Antonio Albanese, La donazione di contratto
a) Il tema dell’ammissibilità di una donazione di contratto incide su quello, più ampio, del reperimento della causa della cessione del contratto in generale
Se, infatti, risolto positivamente, esso contraddice sia la diffusa idea che la causa sarebbe sempre la stessa e costante in ogni negozio di cessione, sia la concezione che all’opposto, negando una causa tipica, ravvisa una causa «variabile» che segue quella del contratto ceduto.
b) La cessione a titolo gratuito di un contratto oneroso dimostra che la causa della cessione può essere slacciata dalla causa del contratto-base
La cessione del contratto ha quindi una causa in concreto variabile, ma autonoma da quella del singolo contratto-base ceduto. Pertanto, la causa in concreto della cessione va vagliata caso per caso, avendo riguardo alla combinazione causale del negozio di cessione e del negozio ceduto.
c) Per determinare il carattere oneroso o gratuito della cessione occorre procedere ad una valutazione dell’insieme delle prestazioni rispettivamente a carico delle due parti
Se risulta che la cessione è stata fatta a titolo oneroso, il cedente, ai sensi del 1° comma dell’art. 1410 c.c., sarà «tenuto a garantire la validità del contratto»; se invece emerge la natura gratuita, il cedente risponderà solo nei limiti di cui all’art. 797 c.c.
d) Quando il contratto da cedere è a titolo oneroso, ne va ammessa sia la donazione diretta, da stipulare per atto pubblico e alla presenza dei testimoni, sia la donazione indiretta
In entrambi i casi, si apre il problema dell’applicazione delle norme in materia di riduzione e di collazione all’apertura della successione del cedente/donante. Il nostro ordinamento non consente, invece, la cessione (gratuita o onerosa) di contratti gratuiti.
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>> 1. La causa della cessione del contratto
>> 2. La cessione gratuita del contratto
>> 3. La cessione del contratto gratuito
1. La causa della cessione del contratto
Il tema della cedibilità a titolo liberale o gratuito di una posizione contrattuale, sebbene trascurato in letteratura, gioca un ruolo decisivo nel reperimento della stessa causa della cessione del contratto.
Un vero e proprio problema di definizione della causa del contratto di cessione, a ben vedere, si pone solo perché è ormai acclarato, nella moderna elaborazione dell’istituto, che esso mira a trasferire ad un terzo l’intera posizione contrattuale del cedente.
Chi, invece, esclude un tale effetto, perché segue ancora la tesi atomistica, la quale ravvisa nella cessione una combinazione di accollo dei debiti e cessione dei crediti, non si pone alcun problema in ordine alla acausalità, astrattezza o genericità della cessione, poiché identifica la causa del contratto di cessione con la causa dei singoli rapporti di debito e credito ([1]).
Ben più variegato è il quadro delle soluzioni possibili, invece, una volta riconosciuto che il cessionario subentra nell’intera posizione occupata dal cedente nel contratto-base ([2]).
Si può sostenere che la tipica causa del contratto di cessione sia proprio il subingresso del terzo nella posizione contrattuale o, con parole diverse, il trasferimento della posizione di parte ([3]). Ma questa idea è accettabile solo se il riferimento è alla causa in astratto, intesa quale tipo legale: la funzione economico-sociale della cessione del contratto, in questi termini, è costantemente la stessa in ogni ipotesi, e consiste nell’attuazione della successione a titolo particolare nel rapporto obbligatorio ([4]).
Né sfugge ai limiti di una concezione astratta della causa la sottotesi, più accettabile sul piano descrittivo, che inquadrando la cessione tra i negozi di alienazione fa consistere la causa nello scambio tra prezzo della cessione e sostituzione nella qualità di parte ([5]). La cessione può anche essere gratuita, giacché la onerosità prescritta dalla legge non riguarda la cessione stessa ma solo il contratto ceduto, sicché non sempre sussiste un prezzo della cessione.
