l’articolo 1. comma 47, statuisce espressamente che le nuove disposizioni processuali si applicano anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Si pensi all’ipotesi, non certamente infrequente nella pratica, di un soggetto che impugni la cessazione di un rapporto di lavoro autonomo, parasubordinato, lavoro a progetto etcc…, affermando che tali figure contrattuali mascherano un rapporto di lavoro subordinato e chiede appunto dichiararsi l’illegittimità del licenziamento, previo accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.
Sembra evidente che nella specie si è in presenza di una impugnativa di licenziamento in cui, per usare la terminologia dell’art. 47, devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
E’ chiaro che così facendo si è ampliato notevolmente il campo di applicazione della riforma e forse il legislatore ha omesso di considerare che l’estensione della fase sommaria anche alle innumerevoli ipotesi in cui la decisione sulla domanda sul licenziamento dipende dalla qualificazione del rapporto di lavoro non solo mal si concilia con un procedimento caratterizzato da una cognizione estremamente semplificata per la complessità degli accertamenti in fatto necessari in questa tipologia di controversie ma è, altresì, destinata ad appesantire i tempi di trattazione trattandosi di un insieme non compiutamente definibile di cause, che comprende numerosissime situazioni anche tra loro molto diverse.
Come accennato, l’art. 1, comma 48, statuisce che con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi.
Ma cosa si intende per medesimi fatti costitutivi?
Nel caso di licenziamento il lavoratore deve provare la sussistenza del rapporto di lavoro e la sua risoluzione per effetto del licenziamento; di conseguenza sicuramente non potranno, unitamente alla domanda con il rito specifico, proporsi domande di differenze retributive fondate su fatti diversi dal licenziamento perché rispetto a tali domande il rapporto di lavoro funziona da semplice presupposto, mentre il fatto costitutivo è rappresentato dalla effettiva prestazione di lavoro o dalle sue modalità (es: diritto a lavoro straordinario, a premio di risultato etc…..)
Potranno essere attratte invece nel nuovo rito le domande aventi ad oggetto differenze retributive che scaturiscono dal licenziamento, come ad esempio la domanda di corresponsione dell’ indennità sostitutiva del preavviso avanzata in subordine da chi lamenti di essere stato licenziato ingiustamente per giusta causa, o le domande risarcitorie legate all’atto di recesso, come l’ulteriore danno derivante da un licenziamento ingiurioso11.
Sostanzialmente potranno essere proposte tutte quelle domande che, al pari di quelle ex art. 18 St.Lav, riconoscano tra i propri fatti costitutivi sia il preesistente rapporto di lavoro subordinato, sia l’illegittimità del licenziamento.
Non manca chi ritiene che non possa darsi una risposta generale ed astratta e non siaquindi possibile stabilire a priori quali domande possono e quali non possono essere cumulate con l’ impugnativa del licenziamento: in tale prospettiva si è affermato che debba essere il giudice a verificare se l’istruttoria relativa alla domanda connessa ritardi o meno la decisione della controversia sul licenziamento e possa quindi trattenere tali domande allorquando non influenzino la durata del procedimento specifico disegnato dal legislatore12.
Si è comunque osservato che una previsione siffatta che limita la contemporanea trattazione alle sole questioni ulteriori rispetto all’impugnativa di licenziamento che siano fondate sui medesimi fatti costitutivi costituisce in sé un grave appesantimento dell’intero sistema della giustizia del lavoro e contraddice vistosamente il disposto di cui all’art. 151 disp. att. c.p.c. che impone l’obbligo della riunione delle cause di lavoro in presenza di elementi di connessione13.
La natura del procedimento
Il procedimento delineato dalla legge Fornero, come vedremo meglio a breve, si articola in due fasi in primo grado (una sommaria e l’altra di opposizione) cui possono seguire una fase di appello ed una eventuale in Cassazione, tutte caratterizzate da tempi ristretti.
Nel rimandare alle pagine che seguono per la compiuta analisi della riforma, dal punto di vista strutturale è possibile osservare che il procedimento disegnato dal legislatore appare spurio, con caratteristiche che in parte ricalcano quello per la repressione della condotta anti sindacale ex art. 28 St.Lav. (struttura bifasica; emissione di ordinanza), in parte quello del procedimento di cui agli artt. 702 bis ss c.p.c (procedimento sommario di cognizione- istruzione sommaria) ed in parte quello dei procedimenti cautelari di cui agli artt. 669 bis c.p.c. (attività istruttoria, reclamabilità dell’ordinanza)14
In realtà non sembra assimilabile pienamente a nessuno di questi procedimenti, anche se ad avviso dello scrivente si avvicina maggiormente a quello di cui all’art. 28 St.Lav.
Non è un procedimento cautelare in quanto prescinde compiutamente dal periculum e si caratterizza per una cognizione tendenzialmente piena ed interamente sostitutiva del rito del lavoro; anche dal punto di vista strutturale vi sono ampie divergenze perché si conclude con ordinanza, che va però impugnata dinanzi al giudice monocratico e non reclamata dinanzi al collegio.
Non può essere assimilato al procedimento sommario di cognizione perché vi sono importanti differenze strutturali dal momento che il primo grado è sdoppiato in due fasi ed inoltre, come vedremo, il rito Fornero è obbligatorio.
Ad avviso dello scrivente il procedimento disegnato dalla legge 92/2012 sembra quindi assimilabile principalmente a quello delineato dall’art. 28 St.lav., rispetto al quale le differenze principali consistono nel fatto che esso si fonda su una cognizione basata su atti di istruzione indispensabili e non sommarie informazioni e che mentre l’ opposizione avverso l’ordinanza che chiude la fase sommaria del procedimento ex art. 28 St.lav. apre un processo che è regolato dal rito del lavoro, nel nostro caso il legislatore ha introdotto un rito speciale (almeno in parte) anche per la fase di opposizione e per quella di reclamo15.
L’impossibilità di ricondurre compiutamente il cd. Rito Fornero ad uno dei modelli processuali sopra indicati comporta che al fine di colmare le lacune della disciplina della legge 92/2012 (che omette di regolare numerosi aspetti del procedimento, come ad esempio la competenza per territorio) non è possibile ricorrere sempre e comunque a soluzioni elaborate in relazione a quei modelli, ma solo in relazione ai tratti di disciplina che siano sovrapponibili con quelli del nuovo rito16.
Ma il rito Fornero è veramente obbligatorio?
La lettera della legge non è univoca dal momento che l’art. 1, comma 48, afferma che la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone…….; da parte di alcuni si è detto che il legislatore non avrebbe indicato che la domanda va proposta a pena di inammissibilità e che del resto la giurisprudenza consolidatasi in tema di procedimenti per la repressione della condotta antisindacale si è orientata nel senso di ammettere che il sindacato possa, volendo, ricorrere all’azione ordinaria nonostante nulla nel testo dell’art. 28 St.Lav. lasci trasparire una facoltatività del ricorso al procedimento sommario17.
In senso contrario si è però osservato che a differenza del procedimento sommario di cognizione in cui si indica espressamente che la domanda può essere proposta, siamo in presenza di un istituto concepito dal legislatore come obbligatorio.
Al di là dell’argomento letterale, sembra difficile sostenere la facoltatività di una riforma concepita come una riforma fondamentale, volta a tutelare anche interessi di carattere pubblicistico (durata dei processi, evitare per le imprese il costo di una reintegra che avvenga a molti anni di distanza dal licenziamento) e che, a differenza dello strumento di cui all’art. 28 St.Lav, posto nell’esclusivo interesse del sindacato ricorrente è ispirato principalmente dal desiderio di tutelare il datore di lavoro che normalmente sarà convenuto dai costi indiretti dovuti a decisioni giudiziali sfavorevoli che intervengano a distanza di anni dal licenziamento18.
Dunque il dipendente licenziato non può rinunciare al procedimento specifico, perché la specialità non è prevista nel suo ( od almeno nel suo esclusivo) interesse.
