La nuova disciplina del procedimento di Cassazione: esegesi e spunti

Alberto Tedoldi, La nuova disciplina del procedimento di Cassazione: esegesi e spunti, in Giur. It., 2006, 10

La nuova disciplina del procedimento di Cassazione: esegesi e spunti

Sommario1. Premessa e rinvio. – 2.1. Il nuovo regime impugnatorio: delle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità – 2.2. dei provvedimenti nelle opposizioni a sanzioni amministrative. – 3. Il divieto di ricorso immediato contro le sentenze non definitive su questioni. – 4.1. I motivi di ricorso: il vizio di motivazione. – 4.2. la violazione e la falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro. – 4.3. l’equiparazione del ricorso straordinario al ricorso ordinario. – 5.1. I nuovi requisiti di ammissibilità del ricorso: il quesito di diritto e la precisa illustrazione del vizio di motivazione. – 5.2. la specifica indicazione di atti, documenti e contratti o accordi collettivi. – 6. Il ricorso temerario. – 7. La formulazione in ogni caso del principio di diritto. – 8. Il «vincolo» delle sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite. – 9. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge. – 10. I nuovi confini della pronuncia sostitutiva di merito. – 11.1. l’impugnazione dei provvedimenti della Corte: la revocazione «ordinaria». – 11.2. la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo. – 12. Le novità del procedimento in camera di consiglio e di quello in pubblica udienza. – 13. La disciplina transitoria.

  1. Premessa e rinvio.

    Con decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006(in Gazz. Uff.n. 38 del 15 febbraio 2006) il Governo ha attuato la delega per la riforma del procedimento di cassazione, contenuta nell’art. 1, 3° comma lett. a), della legge n. 80 del 2005.

Sulla delega ci eravamo soffermati in precedente scritto, pubblicato pochi mesi or sono(1), che del presente articolo costituisce inscindibile premessa. Non ripeteremo, perciò, le perplessità di fondo su una riforma del procedimento di cassazione, che ci pare non decisiva per alleviare il soverchiante carico di lavoro della Suprema Corte. Là dicevamo che misura migliore sarebbe stata quella di riprendere gli accantonati progetti di abrogazione dell’art. 111, 7° comma, Cost., stabilendo poi, con legge ordinaria, filtri generali di ammissibilità dei ricorsi sulla base del valore o dell’importanza delle questioni giuridiche controverse, sulla falsariga di quanto avviene in Spagna e in Germania, anziché ampliare la discrezionalità della Cassazione nel vaglio preliminare di ammissibilità dei ricorsi, secondo parametri normativi vaghi e incerti, come tra breve vedremo. Là — ricordando il perspicuo pensiero di Liebman(2) — dubitavamo, altresí, dell’opportunità di evocare unicamente la funzione nomofilattica del ricorso di legittimità, obliando quella subiettiva, che si concreta nell’aspirazione della parte a rimuovere il pregiudizio derivante dalla soccombenza: introdurre requisiti di forma-contenuto non strettamente funzionali allo strumento impugnatorio genera inutili complicazioni e crea imponderabili insidie, entro le quali cadranno inesorabilmente ricorsi magari tutt’altro che infondati, ma semplicemente non rispettosi dei novelli formalismi.

Finché il diritto a ricorrere in Cassazione per ogni violazione di legge resterà inciso ad auree lettere nella nostra Carta fondamentale, a poco giova interrogarsi e dibattere sull’opportunità di accordare la prevalenza allo ius constitutionis, cioè alla funzione oggettiva della Suprema Corte nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 65 ord. giud., rispetto allo ius litigatoris, cioè al diritto soggettivo dell’individuo. Nessuna ragione di efficienza e di funzionamento dell’apparato giudiziario può ridurre o comprimere i diritti fondamentali, finché questi esistano e siano espressamente sanciti: eliminarli dal testo costituzionale per restituire alla Suprema Corte il proprio ruolo di vertice è, dunque, una via obbligata per conseguire gli obiettivi nomofilattici che il legislatore ordinario può perseguire in guise soltanto indirette e, ci pare, non compiutamente efficaci(3).

Per il tema che ne occupa, l’articolo sulla legge delega preparava il commento sulle novità introdotte nel tessuto del c. p. c. dal decreto legislativo che della delega costituisce attuazione: a quello scritto, dunque, sia consentito rinviare, mentre qui ci attende un compito eminentemente esegetico delle nuove norme.

2.1. Il nuovo regime impugnatorio: delle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità

2.1. — Il 3° comma dell’art. 339 c.p.c. è stato inattesamente riscritto: «le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principî regolatori della materia».

Nella delega non si rinviene traccia di un potere di revisione dei limiti per impugnare le sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace, nelle cause di valore sino a millecento euro, escluse quelle relative a contratti conclusi mediante adesione a moduli o formularî (art. 113, comma 2, c.p.c.). Ciò basterebbe a rendere incostituzionale la norma, per difetto di delega ex art. 76 Cost.(4): del che avremo ben poco a rammaricarci, poiché essa genera molteplici problemi.

Ad una superficiale lettura il nuovo dettato potrebbe apparire come il semplice adeguamento a una recente pronuncia della Consulta, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 113, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, nel giudizio secondo equità, debba osservare i «principî informatori della materia»(5). Questi — secondo un nominalistico e opinabile distinguo operato in un arrêt della Cassazione, di poco successivo all’intervento della Consulta e quasi volto a limitarne le ricadute(6) — andrebbero intesi come i principî ai quali si ispira il legislatore per dettare una determinata regola, a differenza dei «principî regolatori della materia» [vigenti per il giudice conciliatore prima dell’introduzione del giudice di pace(7)], che 

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È l’attributo delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità, mutatesi da «inappellabili» in «appellabili», a modificare l’intero regime impugnatorio, generando nodi inestricabili, che soltanto una pronuncia di incostituzionalità per eccesso di delega potrà «gordianamente» sciogliere.

L’idea era quella di adeguare il testo dell’art. 339, comma 3, c.p.c. al regime risultante dalla ricordata pronuncia della Consulta n. 206/2004 e dal diritto vivente della Corte di cassazione, che alla declaratoria d’incostituzionalità aveva condotto(8), correggendo altresí ogni impropria distinzione tra «principî informatori» e «principî regolatori» e ritornando, in definitiva, al sistema vigente per il conciliatore: il giudice di pace, anche quando giudica secondo equità, deve rispettare le norme processuali, quelle costituzionali e comunitarie (sovraprimarie anch’esse), nonché i principî regolatori della materia, esattamente come doveva fare il giudice conciliatore(9). Un ritorno al passato, insomma, dopo le derive «intuizionistiche» del giudizio di equità necessario che tennero dietro all’introduzione del giudice di pace(10).

Senonché, nell’ottica di ridurre il carico della Suprema Corte, si è pensato di rendere appellabili, anziché impugnabili direttamente in Cassazione, le sentenze rese secondo equità dal giudice di pace. In piú, quello che continua a nomarsi formalmente appello, da proporre innanzi al tribunale monocratico (artt. 341 e 350 c.p.c.), si trasfigura in impugnazione a critica vincolata, i cui motivi sono soltanto quelli indicati nel nuovo 3° comma dell’art. 339 c.p.c.

Compare cosí, per la prima volta nella storia moderna del nostro processo, una figura embrionale e, a un tempo, ibrida di appello limitato(11), in cui all’odierna limitazione alla facultas nova deducendi (art. 345 c.p.c., quale risulta dopo la legge 353/1990) e alla necessità di esporre i motivi specifici di impugnazione, [ art. 342 c.p.c., nella lettura datane dalla giurisprudenza(12)], si aggiungono rigide restrizioni ai motivi deducibili. Il tribunale in composizione monocratica è chiamato a svolgere, in corpore vili, i compiti di una Cassazione in sede distaccata, servendosi però non di un’impugnazione rescindente qual è il ricorso per cassazione, ma di un’impugnazione sostitutiva, qual è tipicamente l’appello.

Invero, l’accoglimento dell’appello contro una sentenza secundum aequitatem del giudice di pace produrrà l’annullamento della sentenza impugnata e la remissione della causa al giudice di pace per la pronuncia rescissoria soltanto nei casi tassativamente indicati negli artt. 353 e 354 c.p.c.(13). In tutte le altre ipotesi contemplate dal nuovo art. 339, comma 3, c.p.c. e, segnatamente, allorché risultino violati i principî regolatori della materia, il tribunale in sede di gravame dovrà trattenere la causa ed emettere una pronuncia sostitutiva di merito. A questa stregua, però, la causa non verrà piú decisa secondo equità, poiché al tribunale non è consentito farlo, se non quando le parti personalmente e concordemente lo richiedano expressis verbis, ai sensi dell’art. 114 c.p.c., che è norma pressoché abrogata per desuetudine.

L’eventuale pronuncia sostitutiva emessa in grado di appello sarà, dunque, secondo diritto (art. 113, comma 1, c.p.c.) e potrà essere impugnata — in contrasto con gli intenti deflattivi perseguiti dalla riforma — con ricorso per cassazione, deducendo tutti i consueti motivi di cui all’art. 360 c.p.c., inclusa la violazione o falsa applicazione di norma di legge, senza restrizioni di sorta e con possibilità, a quel punto, di una decisione sostitutiva di merito anche in Cassazione, quando ne ricorrano i presupposti ex art. 384, comma 2, c.p.c. Per non parlare dell’incoerenza sistematica onde una stessa lite viene decisa, nei diversi gradi, secondo parametri di giudizio differenti: l’elastica (ancorché circoscritta) equità in prime cure; lo strictum ius in appello e in Cassazione.

Quid iuris se il gravame contro la sentenza equitativa del giudice di pace è rigettato?

La sentenza d’appello, si insegna, ha di regola (salvi i casi tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354 c.p.c.) attitudine sostitutiva anche in caso di rigetto(14). Posto che il tribunale non può mai decidere secondo equità, la sentenza resa in grado di appello sarà impugnabile con ricorso per cassazione per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c. o subirà limitazioni analoghe a quelle che la legge, nel novello 3° comma dell’art. 339 c.p.c., detta soltanto per il regime impugnatorio delle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità ed ex littera riferisce soltanto all’appello? Stante il carattere eccezionale della norma, ne va esclusa, ex art. 14 prel., un’applicazione analogica alle sentenze rese dal tribunale sugli appelli contro le pronunce secundum aequitatem dei giudici di pace.

Eppure, la ratio della riforma vorrebbe che il ricorso per cassazione contro la sentenza resa in seconde cure nelle liti bagatellari si atteggi a impugnazione ulteriormente limitata rispetto ai motivi ordinariamente deducibili, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.(15). Quelli indicati, purtuttavia, ci paiono gli inevitabili effetti di una piccola norma mal pensée, che introduce ex abrupto una innovativa figura di appello limitato, senza rivedere la struttura del giudizio d’appello per trasformarlo, in questa sola ipotesi, in impugnazione rescindente che non produca effetti sostitutivi della pronuncia resa in prime cure(16).

2.2. dei provvedimenti nelle opposizioni a sanzioni amministrative.

2.2. — A minori riserve critiche presta il fianco la modifica del regime impugnatorio dei provvedimenti resi in seno ai giudizî di opposizione a sanzioni amministrative, ex artt. 22 e 23 della L. 24 novembre 1981, n. 689, sebbene anch’essa non vada esente da imprecisioni determinate da un frettoloso iter legislativo.

L’ultimo comma dell’art. 23 legge n. 689 del 1981 viene abrogato, mentre al 5° comma, là dove si prevede l’improcedibilità dell’opposizione quando l’opponente ometta di comparire alla prima udienza senza addurre alcun legittimo impedimento, l’attributo «appellabile» sostituisce il sintagma «ricorribile per cassazione». Ci si dimentica però, senza volerlo, del 1° comma dell’art. 23 legge cit., dov’è disciplinata l’ordinanza che dichiara inammissibile l’opposizione perché fuori termine e che ancor viene predicata come ricorribile per cassazione.

Dovremo, dunque, concludere che vi siano in subiecta materia due differenti regimi impugnatorî, uno dei quali riservato soltanto all’ordinanza che dichiara inammissibile l’opposizione per la ragione anzidetta? Questa lettura ci pare inevitabile, finché non sopraggiunga una pronuncia d’incostituzionalità, che adegui il 1° al 5° comma dell’art. 23 legge cit., per manifesta e irrazionale disparità di trattamento tra pronuncia d’inammissibilità per inosservanza del termine (sol ricorribile per cassazione) e d’improcedibilità per mancata comparizione in udienza, appellabile e dipoi ricorribile in Cassazione.

A meno che l’intera norma non venga travolta, al pari della modifica all’art. 339, comma 3, c.p.c., per difetto di delega, sebbene la Suprema Corte si rammarichi che altrettale appellabilità non sia stata estesa, in funzione di filtro al ricorso per cassazione, ai casi di ordinanze emesse in materia di liquidazione degli onorarî e dei diritti spettanti agli avvocati (artt. 29 e 30 L. 13 giugno 1942, n. 794) e di liquidazione dei compensi per periti e consulenti tecnici (art. 11 L. 8 luglio 1980, n. 319)(17).

Tuttavia, in un’ottica di efficienza generale e di durata ragionevole del processo non circoscritta alla fase di legittimità, non par buona regola limitarsi a spostare il carico del contenzioso sui giudici di merito, tanto piú che la controversia bagatellare ottiene cosí il privilegio di tre gradi di giudizio. Il problema, come sempre, è di organizzazione del sistema giudiziario, cioè ordinamentale, non bastando certo modifiche procedurali — ovviamente, senza oneri per lo Stato — a conferire efficienza all’immane machina machinarum della giustizia(18).

Segnaliamo, a piè di paragrafo, una lieve modifica che ha interessato l’art. 151 disp. att. c.p.c., nel quale viene imposta la riunione tra procedimenti dinanzi al giudice di pace, pur se legati soltanto da connessione impropria, cioè da identità di questioni giuridiche, purché si trovino, tendenzialmente, nella stessa fase processuale. La norma, nata per le controversie in materia di lavoro e collocata in un capo delle disposizioni d’attuazione a queste dedicato, viene estesa al giudice di pace per quelle liti in serie, precipuamente promosse da consumatori o risparmiatori, nelle quali (pur mancando stretti legami per petita e causae petendi), si riproducano questioni giuridiche suscettibili di disamine e soluzioni unitarie(19).

  1. Il divieto di ricorso immediato contro le sentenze non definitive su questioni.

    Ai sensi del nuovo 3° comma dell’art. 360 c.p.c., «non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio».

In perfetta corrispondenza, il 1° comma dell’art. 361 c.p.c. diviene il seguente: «Contro le sentenze previste dall’articolo 278 e contro quelle che decidono una o alcune delle domande senza definire l’intero giudizio, il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso, e in ogni caso non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa».

Su queste modifiche, agevolmente preconizzabili dal corrispondente principio contenuto nella delega, già ci soffermammo nell’altro scritto(20). Lí notavamo la discrasia nel regime impugnatorio delle sentenze non definitive su questioni emesse in prime cure, appellabili immediatamente o insieme alla sentenza sul merito ex art. 340 c.p.c., rispetto al nuovo regime introdotto dal legislatore delegato, pur astretto dal principio contenuto nella delega, che ometteva qui di riprodurre le originarie previsioni del Progetto Vaccarella, nel quale si assegnava identico regime a questa tipologia di sentenze sia per l’appello che per il ricorso in Cassazione(21). Se, dunque, una sentenza non definitiva su questione (che, exempli gratia, respinga eccezioni di giurisdizione, prescrizione, decadenza, aut coetera, rimettendo la causa in istruttoria), venga impugnata con appello immediato e quivi confermata dal secondo giudice, contro quest’ultima pronuncia non è dato ricorso immediato per cassazione, ma il soccombente dovrà attendere che giunga in grado di appello, in tutto o in parte, la causa di merito e potrà adire la Suprema Corte soltanto dopo la sentenza del giudice di appello che definisca, anche solo parzialmente (v. il nuovo 4° comma dell’art. 360), il merito.

Non è per astratto gusto sistematico che ribadiamo, senza enfatizzare, il problema: il caveat è rivolto soprattutto agli operatori, mentre la coerenza del sistema non parci valore da obliare a fronte di circoscritti beneficî di economia processuale(22).

Neppure sembrava superfluo, nel precedente scritto, ricordare il criterio formale adottato dalla giurisprudenza per discernere le sentenze sul merito definitive da quelle, parimenti sul merito ma, non definitive(23). Né era certo per vezzo lessicale che evidenziavamo l’intrinseca equivocità del sintagma «sentenze parzialmente definitive» adoprato nella Relazione Vaccarella, nella misura in cui contraddittoriamente si associa un elemento contenutistico (la decisione parziale sul merito) ad uno formale (il carattere definitivo o non definitivo della sentenza, alla stregua dell’orientamento della Cassazione testé ricordato).