È invece esatto che la cessione è sempre un negozio di alienazione (a titolo oneroso o gratuito); ma così non si risolve il problema della qualificazione della effettiva operazione economica posta in essere dalle parti.
A queste idee, che hanno come comune denominatore il mantenimento di una causa che sarebbe costante in ogni negozio di cessione, viene solitamente contrapposta una diversa concezione, la quale nega l’esistenza di una causa tipica, in favore di una causa «variabile», ossia che “segue” la causa del contratto-base ([6]).
La contrapposizione tra le due concezioni sembra venir meno se si chiarisce che l’identificazione della causa della cessione con quella dell’originario contratto ha riguardo alla causa in concreto: la funzione economico-individuale della cessione va reperita attraverso l’analisi dello scopo cui le parti tendevano con la stipulazione del contratto ceduto.
Ciò nonostante, anche questa impostazione non convince: il concreto scopo che le parti perseguono mediante la cessione non è necessariamente aderente a quello che esse si proponevano stipulando il contratto-base. La posizione contrattuale di un soggetto in un contratto di appalto, di somministrazione, di locazione, di lavoro, ecc., può essere ceduta contro un corrispettivo, ma può anche essere permutata o donata.
Causa della cessione e causa del contratto ceduto vanno quindi distinte. La mia convinzione è supportata da due argomenti: 1) nella cessione lo spettro degli interessi si amplia rispetto al contratto-base, perché occorre avere riguardo anche all’interesse del cessionario; 2) nella cessione lo spettro degli interessi si modifica rispetto al contratto-base, perché alla volontà del cedente di uscire dal contratto, a quella del cessionario di subentrarvi, e a quella del ceduto di consentirvi, possono corrispondere, di fatto, interessi variabili di caso in caso.
Infatti, assodato che la posizione di parte in un contratto è riconosciuta dall’ordinamento come un valore economico, il cedente, trasferendola, può porre in essere:
a) una vendita (se v’è corrispettivo in denaro);
b) una permuta (se in corrispettivo della posizione contrattuale è offerto dal cessionario un altro “bene”);
c) un negozio gratuito (se non v’è corrispettivo e il cessionario beneficia di un arricchimento: in tal caso, occorrerà vedere se si tratti di donazione di contratto o di mera cessione gratuita);
d) una transazione (se il trasferimento avviene nel contesto di una lite);
e) un atto solutorio (se ha il fine di soddisfare un precedente debito nei confronti del cessionario);
f) l’adempimento di una obbligazione naturale.
In questi casi, al trasferimento della posizione contrattuale (causa in astratto) corrisponde una causa in concreto (causa onerosa, causa donandi, causa solvendi, ecc.) che può essere del tutto slacciata dalla causa del contratto-base: basti pensare alla cessione a titolo gratuito di un contratto oneroso. La cessione del contratto ha quindi una causa in concreto variabile, ma autonoma da quella del singolo contratto-base ceduto.
Quanto detto, risulta più chiaro se si accoglie l’idea della dottrina più moderna secondo cui il nostro istituto è idoneo a realizzare la sostituzione in un rapporto nel quale le prestazioni sono già state parzialmente eseguite o la prestazione incombente su una delle parti è già stata del tutto eseguita ([7]). Basti pensare al caso del venditore che cede gratuitamente la propria posizione contrattuale, sicché il cessionario subentra (tra l’altro) nel diritto a riscuotere il prezzo dal compratore. Si capisce, infatti, che la cessione può costituire un indubbio beneficio per il cessionario e realizzare, così, una causa solvendi o (come nell’esempio appena fatto) donandi. E lo stesso discorso vale quando sia il cessionario a voler subentrare in un rapporto, che lo vedrà “perdente”, a fini solutori o liberali nei confronti del cedente, che sarà ben felice di uscire da quel rapporto contrattuale.