Non manca chi, pur condividendo l’obbligatorietà del rito, ha affermato che le parti potrebbero, di comune accordo, decidere di saltare la fase urgente, nella quale il giudice deve pervenire ad un giudizio di mera verosimiglianza e probabilistico circa i fatti rilevanti per la decisione della lite e decidere quindi di partire da quello che nel modello processuale previsto dal legislatore è il giudizio di opposizione all’ordinanza conclusiva della prima fase19.
Ma il procedimento può essere attivato anche dal datore di lavoro che intenda proporre una domanda volta ad accertare la validità ed efficacia del licenziamento?
Il dato normativo farebbe propendere per la tesi negativa dal momento che l’articolo 1, comma 47, fa riferimento alle domande aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento e tali non possono essere definite le azioni di accertamento promosse dallo stesso datore di lavoro.20
Non è mancato chi ha rilevato come in ogni caso sia piuttosto difficile ormai individuare l’interesse del datore ad una pronuncia di accertamento della legittimità del licenziamento, anche in considerazione che la legge 92/2012 ha ridotto a 180 giorni il termine per l’impugnativa del licenziamento, con la conseguenza che decorso tale termine, il lavoratore sarebbe comunque decaduto dalla relativa impugnazione e quindi non vi sarebbe nemmeno un interesse datoriale all’accertamento della legittimità del recesso21.
Infine occorre chiedersi se sia ancora ammissibile nelle controversie assoggettate al rito specifico, il ricorso alla tutela cautelare ex art. 700 c.p.c22.
Nei primi commenti alla riforma si è osservato che il legislatore ha disciplinato un procedimento destinato ad avere una sua definizione in tempi ristretti, ha previsto che a tali controversie devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze (comma 65) con specifici obblighi di vigilanza a carico dei Capi degli uffici (comma 66), previsioni del tutto sconosciute nei procedimenti cautelari, con la conseguenza che che la prima fase delle controversie in tema di licenziamento è destinata a concludersi in tempi brevi, presumibilmente anche inferiore a quelli dei giudizi cautelari.
Si è altresì osservato che laddove il procedimento disciplinato per i licenziamenti venisse preceduto da una ulteriore fase cautelare, a sua volta duplicabile in una fase di prime cure ed una fase di reclamo, rischieremmo di avere una moltiplicazione per quattro del giudizio cautelare.
In realtà non sembra che dal punto di vista teorico vi sia una assoluta inconciliabilità tra il ricorso ex art. 700 cpc ed il nuovo rito per i licenziamenti, a meno che non si riconduca tout court quest’ultimo ad un procedimento cautelare: piuttosto se i Tribunali riusciranno a rispettare i termini- non perentori- dettati dal legislatore avremmo che dal punto di vista concreto lo spazio per la possibilità di un ricorso ex art. 700 c.p.c. in materia di licenziamento sia quasi inesistente.
Se al contrario il proliferare del contenzioso determinerà l’allungamento dei tempi processuali, il ricorso cautelare riprenderà compiutamente spazio, analogamente a quanto accaduto dopo la riforma del processo del lavoro del 197323.
Il giudizio di primo grado: la fase urgente
L’art. 1, comma 48, statuisce che la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Mancano disposizioni sulla competenza territoriale, ma non vi sono ragioni per non fare riferimento a quelle dettate in generale per il processo del lavoro dall’art. 413 c.p.c24.
Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile e, pertanto, deve indicare in particolare:
- l’ufficio giudiziario;
- le parti;
- l’oggetto e le ragioni della domanda;
- le conclusioni,
Rispetto all’art. 414 c.p.c. la diversità più consistente riguarda la prova dal momento che non vi è una disposizione analoga all’art. 414 c.p.c. n° 5 che richiede “l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione” , il che significa che il rito specifico possa essere avviato anche senza l’indicazione specifica dei mezzi di prova.
A seguito della presentazione del ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, da tenersi non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso.
Nessun termine è imposto al giudice per la pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza, a differenza di quanto previsto dall’art. 415 c.p.c. , ma stante i brevissimi tempi delineati dal legislatore, è ovvio che il giudice debba procedere nel più breve tempo possibile all’emanazione del decreto.
Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza, nonché un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente.
La notifica è a cura del ricorrente e può essere effettuata anche a mezzo di posta elettronica certificata. Qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia.
La fissazione di termini brevi rispecchia chiaramente l’intenzione del legislatore di accelerare al massimo la trattazione delle controversie ed in tal senso deve ritenersi, che non sia consentito al convenuto proporre in tale fase domande riconvenzionali o di chiamata di terzo, possibilità riservate nella fase di merito25.
L’effettivo rispetto dei termini dipenderà molto dalle situazioni concrete degli uffici, ma va rimarcato che il comma 65 stabilisce che alla trattazione delle controversie in oggetto devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze ed il successivo comma 66 attribuisce un peculiare potere/dovere di vigilanza dei capi degli uffici giudiziari sull’osservanza della disposizione di cui al comma 65.
In relazione ai termini deve osservarsi che se il ricorrente non rispetta il termine di 25 giorni non dovrebbero esservi problemi per la rinnovazione della vocatio in ius.
Nulla è detto in ordine alla costituzione del convenuto che deve avvenire almeno cinque giorni prima dell’udienza.
Priva di conseguenze dovrebbe essere poi la scelta del convenuto di costituirsi oltre il termine non inferiore a cinque giorni prima dell’ udienza assegnatogli dal giudice nel decreto di comparizione.
La previsione legislativa del termine di almeno cinque giorni prima dell’udienza è funzionale a che parti e giudice giungano in udienza conoscendo ricorso e memoria, quindi avendo un quadro completo delle posizioni onde evitare rinvii dell’udienza e proprio partendo da tale presupposto si è sostenuto che se il convenuto si costituisca tardicamente, potrà esporre in udienza le sue posizioni, ma la memoria sarebbe acquisibile al processo solo se depositata tempestivamente26.
Al di là della condivisione o meno di tale posizione, sembra pacifico che in ogni caso non vi siano preclusioni istruttorie per il convenuto.
Quanto, poi, all’onere espressamente imposto al resistente ex art. 416 c.p.c di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dal ricorrente, si è osservato che la sua inosservanza non produce conseguenze in rito, ma direttamente sul convincimento del giudice circa il merito della controversia, anche in virtù del disposto dell’art. 115, primo comma, c.p.c.27
All’udienza di comparizione, il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile”.
Il legislatore ha chiaramente delineato un procedimento in cui la trattazione e l’istruzione della causa possono essere concentrate in un’ unica udienza, ma da ciò non deriva certamente l’obbligo di citare i testi sin dalla prima udienza.
Deve infatti osservarsi che già l’art. 420 c.p.c. concepisce l’udienza di discussione come una udienza unica, vieta le udienza di mero rinvio e quindi sul punto il disposto della legge 92/2012 non appare connotato da alcuna novità.
Si è poi osservato che prima dell’ordinanza di ammissione della prova testimoniale non ci sono testimoni e, pertanto, neppure possono ipotizzarsi decadenze connesse con la loro mancata citazione a comparire28.
In tale udienza il giudice deve procedere agli accertamenti preliminari relativi alla regolare costituzione del contraddittorio, a verificare l’integrità dello stesso nel caso in cui ricorra una ipotesi di litisconsorzio necessario e deve procedere a sentire le parti.
Non sembra che la norma escluda la possibilità per il giudice di condurre la completa attività di cui all’art. 420 c.p.c., , primi tre commi, con l’interrogatorio delle parti e la formulazione della proposta transattiva.
Sull’attività istruttoria la disposizione di legge è alquanto lacunosa, limitandosi ad affermare che il giudice debba procedere agli atti di istruzione indispensabili.
Al fine di riempire di contenuto il precetto del comma 49, si deve partire dal presupposto che l’intenzione del legislatore è quella di definire un procedimento idoneo a consentire la formazione nel tempo più rapido possibile di un pronunciamento giudiziale circa la legittimità del licenziamento29, con la conseguenza che l’istruttoria dovrà essere limitata a quei soli mezzi necessari a consentire al giudice la formazione di un giudizio di mera verosimiglianza sulla fondatezza della domanda del lavoratore30.