Con le parole, specialmente ove enunciate in veste prescrittiva, si fanno cose: la lettera del 3° comma, secondo periodo, dell’art. 360 è fonte di possibili pregiudizî per le parti, là dove discorre di «sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio», che il soccombente (teorico) sulla questione decisa con anteriore pronuncia non definitiva deve attendere per promuovere ricorso per cassazione. La scelta lessicale del verbo «definisce», accostato all’avverbio «parzialmente», è infelice, poiché non al contenuto della pronuncia si deve guardare, ma — secondo il criterio formale imposto dalle Sezioni unite — all’esistenza o meno di un provvedimento di separazione delle cause oggettivamente o soggettivamente cumulate o, in mancanza, ad una pronuncia sulle spese del giudizio, che dell’esplicita separazione tenga luogo.

Orbene, se tali requisiti formali manchino nella sentenza che pur decida parzialmente il merito, si avrà una sentenza che «non definisce», «neppure parzialmente, il giudizio»: dunque, a stretto rigore, il soccombente (teorico) sulla questione anteriormente decisa con sentenza non definitiva non potrà impugnare tale pronuncia neppure allora, anche se la nuova sentenza (non definitiva) sul merito gli rechi un pregiudizio pratico (unamaterielle Beschwer) ch’egli ben vorrebbe rimuovere al piú presto, proponendo innanzi alla Suprema Corte un ricorso che investa non soltanto la sentenza parziale sul merito (non definitiva per mere ragioni estrinseche e, nondimeno, impugnabile immediatamente), ma anche la questione preliminare o pregiudiziale sfavorevolmente risolta nella precedente pronuncia. Si obietterà che identico problema si pone per l’appello, quando sia stata espressa riserva contro la sentenza non definitiva resa in primo grado su questioni: ma in quel caso, almeno, la riserva deriva da una decisione autonoma della parte soccombente, la quale non potrà in seguito dolersene, se non altro per non venire contra factum proprium. Qui, invece, la forzata attesa è imposta dalla legge e la parte soccombente deve, obtorto collo, subirla.

V’è forse spazio per un’interpretazione che adegui il dato testuale ai parametri costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo, nonché (last but not least) al diritto di ricorrere in Cassazione per ogni violazione di legge, senza privare il soccombente della possibilità di chiedere pronta tutela in sede impugnatoria onde rimuovere quam primum il pregiudizio patito. Si potrebbe, cioè, ammettere l’impugnazione della sentenza non definitiva su questioni unitamente a qualsivoglia pronuncia che decida parzialmente il merito e, ciò facendo, rechi una soccombenza pratica alla parte, a prescindere dai caratteri estrinseci che la connotino, id est dall’esistenza o meno di un provvedimento (esplicito o implicito) di separazione delle cause cumulate.

Ci sembra, dunque, che il nuovo regime impugnatorio delle sentenze non definitive su questioni, lungi dal rimanere «neutro» rispetto al «criterio formale» della distinzione tra sentenze definitive e non definitive sul merito(24), apra spazî per una rimeditazione dell’orientamento imposto dalle Sezioni unite con «doppia conforme», spingendo verso l’adozione di un trasfigurato «criterio sostanziale» che badi, assai piú che al contenuto della sentenza, a fondamentali esigenze di tutela delle parti, le quali intendano prontamente rimuovere il pregiudizio subíto(25).

Va appena soggiunto che il nuovo 1° comma dell’art. 361 c.p.c. giustamente annovera la condanna generica ex art. 278 tra le pronunce parziali di merito immediatamente impugnabili, ancorché decida soltanto la porzione della fattispecie sostanziale relativa all’an debeatur, ché essa, anche se non accompagnata da una provvisionale, consente l’iscrizione di ipoteca ai sensi dell’art. 2818 c. c.

Infine, l’art. 133 disp. att. c.p.c., nel nuovo ultimo comma, fa sí che, divenuta irrevocabile la pronuncia di estinzione del giudizio d’appello, la sentenza non definitiva di merito(26) si tramuti in definitiva e, da quel momento, prendano a correre i termini per impugnare ex artt. 325 o 327 c.p.c., a seconda che sia avvenuta o meno la notificazione per il passaggio in giudicato.

Peraltro — analogamente a quanto accade per l’appello contro sentenze emesse in primo grado — ove venga impugnata in Cassazione la sentenza dichiarativa dell’estinzione, si dovrà immediatamente proporre ricorso anche avverso la sentenza non definitiva, in ossequio al nuovo art. 360, comma 3, c.p.c. quando questa abbia ad oggetto soltanto questioni, ovvero ai sensi dell’art. 361 c.p.c. quando sia stata espressa riserva di impugnazione della sentenza parziale di merito. In questi casi va, infatti, esclusa l’applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 133 e 129 disp. att. c.p.c. poiché, se in seconde cure diviene irrevocabile l’ordinanza o passa in giudicato la sentenza che dichiara l’estinzione, la sentenza non definitiva acquista efficacia di sentenza definitiva con decorrenza dei termini di cui agli art. 325 e 327 c.p.c. (mentre le sentenze non di merito restano travolteex art. 310 c.p.c.); viceversa, se viene impugnata in Cassazione la sentenza dichiarativa dell’estinzione, deve essere proposto ricorso, ai sensi dell’art. 360, 3° comma (secondo periodo), c. p. c., anche avverso la sentenza non definitiva(27).

4.1. I motivi di ricorso: il vizio di motivazione.

4.1. — La riforma ha riscritto il testo del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. e, pertanto, «le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione: … 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».

La dizione «fatto controverso e decisivo» si sostituisce a «punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio». Non è questa la prima novella che tocca il tormentato n. 5 dell’art. 360: già nel 1950, dopo neppur due lustri di vigenza del nuovo codice, la norma fu ritoccata non superficialmente, almeno nella lettera che, in origine, faceva consistere il difetto di motivazione nell’«omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti». Allora si passò da «fatto» a «punto», poiché si ritenne che «fatto decisivo» fosse termine incerto e si volle ampliare «la possibilità di controllo dell’omissione di accertamento o di motivazione a qualsiasi emergente vizio di motivazione sul punto decisivo, quale l’irrazionalità e la deficienza del processo logico e la sua insanabile contraddizione», confidando che «la nuova formula possa contenere in pratica la censura entro confini compatibili con la funzione istituzionale del Supremo collegio e con la sostanziale giustizia»(28).

Il pendolo, nella sua oscillazione, è tornato ad una formula letterale assai prossima a quella originaria del c. p. c. del 1940 che, pur resistendo a un’autorevole tendenza a eliminare del tutto questo motivo di ricorso, aveva inteso restringerne la portata, ammettendolo «non nella quasi illimitata ampiezza alla quale la pratica era arrivata nell’adattamento delle norme del codice del 1865, ma nei limiti precisi di un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti avevano discusso»(29).

Gli è che a valle di ogni enunciazione letterale, intrinsecamente ambigua ancorché vorremmo far «things with rules»(30), sta l’ampia discrezionalità dell’interprete, che è pressoché impossibile arginare con strumenti logico-linguistici(31). Discrezionalità che si amplia vieppiú quando il giudice esamina, anche solo indirettamente, la ricostruzione dei fatti, poiché questi difficilmente si prestano ad essere isolati, ma si legano l’uno all’altro in disorganica e confusa concatenazione, onde la verità processuale è piú il frutto di un’intuizione percettiva del giudice, cui la motivazione viene giustapposta a posteriori, a guisa di giustificazione retorica(32).

Si parla di «inferenza abduttiva», a indicare che la conclusione in fatto è soltanto ipotetica, perché in nessun caso le prove fungono da premesse di un ragionamento assolutamente cogente: la soluzione della quaestio facti è e rimane comunque incerta, in misura maggiore o minore, basandosi su dati parziali e non omogenei(33). La giustificazione delle conclusioni raggiunte sarà convincente e persuasiva in termini non tanto di razionalità probabilistica, quanto di coerenza del ragionamento rispetto all’insieme delle prove acquisite nel giudizio(34).

Il vizio nel ragionamento del giudice, inteso quale incoerenza (o incongruenza) della motivazione sulla quaestio facti, deve ovviamente tradursi in ingiustizia della sentenza, poiché il controllo logico non è fine a sé stesso. Anzi, l’incongruenza logica, quando sia dimostrato il nesso tra questa e la decisione impugnata, è sintomo di ingiustizia. Se il difetto di motivazione si riferisce all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto, si ha annullamento a condizione che sia viziato il dispositivo (cfr. l’art. 384, comma 2, c.p.c.), mentre se il difetto di riferisce alla ricostruzione dei fatti, si ha annullamento sol che si tratti di un punto decisivo della controversia(35): onde basta la possibilità di un giudizio diverso affinché il ricorso venga accolto, poiché la certezza di cui discorrono le massime giurisprudenziali attiene, in realtà, al nesso causale tra elementi probatorî trascurati e contenuto della pronuncia, non alla sicura previsione di una reformatio in sede di rinvio.

Se questo è il quadro e se, pertanto, riesce per lo piú difficile isolare i fatti l’un dall’altro all’interno della ricostruzione offerta dal giudice a quo, verificando la correttezza del procedimento di positio, inclusio exclusio da lui seguito rispetto ad ogni singolo elemento(36), non giova la (tutt’altro che) novella opzione lessicale introdotta nell’art. 360, n. 5. Il passaggio da «punto» a «fatto» ben poco incide sul potere della Corte di sindacare la coerenza logica della motivazione, nel magma spesso indistinguibile dei fatti rilevanti, mentre l’attributo «controverso», che si collegherebbe ai recenti sviluppi giurisprudenziali in tema di non contestazione(37), era requisito già in precedenza desumibile a contrario dall’art. 395, n. 4, c.p.c.: se il fatto (o il punto, che dir si voglia) non era controverso, l’impugnazione proponibile era ed è semmai la revocazione ordinaria, non il ricorso per cassazione(38).

4.2. la violazione e la falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

4.2. — Come annunciato dalla delega e sul paradigma di ciò che avviene in materia di pubblico impiego (v. l’art. 64 del D. Lgs. 165/2001), l’error in iudicando può consistere anche nella violazione di una clausola, costituente «norma di diritto», contenuta in contratti o accordi collettivi nazionali (v. il nuovo art. 360, n. 3, c.p.c.).

La modifica non alleggerisce certo i compiti della Suprema Corte, che finora restringeva il proprio sindacato sui contratti collettivi alla violazione dei criterî legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e segg. c. c.) e al vizio di motivazione(39).

Nello scritto sulla legge delega accennavamo alla mancata previsione di un meccanismo di soluzione incidentale delle questioni interpretative, qual si rinviene nelle norme sul pubblico impiego(40). Il legislatore delegato ha ovviato a questa lacuna della delega, introducendo un tal meccanismo con l’art. 420-bis c.p.c., forgiato ex novo e tratto dall’art. 64 D. Lgs. 165/2001, che viene espressamente richiamato dall’art. 146-bis disp. att. c.p.c., in funzione integrativa rispetto all’art. 420 bis(41).

A parte un problema di tecnica legislativa, ché si dovrebbe evitare di inserire nel codice di rito, costituente per solito lex generalis, un rinvio a una lex specialis, per di piú con tecnica (apparentemente) recettizia anziché formale (onde ogni successiva eventuale modifica delle norme specificamente richiamate resta priva di effetti)(42), spicca la mancanza di quella sorta di tentativo obbligatorio di conciliazione sulla questione ermeneutica del contratto collettivo che, per il pubblico impiego, avviene tra ARAN e organizzazioni firmatarie del contratto prima della decisione del giudice, sí da filtrare questa porzione della controversia, tentando di comporla con il metodo dell’interpretazione autentica da parte dei conditores contractus, anziché imposta iussu iudicis.

Probabilmente, per i contratti e gli accordi collettivi del settore privato un filtro siffatto non era neppure possibile, per il numero e la varietà delle organizzazioni sindacali e di quelle dei datori di lavoro, laddove nel pubblico impiego il lato datoriale si compendia nell’ARAN. Tuttavia, la pronuncia obbligatoria del giudice sulla sola questione esegetica e l’immediata impugnabilità della stessa con ricorso per cassazione si inserivano in diverso e piú circoscritto contesto: la generalizzazione di questo sistema all’intero settore del lavoro subordinato e parasubordinato rischia di aggravare il carico della Suprema Corte senza recare effettivi beneficî, anche se la misura era, a questa stregua, inevitabile, onde por rimedio a un’evidente disparità di trattamento tra i due settori(43).

Colpisce, peraltro, che nel momento stesso in cui si vieta l’impugnazione immediata delle sentenze non definitive su questioni (v. l’art. 360, comma 3, c.p.c.), qui si riproduca la scelta dettata per il pubblico impiego, che impone l’impugnazione immediata delle sentenze su questioni ermeneutiche e soprattutto prevede, quale automatico effetto del ricorso per cassazione, il forzato arresto del giudizio di merito in attesa della pronuncia della Suprema Corte. Il che pone, forse, qualche problema in relazione al principio di durata ragionevole del processo(44).

Naturalmente la questione ermeneutica del contratto collettivo deve presentarsi come «seria», nel senso di obiettivamente controvertibile, per innescare il meccanismo della decisione immediata, impugnabile soltanto con ricorso per saltum alla Suprema Corte(45).

Vi è, infine, un’inattesa sanzione di inammissibilità del ricorso per cassazione sulla questione esegetica, qualora non venga depositata una copia dello stesso nella cancelleria del giudice di merito entro venti giorni dalla notifica, per ottenere la sospensione automatica del processo. Il trattamento riservato alle liti in materia di pubblico impiego non reca traccia di simili sanzioni d’inammissibilità (v. l’art. 64, 3° comma, D. Lgs. 65/2001), lessicalmente inappropriate (ché si tratterebbe semmai d’improcedibilità) e certo sproporzionate per un adempimento che, funzionalmente e strutturalmente, con il ricorso per cassazione ben poco ha da spartire. Ci par, dunque, che la norma in questa parte sia incostituzionale, sia per disparità di trattamento rispetto al pubblico impiego (art. 3 Cost.), sia per soverchio formalismo sanzionatorio, che mal si confà al diritto di difesa e ai principî di un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.), efficacemente improntato alla tutela delle situazioni giuridiche sostanziali.

4.3. l’equiparazione del ricorso straordinario al ricorso ordinario.

4.3. — Nell’art. 360 c.p.c. viene inserito un ultimo comma, nel quale si prevede che le sentenze e i provvedimenti diversi dalla sentenza, contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge, siano impugnabili per tutti i motivi indicati nello stesso art. 360.

Il riferimento, rimasto nella penna del legislatore delegato ma chiarito dal corrispondente principio inserito nella legge delega, è al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, 7° comma, Cost., forgiato in via pretoria dalla giurisprudenza del Supremo Collegio la quale, come dicevamo nel precedente scritto(46), l’aveva da ultimo limitato alle «violazioni di legge» stricto sensu, con riguardo sia alla legge regolatrice del rapporto sostanziale, sia alla legge processuale, ma con esclusione dei vizî di motivazione di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.(47).

È modifica questa che esplicitamente contrasta pro futuro il criterio self restraint adoprato dalla Cassazione e che, per il sol fatto d’introdurre un’espressa previsione nel testo dell’art. 360 c.p.c., muta geneticamente il ricorso straordinario in ordinario. Il connotato extra ordinem di questo mezzo d’impugnazione in tal guisa scompare quanto ai motivi di ricorso, potendosi ora addurre anche il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 qual novellato ex littera.

Viceversa, l’ultimo comma dello stesso art. 360, nella sua laconicità, lascia in bianco il criterio di individuazione dei provvedimenti impugnabili con ricorso in Cassazione per «violazione di legge»: si dovrà, a questa stregua, far riferimento al consolidato indirizzo che li identifica nei provvedimenti giurisdizionali decisorî, che ledono situazioni soggettive della parte e non siano altrimenti impugnabili(48). Sotto questo profilo, fatichiamo non poco a immaginare casi in cui vi sia spazio applicativo per il 3° comma dell’art. 360, pur esteso al ricorso straordinario, parendo difficile che vi siano pronunce non definitive su questioni che, senza decidere neppure parzialmente il merito, incidano immediatamente e direttamente su situazioni soggettive e, pertanto, possiedano i caratteri del provvedimento impugnabile con ricorso per «violazione di legge», ex art. 111, 7° comma, Cost.