L’esempio estremo è dato dalla cessione del contratto traslativo: la cessione di un contratto di vendita da parte dell’alienante originario, il quale per effetto del principio consensualistico ha già perduto la proprietà sul bene, comporta indubbiamente il trasferimento, insieme con la complessiva posizione del cedente, del diritto al pagamento del prezzo non ancora versato dal compratore. È evidente che alla causa onerosa del contratto-base si contrappone la causa gratuita della cessione (che non muta sol perché il cessionario subentra anche nelle obbligazioni accessorie: al massimo potrà ravvisarsi un negotium mixtum cum donatione).
La causa in concreto della cessione del contratto è dunque rintracciabile solo caso per caso, avendo riguardo alla combinazione causale del negozio di cessione e del negozio ceduto. Questa configurazione concreta della causa risponde alla stessa funzione di tutela che l’ordinamento affida al requisito causale, consentendo di vagliare la meritevolezza e la liceità dei reali interessi del cedente e del cessionario; laddove in effetti la situazione del ceduto, il cui interesse alla cessione sarà per lo più concentrato nella possibilità di pattuire un corrispettivo per il proprio consenso, ha già una tutela specifica nella possibilità di non liberare il cedente.
Coglie il segno una Corte di merito, la quale afferma che «la cessione del contratto costituisce una figura contrattuale contraddistinta da una causa generica, suscettibile di essere integrata dalla concreta funzione perseguita dalle parti» ([8]). Solo così è possibile restituire alla causa il suo ruolo di strumento per il controllo della circolazione della ricchezza ([9]).
2. La cessione gratuita del contratto
Poiché la cessione del contratto è essa stessa un contratto, a prescindere dalla natura del contratto ceduto, essa può essere stipulata indifferentemente sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso.
In questo secondo caso, il corrispettivo convenuto per la sua conclusione assume rilievo autonomo rispetto al corrispettivo previsto per il contratto ceduto ([10]). Le parti possono convenire che il cessionario corrisponda al cedente un prezzo per la cessione; ma può anche accadere che il ceduto pretenda un corrispettivo per il suo consenso alla cessione ([11]).
Va peraltro condiviso che per determinare se la singola cessione di contratto sia a titolo oneroso o gratuito non sia sufficiente la rilevazione dell’esistenza o meno di un corrispettivo, dovendo invece procedersi ad una valutazione dell’insieme delle prestazioni rispettivamente a carico delle due parti: sarà a titolo gratuito, così, anche la cessione nella quale sia ravvisabile un disequilibrio delle prestazioni previste, nel senso che sussista un vantaggio prevalente o esclusivo di una sola parte (cedente o cessionario) ([12]).
Se la cessione è stata fatta a titolo donativo, ciò non può non influire sulla garanzia dovuta dal cedente: questi, che ai sensi del 1° comma dell’art. 1410 c.c., «è tenuto a garantire la validità del contratto», nel caso di specie risponderà solo nei limiti di cui all’art. 797 c.c.
Ammessa la possibilità di una cessione gratuita, va considerata l’ammissibilità di una donazione di contratto (rectius: di posizione contrattuale) ([13]).
Non pare contestabile che anche attraverso la cessione di una posizione contrattuale, pertinente un contratto concluso a condizioni favorevoli, e fatta con animus donandi, si possa concretare l’arricchimento del cessionario ed il correlativo impoverimento del cedente. Ciò vale, a maggior ragione, nei casi in cui il cessionario-donatario subentri in un rapporto che è già stato parzialmente eseguito dal cedente ma non ancora dal ceduto, in modo che la posizione contrattuale ceduta presenti, allo stato, una netta prevalenza di elementi attivi. E pare nel giusto chi osserva che, a fronte dell’incertezza sul modo in cui si svolgerà il vantaggioso contratto ceduto ([14]), determinante rilievo assume la volontà dei contraenti di considerare, al momento della cessione, l’arricchimento del cessionario come risultato necessario dell’operazione, accompagnato dallo spirito di liberalità.