Sembrano difficilmente compatibili con questa struttura particolari approfondimenti istruttori quali la consulenza tecnica d’ufficio31 o la prova delegata, provvedimenti come ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale o tutte quelle variabili attività istruttorie che possono verificarsi nelle cause di licenziamento o di qualificazione del rapporto, come ad esempio disconoscimento di scrittura privata o presentazione di querela di falso.
Del resto solo se si considera questa fase come caratterizzata da una istruttoria del tutto sommaria, che lascia poi l’approfondimento sulla valutazione delle ragioni delle parti alla fase successiva, si dà anche un senso alla riforma che altrimenti avrebbe introdotto quattro gradi di giudizio, in chiaro contrasto con il dichiarato intento di riduzione dei tempi processuali.
L’articolo 1, comma 49, legge 92/2012 statuisce che all’esito il giudice provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda”,.
L’ordinanza è immediatamente esecutiva e tale efficacia non può essere sospesa o revocata fino alla sentenza che definisce il giudizio eventualmente instaurato a seguito dell’opposizione proposta32.
Questioni di rito
Sin dai primi commenti della legge 92/2012, i maggiori dubbi e contrasti interpretativi si sono avuti in ordine alle conseguenze nel caso di erronea scelta del rito.
Le ipotesi possibili sono varie.
Può aversi innanzitutto che una domanda avente ad oggetto l’impugnativa di licenziamento sia proposta con ricorso ex art. 414 c.p.c. oppure che si utilizzi lo strumento processuale disegnato dalla legge 92/2012 per proporre domande diverse dall’impugnativa del licenziamento.
Il nostro ordinamento già contiene delle norme che regolano problemi analoghi: si pensi agli 426 e 427 c.p.c. che prevedono meccanismi diretti ad assicurare il semplice mutamento di rito, tutte le volte in cui una causa relativa ad uno dei rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. sia promossa nelle forme ordinarie ovvero una causa promossa secondo il rito del lavoro riguardi un rapporto diverso da quelli di cui al citato art. 409 c.p.c.
Si pensi ancora all’art. 702 ter c.p.c. in tema di rapporti tra procedimento sommario ed ordinario ed ancora all’art. 4 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 che stabilisce il mutamento di rito tutte le volte in cui una delle controversie da trattare secondo uno dei modelli considerati dal decreto sia promossa seguendo un rito diverso da quello stabilito dallo stesso decreto legislativo per quella categoria di controversie.
Occorre verificare quali di queste norme siano applicabili al caso di specie.
Ebbene non sembrano applicabili né gli artt. 426 e 427 c.p.c. che regolano i rapporti tra rito ordinario e rito del lavoro, mentre qui stiamo trattando di rapporti tra il rito del lavoro ed il rito specifico per i licenziamenti, né l’art. 702-ter che disciplina solamente l’ ipotesi in cui una domanda che avrebbe dovuto essere trattata seguendo il rito ordinario o del lavoro (perché estranea a quelle sulle quali il tribunale giudica in composizione monocratico ovvero perché richiedente una istruttoria non sommaria) sia stata invece proposta secondo le regole del procedimento sommario di cognizione.
L’unica disposizione che sembra espressione di un principio generale è l’art. 4 dlgs 150/2011 che è diretto a risolvere le questioni di rito che possono porsi in riferimento a qualsiasi ipotizzabile combinazione tra i tre riti presi in considerazione dal decreto (quello ordinario, quello del lavoro e quello sommario di cognizione) e può ragionevolmente essere considerato come espressione di principi sufficientemente generali da poter essere applicati in via analogica pure alle questioni di rito connesse con il nuovo procedimento di impugnazione dei licenziamenti33.
Ebbene l’art. 4 citato stabilisce che, quando una controversia è promossa in forme diverse da quelle per essa prescritte, «il giudice dispone il mutamento di rito con ordinanza» (comma 1) e, quale regola particolare, che, nel caso in cui la controversia debba essere trattata applicando il rito del lavoro, «il giudice fissa l’udienza di cui all’articolo 420 del codice di procedura civile e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria» (comma 3).
Di conseguenza laddove venga proposta con il rito di cui alla legge 92/2012 una domanda che esula dal campo di applicazione della norma, il giudice dovrà mutare il rito e fissare l’udienza ex art. 420 c.p.c.
Nel caso inverso (domanda di impugnativa proposta ex art. 414 c.p.c.) il giudice potrebbe limitarsi a mutare il rito senza necessità di fissare una nuova udienza, né tantomeno di concedere termine per eventuali integrazioni difensive. Infatti, in virtù delle disposizioni che regolano la costituzione delle parti nel rito del lavoro codicistico, le parti avranno già esaurientemente svolto le loro argomentazioni difensive e formulato le loro richieste istruttorie..
Nel caso di contumacia del convenuto, l’ordinanza di mutamento del rito deve essere comunicata alla parte contumace, in applicazione del principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità34 e costituzionale35 rispetto all’analogo provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 426 c.p.c.
Ma cosa accade nel caso di cumulo di domande, quando cioè solo alcune delle domande proposte dalla parte possono essere trattate con il rito di cui alla legge 92/2012?
Si pensi all’ipotesi in cui una parte avanzi, unitamente all’impugnativa di licenziamento, domanda di differenze retributive che pacificamente non sono fondate sugli stessi fatti costitutivi del licenziamento.
Ai sensi dell’art. 40 cpc si potrebbe ipotizzare che tutte le domande debbano essere trattate congiuntamente, ma nella specie l’art. 1, comma 48, legge 92/2012 statuisce espressamente che non possono essere presentate domande diverse a meno che non siano fondate sugli identici fatti costitutivi.
Si è ipotizzato che il giudice debba ordinanza disporre la separazione delle domande (es: differenze retributive da quella di licenziamento) disponendo la formazione di un nuovo fascicolo di ufficio e una nuova iscrizione a ruolo per le domande separate; nella stessa ordinanza potrebbe poi già fissare l’udienza ex art. 420 c.p.c. per la successiva trattazione della causa ed assegnare alle parti termine perentorio per provvedere alla integrazione degli atti introduttivi ed al deposito di memorie e documenti presso la cancelleria.
Tale soluzione implica difficoltà sia di ordine pratico che teorico.
Dal punto di vista pratico e’ evidente che questi provvedimenti di separazione, di formazione di nuovi fascicoli creano anche un notevole aggravio di lavoro per la cancellerie già notoriamente alle prese con gravi carenze di organico.
Senza peraltro dire che in numerosi casi la separazione delle domande produce effetti dannosi soprattutto laddove la domanda di impugnazione del licenziamento sia connessa ad altre domande che si fondano su fatti costitutivi ed ulteriori rispetto a quello del licenziamento, come nel caso del mobbing, che consiglierebbero una trattazione unitaria della vertenza.
Dal punto di vista teorico si è osservato36 che di provvedimenti di separazione se ne parla soltanto al comma 56 dell’art. 1 legge 92/2012 e solo con riferimento a domande riconvenzionali spiegate nella fase di opposizione e non fondate “ su fatti costitutivi identici a quelli posti alla base della domanda principale”.
Si è così anche ipotizzato che il giudice debba dichiarare tout court l’inammissibilità di tutte le domande, ma tale soluzione può comportare il rischio per i lavoratore di trovarsi preclusa per decorso dei termini la strada dell’impugnativa con richiesta di tutela obbligatoria, termine che oggi è ridotto a 180 giorni, almeno a seguire quella giurisprudenza secondo quale il pur tempestivo esercizio dell’azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto dalla decadenza laddove il giudizio si estingua o comunque non pervenga all’esito sperato per effetto di una pronuncia in rito37.
Il drastico rigore del meccanismo processuale determinato dal sistema normativo sembra però veramente eccessivo, atteso che la parte rischia di scontare una conseguenza penalizzante al massimo e non a caso non è mancato chi38 ha dubitato che il termine di 180 giorni possa essere considerato veramente un termine di decadenza.