Va da sé che dall’equiparazione del ricorso straordinario per cassazione a quello ordinario discende, a piú forte ragione di quanto non si ritenesse in precedenza(49), la piana applicazione di tutti i requisiti di ammissibilità del ricorso ordinario, ivi inclusi quelli di nuovo conio, che subito esaminiamo.

5.1. I nuovi requisiti di ammissibilità del ricorso: il quesito di diritto e la precisa illustrazione del vizio di motivazione.

5.1. — Alle modifiche concernenti i motivi si accompagnano ben piú insidiose novità in tema di requisiti del ricorso, il difetto dei quali è presidiato da draconiane sanzioni d’inammissibilità, da pronunciarsi snellamente in camera di consiglio, anziché in pubblica udienza.

Il Leitmotiv che lega queste innovazioni trae linfa dall’esperimento, destinato certo a stabilizzarsi con l’entrata in vigore della riforma, di una «struttura unificata» addetta all’esame preliminare dei ricorsi civili per stabilire se trattarli in pubblica udienza o in camera di consiglio, allorquando se ne ravvisino la manifesta infondatezza o fondatezza o altre cause d’inammissibilità(50). L’esperimento nasce dal sistema giudiziario penale, che vide l’introduzione, con legge n. 128 del 26 marzo 2001, di un vaglio preliminare e prima facie di ammissibilità del ricorso (v. l’art. 610 c.p.p.)(51). Si tratta, a dir cosí, di un «ventilabro» per separare il grano dal loglio, serbando per la pubblica udienza soltanto i ricorsi che appaiano seriamente strutturati e argomentati.

In quest’ottica, il nuovo art. 366-bis c.p.c. fornisce acribiche indicazioni sul modus di redazione dei motivi di ricorso:

  1. a) quelli incentrati su giurisdizione, competenza, violazione o falsa applicazione di norma di diritto o di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (indifferentemente nel settore pubblico e privato), nullità della sentenza o del procedimento (nn. da 1 a 4 dell’ 360 c.p.c.), dopo essere stati adeguatamente illustrati, dovranno concludersi, «a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un corrispondente principio di diritto»;

  2. b) quello consistente in un vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo ( 360, n. 5, c.p.c.) dovrà contenere al proprio interno, «a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione».

Si evocano, per spiegare i novelli formalismi, la tecnica francese di redazione dei ricorsi e il principio della clarté du moyen, onde è imposta, a pena d’irricevibilità, la perfetta corrispondenza di ogni motivo a un singolo cas d’ouverture(52). Va, purtuttavia, ricordato, da un lato, che la Cour de cassation francese è «maîtresse de ses ouvertures», poiché la legge non fissa analiticamente i motivi di ricorso, essendosi limitata a stabilire un generale potere di controllo sull’osservanza della legge e sull’obbligo di motivazione(53); dall’altro lato, forse per inconsapevole lascito della propria origine antigiurisprudenziale, la Cour de cassation motiva in guise assiomatiche anziché argomentative, come fa invece la nostra Suprema Corte, in un percorso logico-retorico nel quale è spesso difficile discernere il puro diritto dal riferimento alla fattispecie concretamente esaminata(54).

Si giunge cosí al passaggio cruciale del nuovo sistema, che sottende una visione del ragionamento del giudice — secondo la logica della giustificazione qual si trova espressa in sentenza(55) — riportabile al paradigma teorico del sillogismo giudiziale, le cui premesse maggiore e minore tengon rigidamente separate e distinte quaestio iuris e quaestio facti. Il che, se regge sul piano concettuale a scopo di razionalizzazione e di esplicazione ex postdel fenomeno(56), da un punto di vista empirico non par condivisibile, poiché giudizio di fatto e giudizio di diritto (o, se si preferisce e in linguaggio analitico, enunciati assertivi ed enunciati prescrittivi) sono indissolubili nella concretezza della decisione giudiziale e nella sua fase di controllo: il giudice si pone lo scopo di accertare se sia avvenuto un fatto sussumibile sotto la fattispecie di una norma di legge e questo scopo può essere perseguito soltanto se l’accertamento dei fatti è guidato, appunto, da una o piú norme giuridiche(57), in una spirale di rimandi che lo conduce alla soluzione concomitante della quaestio facti e della quaestio iuris(58).

Scindere in due capi autonomi e distinti il discorso giustificativo è già di per sé un espediente processuale cui si ricorre al fine di circoscrivere il controllo della Suprema Corte ai profili logico-giuridici della controversia. Appesantire ulteriormente questi limiti mediante formalismi, non funzionali al mezzo di impugnazione e non giustificati dal complesso di norme che lo disciplinano, rischia di ledere il diritto costituzionale alla difesa e alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), il cui esercizio non può essere reso eccessivamente difficoltoso da soverchî requisiti di mera forma degli atti, il vaglio dei quali, viene, per di piú, affidato alla incontrollabile discrezionalità dell’organo giudicante.

Un ricorso mal impostato, mal argomentato e ancor peggio scritto è infondato, non è inammissibile(59). Oggi che può aversi il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza con procedimento in camera di consiglio (v. il nuovo n. 5 dell’art. 375 c.p.c.), non si sente il bisogno di requisiti formali, che aprono imprevedibili margini per dispute e incertezze esegetiche e, soprattutto, lasciano alla Corte l’ampia possibilità di dichiarare inammissibile un ricorso magari ben argomentato, ma che non si concluda ritualmente «con la formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un corrispondente principio di diritto»(60).

Quando non siavi «corrispondenza» (o congruenza) tra quesito e risposta che la Corte dovrebbe dare, sarà il ricorso inammissibile? Può la Corte rettificare motu proprio un quesito mal formulato, allorché il motivo sia ben esposto?

Ancor piú vago è l’elemento formale imposto per il vizio di motivazione, ché esso neppure giova alla funzione nomofilattica quale intesa dal legislatore della novella, mercé la corrispondenza biunivoca tra quesito e principio di diritto che alla Corte si chiede di enunciare. Ed infatti di un tal requisito non è traccia nei principî della legge delega n. 80 del 2005, anche se sarebbe certo eccessivo predicarne l’illegittimità costituzionale per difetto di delega ex art. 76 Cost.(61).

La previsione, sul piano schiettamente esegetico, è divisa in due: la prima parte riguarda la motivazione omessa o contraddittoria su un fatto controverso e decisivo; la seconda tocca il vizio di insufficiente motivazione e non è testualmente collegata ad alcun fatto specifico, ma alla motivazione nella sua interezza.

La norma appare, in tal modo, affetta da eccessivo fervore neorazionalista, che crea distinte categorie logiche per ciò che, nella realtà, si presenta quasi sempre unito e indistinguibile: come dicevamo al par. 4.1, la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza, secondo la logica della giustificazione di matrice retorico-persuasiva, si estrinseca in un continuum che mal si presta a venir sezionato, per cosí dire, «anatomicamente».

Inoltre, la mancata precisazione dei fatti, o punti che dir si voglia, in relazione ai quali la motivazione è omessa, insufficiente o contraddittoria rende il ricorso manifestamente infondato, non inammissibile. E anche qui non par utile trasformare il contenuto del ricorso in requisito formale insidioso e controvertibile (recte, insidioso proprio perché incerto nella concretezza di ogni singola valutazione), posto che il procedimento semplificato in camera di consiglio è oggidí riservato anche a ricorsi manifestamente infondati, oltre che a quelli inammissibili (v. il nuovo n. 5 dell’art. 375 c.p.c.).

Ci pare, anzi, che il giudizio di cassazione che si concluda con una pronuncia di inammissibilità, anziché di manifesta infondatezza, si presti assai piú del secondo a revocazioni per errore di fatto nella lettura degli atti processuali (v. l’art. 390-bis c.p.c., che espressamente indica tra i provvedimenti impugnabili con revocazione ordinaria anche l’ordinanza emessa in esito al procedimento in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, nn. 4 e 5): l’errore-svista di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. è assai meglio denunciabile contro un’ordinanza di inammissibilità, che non a fronte di un rigetto per infondatezza, il quale presuppone normalmente la valutazione del punto controverso, precludendo in tal guisa il ricorso per revocazione.

V’è da augurarsi, insomma, che la Suprema Corte faccia un uso assai parco di pronunce d’inammissibilità per difetto degli elementi di forma-contenuto del ricorso novellamente previsti dall’art. 366-bis c.p.c., ad esse preferendo, semmai, declaratorie di manifesta infondatezza.

Certamente, l’accentuato tecnicismo del ricorso per cassazione dovrebbe indurre gli avvocati coscienziosi, che pur abbiano acquisito ratione temporis l’automatica abilitazione al patrocinio innanzi alle Corti superiori, ad astenersi da avventurose e solipsistiche redazioni di ricorsi: la minacciata falcidia, mercé la «struttura unificata» di cui s’è detto, produrrà una selezione naturale, in una sorta di «darwinismo forense», dei professionisti intellettualmente attrezzati e adusi a preparar ricorsi per cassazione, introducendosi cosí quel metodo, appunto selettivo, che normalmente dovrebbero possedere gli esami di idoneità.

5.2. la specifica indicazione di atti, documenti e contratti o accordi collettivi.

5.2. — Aggiungasi, infine, che un nuovo numero 6 apposto a piè dell’elenco di cui all’art. 366 c.p.c. impone, sempre a pena di inammissibilità, di indicare specificamente gli atti processuali, i documenti e i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda: il che, peraltro, già derivava dalla consolidata giurisprudenza della Corte sulla necessità che il ricorso fosse «autosufficiente»(62), cioè autonomamente intelligibile senza necessità per chi legge di riferirsi ad atti o documenti, da ricercare a fatica nei fascicoli delle pregresse fasi del giudizio, ormai consunti e sfilacciati dal tempo trascorso giacendo in polverose cancellerie.

Questa norma, per certi versi, riduce l’eccessivo potere discrezionale della Corte nel dichiarare la «non autosufficienza» del ricorso: a tenore letterale, basta indicare atti e documenti ordinatamente numerati, senza apparente necessità di riprodurli nel testo del ricorso (financo integralmente mediante fotomontaggi, come usano fare i cassazionisti piú zelanti, in ciò agevolati dalle moderne tecniche riproduttive), per evidenziarne soltanto i passaggî decisivi in relazione agli argomenti svolti.

  1. Il ricorso temerario.

    Il nuovo apparato sanzionatorio, volto a selezionare a priorii ricorsi esaminabili in pubblica udienza, viene ulteriormente rafforzato dalla comminatoria di «penali», liquidabili ex officiosino al doppio dei massimi tariffarî, in favore della parte vittoriosa e a carico del soccombente, quando questi abbia proposto il ricorso o vi abbia resistito «anche solo con colpa grave» (ultimo comma dell’art. 385 c.p.c.).

«Hic sunt leones», par dire il novello conditor a chi aspiri a ricorrere in Cassazione, per uno qualunque dei motivi contemplati dall’art. 360 c.p.c. ed anche quando le pronunce siano rese in camera di consiglio, come si ha cura di precisare a chiare lettere nello stesso art. 385, ultimo comma, c.p.c.(63).

A differenza di quanto avviene nella prassi applicativa dell’art. 96 c.p.c., qui non occorrono né una domanda esplicita delle parti, né la prova dei danni patiti(64). Stranamente analoga disposizione non è stata introdotta nell’art. 96 c.p.c., lasciato intatto dalla legge n. 80 del 2005 (e successive modificazioni), ancorché in molti progetti degli ultimi anni fossero state avanzate proposte di modifica della norma generale nel senso ora accolto dall’art. 385, ult. comma, c.p.c. per il solo giudizio di cassazione. I litiganti che temerariamente agiscano o resistano dinanzi ai giudici di merito potranno continuare a dormire sonni tranquilli… per loro seguiterà a valere il vecchio art. 96.

  1. La formulazione in ogni caso del principio di diritto.

    Il quesito con cui ha da concludersi il motivo di ricorso in puro diritto (nn. 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c.) è rivolto alla Corte, affinché questa fornisca sempre una risposta, enunciando il corrispondente principio di diritto, anche quando il motivo sia respinto o resti assorbito dall’accoglimento degli altri.

Nell’attuazione della delega quest’obbligo — che ci pareva trascurare l’efficacia, anzitutto, «nomopoietica» del principio di diritto, che vincola il giudice di rinvio e sopravvive all’estinzione del processo quale regula iuris del caso concreto (artt. 384, oggi 2° comma, e 393, ultima parte, c.p.c.), appesantendo il lavoro della Corte(65) — è stato lievemente attenuato: ai sensi del nuovo art. 384, comma 1, c.p.c., il principio dev’esser sempre enunciato allorché il ricorso sia proposto per violazione o falsa applicazione di legge o di contratti o accordi collettivi (art. 360, n. 3), anche quando si tratti — è da ritenere — di error in iudicando de iure procedendi. Negli altri casi (giurisdizione, competenza e nullità della sentenza o del procedimento), la risposta al quesito è rimessa alla discrezionalità della Corte, che la darà solamente quando «risolve una questione di diritto di particolare importanza».

  1. Il «vincolo» delle sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite.

    Sempre a un intento precipuamente nomofilattico è ispirata la nuova norma sui rapporti tra Sezioni unite e Sezioni semplici.

Vi è, anzitutto, la possibilità di assegnare alle Sezioni semplici i ricorsi in materia di giurisdizione, se sulla questione proposta si sono già pronunciate le Sezioni unite. Dovranno, invece, sempre pronunciarsi le Sezioni unite nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, avuto riguardo alla posizione di vertice di questi organi nei rispettivi ambiti giurisdizionali.

Vi sarà, dunque, una selezione preventiva delle questioni di giurisdizione, che probabilmente avverrà attraverso la «struttura unificata» di cui dicevamo supra, al par. 5.1. Naturalmente, la Sezione semplice, ove rilevi la necessità di una pronuncia a Sezioni unite per erroneità o inadeguatezza del precedente individuato prima facie, dovrà rimettere la questione alle Sezioni unite con ordinanza motivata e secondo il meccanismo che subito esaminiamo.

Molto si è discusso sull’opportunità di vincolare le Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite, salvo che particolari circostanze non giustifichino l’abbandono del precedente indirizzo.

Della discussione che precedette la delega abbiamo scritto e a quelle pagine rinviamo(66). La delega era testualmente piú drastica, poiché prevedeva esplicitamente un «vincolo» delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite. Il testo definitivo del nuovo 3° comma dell’art. 374 c.p.c. è assai piú tenue, ché la parola «vincolo» è scomparsa, in accoglimento delle preoccupazioni espresse dall’Assembla Generale della Suprema Corte di cassazione, la quale sollevava dubbî di compatibilità con il principio costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, 2° comma, Cost.)(67).

Si tratta di un vincolo, rectius di un dovere soltanto processuale delle Sezioni semplici di rimettere la questione alle Sezioni unite con ordinanza motivata, allorché intendano discostarsi da un precedente delle stesse Sezioni unite. Non v’è, dunque, da temere che il principio di soggezione del giudice alla sola legge venga infranto(68) e, tra l’altro, analogo meccanismo era già stato adottato senza patemi dall’art. 64, 7° comma, D. Lgs. 165/2001, che obbliga il giudice di merito, ove non intenda conformarsi al precedente della Suprema Corte sull’interpretazione di una clausola di un contratto o accordo collettivo, a emettere sentenza sulla questione esegetica, impugnabile soltanto con ricorso immediato in Cassazione(69).

La riforma è intervenuta anche sull’art. 142 disp. att. c.p.c., per consentire alle Sezioni unite di decidere non soltanto sui motivi di propria competenza — anche quando la questione sia stata rimessa dalle Sezioni semplici ai sensi dell’art. 374, 3° comma, testé illustrato — ma, a propria discrezione, sull’intero ricorso, evitando un andirivieni tra Sezioni unite e Sezioni semplici.

  1. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge.

    Chiude, in certo senso, il cerchio della riforma della Corte di cassazione in senso nomofilattico il restyling del ricorso nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.).

Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di cassazione viene esteso a tutti i provvedimenti non ricorribili in Cassazione e non altrimenti impugnabili, con implicito riferimento al ricorso straordinario per cassazione contro provvedimenti, per lor natura, non definitivi né decisorî, come ad esempio quelli cautelari. Coerentemente con questa estensione si prevede, oltre all’iniziativa del Procuratore generale, la possibilità che la Corte eserciti il suo munus nomofilattico anche d’ufficio, sol che la questione sia di particolare importanza (per il che dovrebbe scattar la rimessione alle Sezioni unite) e pur a fronte di un ricorso inammissibile, exempli gratia perché, trattandosi di ricorso straordinario, investa provvedimenti non definitivi o non decisorî, come quelli cautelari(70).