È dunque da ammettere la donazione diretta di contratto ([15]), intesa quale donazione di posizione contrattuale di un contratto oneroso, senza che la (indispensabile) onerosità del contratto ceduto possa inficiare la natura gratuita del negozio di cessione. Ciò che viene ceduto ha, infatti, un valore autonomo: il valore della posizione contrattuale. Questa autonomia è comprovata dal fatto che il cessionario non è obbligato ad alcuna prestazione a vantaggio del cedente, in virtù del contratto di cessione, ma è tenuto solo alle prestazioni nei confronti del ceduto, che hanno titolo nel contratto-base.
La circostanza che il cessionario-donatario sarà tenuto ad eseguire delle prestazioni nei confronti del ceduto non costituisce un ostacolo, perché anche nella donazione modale è prevista una prestazione a carico del donatario, senza che l’aggiunta del modus snaturi l’essenza della donazione: infatti non può assegnarsi, all’onere, la funzione di corrispettivo (con la sussunzione della donazione modale nella categoria dei contratti a titolo oneroso); il modus comporta solo una limitazione della liberalità, che resta sempre la causa del negozio ([16]).
Si aggiunga che il nostro ordinamento ammette la donazione di eredità, ossia di un complesso di elementi attivi e passivi (art. 477 c.c.).
La qualificazione di donazione diretta impone la stipulazione per atto pubblico (art. 782 c.c.), alla presenza di due testimoni (art. 48, legge 16 febbraio 1913, n. 89 – Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), del negozio di cessione, al quale, in caso di formazione simultanea, prenderanno parte cedente, cessionario e ceduto. Nel caso di formazione non contestuale, avvenuta cioè con il consenso preventivo del ceduto, tale vincolo di forma varrà solo per l’accordo tra cedente e cessionario, mentre non potrà essere imposto alla dichiarazione del ceduto: sia perché questa non è incisa dall’elemento donativo, non essendo peraltro il ceduto ispirato da alcun intento liberale; sia perché il medesimo intento liberale non può essere preveduto, in capo al cedente, al momento in cui il ceduto gli rilascia il proprio consenso. Si è osservato che la fattispecie è sintomatica del fatto che la cessione del contratto, pur essendo negozio necessariamente trilaterale, possa rivestire forme non omogenee ([17]).
Non sussisterà il predetto vincolo formale, se il trasferimento della posizione contrattuale rientrerà tra le donazioni indirette, ossia tra le liberalità risultanti da «atti diversi da quelli previsti dall’art. 769». Così le definisce, infatti, l’art. 809 c.c., unica norma che ne fa menzione, al fine, peraltro, di assoggettarle «alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari» (con la specificazione, di cui al 2° comma, che ciò non vale per le liberalità previste dal 2° comma dell’art. 770 e per quelle che, a norma dell’art. 742, non sono soggette a collazione). Si pensi alla cessione del contratto stipulata a favore di terzo, oppure per adempiere l’obbligo altrui.
Parimenti, il vincolo formale non sussiste se la cessione è atto gratuito non liberale, e quindi, seppur priva di corrispettivo in senso tecnico, non impoverisce il cedente, ad esempio perché comporta soltanto una omissio adquirendi.
Se la cessione della posizione contrattuale configura in concreto una donazione, sia pure indiretta, si apre il problema dell’applicazione delle norme in materia di riduzione e di collazione all’apertura della successione del cedente/donante.
Quanto alla riduzione, legittimati passivi dell’azione sono legatari, donatari ed eredi (nonché i rispettivi loro eredi), sicché se è possibile qualificare il cessionario quale donatario, anche contro di lui i legittimari pretermessi o lesi potranno agire in riduzione con un’azione di accertamento costitutivo che produce l’inefficacia relativa e sopravvenuta dell’atto di disposizione.
Sennonché, secondo le regole della successione necessaria, a seguito della sentenza di riduzione, il trasferimento è inopponibile al legittimario, il quale acquista i beni non per effetto della sentenza, ma di un titolo legale: la vocazione necessaria; ottenuta la riduzione, infatti, egli non è più terzo, ma erede, ed è in questa veste che agisce per la restituzione dei beni ereditari. Si tratta quindi di un’azione personale con effetti retroattivi reali, giacché i suoi effetti retroagiscono (salvo eccezioni) al momento dell’apertura della successione, oltre che per le parti, anche rispetto ai terzi ([18]).