Forse la strada più corretta è quella di ritenere che il giudice, con l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”, debba decidere nel merito le domande ammissibili e dichiarare l’inammissibilità di tutte le altre, il che eviterebbe anche la decadenza, visto che il procedimento non si conclude con una mera pronuncia in rito39.
Nel caso invece in cui la parte chieda la tutela reale ed invece il giudice ritenga che vi siano solo i presupposti per la tutela obbligatoria, deve ritenersi che la parte abbia ben proposto il ricorso in base alla domanda e sarebbe assolutamente defatigante, dopo l’istruttoria, disporre il mutamento del rito ed effettuare un nuovo giudizio sui presupposti sostanziali del licenziamento ai fini della tutela obbligatoria.
D’altra parte la domanda sulla tutela obbligatoria è fondata sui medesimi fatti costitutivi di quella che invoca la tutela reale, con la conseguenza che il giudice ben dovrà esaminare le domande nel merito e concedere la tutela obbligatoria.40
Nelle prime applicazioni giurisprudenziali si è anche ritenuto di poter distinguere tra il caso in cui il requisito dimensionale sia oggetto di domanda ed il caso in cui il requisito dimensionale, pur apparendo presupposto implicito della domanda, sia in realtà rimasto estraneo alle allegazioni ed alle deduzioni difensive.
Si è così disposto in prima battuta il mutamento del rito nel caso di impugnativa di licenziamento, avanzata ex legge 92/2012, in cui il lavoratore chiedeva la reintegra ma nulla diceva in ordine alla sussistenza del requisito dimensionale che veniva espressamente contestato dal datore41.
Tale soluzione non appare condivisibile: il rito applicabile va individuato in relazione alle prospettazioni, al petitum ed alla causa petendi, con conseguente irrilevanza dell’esito del processo frutto della sua progressiva evoluzione, non potendo certo il rito cambiare secundum eventum litis e, quindi, dovendo la decisione sul rito applicabile prescindere dalla fondatezza nel merito della domanda42.
Alle medesime conclusioni dovrebbe pervenirsi anche nelle ipotesi in cui non sia stata formulata, in via subordinata rispetto alla domanda di tutela reintegratoria reale, la domanda di attribuzione della indennità risarcitoria, alla luce della costante giurisprudenza della Suprema Corte43.
Nel caso opposto in cui, invece, il lavoratore proponga un ricorso ex art. 414 c.p.c. nel quale, oltre a domande alle quali si applica il rito codicistico delle controversie individuali di lavoro, impugna anche il licenziamento chiedendo la tutela ex art. 18 St.Lav., probabilmente il giudice (dopo aver fissato l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. con il decreto di cui all’art. 415 c.p.c.) dovrà disporre, alla prima udienza, la separazione delle cause e, quindi, procedere alla conversione del rito limitatamente alla causa avente ad oggetto la domanda di applicazione delle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e le altre eventualmente consentite dall’art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012 (e, anche qui, le parti potranno manifestare la volontà di omettere la fase “urgente”), proseguendo la trattazione secondo il rito codicistico per tutte le altre domande44, anche se tale soluzione sconta le difficoltà sopra delineate in tema di separazione dei procedimenti.
Oneri probatori ed efficacia ordinanza nella fase sommaria
E’ possibile a questo punto accennare ad alcuni profili problematici derivanti dalla riforma del rito dei licenziamenti.
In particolare ci si è chiesti se l’onere di provare il requisito dimensionale legittimante l’applicazione o l’esclusione delle tutele previste dal novellato articolo 18 della legge n. 300 del 1970, continui ad essere a carico del datore di lavoro, come affermato dalle Sezioni Unite con la decisione n. 141/2006 oppure non possa ritenersi ormai a carico del lavoratore per l’assorbente ragione che egli, ricorrendo al rito sommario, decide di percorrere una strada, per legge, praticabile solo per le cause di licenziamento soggette all’art. 18 della legge n. 300 del 1970. In questo caso, in sostanza, secondo quella che era il fulcro della giurisprudenza più remota, il requisito dimensionale potrebbe essere considerato un vero e proprio elemento costitutivo dell’azione di impugnazione del licenziamento.
Nell’articolato della Commissione Foglia la questione era stata risolta con l’inserimento nell’articolo 2 di un comma, il quarto, che ribadiva come l’onere della prova del requisito dimensionale continuasse a gravare sul datore di lavoro, ma, in assenza di qualsiasi indicazione legislativa, non sembra allo scrivente che vi sia spazio per mutare le conclusioni cui è pervenuta ormai da anni la Suprema Corte.
Da ultimo si pone il problema dell’efficacia dell’ordinanza non opposta.
E’ infatti evidente che laddove ad una fase ad istruttoria sommaria segua la fase a cognizione piena, che si conclude con una sentenza, la stessa sicuramente ha efficacia di giudicato tra le parti.
Se però l’ordinanza non viene opposta, potrebbe ritenersi applicabile la disposizione di cui all’art. 702-quater cpc, secondo cui l’ordinanza, ove non sia proposta l’opposizione, produce gli effetti di cui all’art. 2909 cc, acquisisce cioè efficacia di giudicato tra le parti i loro eredi e aventi causa45.
Errore del rito
Occorre altresì chiedersi quali siano le conseguenze di un processo che si svolga con il rito sbagliato e si giunga ad una pronuncia che non rilevi l’erroneità del rito con il quale era stato introdotto il giudizio.
Ebbene in giurisprudenza si è affermato che l’errore del rito è motivo di nullità della sentenza, e quindi motivo di impugnazione, solo se determina un concreto pregiudizio processuale incidente sulla competenza, sulle prove o sui diritti di difesa46.
Di conseguenza l’errore sul rito non dovrebbe in alcun modo determinare una nullità della decisione a meno che non si voglia ritenere che l’istruttoria del procedimento specifico, naturalmente compressa, leda il diritto alla prova od il diritto di difesa di uno delle parti.
Si è però osservato che la diversa modalità di assunzione delle prove non costituisce un ostacolo alla loro utilizzazione in altro rito, che il procedimento prevede comunque il pieno rispetto del principio del contraddittorio, sicché l’errore di rito sarà quasi sempre irrilevante47.
L’opposizione
La seconda fase del giudizio di primo grado viene attivata a seguito di opposizione avverso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto della domanda del lavoratore.
Occorre chiedersi se sia possibile l’opposizione anche se l’ordinanza che chiude la prima fase sommaria abbia pronunciato l’inammissibilità del ricorso. La norma fa specifico riferimento alla sola ordinanza di accoglimento o di rigetto, ma è da ritenersi che la specificazione abbia voluto esplicitare la totalità del mezzo impugnatorio, e non escludere una pronuncia che, pur appartenendo al genus delle pronunce di rigetto, sottolinei la ragione dello stesso (inammissibilità), non legata alla valutazione del merito del diritto vantato48.
L’opposizione deve essere proposta con ricorso avente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c. , ma naturalmente dovrà parametrarsi al contenuto dell’ordinanza.
Essa deve essere proposta dinanzi al Tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore.
Anche in tale fase è preclusa la proposizione di domande diverse da quelle di cui al comma 47 dello stesso articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa é comune o dai quali si intende essere garantiti49. Naturalmente il ricorso può essere proposto, in caso di soccombenza, sia dal datore che dal lavoratore e non si può neppure escludere l’ipotesi che datore di lavoro o lavoratore possano proporre due distinte opposizioni, per le parti nelle quali sono risultati soccombenti nella fase sommaria. In questo caso, sembra logico ritenere che le due opposizioni debbano essere successivamente riunite.
Il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima dell’udienza.
Sia il ricorso che il decreto devono essere notificati, anche a mezzo di posta elettronica certificata, dall’opponente all’opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
Il comma 53 dispone poi che l’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 del codice di procedura civile. Se l’opposto intende chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva.
Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107 del codice di procedura civile, il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi sessanta giorni, e dispone che siano notificati al terzo, ad opera delle parti, il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione dell’opposto.