L’ultimo comma dell’art. 363 c.p.c. — diverso per lettera, ma non per significato rispetto al precedente — esclude apertis verbis ogni effetto della enunciazione del principio di diritto, resa dalla Corte gratiis et amore iuris, sul provvedimento del giudice di merito, che era e resta intangibile dal ricorso per cassazione(71).

Ci pare, a questa stregua, che i litiganti, sapendo di non poter ottenere alcun beneficio dall’impugnazione, si asterranno dall’adire la Suprema Corte, la quale difficilmente verrà sollecitata a rendere ex officio — e ancor meno su ricorso del Procuratore generale, come dimostrato dall’esperienza di oltre un sessantennio(72) — pareri in diritto che non abbiano ricadute sul procedimento a quo.

Se proprio si intendeva conservare e rafforzare una funzione del genere per estenderla a settori dell’ordinamento per solito non lambiti dalla nomofilachia della Corte, meglio sarebbe stato importare dalla Francia la saisin pour avis, che consente al giudice del merito di interrogare snellamente la Cour de cassation, per conoscerne l’orientamento su questioni che presentino serie difficoltà interpretative e affliggano numerose controversie, assumendo nel frattempo tutti i provvedimenti atti a sterilizzare la situazione tra le parti per i tre mesi fissati dalla legge alla Cour onde rispondere al quesito. E si potevano anche accentuare gli effetti dell’autorevole dictum reso dalla Corte prevedendo, a differenza che in Francia, un vincolo per il giudice a quo(73).

È prevalsa, com’era giusto, la preoccupazione di non sovraccaricare a dismisura il lavoro della Corte, mentre del pur riscritto art. 363 c.p.c. è agevole prevedere la scarsa applicazione pratica(74).

  1. I nuovi confini della pronuncia sostitutiva di merito.

    La delega contenuta nella legge n. 80 del 2005contemplava «l’estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche in caso di violazione di norme processuali».

Il decreto attuativo è piú tranchant: dall’art. 384, (ora) 2° comma, c.p.c. scompare ogni riferimento alla «violazione o falsa applicazione di norme di diritto» sicché, stando al nuovo testo della norma, la Corte, quando accolga il ricorso e non siano necessarî ulteriori accertamenti di fatto, decide sempre la causa nel merito.

Nel precedente scritto riferivamo delle esitazioni della Suprema Corte nel pronunciarsi sul merito, quando il ricorso fosse accolto per violazione di norma processuale, sub specie di error in iudicando de iure procedendi, dacché questo veniva riportato al n. 4 dell’art. 360, cui non poteva, secondo alcuni, seguire una decisione sostitutiva sul merito della lite(75). La modifica annunziata dalla legge delega aveva una portata piú chiarificatrice che rivoluzionaria(76), volta com’era a dissipare ogni dubbio sulla possibilità di pronunciare sentenza sul merito in ogni ipotesi di violazione o falsa applicazione di norme di legge.

Tuttavia, scomparso ogni riferimento alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto dal nuovo testo dell’art. 384, comma 2, c.p.c., si potrebbe essere tentati di estendere il potere della Corte di emettere una pronuncia sostitutiva di merito a tutti i casi di accoglimento del ricorso, anche quando si tratti dei motivi indicati nei nn. 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c., purché — s’intende — non siano necessarî ulteriori accertamenti di fatto(77).

Già nel vigore della precedente norma era stata avanzata la tesi, rimasta minoritaria in dottrina e inascoltata dalla giurisprudenza, di dare alla norma una lettura teleologica, sulla scorta di alcuni spunti dottrinali di matrice tedesca(78). Secondo questa tesi, la Corte, in ossequio al principio di economia processuale, avrebbe il dovere di emettere una pronuncia sostitutiva, a prescindere dal motivo di ricorso accolto, in tutti i casi nei quali non sia necessario compiere attività che, strutturalmente, non ha la capacità di svolgere, perché implicanti l’assunzione di prove ovvero valutazioni probatorie eccessivamente complesse, onde il rinvio dovrebbe essere disposto soltanto quando non sia assolutamente possibile farne a meno.

Nonostante la nuova littera legis, crediamo che l’intentio esplicitata dal legislatore delegante non vada contraddetta, che ad essa debba attenersi l’esegesi del nuovo art. 384, comma 2, c.p.c. e che l’orientamento tradizionale vada semplicemente esteso a ogni sorta di error iuris, anche de iure procedendi(79). La Cassazione potrà emettere una pronuncia sul merito soltanto quando sia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norma, indifferentemente, sostanziale o processuale e non sia necessario compiere né un’attività di assunzione di mezzi di prova, né valutazioni sulla ricostruzione dei fatti: la fattispecie sostanziale, cosí come ereditata dai gradi di merito, deve restare intatta, né la Corte può spingersi ad esaminare le prove, dovendo la ricostruzione emergere dalla stessa sentenza impugnata(80).

L’accoglimento del ricorso per vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo (art. 360, n. 5, c.p.c.) non può in alcun caso aprire spazî per una pronuncia sostitutiva da parte della Suprema Corte, dacché il difetto nell’iter argomentativo sulla quaestio facti impone, proprio perché attinente a fatti (o punti) decisivi e controversi, che sia un altro giudice di merito a ripercorrerli e a valutarli nuovamente(81). Ritenere il contrario e riconoscere alla Corte di cassazione un potere di rivalutare i fatti controversi significherebbe accedere a letture funzionaliste che, lasciando in ombra la struttura del mezzo d’impugnazione in iure quo utimur, finirebbero per snaturarlo.

In linea teorica, la possibilità di pronuncia sostitutiva sul merito sussiste anche quando il ricorso venga accolto per violazione o falsa applicazione di contratti o accordi economici collettivi, ai sensi del nuovo n. 3 dell’art. 360 c.p.c. Se, però, la questione esegetica giunga alla Corte per saltum, attraverso il particolare meccanismo disciplinato dagli artt. 420 bis e 64 D. Lgs. 165/2001 e descritto nel precedente paragrafo 4.2, la ricostruzione dei fatti non si sarà, ovviamente, ancor formata, dovendosi ancora percorrere i due gradi del giudizio di merito. In questi casi, dunque, una pronuncia sostitutiva della Suprema Corte potrà esservi soltanto allorché la questione ermeneutica abbia percorso i gradi di merito, com’è pur possibile quando il giudice di primo grado non ritenga che sussistano serî dubbî interpretativi sulla clausola del contratto collettivo e, pertanto, non decida immantinente tale quaestio con sentenza emessa ai sensi dell’art. 420-bis c.p.c. (o dell’art. 64 D. Lgs. 165/2001, in materia di pubblico impiego).

11.1. L’impugnazione dei provvedimenti della Corte: la revocazione «ordinaria».

La riforma interviene anche sulla disciplina delle impugnazioni contro le pronunce rese dalla Cassazione.

Il tema necessiterebbe di essere trattato in uno scritto monografico: qui non possiamo che limitarci ad alcuni cenni.

L’art. 391-bis c.p.c. ha subíto modifiche di contorno: si è precisato che sono suscettibili di correzione e di revocazione per errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. anche i provvedimenti resi dalla Corte in camera di consiglio sulle istanze di regolamento di competenza o di giurisdizione (art. 375, n. 4, c.p.c.) e quelli che dichiarano il ricorso inammissibile oppure manifestamente fondato o infondato (art. 395, n. 5, c.p.c.).

Non si comprende perché sia rimasta esclusa dal rinvio operato dal 1° comma dell’art. 391 bis la pronuncia in camera di consiglio dichiarativa dell’estinzione del procedimento in Cassazione in ogni caso diverso dalla rinuncia (nuovo art. 375, n. 3, c.p.c.). Ammesso che siano configurabili ipotesi di estinzione del procedimento in Cassazione per inattività delle parti, essendo questo dominato dall’impulso d’ufficio(82), l’esclusione delle ordinanze di estinzione emesse ai sensi dell’art. 375, n. 3, c.p.c. risulta inspiegabile e, ove mai si verificasse il caso, potrebbe dar luogo a una pronuncia additiva della Consulta sul 1° comma dell’art. 391-bis c.p.c., per violazione dell’art. 3 Cost., onde includere anche tali ipotesi nel novero dei provvedimenti della Corte impugnabili con revocazione o soggetti a correzione per errore materiale o di calcolo. Salvo che non si ritenga di por rimedio alla lacuna in via interpretativa, come peraltro la Corte aveva già fatto motu proprio, prima ancora della novella e a proposito di tutti i provvedimenti emessi in forma di ordinanza all’esito di un procedimento in camera di consiglio(83).

Analogo problema potrebbe porsi per il decreto presidenziale che, ove non opposto entro dieci giorni dalla comunicazione, dichiari definitivamente estinto il processo per rinuncia delle parti o nei casi espressamente previsti dalla legge (ad esempio, a seguito di condono fiscale), secondo la piú snella procedura introdotta nei primi tre commi dell’art. 391 c.p.c.(84).

Il 2° comma dell’art. 391 bis è stato cosí riformulato: «La Corte decide sul ricorso in camera di consiglio nell’osservanza delle disposizioni di cui all’articolo 380»; sono stati inoltre introdotti altri due commi, il 3° e il 4° che cosí recitano: «sul ricorso per correzione dell’errore materiale pronuncia con ordinanza»; «sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza».

Accogliendo un’idea (rimasta peraltro isolata) della Sezione lavoro della Corte stessa(85), si conta in tal modo di superare l’orientamento che, pur applicando il procedimento in camera di consiglio al ricorso per revocazione(86), esigeva che la pronuncia assumesse in ogni caso forma di sentenza, in quanto coerente con la natura della decisione, che definisce una fase di impugnazione contro una precedente sentenza e segna il prodursi del giudicato(87).

Il ricorso per revocazione, se rinviato a pubblica udienza, andrà deciso ovviamente con sentenza, con cui la Corte, in caso di accoglimento, revocato il provvedimento impugnato, statuirà sulla fondatezza o meno dell’originario ricorso per cassazione, esaminandone i motivi ed emanando tutte le conseguenti statuizioni(88), ivi inclusa la possibilità di una pronuncia sostitutiva sul merito ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 384, comma 2, c.p.c.

Nell’intervento operato sull’art. 391 bis, come già nella legge delega, non si parla della revocazione per contrarietà a precedente giudicato, ai sensi dell’art. 395, n. 5, c.p.c. Lacuna questa che dovrebbe essere prontamente colmata dalla Corte costituzionale, visto che la relativa questione è già stata posta dalla stessa Corte di cassazione e non è risolta dalla novella(89).

11.2. la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo.

11.2. — L’art. 391-ter c.p.c. è stato inserito ex novo per disciplinare la revocazione straordinaria (art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c.) e l’opposizione di terzo, indifferentemente semplice o revocatoria (art. 404, comma 1 e 2, c.p.c.), contro il provvedimento con il quale la Corte ha deciso la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384, 2° comma (ultima parte), c.p.c.(90).

Il ricorso (non già la citazione)(91) per revocazione, oltre a essere sottoscritto da un procuratore speciale, non bastando la procura rilasciata per l’antecedente giudizio di cassazione (cfr. l’art. 398, 3° comma, c.p.c.)(92), dovrà contenere, a pena di inammissibilità, tutti gli elementi di cui al 2° comma dell’art. 398 c.p.c., cioè il motivo della revocazione e le prove relative ai fatti di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395, del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo e della falsità delle prove, o del recupero dei documenti. Nel ricorso in opposizione di terzo revocatoria dovrà essere specificamente indicato il giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, con la deduzione della relativa prova (art. 405, comma 2, c.p.c.).

La competenza è attribuita alla stessa Corte di cassazione, contrariamente a ciò che si suggeriva nella Relazione al Progetto Vaccarella, dove pareva preferibile che della revocazione e dell’opposizione di terzo si occupasse il giudice che aveva emanato la sentenza sostituita dalla Cassazione. È prevalsa la necessità, da un lato, di uniformare la competenza in tutte le ipotesi di revocazione (ché per quella «ordinaria» competente era già la stessa Suprema Corte, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c.) e, dall’altro lato, di evitare che un giudice di grado inferiore eserciti un sindacato sulla sentenza della Cassazione.

Vi è ora il problema, affatto nuovo, di un’istruzione probatoria dinanzi alla Suprema Corte, non soltanto per statuire sull’ammissibilità e sulla tempestività della revocazione straordinaria o dell’opposizione di terzo revocatoria, ma anche per verificare la sussistenza del vizio fatto valere. In molti casi, infatti, la prova del fatto revocatorio o del giorno della scoperta di esso richiederà l’assunzione di testimoni o di altre prove costituende, alle quali la Suprema Corte non è normalmente attrezzata né avvezza.

L’art. 391 ter non dice se si debba seguire, almeno inizialmente, il rito camerale, come avviene per la revocazione delle sentenze della Corte ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., finché non se ne reputi l’ammissibilità. Né può dirsi che tale rito, assai garantista (come si vedrà nel successivo paragrafo), sia meno adatto dell’udienza pubblica, quantomeno per la fase in cui deve vagliarsi l’ammissibilità della revocazione straordinaria o dell’opposizione di terzo: se ne potrebbe, perciò, sostenere l’applicabilità anche a questi casi, in via analogica rispetto al rito adottato per la revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. In assenza di qualunque disciplina sull’istruzione probatoria dinanzi alla Suprema Corte, la Cassazione stessa sarà chiamata a forgiare un rito in queste (è da sperar, sporadiche) evenienze, nell’ovvio rispetto del fondamentale principio del contraddittorio e di tutte le norme dettate ex positivo iure su ammissione, assunzione e valutazione dei mezzi di prova, con impossibilità, peraltro, di delegare l’assunzione delle prove costituende a un singolo componente del collegio; assunzione che potrà ben avvenire in camera di consiglio anziché in pubblica udienza.

Ai sensi del 2° comma dell’art. 391 ter, «quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, la Corte decide la causa nel merito qualora non siano necessarî ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione ovvero dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata».

Riesce difficile ipotizzare casi in cui la Corte, revocata la sentenza, sia immediatamente in grado di emanare una pronuncia sostitutiva sul merito. Forse nella sola ipotesi, cui mai si vuol credere, di revocazione per dolo di uno o di alcuni componenti del collegio della Suprema Corte, accertato con sentenza passata in giudicato (art. 395, n. 6, c.p.c.), perché in quel caso il nuovo collegio, rimosso il vizio che faceva dubitare della giustizia lato sensudella pronuncia, potrà riesaminare l’originario ricorso per cassazione e si troverà nella medesima posizione del precedente collegio. Negli altri casi di revocazione straordinaria (dolo delle parti, falsità delle prove, rinvenimento incolpevolmente tardivo di un documento fondamentale per la decisione), accertato il sintomo d’ingiustizia, l’intero giudizio di fatto dovrà esser ripercorso e a ciò potrà attendere soltanto il giudice a quo.

Analogamente, dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, pare da escludersi ogni possibilità per la Corte di emettere una pronuncia rescissoria che produca effetti anche nei confronti del terzo.

Di fronte a un dato normativo oltre misura ellittico, è d’uopo brevemente distinguere a seconda degli effetti variabili della pronuncia scaturente dall’opposizione.

Quando il terzo, con opposizione ordinaria, faccia valere un diritto incompatibile con quello su cui la Corte ebbe a statuire in via rescissoria, non lo si potrà privare di una valutazione sul merito delle sue ragioni dinanzi al giudice a quo, che naturaliter adempie a questa funzione. Ad applicar la lettera dell’art. 391-ter, comma 2 (seconda proposizione), c.p.c., dovrà la Corte limitarsi a dichiarare ammissibile l’opposizione, verificandone essenzialmente i requisiti di legittimazione, ai sensi dell’art. 404, comma 1, c.p.c., per poi rimettere le parti al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. La dichiarazione di ammissibilità dell’opposizione di terzo, nel silenzio della legge, ci pare che debba avvenire con sentenza, la quale implicherà altresí l’annullamento della precedente pronuncia rescissoria emessa dalla Corte, visto che la norma associa tale declaratoria all’ipotesi di revocazione. Limitarsi a dichiarare l’ammissibilità dell’opposizione senza porre nel nulla la sentenza sostitutiva di merito che il terzo ha impugnato significherebbe affidare al giudice a quo l’annullamento della sentenza della Corte: ciò che non par compatibile con il sistema. Quando siavi, insomma, un’opposizione di terzo proposta per incompatibilità del diritto, la fase dinanzi alla Suprema Corte si concluderà con una sorta di cassazione con rinvio, che elimini e, in certo senso, revochi la pronuncia sostitutiva emessa ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., lasciando poi al giudice a quo la fase rescissoria; la quale, per naturale conseguenza, non sarà un giudizio chiuso come quello di rinvio, ma dovrà adeguarsi alle mutate esigenze difensive del terzo e delle parti in relazione ai motivi addotti nell’opposizione.

Quando l’opposizione semplice sia proposta da un litisconsorte necessario pretermesso, si avrà l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice di primo grado in funzione restitutoria, anziché prosecutoria, secondo quanto prevede l’art. 383, ultimo comma, c.p.c. Crediamo che, in questi casi, l’art. 391-ter, comma 2, c.p.c. minus dixit quam voluit, poiché la Corte di cassazione, verificata la non integrità del contraddittorio, potrà direttamente annullare il provvedimento impugnato e non si limiterà a dichiarare tout court ammissibile l’opposizione di terzo. Lo si desume a fortiori da ciò che avviene quando sia impugnata con opposizione di terzo una sentenza d’appello(93).

Quando a interporre opposizione ordinaria sia il soggetto falsamente rappresentato nel giudizio, questi potrebbe chiedere soltanto l’annullamento della sentenza, sí che, in ossequio alla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la Corte dovrà limitarsi alla pronuncia rescindente mediante annullamento senza rinvio, senza necessità di provvedere sul rescissorio(94). Ma quando un tal opponente chieda anche un nuovo giudizio sul merito, l’annullamento con rinvio dinanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza sostituita dalla Cassazione risulterà inevitabile, per dare alla parte falsamente rappresentata l’agio di difendersi compiutamente sul merito. Anche qui, la lieve correzione del dato testuale par scaturire dal coordinamento tra l’opposizione di terzo e i poteri, di regola, rescindenti della Cassazione, laddove un annullamento della sentenza della Cassazione ad opera del giudice inferiore non pare compatibile con il sistema.

Allorché, infine, un creditore o un avente causa interpongano un’opposizione di terzo revocatoria (art. 404, comma 2, c.p.c.) contro la sentenza sostitutiva resa dalla Suprema Corte, la prova del giorno della scoperta del dolo o della collusione, che vale a rendere tempestiva e ammissibile l’opposizione, sarà generalmente tutt’uno con la prova che vizî siffatti inficiano realmente la decisione. Par dunque incongruo disgiungere la declaratoria di ammissibilità, limitata (è da credere) ai soli requisiti di legittimazione dell’opponente e di forma-contenuto del ricorso e riservata alla Suprema Corte, dalla pronuncia rescindente, rimessa invece al giudice a quo, che accerti tanto l’esistenza dei vizî, quanto il giorno della loro scoperta ai fini della tempestività del mezzo.

Invero, l’opposizione revocatoria, se accolta, mette capo a una pronuncia solo rescindente, che dichiara inefficace il provvedimento impugnato perché frutto del dolo o della collusione delle parti in danno del creditore o dell’avente causa(95), senza dar luogo a provvedimenti rescissorî. Non ha molto senso, quindi, affidare al giudice di merito questa pronuncia di inefficacia del dictum della Cassazione, lasciando a questa soltanto la declaratoria di ammissibilità del ricorso in opposizione revocatoria, tanto piú che, nella revocazione straordinaria, la fase rescindente viene expressis verbis riservata alla Corte.

A tanto astringe, però, il 2° comma dell’art. 391-ter (seconda proposizione) c.p.c., la cui infelice formulazione potrà forse essere rimossa da una pronuncia d’incostituzionalità per ingiustificata disparità di trattamento dell’opposizione di terzo revocatoria rispetto alla revocazione straordinaria (di cui ai nn. 1, 2 e 6 dell’art. 395 c.p.c.), pur vertendo anch’essa su sentenze fraudolentemente rese od ottenute.

  1. Le novità del procedimento in camera di consiglio e di quello in pubblica udienza.

    La riforma opportunamente rivisita e amplia il procedimento in camera di consiglio, ch’era già stato interessato da un’importante ristrutturazione a seguito della cosiddetta legge Pinto (art. 1 della L. 24 marzo 2001, n. 89)(96):

— al n. 2 dell’art. 375 c.p.c. si aggiunge la possibilità, peraltro già utilizzata dalla Corte, di ordinare la rinnovazione della notifica del ricorso o del controricorso;

— al n. 3 si prevede la possibilità di dichiarare con ordinanza l’estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia; per quest’ultima dispone ora il nuovo art. 391 c.p.c., secondo il quale, sulla rinuncia e nei casi di estinzione del processo disposta per legge (ad esempio, per condono fiscale), la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto: il decreto o la sentenza che dichiarano l’estinzione possono condannare la parte che vi ha dato causa alle spese; allorché l’estinzione sia dichiarata mediante decreto presidenziale, le parti possono chiedere la fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione; in mancanza, il decreto diverrà esecutivo e, si deve ritenere, irrevocabile;

— il n. 4, identico all’attuale n. 5, consente alla Corte di pronunciare ordinanza sui regolamenti di giurisdizione e di competenza;

— il n. 5 è il piú innovativo e si raccorda ai nuovi requisiti di ammissibilità del ricorso, potendo la Corte accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza, ovvero dichiararne l’inammissibilità per mancanza dei motivi previsti nell’articolo 360 o per difetto dei requisiti sanciti dall’art. 366-bis c.p.c.; la norma si affianca e, in parte, si sovrappone al n. 1 dello stesso art. 375, lasciato intatto dalla riforma e disciplinante tutti gli altri casi di inammissibilità del ricorso principale o incidentale.

Il procedimento in camera di consiglio viene trasferito dagli artt. 375, comma 3, 4 e 5, e 138 disp. att. c.p.c., espressamente abrogati, agli artt. 380-bis e 380-ter c.p.c., con modificazioni incisive e notevoli, tanto da renderlo piú garantista del procedimento in pubblica udienza, poiché alle parti viene comunicata anticipatamente l’opinio del relatore, con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto in base ai quali egli ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio. Potranno, allora, le parti depositare memorie (e il P. M. le proprie conclusioni scritte) almeno cinque giorni liberi prima dell’adunanza in camera di consiglio, con facoltà di chiedere l’audizione orale.

Questa procedura va seguita nei casi di (ipotetiche) inammissibilità, manifesta infondatezza o fondatezza del ricorso o di estinzione del procedimento per cagioni diverse dalla rinuncia (art. 375, nn. 1, 3 e 5, c.p.c.), nonché per gli ordini di integrazione del contraddittorio, di notifica dell’impugnazione ex art. 332 o di rinnovazione delle notifiche, ai sensi dell’art. 375, n. 2, c.p.c., ma in queste ultime ipotesi, stante il carattere non decisorio dei provvedimenti, non è prevista l’audizione in camera di consiglio (v. l’art. 380-bis c.p.c.).

Nella seduta la Corte delibera sul ricorso con ordinanza ma, se ritiene che non ricorrano le ipotesi di cui all’art. 375, nn. 1, 2, 3 e 5, c.p.c., rinvia la causa alla pubblica udienza.

Ancor piú snella è la procedura per i regolamenti di giurisdizione e di competenza (art. 375, n. 4, c.p.c.), che affliggono la Suprema Corte in numero imponente: è il presidente a decidere se sia il caso di assegnarli a un relatore, che seguirà i passi descritti dall’art. 380 bis, o se richiedere direttamente al P.M. le sue conclusioni scritte, da notificare alle parti insieme al decreto che fissa l’adunanza in camera di consiglio, cinque giorni liberi prima della quale le parti potranno depositare memorie scritte e, ove si tratti di regolamento di giurisdizione (ma non di competenza), chiedere di essere ascoltate. La decisione, di qualunque segno, verrà resa con ordinanza, senza possibilità di rinvio a pubblica udienza (art. 380-ter c.p.c.).

L’anticipata relazione scritta della causa da parte del relatore funge da «canovaccio», che orienterà le memorie e la discussione delle parti in camera di consiglio, consentendo un contraddittorio ad un tempo piú ampio e preciso sulle idee espresse dal magistrato e focalizzando le osservazioni sui punti indicati nella relazione(97). La misura ricorda il cosiddetto «opinamento» del Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili, emanato dal Papa Gregorio XVI nel 1834 per lo Stato Pontificio, ch’era un progetto di decisione comunicato dal giudice alle parti, le quali potevano svolgere osservazioni e repliche prima della sentenza definitiva(98). Il processo diviene davvero actus trium personarum, senza che le parti siano costrette a formular congetture sui riposti pensieri dei giudicanti per divisarne e anticiparne gli intendimenti. È da auspicare, anzi, che dopo un periodo di sperimentazione un tal metodo preparatorio venga adottato per tutti i ricorsi, non soltanto per quelli destinati a esser decisi in camera di consiglio(99).

A questo stesso spirito, volto a favorire un dialogo polifonico, risponde l’aggiunta di un 3° comma all’art. 384 c.p.c., dove si impone alla Corte di provocare il contraddittorio scritto su una questione rilevabile d’ufficio che ritenga di porre a fondamento della decisione emandanda. La Corte deve, in tal caso, riservarsi la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione. La sentenza verrà dipoi emanata senza fissare un’ulteriore udienza di discussione(100).

La norma si presta a essere applicata anche alla decisione sostitutiva di merito che segue all’accoglimento del ricorso, colmandosi cosí quel deficit di contraddittorio sulla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 384, comma 2, c.p.c., da tempo denunciato dalla piú avvertita dottrina(101).

  1. La disciplina transitoria.

    Restano da ricordare concisis verbisi profili temporali di entrata in vigore della riforma, trascurando alcune altre regole di dettaglio su comunicazioni e notifiche tra gli ufficî e alle parti, anche mediante moderni mezzi telematici (ad oggi, peraltro, inattuabili o, comunque, perigliose per difetto di apposite norme regolamentari).

Il decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006, contenente modifiche in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15 febbraio 2006: esso, pertanto, trascorsa la vacatio legis ex art. 10 prel., è entrato in vigore il 2 marzo 2006, con sfasamento di un sol giorno rispetto alle altre novelle al c. p. c., introdotte dalla legge n. 80/2005 e successive modificazioni con effetto (per quasi tutte le disposizioni) dal 1° marzo 2006.

L’art. 27 del D. Lgs. n. 40 del 2005 detta regole di diritto transitorio particolari:

  1. a) il giudice di pace dovrà osservare già nei giudizî pendenti i limiti positivamente fissati per l’equità necessaria dall’ 339, comma 3, c.p.c., poiché la norma, seppur dettata per il regime impugnatorio delle sentenzesecundum aequitatem, rifluisce sul criterio della decisione indicato nell’art. 113, comma 2, c.p.c., rimasto intatto. Questi limiti all’equità del giudice di pace, d’altronde, risultavano già dal pregresso diritto vivente.

Peraltro, il nuovo regime impugnatorio delle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità e delle ordinanze o delle sentenze emesse nelle opposizioni a sanzioni amministrative (quest’ultime dal giudice di pace o dal tribunale, secondo i criterî di competenza fissati dall’art. 22 bis legge n. 689/1981), si applica ai provvedimenti depositati dopo l’entrata in vigore della riforma, cioè dopo il 2 marzo 2006. Anche l’art. 151 disp. att. c.p.c.sulla riunione obbligatoria delle cause connesse soltanto per identità delle questioni giuridiche dovrà trovare immediata applicazione, sia davanti al giudice del lavoro, sia dinanzi al giudice di pace per le controversie «seriali».

  1. b) Il discrimentemporale per l’applicazione delle nuove norme sul procedimento dinanzi alla Suprema Corte è dato non dal giorno di notificazione del ricorso introduttivo del giudizio di cassazione, ma da quello di pubblicazione del provvedimento impugnato: per i provvedimenti depositati anteriormente al 2 marzo 2006 varranno le vecchie regole; per quelli pubblicati dopo tale data, le nuove norme esaminate in questo scritto.

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(1) Tedoldi, La delega sul procedimento di cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2005, 295 e segg.

(2) Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1984, 318.

(3) Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005, 600 e seg., ritiene, invece, che già oggi, in iure Constitutionis quo utimur, sia possibile «leggere le funzioni della Corte alla luce della ragionevolezza, il che giustifica il sacrificio dei propri spazi se necessario per porre un freno alla propria ipertrofia», non dovendosi attribuire al precetto costituzionale «il significato di diritto all’indiscriminato accesso al controllo di legittimità, bensí quello di strumento di razionalizzazione delle funzioni del Giudice Supremo», poiché sarebbe «un errore di prospettiva pensare che l’art. 111, settimo comma, Cost. vincoli al contestuale esercizio, tanto dello ius constitutionis, quanto dello ius litigatoris, laddove la convivenza tra i due impedisce il raggiungimento di utili risultati, sia nell’uno che nell’altro senso».

(4) Né può tale modifica esser salvata da illegittimità costituzionale, mercé il generico potere del Governo di revisionare la formulazione letterale e la collocazione degli articoli del codice e delle altre norme processuali civili vigenti, ancorché non direttamente investiti dai principî di delega, in modo da accordarli con le modifiche apportate dal decreto legislativo adottato nell’esercizio della predetta delega, qual si rinviene nell’art. 1, 4° comma,legge n. 80/2005: non v’è se non un labile e quasi impercettibile nesso tra i principî contenuti nella delega e il regime impugnatorio delle sentenze del giudice di pace pronunziate secondo equità. Che siasi voluto profittar dell’occasione per sgravare la Corte di ricorsi non basta a raccordare questa modifica ai principî enunciati dal legislatore delegante, salvo che non si intenda a tutti i costi enfatizzare, qual vaghissimo legame, la necessità di garantire alla Suprema Corte l’esercizio della conclamata nomofilachia.

(5) Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206, in Giust. Civ., 2004, I, 2537, con nota di Giordano, Giudice di pace e giudizio di equità necessario: un effettivo ritorno al passato?; nonché in Corriere Giur., 2005, 514 e segg., con nota di Zanuttigh, Lo scandalo dell’equità «a canone inverso»; v., altresí, con ampî riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, Asprella, Il giudizio di equità necessario, in Leggi civ. comm., 2004, 1181 e segg. Per un breve quadro generale sul giudizio di equità necessario sia consentito rinviare a Tedoldi, voce «Giudice di pace», in Dig. Civ., Agg. II, Torino, 2003, 773 e segg., ove ulteriori richiami.

(6) Cass., 11 gennaio 2005, n. 382, in Riv. Dir. Proc., 2005, 1345 e segg., con nota critica di Martino, Decisione equitativa e principi informatori della materia e nota adesiva di Asprella, Riflessioni in margine al significato semantico e alla interpretazione giuridica dei «principi informatori» della materia. Su questo tema v., altresí, Maffuccini, Equità del giudice e potere arbitrario tra storia e attualità: riflessioni a margine di Corte cost., 6.7.2004, n. 206 e di Cass., 11.1.2005, n. 382, in Nuova Giur. Comm., 2006, 56 e segg., ove si sottolinea la valenza positiva dell’arbitrium iudicis nel processo medievale, poiché «dicitur arbitrium potestas data alicui ad pronunciandum prout aequum fuerit»: il legame tra arbitrium ed aequitas era indissolubile, tanto che lo stesso Bartolo da Sassoferrato notava che «arbitrium servat ius commune».

(7) V. l’art. 113, 2° comma, nel testo novellato dall’art. 9 della legge n. 399 del 1984, anteriore alla modifica introdotta dalla legge istitutiva del giudice di pace (art. 21 legge n. 374 del 1991).

(8) V. Cass., Sez. un., 15 ottobre 1999, n. 716, in Giust. Civ., 1999, I, 3243, con nota critica di Martino, Il giudizio di equità necessario secondo le Sezioni Unite: profili di illegittimità costituzionale.

(9) V., ex plurimis, Cass., 22 febbraio 1996, n. 1373: «il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. è proponibile soltanto nei limiti in cui denunci la violazione di norme costituzionali, dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia da intendersi come le linee essenziali della disciplina giuridica del tipo di rapporto dedotto in causa, mentre non può investire la regola equitativa in concreto applicata, neppure sotto il profilo dell’inosservanza di norme di legge esplicitamente od implicitamente ritenute conformi ad equità, atteso che il giudizio di equità è per sua natura di merito, riferendosi al criterio regolatore del singolo caso concreto ed è come tale insindacabile per vizi in iudicando i quali postulano l’erronea interpretazione o applicazione di norme di diritto e perciò generali ed astratte».