Il terzo chiamato, per disposizione del comma 55, deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando la propria memoria a norma del comma 53.
Il comma 56 stabilisce che nel caso di domanda riconvenzionale, se la stessa non è fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della principale, il giudice ne dispone la separazione.
In altri termini, qualora la riconvenzionale sia fondata su un rapporto giuridico diverso dal rapporto di lavoro dedotto in causa o su questioni di fatto che nulla hanno a che vedere con i fatti che hanno portato al licenziamento impugnato, il giudice deve, con ordinanza, disporre la separazione delle domande.
Ipotesi di domanda riconvenzionale ammissibile appare, così, quella di risarcimento dei danni formulata dal datore dei lavoro nei confronti del dipendente, fondata sugli stessi fatti oggetto degli addebiti disciplinari sfociati nel licenziamento impugnato secondo la nuova procedura (ad esempio, in caso di licenziamento disciplinare per violazioni dei doveri del lavoratore che abbia posto in essere una attività concorrenziale, la connessa domanda riconvenzionale risarcitoria).
Ci si è chiesti se, nel silenzio del legislatore, trovi applicazione la norma generale del processo del lavoro dettata dall’art. 418 c.p.c., implicante la fissazione di una nuova udienza in caso di riconvenzionale.
L’opinione che ritiene tale disciplina incompatibile con la finalità acceleratoria del rito specifico50 appare eccessiva, posto che l’opposizione è una fase in cui il ritmo processuale diviene meno intenso e considerate le esigenze di garanzia del contraddittorio sottese alle regole dell’art. 418 c.p.c.51
All’udienza il giudice, sentite le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti, nonché disposti d’ufficio, ai sensi dall’articolo 421 del codice di procedura civile.
La disposizione non è molto diversa da quella relativa alla fase urgente, con la differenza che mentre nella prima fase devono essere compiuti solo gli atti istruttori indispensabili, in sede di opposizione devono essere compiuti gli atti istruttori ammissibili e rilevanti.
Tale fase è però a cognizione piena e devono considerarsi quindi ammissibili tutti i mezzi di prova previsti dalla legge, ivi compresi la consulenza tecnica d’ufficio, la verificazione della scrittura privata etc.. , non avendo altrimenti senso la previsione di una opposizione ad una pronuncia, quella che conclude la fase urgente, che si fonda su un giudizio di mera verosimiglianza.
Al termine di questa fase, il giudice emette sentenza di accoglimento o di rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione.
La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.
E’ evidente la differenza con l’articolo 429 c.p.c, nel testo modificato dall’ dall’art. 53 del d.l. 25 giugno 2008, conv. in legge n. 133/2008.
Infatti l’art. 429 c.p.c. statuisce che il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e delle esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza.
Invece nel rito speciale di cui al comma 57 non è prevista né la lettura del dispositivo all’udienza né la motivazione contestuale.
Anzi poiché la norma fa riferimento ad una sentenza completa di motivazione, sembra che potersi affermare che, alla discussione finale della causa, non debba seguire alcuna lettura del dispositivo o della motivazione contestuale ma che l’intera sentenza, completa di dispositivo e di motivazione, vada depositata in Cancelleria entro dieci giorni successivi.
Deve però ritenersi che sia comunque consentita sia redazione contestuale del provvedimento al termine dell’udienza di discussione sia il deposito dell’intera sentenza in Cancelleria nei successivi dieci giorni.
Quello che, invece, non sembra più ammissibile è la lettura separata del dispositivo al termine della discussione, con la conseguenza che non è più consentita l’esecuzione con la copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della motivazione, di cui al secondo comma dell’art. 431 cpc né l’appello con riserva dei motivi, di cui al secondo comma dell’art. 433 cpc52.
Una delle questioni più delicate di questa fase è certamente quella relativa alla possibilità di trattare il giudizio di opposizione da parte dallo stesso magistrato che, all’esito della fase sommaria, abbia emesso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto.
Come è noto, la Corte Costituzionale con la sentenza 587/1999 affrontò analoga questione in tema di procedimento ex art. 28 St.Lav e venne ad affermare che lo stesso giudice non poteva trattare un procedimento che atteneva al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario.
In quella decisione il Giudice delle Leggi aveva premesso che esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché, condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131 del 1996).
Importante è la successiva puntualizzazione della Corte che ha escluso che l’espressione “magistrato in altro grado del processo” utilizzata dal codice di procedura nell’articolo 51, n° 4, c.p.c. fosse d’ostacolo all’applicazione della regola della alterità del giudice della impugnazione, dovendo la medesima essere interpretata alla luce dei principi che si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come espressione necessaria del diritto ad una tutela giurisdizionale mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con le garanzie proprie della giurisdizione, cioè con la connaturale imparzialità, senza la quale non avrebbe significato ne’ la soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione), ne’ la stessa autonomia ed indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, della Costituzione). In altri termini, la espressione “altro grado” non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere – con una interpretazione conforme a Costituzione – anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario.
Infine, neppure l’organizzazione interna degli uffici giudiziari potrebbe essere idonea a precludere la prospettata interpretazione dell’art. 51, n. 4, c.p.c., perché, secondo il giudice delle leggi una determinazione organizzatoria-amministrativa, non può derogare a principi contenuti nelle norme processuali e costituzionali, dovendo il giudice disapplicarla – in quanto priva di forza di legge – se in contrasto con detti principi.
Ciò posto, occorre verificare se le argomentazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale in relazione al procedimento per la repressione della condotta antisindacale possano essere applicate anche alla fattispecie in esame.
Effettivamente il rito specifico in tema di licenziamenti presenta, proprio in uno dei suoi aspetti essenziali e, cioè, nella struttura bifasica attribuita al primo grado del giudizio, delle indubbie analogie con il procedimento ex art. 28 della legge n. 300 del 1970 e ciò potrebbe far propendere per l’incompatibilità del Giudice.
In senso contrario potrebbe però osservarsi che l’opposizione in questione non costituisce revisio prioris instantiae nel senso ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale per estendere il divieto ex art. 51 n. 4 c.p.c. al giudice che abbia conosciuto di altra fase del processo, stante l’assenza nella fase urgente di preclusioni istruttoria e la possibilità che con la fase di opposizione vengano introdotte domande nuove (ad es: riconvenzionali, chiamate in garanzia) che coinvolgono parti che non hanno partecipato alla fase sommaria53.
L’assegnazione allo stesso giudice in astratto garantisce maggiormente anche l’esigenza di celerità del procedimento (si evita la dispersione dei saperi che come evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale54 allunga i tempi processuali), ma è evidente che allora bisogna ribadire la netta differenza anche concettuale tra la fase urgente, caratterizzata da una mera valutazione di verosimiglianza della fondatezza della pretesa fatta valere, dalla fase di opposizione che rappresenta il vero e proprio giudizio.
Nei primi mesi di applicazione del nuovo rito i Tribunali stanno procedendo in ordine sparso, con Tribunali che ritengono possibile assegnare allo stesso giudice le due fasi del primo grado, chi ha optato per l’incompatibilità ed altri che sembrano lasciare l’assegnazione al sistema automatico senza prevedere espresse incompatibilità55.
Laddove si è poi optato per la scelta dello stesso giudice, si sono anche respinte istanze di ricusazione del magistrato che si era già pronunciato nella fase urgente, evidenziando come la seconda fase non rivesta carattere impugnatorio rispetto alla prima, ha oggetto più ampio (possono essere proposte domande nuove anche in via riconvenzionale) e non vi sia identità soggettiva (nella fase di opposizione è consentita la chiamata in causa di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intenda essere garantiti)56.
Il giudizio dinanzi alla Corte di Appello
L’articolo 1, comma 58, legge 92/2012 statuisce che contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso il reclamo alla corte di appello, Il reclamo si propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore.
Appare già una peculiarità, ossia la circostanza che il legislatore preveda il reclamo, istituto tipico dei procedimenti cautelari, per il giudizio dinanzi alla Corte di Appello.