(10) La stessa Cass., Sez. un., 15 ottobre 1999, n. 716 cit. — a chiaro scopo deflattivo dei ricorsi nelle controversie bagatellari e con la consueta metodologia self restraint già adoprata, exempli gratia, per il ricorso straordinario per cassazione (Cass., Sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888, in Corriere Giur. 1992, 751, con nota critica di Mandrioli, in Giur. It., 1994, I, 1, 804 con nota di De Cristofaro e in Foro It., 1992, I, 1737, con nota critica di Barone) — aveva inaugurato l’orientamento secondo cui «il giudice di pace non deve procedere alla previa individuazione della norma di diritto applicabile alla fattispecie, ma deve giudicarla facendo immediata applicazione della equità c.d. formativa (o sostitutiva), non correttiva (o integrativa), fondata su un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico».

(11) Su questa figura v. Ferri, Profili dell’appello limitato, Padova, 1979, passim, ove ampî riferimenti bibliografici e comparatistici. Per qualche considerazione cfr., si vis, Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 2 e segg., 69 e segg. e 296 e segg.

(12) Cfr. le due fondamentali pronunce di Cass., Sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro It., 1987, I, 3037, con nota di Balena; Id., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, ivi, 2000, I, 1606, con nota di Balena, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui e di Barone, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sezioni unite; nonché in Giust. Civ., 2000, I, 673 e in Corriere Giur., 2000, 750, con nota di De Cristofaro, Inammissibilità, appello senza motivi ed ampiezza dell’effetto devolutivo.

(13) Cfr., ex plurimisCass., 15 settembre 2004, n. 18571, ove si sottolinea la mancanza di una garanzia costituzionale del principio del doppio grado di giurisdizione e il carattere eccezionale del potere del giudice di appello di rimettere la causa al primo giudice, potere che, concretandosi in una deroga al principio per il quale i motivi di nullità si convertono in motivi di gravame, può essere esercitato solo nei casi tassativamente previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c. In dottrina v. Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984; Olivieri, La rimessione al primo giudice nell’appello civile, Napoli, 1999.

(14) V. Cass., 24 febbraio 2004, n. 3655;Id., 28 dicembre 1996, n. 11537; Id., 10 agosto 1996, n. 7436. In dottrina v., per tutti, Consolo, Le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2006, 122 e segg.

(15) In questo senso v., infatti, Consolo, Deleghe processuali e partecipazione alla riforma della Cassazione e dell’arbitrato, in Corriere Giur., 2005, 1191.

(16) G. Finocchiaro, Appellabili le sentenze del giudice di pace, in Guida al Dir., 2006, fasc. 8 del 25 febbraio 2006, 56, vede nel giudizio di appello contro le sentenze di equità due fasi distinte: l’una rescindente (volta ad accertare la fondatezza di uno dei motivi d’appello proponibili) e l’altra rescissoria (tesa a pronunciare una decisione di stretta legalità, sostitutiva della precedente d’equità): sicché, in caso di riforma della decisione d’equità con pronuncia sostitutiva di diritto, qualora la Suprema Corte accolga il ricorso per aver errato il giudice d’appello nella fase rescindente, si verificherebbe la reviviscenza della pronuncia d’equità, con il suo immediato passaggio in giudicato. Questa soluzione non ci pare praticabile in iure condito per almeno tre ragioni. Anzitutto perché, salvi i casi eccezionalmente previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., l’appello non è impugnazione rescindente, onde l’efficacia sostitutiva della pronuncia d’appello si ha anche in caso di rigetto dell’impugnazione, e non soltanto in ipotesi di accoglimento. In secondo luogo, perché il controllo in Cassazione della sentenza resa in seconde cure, proprio a cagione dell’efficacia sostitutiva della stessa, non può avere separatamente ad oggetto, da un lato, gli errori commessi nella ipotizzata fase rescindente di quest’ibrida forma di appello e, dall’altro lato, gli errori attinenti alla fase rescissoria, poiché le due fasi, come veduto, di regola nell’appello non esistono e, comunque, la seconda assorbe sempre la prima, sí che la sentenza d’appello va comunque soggetta ai consueti motivi di ricorso ex art. 360 c.p.c. In terzo luogo perché, a seguito della riforma, la sentenza del giudice di pace viene comunque sostituita dalla pronuncia resa in appello e un’eventuale cassazione di questa non può mai comportare una reviviscenza della sentenza di primo grado (cfr., ex plurimisCass., 13 maggio 2002, n. 6911;Id., 9 marzo 2001, n. 3475, in Giur. It., 2001, 1586 e in Giust. Civ., 2001, I, 2665, con nota di Tedesco).

(17) Cfr. le osservazioni contenute nel parere dell’Assemblea generale del 21 luglio 2005 sull’art. 1 della bozza di decreto legislativo, sulle quali v. anche Proto Pisani, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro It., 2005, V, 253, che — rievocando la proposta di Cappelletti (Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano, in Giur. It., 1969, IV, 81 e segg.) di abolire l’appello, trasformando le Corti d’appello in sezioni decentrate della Cassazione, destinate all’esame preliminare dei ricorsi (sull’inerente dibattito sia consentito rinviare, per maggiori ragguagli e per alcune osservazioni critiche, a Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 296 e segg.) — ravvisa nell’appello un filtro al ricorso per cassazione e si rammarica che la riforma non abbia considerato tutte le ipotesi di provvedimenti immediatamente ricorribili per cassazione, sparsi in varie norme dell’ordinamento. Sottolinea l’effetto-filtro dell’appello anche Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2006, 217 ss., 2006, § 1.

(18) Cfr. Cavallone, Costi delle disfunzioni della giustizia civile chi li sopporta?, in Riv. Dir. Proc., 1996, 260 e segg. Si noti peraltro come, nella recente riforma dell’ordinamento giudiziario, la Cassazione non veda aumentare il proprio organico: cfr. Cipriani e Impagnatiello, La Corte di cassazione, in Foro It., 2006, V, 37 e segg., ove si evidenzia che «nulla cambia sotto il profilo numerico: i settantaquattro magistrati d’appello e di tribunale attualmente in organico presso la Suprema corte e la relativa procura generale vengono sostituiti da trentasette magistrati di cassazione e trentasette magistrati di tribunale»; v., infatti, il D. Lgs. 23 gennaio 2006, n. 24 (in Gazz. Uff. n. 28 del 3 febbraio 2006) sulla modifica all’organico dei magistrati addetti alla Corte di cassazione, il Parere del C.S.M. datato 26 ottobre 2005 sullo schema di decreto, in Foro It., 2005, III, 24 e segg., nonché la tabella pubblicata a cura di Tricomi, Ridistribuite le forze alla Suprema corte con effetti da verificare sul campo, in Guida al Dir., fasc. 7 del 18 febbraio 2006, 90.

(19) Sull’art. 151 disp. att. c. p. c. v. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999, 133 e segg., dove ulteriori richiami.

(20) In Riv. Dir. Proc., 2005, 937 e segg.

(21) Lo ricorda anche Sassani, op.cit., § 2.

(22) A. Proto Pisani, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro It., 2005, V, 253 e seg., è perplesso sull’innovazione, stante l’estrema difficoltà di distinguere tra sentenza non definitiva su questioni e su domande, a seconda della concezione che si segua in tema di limiti oggettivi del giudicato, riguardo ai quali non esistono orientamenti consolidati né in giurisprudenza né in dottrina. E conclude che sarà buona cosa consigliare gli avvocati di effettuare sempre «riserva» contro tutte le sentenze non definitive per non sentirsi poi dire dalla Corte di cassazione che la sentenza era relativa a domanda e non a questione.

(23) Cfr., a composizione del precedente contrasto giurisprudenziale tra orientamento sostanziale e formale — su cui v. la felice sintesi di Montanari, in Consolo-Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, Milano, 2000, 1357 e segg., ove ulteriori richiami — Cass., Sez. un., 8 ottobre 1999, n. 711/SU e Id., Sez. un., 15 ottobre 1999, n. 712/SU, in Giust. Civ., 2000, I, 63, con nota adesiva di Califano e in Corriere Giur., 2000, 642, con nota parzialmente adesiva di Montanari e postilla di Consolo.

(24) Cosí, invece, Sassani, op.cit., in nota 6.

(25) Cfr. Bove, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1998, 423 e segg., che sottolinea l’immediata incidenza negativa della sentenza sulla parte soccombente, che non ha ragione di attendere l’esito finale di un processo per essa oramai conclusosi in senso pregiudizievole. Tra la giurisprudenza «sostanzialista» anteriore alla doppia conforme delle Sezioni unite v. Cass., 12 giugno 1992, n. 7225, in Foro It., 1993, I, 480, con nota critica di Cea, Sentenze definitive e non definitive: una «querelle» interminabile.

(26) Ché solo questa sopravvive all’estinzione, a norma dell’art. 310, 2° comma, c. p. c., anche quando si tratti di sentenze non definitive su questioni preliminari di merito: v. Cerino Canova, in Riv. Dir. Proc., 1971, 257 e seg.; Montanari, ivi, 1987, 375 e segg. e, in giurisprudenza, Cass., 21 giugno 1991, n. 7016, citata nella nota seguente.

(27) Cfr., mutatis mutandisCass., 21 giugno 1991, n. 7016, in Foro It., 1992, I, 2784, con breve nota adesiva di Balena.

(28) Cosí la Relazione Grassi in Le leggi, 1948, 544.

(29) Cosí la Relazione al Re per il c. p. c., n. 30.

(30) Giusta il titolo del celebre libro di Twining-Miers, How to Do Things with Rules. A primer of Interpretation, London, 1a ed. 1976, 2a ed. 1982, trad. it. di C. Garbarino, Milano, 1990, che riprendono l’ancor piú celebre scritto di Austin, How to Do Things with Words (1955), Oxford, 1962, trad. it. di C. Penco e M. Sbisà, Torino, 1987. Sull’intrinseca vaghezza delle norme basti ricordare Luzzati, La vaghezza delle norme, Milano, 1990.

(31) Olim si diceva che «quaestio facti est in arbitrio iudicis». «Sin autem de facto lis est: probationibus et confutationibus ponderatis ac invicem collatis sequetur motum animi sui, et quod credibilius videbitur pronunciabit. Siquidem.. facti quaestio in arbitrio iudicantis est»: cosí Vigelio, Dialecticae juris civilis, libri tres, Basileae, 1581, 497, riportato da Giuliani, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1971, 225, il quale, peraltro (a pag. 224), nota come nella procedura medievale, in realtà, l’arbitrium iudicis rappresentasse un modo per ovviare all’incertezza del diritto, tanto che la ricostruzione del fatto si risolveva in una valutazione del medesimo e la norma emergeva quasi dal procedimento probatorio. Il concetto classico della prova come argumentum — posto in crisi dall’Umanesimo, che vide nella certezza l’aspetto costitutivo del diritto e nell’arbitrium iudicis un pericolo da eliminare — è strettamente legato a un’idea del vero, rectius del probabile, eticamente impegnata, in cui il probabile non corrisponde all’id quod plerumque accidit, ma a ciò che è eticamente preferibile, secondo un sistema assiologico di valori che vivono nella disputa, nel dialogo, nella ricerca (v. pag. 231 e segg.). Anche Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione, inwww.judicium.it, 2006, § 6, riconosce che «la comparazione della giurisprudenza operante nel silenzio del codice del 1865, della giurisprudenza del primo decennio del nuovo codice… e di quella successiva all’ampliamento del motivo nel 1950, non permette di evidenziare sostanziali modifiche di impostazione. E ciò mostra una sostanziale indifferenza della Corte alle formule legislative relative al controllo della motivazione della sentenza», onde — sono ancora parole dell’Autore — «bisogna guardarsi da conclusioni affrettate sul senso da attribuire al mutamento di terminologia». Ed anche Consolo, Deleghe processuali, cit., 1191, si mostra scettico sulla portata innovativa della nuova formula.

(32) Sulla cosiddetta «nuova retorica» v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, trad. it. di C. Shick, M. Mayer ed E. Barassi, Torino, 1966, passim; Perelman, Giudizi di valore, giustificazione e argomentazione, in Perelman, Diritto, morale, filosofia, trad. it. di P. Negro, Napoli, 1973, 209 e segg. Anche Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999, 532 e segg., pur partendo da un’impostazione teorica lontana dalla Nouvelle Réthorique, mostra il carattere retorico delle giustificazioni interpretative giudiziali, che non presentano i requisiti richiesti dalle regole del discorso intersoggettivo razionale e sono connotate da una razionalità imperfetta.

(33) Il ragionamento abduttivo è tipico del metodo clinico (viene definito dai medici anche come «semiotica medica», cioè la scienza dello studio dei segni clinici) ed è il ragionamento su cui si è sviluppato anche il metodo investigativo che conduce alla formulazione del paradigma indiziario. Il termine «abduzione» fu coniato, nell’uso dei moderni filosofi del linguaggio, da Charles S. Peirce, On the Logic of Drawing History from Ancient Documents Especially from Testimonies, in C. S. Peirce, Collected Papers, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1931-1958 (trad. it. C. S. Peirce, Le leggi dell’ipotesi, Milano, 1984, 231 e segg.). Sull’inferenza abduttiva nel ragionamento dei giudici v. Ferrajoli, Diritto e ragione, Bari, 1989, 27; Pastore, Diritto, prova, ragion pratica, Milano, 1996, 191 e segg.; Pizzi, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in G. Ubertis (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, 209 e seg., secondo cui è preferibile vedere l’abduzione come inferenza dall’explanandum al migliore degli explanans, senza che si tratti necessariamente di un’inferenza causale inversa, poiché oltre alle leggi causali ci sono le leggi associative e funzionali, tanto che l’abduzione può essere meglio intesa come retroduzione, secondo il modello dell’apagoghé aristotelica.

(34) MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, Oxford, Clarendon Press, 1978, 88 e segg.; Id., La congruenza nella giustificazione giuridica, in MacCormick-Weinberger, Il diritto come istituzione, trad. it. di M. La Torre, Milano, 1990, 335 e segg. In tutt’altra ottica si pone Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 199 e segg., che ritiene possibile applicare al giudizio di fatto i metodi della logica formale. Per un’utile sintesi dei varî orientamenti cfr., Ubertis, La ricerca della verità giudiziale, in G. Ubertis (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, 1 e segg.

(35) Cfr., per tutti, Andrioli, Commento al c. p. c., II, Napoli, 1957, 508 e seg. In giurisprudenza v., perspicuamente ed ex plurimis, Cass., 28 febbraio 1992, n. 2476 («il vizio di omessa motivazione circa un elemento probatorio rileva quando esiste un rapporto di causalità logica tra la circostanza documentata, ma trascurata, e la decisione impugnata, tale da ritenere attraverso un giudizio di certezza, che la detta circostanza, se fosse stata valutata, avrebbe potuto comportare una diversa decisione»). Per un’estensione, peraltro solo apparente, dell’ambito applicativo dello ius corrigendi v. Cass., 21 dicembre 1999, n. 14421, secondo cui l’art. 384, 2° comma, c. p. c.,«nonostante la sua collocazione, ben può essere inteso come norma diretta ad impedire anche l’annullamento della sentenza per vizio di motivazione nell’ipotesi in cui una corretta ricostruzione giuridica renda irrilevante una diversa conclusione sul punto indicato dal ricorrente come incongruamente motivato» (la sentenza applica il principio al problema dell’esatta sussunzione della fattispecie in relazione all’appropriato termine di prescrizione estintiva).

(36) Insiste, invece, su questo aspetto Sassani, op.cit., § 6.

(37) Cosí sempre Sassani, op. loc. cit., che si riferisce a Cass., Sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761, in Foro It., 2002, I, 2019 e (quanto alla massima, anche) ivi, 2003, I, 604, con nota critica di Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile.

(38) Sulla distinzione tra errore di fatto revocatorio e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto (o un fatto) decisivo per la controversia v. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, 200 e segg.; Andrioli,Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 931 e seg.; Colesanti, voce «Sentenza civile (revocazione della)», in Noviss. Dig. It., XVI, Torino, 1969, 1168. In giurisprudenza v., ex plurimisCass., 6 febbraio 1993, n. 1503, in Foro It., 1995, I, 1617: «l’errore di fatto, ove risulti dagli atti e documenti di causa, può costituire motivo di revocazione solo se il fatto supposto vero o inesistente non abbia costituito punto controverso della causa, altrimenti l’errore è deducibile solo in Cassazione ove vi sia vizio logico di motivazione»; e ancora Cass., 12 marzo 1999, n. 2214: «non sussiste vizio revocatorio, ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., se la dedotta erronea percezione degli atti di causa — che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita — ha costituito un punto controverso ed ha formato oggetto di decisione nella sentenza impugnata, ossia è il frutto dell’apprezzamento del giudice delle risultanze processuali».