Non sembra però che dalla terminologia usata possa ricavarsi qualcosa in tema di inquadramento dell’istituto, nel senso che il procedimento di primo grado debba comunque ritenersi un procedimento sommario, ma non cautelare.
In ogni caso poiché la finalità del reclamo sembra essere quella di sollecitare una nuova decisione sulla materia del contendere già discussa in primo grado, appare preferibile ritenere che, per le parti non espressamente disciplinate dalla legge, debba farsi riferimento alla regolamentazione generale e speciale prevista per l’appello. Ipotesi questa che trova anche un fondamento testuale, qualora si riconosca un’analogia sostanziale tra questo procedimento e quello sommario di cognizione, nel quale il già citato art. 702-quater cpc prevede in modo specifico come mezzo di impugnazione l’appello. Tra l’altro, la disciplina generale dell’appello è l’unica che, presentandosi effettivamente completa ed organica, contiene tutti i riferimenti normativi necessari per regolamentare il giudizio di secondo grado (ad es. le impugnazioni incidentali, la modalità di deduzione secondo motivi specifici, la rinuncia alle eccezioni e alle domande non riproposte e quant’altro).
Come previsto in via generale, le parti non possono indicare nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile.
Si è affermato che a tali procedimenti non sarebbe applicabile l’art. 436 bis l. n. 134/2012- che estende al processo del lavoro in appello il filtro costituito dalla possibilità di dichiarare inammissibile con ordinanza l’impugnazione “quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta” disciplinato dagli artt. 348 bis e ter c.p.c- in quanto il nuovo procedimento è connotato da celerità di trattazione e da peculiarità istruttorie e decisorie rispetto all’ordinario processo del lavoro, ed altresì per l’analogia che si riscontra con la esplicita esclusione per le ordinanze emesse in sede di giudizio sommario di cognizione57.
In senso contrario si potrebbe anche sostenere che nessuna norma prevede espressamente l’esclusione del filtro di cui all’art. 436 bis c.p.c e che comunque il procedimento delineato dalla legge 92/2012 presenta notevoli differenze rispetto al processo sommario di cognizione58.
La corte d’appello fissa con decreto l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni e si applicano i termini previsti dai commi 51, 52 e 53 del medesimo art.1 L. n.92 per la costituzione del convenuto, per la notifica del reclamo e del decreto di fissazione dell’udienza e per la memoria difensiva del convenuto, con la conseguenza che il ricorrente deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza e notificare, anche a mezzo pec, il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza almeno 30 giorni prima della predetta udienza.
L’articolo 1, comma 60, prevede che alla prima udienza la Corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi.
La ricorrenza di gravi motivi sembra essere ancorata ad una valutazione preliminare sulla fondatezza dell’impugnazione59 e balza subito agli occhi la differenza con l’art. 431 c.p.c. , 3° comma, che stabilisce come l’esecuzione della sentenza di primo grado possa sospesa in grado d’appello solo quando ricorre il requisito del “gravissimo danno”, che si verifica allorché, prescindendo dalla apparente fondatezza delle ragioni di merito dedotte con l’impugnazione, l’esecuzione della sentenza è idonea a cagionare un danno di gravità tale che non può essere altrimenti evitato se non con la sospensione del titolo esecutivo impugnato.
In materia di licenziamento quindi il regime dell’esecutività delle sentenza viene parificato a quello di all’art. 431, 5° comma, c.p.c. che prevede la sospensione della sentenza a favore del datore al ricorrere di gravi motivi, locuzione sicuramente meno pregnante di quel gravissimo danno di cui all’art. 431, 3° comma, c.p.c. per le sentenza a favore del lavoratore, ma anche dei gravi e fondati motivi di cui agli artt. 282 e 283 c.p.c.
Anche in appello, la Corte, sentite le parti, ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto del reclamo, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione.
Non sembra possibile la delega, da parte del Presidente del Collegio, per l’assunzione degli eventuali mezzi di prova ammessi ad uno dei componenti del Collegio stesso, non essendo stata riprodotta la disposizione contenuta nell’ultima parte del già citato articolo 702-quater cpc.
La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione (come nel primo grado, non è prevista l’emissione di un dispositivo di sentenza).
Il comma 61 dell’art.1 L. n.92 stabilisce che in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’articolo 327 del codice di procedura civile, per cui il reclamo non potrà proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, salvo che la parte contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292.
Il ricorso in Cassazione
L’ articolo 1, comma 62, statuisce Il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione, se anteriore. La sospensione dell’efficacia della sentenza deve essere chiesta alla corte di appello.
Ai sensi del comma 63 la Corte fissa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso.
Il comma 64 dispone infine che, in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza della Corte di Appello che decide l’accoglimento o il rigetto del reclamo, si applica l’articolo 327 del codice di procedura civile, per cui non potrà proporsi ricorso in Cassazione decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, salvo che la parte contumace non provi di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa.
Ulteriori questioni
In conclusione di questo breve discorso sulle novità processuali introdotte dalla legge 92/2012, sembra opportuno accennare ad alcune questioni problematiche di diritto intertemporale legate alla riforma che possono avere riflessi sul versante processuale.
Innanzitutto va segnalato che l’articolo 1, comma 38, legge 92/2012 ha ridotto il termine di decadenza di 270 giorni per il deposito del ricorso giudiziario, introdotto nel secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 dall’art. 32, secondo comma, della legge n. 183 del 2010, da 270 a 180 giorni. Questo nuovo termine, come previsto dal successivo comma 39, si applica solo ai licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della legge di riforma.
Occorre poi chiedersi quale regime sostanziale sia applicabile nel caso di licenziamento intimato prima dell’entrata in vigore della legge e che verrà deciso sotto il vigore della legge 92/2012; situazione è resa ancor più complessa dal fatto che a cavallo dell’entrata in vigore della legge potrà esserci stata la sola intimazione del licenziamento, ovvero oltre alla intimazione del licenziamento anche la sua impugnativa stragiudiziale ovvero addirittura quella giudiziale60.
Può ritenersi che la norma introdotta con la novella dell’art. 18 sia applicabile solamente a quei licenziamenti intimati dopo la entrata in vigore della legge sul presupposto che tale norma è di carattere sostanziale e quindi vale il principio del “tempus regit actum”61 prendendo altresì spunto da tutta quella giurisprudenza che ad es. in materia di contratto a tempo determinato o di intermediazione di manodopera ha stabilito che -proprio in virtù del principio generale “tempus regit actum”- si continuerebbe ad applicare la fattispecie relativa ai fatti dedotti in giudizio ricadenti temporalmente nel periodo antecedente all’entrata in vigore del Dlgs 368/2001 o del d.lgs 276/03 laddove la stipula del contratto a Termine o la violazione dell’art. 1l.1368/60 sia stata sia stata effettuata o commessa anteriormente all’introduzione delle richiamate leggi62 .
Nei primissimi commenti63 si era anche ipotizzato che le nuove norme potessero essere di immediata applicazione dal momento che l’apparato sanzionatorio adottabile non può che essere quello vigente al momento in cui deve essere applicato, ma tale posizione è stata decisamente respinta dalle prime decisioni sul punto che hanno rilevato come la nuova disciplina dell’art. 18 St.Lav. possa essere applicata ai soli licenziamenti intimati dopo la sua entrata in vigore, proprio sul rilievo che la normativa ha carattere sostanziale64.
Altro aspetto piuttosto delicato è quello relativo al regime prescrizionale applicabile in conseguenza della nuova legge.
Come è noto la prescrizione per i crediti da lavoro ex art. 2948 n. 4 c.c. ha avuto nel tempo una sofferta evoluzione.
Infatti con sentenza n. 63 del 10 giugno 1966 la Corte Costituzionale ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 c.c., limitatamente alla parte in cui consentivano che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorresse durante il rapporto di lavoro.