(39) Cfr., da ultimo, Cass., 26 giugno 2004, n. 11921;Id., 26 maggio 2004, n. 10172; nonché, proprio in tema di contratti collettivi nel pubblico impiego, Id., 22 luglio 2004, n. 13751, secondo cui, nel giudizio di legittimità, le censure relative all’interpretazione del contratto collettivo offerta dal giudice del merito possono essere prospettate esclusivamente sotto il profilo della mancata osservanza dei criterî legali di ermeneutica contrattuale o del vizio di motivazione, senza che tale principio possa subire deroga nel caso della contrattazione collettiva integrativa per gli enti pubblici non economici, atteso che l’art. 64, 4° comma, D. Lgs. n. 165 del 2001 prevede che il ricorso per cassazione possa essere proposto anche per violazione di legge o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali, ma non anche per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi integrativi, di cui all’art. 40 dello stesso D. Lgs.; analogamente Cass., 17 agosto 2004, n. 16059.

(40) In Riv. Dir. Proc., 2005, 936.

(41) Per comodità del lettore riportiamo per esteso l’art. 420 bisc. p. c. ed i commi dell’art. 64 D. Lgs. 165/2001, richiamati dall’art. 146 bis disp. att. c. p. c.: «Articolo 420 bis (Accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi.) Quando per la definizione di una controversia di cui all’articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza. Copia del ricorso per cassazione deve, a pena di inammissibilità del ricorso, essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle altre parti; il processo è sospeso dalla data del deposito». L’art. 146 bis disp. att. c. p. c. rinvia all’art. 64, 4°, 6°, 7° e 8° comma, D. Lgs. 165/2001, in quanto compatibili: «4. La Corte di cassazione, quando accoglie il ricorso a norma dell’art. 383 del codice di procedura civile, rinvia la causa allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. La riassunzione della causa può essere fatta da ciascuna delle parti entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di cassazione. In caso di estinzione del processo, per qualsiasi causa, la sentenza della Corte di cassazione conserva i suoi effetti. 6. In pendenza del giudizio davanti alla Corte di cassazione, possono essere sospesi i processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi. Intervenuta la decisione della Corte di cassazione, il giudice fissa, anche d’ufficio, l’udienza per la prosecuzione del processo. 7. Quando per la definizione di altri processi è necessario risolvere una questione di cui al comma 1 sulla quale è già intervenuta una pronuncia della Corte di cassazione e il giudice non ritiene di uniformarsi alla pronuncia della Corte, si applica il disposto del comma 3. 8. La Corte di cassazione, nelle controversie di cui è investita ai sensi del comma 3, può condannare la parte soccombente, a norma dell’art. 96 del codice di procedura civile, anche in assenza di istanza di parte». Sull’art. 64 D. Lgs. 165 del 2001 e sulle numerose perplessità suscitate dalla complessa normativa v., si vis, Tedoldi, Appunti sul processo del lavoro, in Giur. It., 2002, 1553 e segg., ove ulteriori richiami giurisprudenziali e dottrinali.

(42) Chiaro lascito questo non soltanto dell’età della decodificazione, ma di un certo qual nichilismo giuridico, onde le norme dal nulla vengon tratte e nel nulla ritornano, secondo una moderna metodologia produttivistica (v., per tutti, Irti, Nichilismo giuridico, Bari, 2005, passim; e, già in precedenza, Id., L’età della decodificazione, Milano, 1999, passim, nonché, da ultimo, Id., Solitudine del diritto, in Notizie di Politeia, 2005, n. 80, 8 e segg.).

(43) Sottolineata da Tarzia, Il giudizio di cassazione nelle proposte di riforma, in Riv. Dir. Proc., 2003, 206 e seg.

(44) Corte cost., 5 giugno 2003, n. 199, in Foro It., 2003, I, 2232 ha, per vero, respinto o dichiarato inammissibili per difetto di rilevanza questa ed altre obiezioni d’incostituzionalità sollevate contro l’art. 64 D. Lgs. 165/2001, poiché, pur riconoscendo che la singola controversia possa subire un iter piú lungo di quello (che sarebbe stato) normale, appartiene alla discrezionalità del legislatore optare per una soluzione che, a fronte di un modesto sacrificio del singolo, sia idonea a produrre in termini di certezza (e, quindi, tra l’altro, di prevenzione di imponenti contenziosi e di piú agevole definizione di altre controversie pendenti) rilevanti vantaggi di carattere generale. Tuttavia, questa motivazione di economia esoprocessuale non pare di per sé bastevole a giustificare la forzata e non breve attesa della parte che chiede tutela, dacché il principio di ragionevole durata del processo, fissato nell’art. 111, 2° comma, Cost. e nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (C.E.D.U.), è volto anzitutto alla garanzia dell’individuo, com’è proprio di ogni Stato di diritto: garanzia che non può esser sacrificata da esigenze di organizzazione complessiva delle attività statali, ivi inclusa l’attività di ius dicere. È il singolo processo, insomma, a dover essere di ragionevole durata, com’è confermato da diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, accordato alla parte dalla L. 24 marzo 2001, n. 89 qualora il termine ragionevole venga oltrepassato: la legge deve far di tutto per assicurare che la parte consegua nel minor tempo la tutela della propria situazione sostanziale, senza forzosi arresti non strettamente indispensabili per la decisione della sua specifica lite e senza curarsi dei problemi inerenti alle diverse controversie, ancorché di egual natura o contenuto. Sicché la sospensione automatica del processo di primo grado in attesa della pronuncia della Cassazione sulla quaestio di esegesi contrattuale, quando la stessa questione potrà giungere alla Suprema Corte attraverso i consueti gradi di impugnazione, non sembra soluzione conforme al principio di ragionevole durata.

(45) V. Corte cost., 5 giugno 2003, n. 199, cit., secondo cui siffatto meccanismo opera soltanto in presenza di una «seria» questione interpretativa e, può aggiungersi, sempre che la domanda sia concludente e non sussistano eccezioni, di rito o di merito, che ne impongano l’immediato rigetto.

(46) In Riv. Dir. Proc., 2005, 931 e seg.

(47) Cass., Sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888, in Foro It., 1992, I, 1737, con nota critica di Barone, in Corriere Giur., 1992, 751, con nota critica di Mandrioli, in Giust. Civ., 1992, I, 1444 e in Giur. It., 1992, I, 1, 1671. Sul ricorso straordinario per cassazione v. ora, Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005.

(48) V., ampiamente, Tiscini, op. cit., 65 e segg. e 101 e segg.

(49) Cfr. Tiscini, op. cit., 367 e segg.

(50) V. il passo della «Relazione sull’attività giudiziaria nell’anno 2005» del Primo Presidente Nicola Marvulli, che val la pena trascrivere per esteso: «… particolare menzione merita una iniziativa, frutto di lunga ed attenta preparazione, che si è potuta concretamente realizzare soltanto nel maggio del 2005, quando cioè si è ottenuta la disponibilità di adeguati locali e dei necessarî supporti tecnici: si tratta della struttura unificata per l’esame preliminare dei ricorsi civili e per la loro trattazione immediata in camera di consiglio, allorquando si ravvisa la loro manifesta infondatezza o la loro manifesta fondatezza o altre causa di inammissibilità. Abbiamo voluto sperimentare nel civile, con i necessari adattamenti, quello che si era già realizzato, con effetti altamente positivi, nel settore penale, cioè un’organica, stabile struttura che pur nel doveroso rispetto delle competenze attribuite alle singole sezioni, fosse in grado di concentrare la sua attenzione a tutti i ricorsi che quotidianamente pervengono alla Corte, per poi distinguere quelli che devono essere trasmessi alle singole sezioni da quelli che possono essere definiti in camera di consiglio ed in soli cinque mesi questa struttura, composta da 6 presidenti e da 4 consiglieri di ciascuna delle 5 sezioni civili ha proceduto all’esame di 13.530 ricorsi, ad una media di 200 ricorsi alla settimana, definendone in camera di consiglio 3.870, e cioè oltre il 28 dei ricorsi esaminati. I ricorsi definiti sono quelli che concernono materie nelle quali nelle fasi di merito si sono prospettate questioni di fatto e le questioni di diritto sollevate dai ricorrenti si prestano ad agevoli soluzioni da parte dei consiglieri che vantano una forte esperienza nei singoli settori. Va peraltro rilevato che la recentissima riforma legislativa del processo civile in cassazione lungi dal non armonizzarsi con questa importante iniziativa organizzativa, incrementerà gli effetti positivi, anche per effetto della modifica del modulo di decisione del ricorso in camera di consiglio, in quanto il consigliere relatore dovrà depositare in cancelleria una relazione nella quale indicherà le ragioni sulle quali è destinata ad incentrarsi la futura decisione del ricorso e tale relazione, comunicata alle parti, offrirà loro la possibilità di aderire o contestare il suo contenuto, con la conseguenza che il procedimento di decisione sarà piú rapido e le motivazioni non saranno sottratte ad un preventivo esame delle parti, nel piú ampio rispetto del contraddittorio».

(51) Sul tema v. Iadecola, Le misure restrittive del «pacchetto sicurezza»: il giudizio in cassazione (commento alla l. 26 marzo 2001, n. 128), in Dir. Pen. e Proc., 2001, 948 e segg.

(52) Art. 978, 2° comma, N. c. p. c.: «A peine d’être déclaré d’office irrecevable un moyen ou un élément de moyen ne doit mettre en oeuvre qu’un seul cas d’ouverture. Chaque moyen ou chaque élément de moyen doit préciser, sous la même sanction: — le cas d’ouverture invoqué; — la partie critiquée de la décision; — ce en quoi celle-ci encourt le reproche allégué». V. Sassani, op. cit., in note 11 e 20. Su questi aspetti della disciplina francese v. J. Boré e L. Boré, La cassation en matière civile, Paris, 2003, §§ 81.81 e segg., dove, peraltro si sottolinea che «la méthode de division des griefs imposée par le texte a, en contrepartie, l’inconvénient de conduire à une multiplication des branches de moyen ayant le même objet. Il est rare en effet qu’un grief existe à l’état pur, une première erreur en engendrant souvent une seconde», avvertendo il rischio che la regola, se applicata senza discernimento, generi «l’ère du “moyen-hérisson”, comportant de multiples branches» e si traduca in un allungamento dei tempi del processo, onde evitare il quale occorre che all’esigenza di specifica indicazione si accompagni la necessaria concisione dei motivi di ricorso.

(53) Cfr. J. Boré e L. Boré, op. cit., §§ 70.01 e segg.

(54) Cfr. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2006, 157. Il primo Presidente della Suprema Corte di cassazione, nella Relazione pronunciata il 27 gennaio 2006 per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha sottolineato che «la maggior produttività della Corte, lungi dall’aver negativamente influito sul rigore logico-giuridico delle sue decisioni, si è invece coniugata con un elevato tasso di persuasività, sicché possiamo ben dire di aver saputo essere piú efficienti, rimanendo gelosi custodi delle nostre tradizioni e, soprattutto artefici di quello sviluppo fisiologico della giurisprudenza, illuminato alla costante fedeltà alla legge».

(55) Si deve, infatti, distinguere nel ragionamento probatorio tra «logica della scoperta» e «logica della giustificazione»: la prima concerne il procedimento attraverso il quale il giudice giunge alla formulazione mentale delle conclusioni sul caso; la seconda si concentra, invece, sul procedimento di controllo e giustificazione di tali conclusioni (v. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, 136 e seg.;Comanducci, op. cit., 229 e seg.; Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 56 e segg.).

(56) Come fa Comanducci, op. cit., 225, avendo cura di precisare che la distinzione è comunque opportuna, sul piano metodologico, a fini sia esplicativi sia normativi. Sul sillogismo giudiziario v., in senso fortemente critico, la classica monografia di Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, 2a ed. 1964, spec. 33 e segg., nonché l’importante scritto di J. Wròbelsky, Il sillogismo giuridico e la razionalità della decisione giudiziale, in Comanducci e Guastini, L’analisi del ragionamento giuridico, II, Torino, 1989, 267 e segg. Sui temi sintetizzati nel testo v., ampiamente, Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, passim e spec. 112 e segg.

(57) V., in tal senso, Diciotti, op. cit., 162, ove ulteriori citazioni.

(58) V. Zaccaria, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria del diritto contemporanea, in Riv. Dir. Civ., 1989, 342 e segg., sulla scorta degli insegnamenti della scuola ermeneutica tedesca.

(59) Anche Consolo, Deleghe processuali, cit., 1192, nota che qui siamo «al confine fra inammissibilità del motivo e sua infondatezza e si apriranno delicate questioni sulla possibilità per la Suprema Corte, se la illustrazione della «inidoneità» è presente ma non persuade, di valutare o meno altre ragioni per cui quella insufficienza motivatoria non si ritenga in concreto tollerabile ed innocua, con qualche rischio di derapage verbalistico».

(60) Simili perplessità sollevammo già nel precedente scritto, in Riv. Dir. Proc., 2005, 934, in linea con autorevole dottrina (Tommaseo, La riforma del ricorso per cassazione: quali i costi della nuova nomofilachia?, inGiur. It., 2003, 827).

(61) La Corte costituzionale costantemente afferma che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, tenendo conto delle finalità che, attraverso i principî ed i criterî enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste e tenendo altresí conto che le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principî e criterî (v. Corte cost., 17 ottobre 2000, n. 425, in Foro It., 2000, I, 3045; Id., 5 febbraio 1999, n. 15, in Giust. Civ., 1999, I, 936), in quanto la delega legislativa non fa venir meno ogni discrezionalità del legislatore delegato, che risulta piú o meno ampia a seconda del grado di specificità dei principî e criteri fissati nella legge delega (cfr. Corte cost., 14 novembre 2000, n. 490); sicché, per valutare di volta in volta se il legislatore delegato abbia ecceduto tali — piú o meno ampî — margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente (Corte cost., 31 maggio 2000, n. 163, in Foro It., 2000, I, 2428).

(62) «Il ricorrente che in sede di legittimità denunci che, contro le risultanze testuali ricavabili dalla prova documentale, il giudice di merito è incorso in errore traducentesi in vizio della motivazione, ha l’onere, in forza del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare con chiarezza il documento ed il passo dello stesso sul quale si sarebbe determinata l’erronea valutazione» (cosí, ex plurimis, Cass., 19 maggio 2005, n. 10598).

(63) Nei primi autorevoli commenti si sottolinea che «forse l’occasione piú propizia all’esercizio del nuovo potere è proprio la decisione in camera di consiglio, cioè la sede elettiva delle declaratorie di inammissibilità e di infondatezza palesi e, quindi, della consacrazione della colpa grave sotto il profilo dell’abuso del diritto di impugnazione» (cosí Sassani, op. cit., § 12).

(64) La tetragona giurisprudenza che esige la specifica prova dei danni da lite temeraria mostra, di recente, qualche incrinatura. Si è ritenuto, ad esempio, che «ai fini della quantificazione del danno la Corte può fare riferimento a nozioni di comune esperienza, tra cui il pregiudizio che la controparte subisce per il solo fatto di essere stata costretta a contrastare un’ingiustificata iniziativa dell’avversario, non compensata, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese e degli onorari del procedimento stesso» (cosí Cass. 24 febbraio 2000, n. 16); v. anche Trib. Bologna, 27 gennaio 2005, in Resp. Civ. e Prev., 2005, 1423, con nota diPulsoni, Danno esistenziale e responsabilità processuale aggravata, secondo cui «oltre al danno patrimoniale può essere risarcito il danno esistenziale derivante alla persona che sia immotivatamente aggredita sul piano processuale. La prova del danno derivante da responsabilità processuale può desumersi da elementi rientranti nella comune esperienza».

(65) V. Tedoldi, La delega, cit., 934 e seg., richiamando l’autorevole opinione di Tommaseo, op. cit., 827.

(66) In Riv. Dir. Proc., 2005, 940 e segg.

(67) V. il già ricordato Parere del 21 luglio 2005, cui hanno dato convinto e autorevole sostegno Chiarloni, Prime riflessioni su recenti proposte di riforma del giudizio di cassazione, in Giur. It., 2003, 818, e Consolo,Deleghe processuali, cit., 1193, sia pure per ragioni parzialmente diverse e piú articolate di quelle sinteticamente addotte dall’Assemblea Generale della Corte.

(68) Secondo Proto Pisani, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro It., 2005, V, 254 (che richiama una propria nota redazionale in Foro It., 1987, I, 746; ma v. anche Id., Su alcuni problemi organizzativi della Corte di cassazione: contrasti di giurisprudenza e tecniche di redazione della motivazione, in Foro It., 1988, V, 28 e seg.), questo vincolo era già desumibile dall’art. 376, 3° comma, se interpretato alla luce della funzione nomofilattica della Corte.