Con successive sentenze n. 143 del 20 novembre 1969 e n. 174 del 12 dicembre 1972 la Corte Costituzionale precisò che tale principio non trova applicazione nei rapporti di pubblico impiego ed in quelli garantiti dall’art. 1 l. 604/66 e dall’art. 18 l. 300/70 sul presupposto che in tali ipotesi in cui era garantita la stabilità reale del posto di lavoro, veniva meno quel principio di soggezione che notoriamente accompagna il lavoratore durante tutto l’arco del suo rapporto lavorativo.
Occorre chiedersi se la riformulazione del sistema delle tutele, ed in particolare la non esclusiva applicazione della misura ripristinatoria quale sanzione per l’ invalidità del recesso nell’area di applicazione dell’ art. 18 produca conseguenze rilevanti anche sotto il profilo della prescrizione.
Si potrebbe sostenere che, non essendo più assicurata la tutela reale nel caso di licenziamento dichiarato illegittimo, la decorrenza della prescrizione sia spostata alla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i dipendenti in luogo del regime normale che vede la decorrenza iniziare al sorgere del credito.
Si è anche sostenuto65 che nella sentenza della Corte Costituzionale si faceva riferimento al timore del lavoratore di un possibile licenziamento per ritorsione, per il quale oggi la legge 92 del 2012 ha espressamente previsto una piena tutela reintegratoria, sicché potrebbe affermarsi che la prescrizione decorre sempre in costanza di lavoro, indipendentemente dal requisito dimensionale dell’azienda.
In ogni caso non sembra possibile scindere il problema e ritenere che il decorso o meno della prescrizione possa essere accertato a posteriori, nel senso che occorrerebbe prima verificare quale regime sanzionatorio nel caso di licenziamento illegittimo sarebbe applicabile e poi stabilire se il rapporto possa considerarsi stabile.
Si è giustamente osservato che un credito può essere azionato anche prima di un licenziamento ed in totale assenza di un evento risolutorio del rapporto di lavoro, sicché non sarebbe ammissibile ( o quanto meno opportuna) alcuna indagine sulla stabilità del rapporto di lavoro66.
E’ una questione piuttosto delicata sulla quale sarebbe opportuno quanto mai un intervento chiarificatore del legislatore.
Dott. Paolo Scognamiglio
Giudice del lavoro presso il Tribunale di Napoli
Docente a contratto presso la Seconda Università di Napoli
e l’Università di Napoli Federico II
1 Così BENASSI, La riforma del mercato del lavoro: le modifiche processuali, LG, p.749 ss..
2 Così CAVALLARO, La riforma c.d. Fornero: questioni processuali, relazione all’incontro di studio La tutela del lavoratore tra novità normative e revirements giurisprudenziali” organizzato su base decentrata dal Consiglio Superiore della Magistratura in memoria di Rosario Livatino, Agrigento, 21 settembre 2012.
3 CAVALLARO, Op. cit. Ritiene applicabile il rito specifico ai licenziamenti collettivi anche Trib. Napoli, 2 gennaio 2013, est. Scognamiglio, nel procedimento S. c/ C.M. s.p.a.
4 Così espressamente P. CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, , relazione al Corso CSM 5966 La riforma del mercato del Lavoro nella legge 28 giugno 2012, n. 92, Roma, 29-31 ottobre 2012. V. anche P. SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, relazione allo stesso corso.
5 Così P. CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, cit. il quale evidenzia come la Cassazione fornisca una lettura di stretta interpretazione della norma.
6 In questo senso A. CIRIELLO- M. LISI, Disciplina processuale, in PELLACANI G., Riforma delavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012 n. 92,Giuffrè, Milano, p. 279 ss.
7 La Cassazione ha più volte ribadito che nell’ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili nè la norma di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n.604, né quella di cui all’art.18 della legge 20 maggio 1970, n.300, ancorché la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno (cfr. Cass. SS.UU. sentenza n.14381 del 08/10/2002; conf. Cass. n.8352 del 26/05/2003; nn.20858 del 27/10/2005; n.8903 del 13/04/2007; n.7979 del 27/03/2008; n.6010 del 12/03/2009; n.12011 del 25/05/2009; contra Cass. n.9360 del 10/09/2010 secondo cui “quando il rapporto di lavoro a tempo determinato viene qualificato come rapporto a tempo indeterminato, l’atto con il quale il datore di lavoro comunica la scadenza del termine integra nella sostanza un licenziamento”).
8 In una delle prime decisioni sul punto Trib. Milano, 15 ottobre 2012, est. Gasparini, esclude che l’impugnazione del contratto a termine rientri nel campo di applicazione della riforma Fornero.
9 Trib. Milano, 5 ottobre 2012, est. Scarzella, Guida al lavoro, n° 46, 2012, p. 15 ss.
10 Trib. Genova, ord. 21 novembre 2012, est. Parodi, Guida al lavoro, n° 49, 2012, p. 15 ss.
11 V. F.P. LUISO, op. cit..
12 Così F.P. LUISO, op. cit. p.6 il quale ad esempio ritiene che la domanda subordinata di condanna al pagamento di quanto spettante nel caso in cui non sia disposta la reintegrazione (tfr) possa in linea di principio essere cumulata all’impugnativa di licenziamento.
13 M. LEONE-A. TORRICE, Il procedimento per la impugnativa dei licenziamenti il legislatore strabico, in La Legge n. 92 del 2012 (Riforma Fornero): un’analisi ragionata a cura di F-Amato- R.SANLORENZO
14 Così BENASSI, cui si rinvia per un approfondimento.
15 Così F.P. LUISO, La disciplina processuale speciale della L. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile:modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, relazione al Corso CSM 5966 La riforma del mercato del Lavoro nella legge 28 giugno 2012, n. 92, Roma, 29-31 ottobre 2012.
16 P. SORDI, op. cit. p. 4.
17 Cass. sez.un. 16-1-1987, n. 309
18 V. CAVALLARO, cit. Va però segnalato che il Tribunale di Firenze, con verbale di riunione del 17 ottobre 2012, pubblicato in Guida al Lavoro, n° 46, 2012, p. 18 ha optato per la facoltatività del rito osservando che sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente abbia più istanze di tutela, a proporre più cause moltiplicando i processi.
19 P. SORDI, op. cit., il quale ipotizza che all’esito di una prima udienza instaurata dopo un normale ricorso ex art. 414 c.p.c , sull’accordo delle parti, il giudice potrebbe disporre il mutamento del rito e proseguire il giudizio secondo le regole proprie della fase di opposizione delineata dalla legge 92/2012 che non si discosta molto dal procedimento di cui agli art. 414 ss c.p.c.
20 Propende per la tesi affermativa il Tribunale di Firenze come da verbale di riunione citato.
21 F.P. LUISO, cit.
22 Per una sommaria descrizione dei primi orientamenti dei vari Tribunali in ordine alla perdurante ammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. vedi Liti sui licenziamenti…., Il Sole 24 ore, Rassegna stampa Csm del 19-11-2012.
23 L. CAVALLARO, op. cit, ricorda che la riforma del 1973 indusse più di un commentatore a sostenere che la possibilità di esperire ricorsi ex art. 700 c.p.c fosse ormai preclusa.
24 Così CURZIO, op. cit.
25 Nel senso dell’impossibilità di proporre domande riconvenzionali nella fase sommaria v. Trib. Vercelli. est. Aloj, 22-1-2012 che osserva come qualora il legislatore avesse voluto comprendere nella fase sommaria anche la possibilità di proporre la domanda riconvenzionale vi avrebbe fatto espresso riferimento e che l’ammissione della domanda riconvenzionale, a differenza delle domande proposte con ricorso e fondate sui identici fatti costitutivi, determinerebbe inevitabilmente un rallentamento del giudizio per assicurare all’attore, convenuto in riconvenzionale, la possibilità di contraddire, rallentamento palesemente contrario alla ratio della norma.