(69) Cfr. Luiso, Il vincolo delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite, in Giur. It., 2003, 822.

(70) Cfr., in tal senso, la Relazione al Progetto Vaccarella, riportata in Tedoldi, La delega, cit., 948 e segg., cui sia consentito rinviare anche per ulteriori considerazioni.

(71) Contra Proto Pisani, Novità, cit., 254 che, pur a fronte del dettato normativo, ritiene che la pronuncia della Corte possa «comportare poi delle ricadute nel procedimento di merito giustificando la revoca del provvedimento camerale e, talora, anche del provvedimento cautelare». Consolo, Deleghe processuali e partecipazione alla riforma della Cassazione e dell’arbitrato, in Corriere Giur., 2005, 1191 e seg. — che ritiene il ricorso del P. G. nell’interesse della legge un «tassello tipico del modello originario della Cassazione datata 1790 ed esempio da manuale di ramo secco normativo e quasi di eco paleontologico di un fugace mondo parigino di fidente anelito alla palingenesi della esperienza giuridica (centrata altresí sul référé legislativo, abolito — invece — espressamente)» — si mostra favorevole alla revoca del provvedimento camerale da parte del giudice che lo emise, stante la libera modificabilità e revocabilità dello stesso, ma esclude la revoca dei provvedimenti cautelari.

(72) V. quanto osservava, quasi mezzo secolo fa e senza mezzi termini, Andrioli, Commento al c. p. c., II, Napoli, 1957, 527: «soltanto il disordine giuridico, nel quale il nostro Paese si è dibattuto, poteva rilucidare a nuovo il vecchio arnese, a proposito del quale, in tempi normali, si può e si deve ripetere che, non potendo le parti giovarsi della cassazione della sentenza, l’eventuale annullamento nel solo interesse della legge fa sentire agli interessati in modo piú cocente la ingiustizia della risoluzione del caso singolo».

(73) Ai sensi dell’art. 151-1 del Code de l’organisation judiciaire, «avant de statuer sur une question de droit nouvelle, présentant une difficulté sérieuse et se posant dans de nombreux litiges, les juridictions de l’ordre judiciaire peuvent, par une décision non susceptible de recours, solliciter l’avis de la Cour de cassation qui se prononce dans le délai de trois mois de sa saisine». Per questi tre mesi il procedimento è sospeso, salva l’adozione di provvedimenti conservativi o d’urgenza, ma «l’avis rendu ne lie pas la juridiction qui a formulé la demande» (v. gli artt. 151-1 e segg. del Code de l’organisation judiciaire, nonché gli artt. 1031-1 e segg. del Nouveau Code de procédure civile). Favorevole alla saisine pour avis è Tommaseo, op. cit., 827. Su di essa v., amplius, Giordano, La «saisine pour avis» alla Corte di cassazione francese, inRiv. Dir. Proc., 2005, 122 e segg.; Normand, La richiesta di parere alla Corte di cassazioneivi, 1998, 137 e segg.

(74) V., ad esempio, sulla precedente versione dell’art. 363 c.p.c. De Cristofaro, in C. Consolo e F. P. Luiso (a cura di), C.p.c. commentato, I, Milano, 2000, 1842: «l’istituto non ha di fatto trovato quasi mai pratica attuazione». Consolo, Deleghe processuali cit., 1192 esprime una prognosi scettica di funzionamento di questa sorta di «certiorari all’italiana», cioè di «campo di ricerca del miglior confine fra tacere e parlare e di sapienza meglio distillata proprio per non parlare al vento», prevedendone un utilizzo almeno nei casi di provvedimenti revocabili e di liti ricorrenti o seriali. Il writ of certiorari è un sistema di selezione discrezionale dei ricorsi adottato dalla U.S. Supreme Court e basato sul quanto mai vago presupposto delle «gravi ragioni»: per ulteriori notizie v. Tiscini, Il ricorso straordinario per cassazione, Torino, 2005, 269 e segg.; Barsotti, L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte suprema degli Stati Uniti, Torino, 1999; Tirio, Il writ of certiorari davanti alla Corte Suprema. Principî, strategie, ideologie, Milano, 2000; Mattei,L’imperialismo del writ of certiorari: il tramonto della giurisdizione obbligatoria nella U.S. Supreme Court, in Riv. Dir. Civ., 1990, 131 e segg.

(75) V. Tedoldi, La delega, cit., 945. Sul tema v. amplius De Cristofaro, L’edificazione della Corte suprema tra risolutezza e «timidezze» del legislatore delegato, in Corriere Giur., 12, 2005, 1762 e segg., nonché la recente e corposa opera monografica di Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, II, Torino, 2005, spec. 729 e segg., con ampî riferimenti dottrinali anche al classico dibattito sulla distinzione tra norme processuali e norme sostanziali e tra errores in procedendo ed errores in iudicando.

(76) Cosí De Cristofaro, op. ult. cit., 1763, sulla scorta di Tarzia, Il giudizio di cassazione nelle proposte di riforma del processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2003, 207.

(77) Mostra segni di apertura in tal senso, se ben intendiamo, De Cristofaro, op. loc. ult. cit., che ricorda le non frequentissime ipotesi, già emerse nella prassi, in cui la cassazione per vizî di rito, o anche per vizî di motivazione, sia tale da offrire comunque alla Suprema Corte un panorama fattuale autosufficiente per la pronuncia nel merito. In realtà, ci sembra che due delle fattispecie ricordate da De Cristofaro (Cass., 6 febbraio 1997, n. 1130, in Giur. It., 1997, I, 1, 1310 e Id., 24 giugno 1996, n. 5827, che a nostra volta richiamavamo in Riv. Dir. Proc., 2005, 945 e seg., note 36 e 37) concernano due classici casi di error in iudicando de iure procedendi; invece, la fattispecie decisa da Cass., 4 novembre 2004, n. 21100, attiene non già ad un quadro fattuale non controverso, ma al venir meno dell’interesse a esperire l’azione di simulazione e l’azione revocatoria ex art. 2901 c. c., perché il credito, a tutela del quale esse erano state promosse dalla banca attrice, era stato interamente e senza riserve soddisfatto dai debitori nelle more del giudizio di cassazione, che pertanto avrebbe dovuto piú esattamente concludersi con una declaratoria di cessazione della materia del contendere, anziché con un rigetto (per di piú nel merito) della domanda per sopravvenuto difetto di interesse; tant’è che la Corte, in motivazione, esamina egualmente i motivi di ricorso, per statuire sulle spese (peraltro compensate) secondo il consueto criterio della soccombenza virtuale.

(78) V. Bove, Sul potere della Corte di cassazione di decidere nel merito la causa, in Riv. Dir. Proc., 1994, 713 e segg.; Id., La Corte di cassazione come giudice di terza istanza, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2004, 966 e segg.; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 1999, 438 e seg. Su questa tesi v. ora l’analisi di Panzarola, La Cassazione civile cit., II, 816 e segg. e, per uno sguardo comparativo, Caponi, La decisione della causa nel merito da parte della Corte di cassazione italiana e del Bundesgerichtshof tedesco, in Dir. e Giur., 1996, 34 e segg.

(79) V., infatti, in prima battuta Sassani, op. cit., § 9; nello stesso senso, sia pure en passant, Proto Pisani, Novità, cit., 255, § 9.

(80) V. il consolidato orientamento giurisprudenziale attestato da Cass., 12 agosto 2003, n. 12089;Id., 14 maggio 2003, n. 7451; Id., 4 dicembre 2002, n. 17221. In dottrina v., da ultimo, Panzarola, op. cit., II, 822 e segg.

(81) V., ex plurimis, Cass., 24 gennaio 1996, n. 540 («il giudice di rinvio, nei casi di cassazione della sentenza per vizio di motivazione, può liberamente valutare i fatti già accertati e le prove acquisite»); Id., 6 aprile 2004, n. 6707 («I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384, 1° comma, c. p. c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nella seconda ipotesi, il giudice non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza ipotesi, la potestas iudicandi del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse»). Sul tema ci permettiamo di rinviare, anche per alcune considerazioni critiche, a Tedoldi,Note intorno all’istruzione probatoria nelle impugnazioni a critica vincolata, in Riv. Dir. Proc., 2000, 1143 e segg., spec. 1149.

(82) Cfr., per tutti, Fazzalari, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960, 123; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 1999, 414 e 426. L’inosservanza dell’ordine di integrazione del contraddittorio non costituisce ipotesi di estinzione, ma di inammissibilità del ricorso, a norma dell’art. 331, ultimo comma, c.p.c. Alcune pronunce, tuttavia, hanno dichiarato l’estinzione sui generis del giudizio, con le forme semplificate della camera di consiglio, in caso di cessazione della materia del contendere: cfr. Cass., ord., 30 maggio 2003, n. 8822, in Foro It., 2004, I, 1225 (con nota di richiami anche al contrario orientamento di Cass., Sez. un., 18 maggio 2000, n. 368/SU, in Foro It., 2001, I, 956, con nota di Scala, Sulla dichiarazione di cessazione della materia del contendere nel processo civile, e in Corriere Giur., 2000, 1181, con nota di Dalla Massara, Le sezioni unite si pronunciano in tema di cessazione della materia del contendere in seguito a transazione, e in Giur. It., 2001, 24, con nota di Consolo, Cassazione senza rinvio e cessazione della materia del contendere: prospettive evolutive, la quale propende per una declaratoria di inammissibilità del ricorso, senza peraltro che la pronuncia impugnata passi in giudicato); nel senso dell’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere v. anche Cass., ord., 12 marzo 2002, n. 3645, nonché Cass., 9 gennaio 2003, n. 130, secondo cui la cessazione della materia del contendere costituisce «una fattispecie sui generis di estinzione del processo, dalla quale consegue la caducazione di tutte le sentenze emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata».

(83) V. Cass., Sez. un., 30 dicembre 2004, n. 24170: «benché non espressamente previsto dall’art. 391 bis c. p. c., anche le ordinanze rese dalla corte di cassazione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 stesso codice, sono assoggettabili al rimedio della revocazione, pur sempre circoscritta ai casi dell’errore di fatto configurato dall’art. 395, n. 4, codice di rito»; Id., Sez. un., ord., 25 giugno 2002, n. 9287; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1373, in Giur. It., 2000, 2254.

(84) Cfr. Sassani, op. cit., § 11.2.

(85) V. Cass., Sez. lav., ord., 2 novembre 2000, in Foro It., 2000, I, 3452: «il collegio, investito della cognizione del ricorso per revocazione di sentenza della Corte di cassazione, ove ritenga, in camera di consiglio, l’insussistenza delle ipotesi indicate nel 1° comma dell’art. 375 c.p.c., deve rinviare la causa alla pubblica udienza». Contra, in esplicito dissenso rispetto all’ordinanza interlocutoria testé ricordata, Id., Sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7802, secondo cui «la sentenza che statuisce sull’istanza di revocazione proposta avverso una pronuncia emessa dalla corte di cassazione, qualunque sia il suo contenuto, deve essere emessa in camera di consiglio, a norma dell’art. 391 bis c. p. c., in ogni caso, e non solo se ricorre una delle ipotesi previste dall’art. 375 c.p.c.»; nonché Id., Sez. lav., 9 gennaio 2002, n. 179, in Foro It., 2002, I, 1787 («a norma del 2° comma dell’art. 391 bis c. p. c., la cassazione pronuncia in camera di consiglio sia allorché debba pronunciare l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso, sia allorché, revocata la sentenza, debba giudicare nel merito, accogliendolo o rigettandolo»).

(86) Giudicato da Cass., Sez. un., 10 ottobre 1997, n. 9862 pienamente conforme agli artt. 3 e 24 Cost., venendo assicurate le garanzie della difesa e del contraddittorio.

(87) Cosí Cass., 28 aprile 2004, n. 8098;v. anche Id., 8 giugno 2001, n. 7802; Id., 2 aprile 1998, n. 3421.

(88) Per un caso di revocazione del provvedimento impugnato, con successivo rigetto dell’originario ricorso v. Cass., Sez. lav., 9 gennaio 2002, n. 179, in Foro It., 2002, I, 1787. V. anche Cass., 3 settembre 2002, n. 12816, in Giur. It., 2003, 1350, secondo cui «il ricorso per revocazione di una sentenza della Corte di cassazione è soggetto, a pena di inammissibilità, alle stesse regole del ricorso per cassazione, tra le quali vi è il principio dell’autosufficienza proprio del ricorso per cassazione; ne discende che esso è inammissibile quando contenga solo la domanda di revocazione della sentenza, idonea a provocare la fase rescindente del giudizio, ma non contenga la domanda di decisione sull’originario ricorso, riproponendone gli argomenti, in quanto un ricorso siffatto non è idoneo ad attivare la eventuale, successiva fase rescissoria».

(89) Cfr. Cass., ord., 30 aprile 2005, n. 9027, in Guida al Dir., 2005, fasc. 20, 29: «È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all’articolo 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 391 bis del c. p. c., nella parte in cui non prevede la revocazione della sentenza resa dalla Corte di cassazione che è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione».

(90) Cass., 22 luglio 2003, n. 11352 aveva, per vero, già ritenuto astrattamente ammissibile l’opposizione di terzo contro le sentenze sostitutive di merito emesse dalla Suprema Corte.

(91) Cfr. Cass., 21 gennaio 1993, n. 705 (in motivazione), in Foro It., 1993, I, 2739 («il procedimento di revocazione di sentenze pronunziate dalla corte di cassazione si svolge nelle forme proprie del giudizio di legittimità»).

(92) V. Cass., 27 gennaio 1993, n. 1022, in Giur. It., 1993, I, 1, 2124 («l’art. 398, 3° comma, a norma del quale l’atto introduttivo della impugnazione per revocazione deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura speciale, trova applicazione anche nel caso di revocazione contro sentenze della corte di cassazione, senza che a tal fine possa essere utilizzata la procura speciale rilasciata per il pregresso ricorso in cassazione»).

(93) Cfr., sull’opposizione del litisconsorte necessario pretermesso contro una sentenza d’appello, 24 febbraio 1995, n. 2134 (obiter dictum); Cass., 10 maggio 1985, n. 2918;Id., 16 luglio 1983, n. 4896; Id., 9 giugno 1969, n. 2033, in Giust. Civ., 1969, I, 2029. In dottrina cfr. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze, cit., 254 ss.

(94) Cfr. Consolo, op. loc. ult. cit.

(95) Si discute se questa dichiarazione d’inefficacia del provvedimento sia limitata al terzo opponente o si estenda anche alle parti: nel senso dell’inefficacia relativa è la prevalente dottrina (cfr. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., 957 e segg.; Satta, Commentario al c.p.c., II, 2, Milano, 1966, 364, che ulteriormente distinguono a seconda che opponente sia un creditore, cui solo inerirebbe la declaratoria d’inefficacia, o un avente causa, la cui opposizione estenderebbe i suoi effetti anche alle parti originarie); nel senso dell’inefficacia anche per le parti originarie è la giurisprudenza (v. Cass., 27 giugno 1988, n. 4324, in Giust. Civ., 1989, I, 2175, con nota di Zumpano, Sugli effetti della sentenza che accoglie l’opposizione di terzo ex art. 404 comma 2 c. p. c., ove ulteriori richiami).

(96) Su di essa v. ampiamente Briguglio, La pronuncia in camera di consiglio della Corte di cassazione (riflessioni sul nuovo art. 375 c. p. c.), in Riv. Dir. Proc., 2001, 1006 e segg.; Besso, Giudizio di cassazione e rito camerale, in S. Chiarloni (a cura di), Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, Torino, 2002, 50 e segg.; Civinini, Il nuovo art. 375 c. p. c.: il diritto a un processo in tempi ragionevoli in Cassazione, in Foro It., 2001, V, 150 e segg.

(97) Cfr. Sassani, op. cit., § 11, il quale, in nota, iscrive questa relazione «nella prospettiva di focalizzazione guidata del contraddittorio di cui eminente espressione è il decreto di fissazione d’udienza del rito societario» (art. 12 D. Lgs. n. 5/2003).

(98) Sul Regolamento gregoriano v. Menestrina, Il processo civile nello Stato Pontificio, ora riprodotto in Giuliani-Picardi (a cura di), Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio Papa XVI (1834), Milano, 2004, 51 e seg. e 88 e segg.

(99) Cfr. Consolo, Deleghe processuali, cit., 1194; Proto Pisani, Le novità, cit., 255.

(100) Cfr. Sassani, op. cit., § 15.

(101) Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 465 e segg.; e v., infatti, nel senso del testo Id., Le deleghe processuali, cit., 1193.

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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