26 V. nota precedente
27 V. SORDI, op. cit.
28 V. CAVALLARO, op. cit.
29 Così SORDI, op. cit.
30 In tal senso Trib. Rovigo, 11 ottobre 2012, ha affermato che nella fase urgente possono essere ammessi mezzi di prova diversi da quelli documentali solo se assolutamente necessari alla decisione. Anche Trib. Napoli, ord. 2 gennaio 2013, est. Scognamiglio nel procedimento S.V. contro C.M. s.p.a. ritiene che particolari approfondimenti istruttori non siano compatibili con la specificità del rito.
31 Nel senso dell’ammissibilità della consulenza tecnica P. SORDI, op.cit,, il quale osserva come in questo procedimento non vi sia la necessità propria dei giudizi cautelari di rispettare i limiti di tempo imposti dall’esigenza di scongiurare il verificarsi dell’irreparabile pregiudizio al diritto del ricorrente. Ritiene compatibile la consulenza tecnica anche il Tribunale di Firenze, verbale riunione cit.
32 R. CAPONI, Nuovo rito speciale per le cause di licenziamento, Guida al diritto, n° 30, p. 81 ss, ritiene che l’esclusione della sospensione o della revoca lede in modo incostituzionale il diritto di difesa della controparte.
33 V. P. SORDI, op. cit. Riproduce testualmente tali argomentazioni anche Trib. Napoli, est. Scognamiglio,ordinanza 19 dicembre 2012 nel procedimento P.I.L.V. c/ M.E. s.as.
34 Cass., 8 gennaio 2010, n. 77; Cass., 6 novembre 2008, n. 26611 (che ha precisato che la mancata comunicazione può essere eccepita solo dal soggetto interessato – ossia il contumace che si costituisca successivamente – e non dalla parte già costituita, che non vi ha interesse se non è compromesso il suo diritto di difesa); Cass., 13 febbraio 1985, n. 1209.
35 Corte cost., 14 febbraio 1977, n. 14, in Foro it., 1977, I, 259, con riferimento, peraltro, alle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 533 del 1973 per le quali era pronunciata l’ordinanza che fissava l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti.
36 L.CAVALLARO, Op. cit
37 Così testualmente CAVALLARO, op. cit., ed in giurisprudenza Cass. 18-1-2007, n. 1090. Vedi in dottrina CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. II, Profili generali, Torino, 2010, 120. Forse proprio allo scopo di evitare siffatte conseguenze il Tribunale di Firenze, nel verbale di riunione citato, ha affermato che l’iniziativa giudiziaria anche se relativa ad un ricorso dichiarato inammissibile impedisce la decadenza di cui all’art. 32 del collegato Lavoro.
38 E. BARRACO- A. SITZIA, riforma Fornero e rito speciale: la prima ordinanza di merito,Guida al lavoro, 2012, N° 42, P. 27 SS.
39 SORDI, op. cit. In tal senso si sta orientando gran parte della giurisprudenza di merito: Trib. Milano, 2 ottobre 2012, est. Gasparini . Trib. Milano, 16 ottobre 2012, est. Lualdi e Trib. Milano 23 ottobre 2012, est. Colosimo hanno dichiarato improcedibili le domande volte ad ottenere il pagamento delle spettanze di fine rapporto e del compenso per lavoro straordinario. Trib. Roma, 31 ottobre 2012, est. Marra, Guida al lavoro, n° 46, 2012, p. 17 ss ha dichiarato inammissibili le domande non fondate sugli stessi fatti costitutivi e nello stesso senso anche Trib. Palermo, est. Marino, 15 ottobre 2012. Per un approfondimento sulle prime decisioni sul nuovo rito Fornero v. G. FAVALLI- A. STANCHI, Processo e nuovo rito Fornero: prime pronunce del Tribunale di Milano, Guida al lavoro, n° 46, 2012, p. 12 ss..
40 V. CAVALLARO, op. cit. Il Tribunale di Firenze, nella riunione di sezione del 17 ottobre 2012, con verbale pubblicato in Guida al lavoro, n° 46, 2012, p. 19 ss sembra ritenere che laddove il giudice ritenga insussistente il requisito dimensionale per la tutela ex art. 18 St.Lav. debba respingere il ricorso, fermo restando la possibilità per il lavoratore di proporre azione per la tutela obbligatoria con il rito lavoro ordinario.
41 Trib. Reggio Calabria, est. Morabito, ord, 19 novembre 2012 nel procedimento L.K c/ A.srl.
42 Così espressamente M. LEONE- A. TORRICE, cit, p. 204.
43 Cass. n. 1486/2001 afferma che “ non è ravvisabile mutamento della causa petendi nella ipotesi in cui il dipendente licenziato che impugni il relativo provvedimento, deducendone la illegittimità per mancanza di giustificato motivo, proponga con ricorso introduttivo domanda di tutela reale, mentre, in sede di precisazione delle conclusioni, richieda quella obbligatoria, in quanto, in detta ipotesi, il mutamento riguarda solo gli effetti ricollegabili alla tutela richiesta da quest’ultimo, che sono compresi in quelli cui dà luogo la tutela originariamente invocata”; nello stesso senso Cass. 12579/2003
44 SORDI, op. cit.
45 Il Tribunale di Firenze, verbale riunione cit, ha affermato che l’ordinanza che conclude la fase sommaria, se non opposta, produce gli effetti del giudicato.
46 Cass. 18-4-2006, n. 8947, Giur.it,2007, 1463. Nello stesso senso Cass. 18-7-2008, n. 19942; Cass. 13-5-2008, n. 11903.
47 F.P.LUISO,op. cit….
48 Così espressamente M. LEONE- A. TORRICE, cit. p. 210.
49 La previsione può probabilmente riferirsi ad ipotesi nelle quali la domanda di ricostituzione del rapporto e/o quella risarcitoria formulate dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro nella prima fase sommaria, siano poi estese ai sensi dell’art.2112 c.c. nei confronti del cessionario dell’azienda e sia quindi il datore di lavoro, che agisca in opposizione, a spiegare una domanda in garanzia.
50 TOFFOLI, Le novità processuali. Un altro rito speciale?,2012, dattiloscritto richiamato da CURZIO; v. nota successiva.
51 Così espressamente CURZIO, op. cit, p. 13.
52 Così Tribunale di Firenze, verbale riunione citato.
53 In questo senso un provvedimento del Presidente sez. Lavoro Tribunale Palermo, est. Ardito, rinvenibile in www. sentenzelavoro.net che ha rigettato istanza di sostituzione del giudice.
54 Corte Cost. 326/1997.
55 Vedi nel dettaglio Liti sui licenziamenti, sul doppio giudice si scatena il fai da te, il Sole 24 ore, p. 9, rassegna stampa Csm del 19-11-2012
56 V. Trib. Bologna, est. De Meo, 27 novembre 2012 che ha rigettato istanza di ricusazione avverso il giudice che aveva pronunciato ordinanza nella fase urgente
57 M. LEONE- A. TORRICE, cit, p. 212.
58 Vedi nel senso dell’ammissibilità del filtro in appello G.GIROLAMI, relazione al corso CSM 5958 Questioni controverse in tema di processo e diritto del lavoro, Roma, 10-12 dicembre 2012
59 Così BENASSI, op. cit.
60 Per un approfondimento sul punto V. MORRICO, Primissime piccole riflessioni, gettate alla rinfusa, sulla L. 28-6-2012, n. 92
61 Così CAVALLARO L, op. cit
62 Vedi Cass.12.10.2006 n. 21818; Cass. 18.11.2009 n. 24330 .
63 V. MORRICO, cit, che richiama Corte App. Genova 12.4.2010, Foro Pad. 2010,I,481; Cass. 7.10.2010 n.20811.
64 Trib. Milano 17 ottobre 2012, est. Porcelli; Trib. Milano 8 ottobre 2012 est. Perillo; in Guida al lavoro, N° 46, 2012, p. 13 ss ed anche Trib. Napoli 19 dicembre 2012 e Trib. Napoli 2 gennaio 2013, entrambi a firma dello scrivente.
65 V. R. DE LUCA TAMAJO, Intervento al corso di formazione organizzato dalla formazione decentrata Corte appello Napoli, 18 ottobre 2012.
66 MORRICO, v. op. cit. [/thrive_lead_lock]