Si pone, quindi, se oggetto della donazione lesiva è la posizione contrattuale, un problema del tutto peculiare: qui non si avrebbe una restituzione del bene, o meglio, la restituzione si converte in subingresso del legittimario nel rapporto contrattuale, al posto del donatario. Ma la situazione è tanto più peculiare quanto si rifletta sulla circostanza che, nella specie, la nuova situazione va ad incidere su di un soggetto che è terzo rispetto alle vicende ereditarie ed estraneo al giudizio di riduzione, ossia l’altro contraente. Il quale, peraltro, per effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione rischierebbe di ritrovarsi come controparte un estraneo.
Inoltre, finché non interviene la pronuncia di accoglimento della domanda di riduzione, le donazioni lesive della quota di legittima esplicano la loro efficacia ([19]); sicché, al tempo in cui il legittimario ha ottenuto la riduzione, il rapporto contrattuale potrebbe essersi già svolto, in parte o in tutto.
Si potrebbe pensare, allora, di adottare la stessa soluzione che il 2° comma dell’art. 560 c.c. ha scelto per il caso di riduzione del legato o della donazione di immobili non divisibili, ove, se sussistono determinate circostanze, il legatario (o il donatario) può ritenere il bene compensando in denaro i legittimari ([20]).
Non meno particolare è la situazione che viene a crearsi quanto alla collazione.
Poiché la regola generale è che il coerede deve conferire «tutto ciò che ha ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente» (art. 737 cod. civ.), il donatario di contratto che risponda ai requisiti soggettivi ([21]) sarà tenuto a restituire alla massa la posizione contrattuale.
D’altronde, l’attribuzione della qualità di parte in un contratto vantaggioso, può costituire sia una donazione diretta, sia una donazione indiretta. Occorre, quanto alle donazioni dirette, che si tratti di vera e propria donazione, non essendo assoggettabile a collazione il mero atto gratuito non donativo: l’autore dell’attribuzione deve avere intenzione e coscienza di arricchire l’altra parte, senza esservi costretto («per spirito di liberalità»). La diversa idea secondo cui l’assoggettamento a collazione prescinderebbe dall’esistenza dell’animus donandi e richiederebbe il semplice dato oggettivo dell’arricchimento, si pone in conflitto con il principio di anticipazione ereditaria. In definitiva, se all’apertura della successione risulta che il valore del contratto che fu oggetto della donazione, anche indiretta, è superiore al valore della quota ereditaria spettante al donatario, per quest’ultimo sarà più conveniente scegliere di non accettare l’eredità, così potendo fruire dei diritti che gli derivano dal rapporto contrattuale nel quale è subentrato al de cuius.
Sennonché, è palese come sia per la riduzione sia per la collazione la difficoltà pratica cui dà luogo la fattispecie in esame dipenda dalla stessa natura della posizione contrattuale, che è un bene sui generis: la combinazione di elementi attivi e passivi «può renderne il valore netto poco afferrabile, e comunque variabile da caso a caso» ([22]) e dipendente, inoltre, dal successivo svilupparsi del rapporto contrattuale, che implica necessariamente una dose di aleatorietà.
Quanto alle modalità di attuazione, è noto che per la collazione dei crediti vale il conferimento per imputazione, che costituisce la forma tipica di collazione ([23]): infatti, il conferimento dei crediti e, più in generale, di tutti i diritti mobiliari, segue la stessa sorte del conferimento dei beni mobili, in ottemperanza al disposto dell’art. 813 cod. civ.
Questa regola, valida per la donazione del credito, va verosimilmente applicata anche per la donazione del contratto.
Quando la donazione della posizione contrattuale costituisca un negotium mixtum cum donatione, dovrà restituirsi la somma di denaro che rappresenta la differenza tra valore del bene e valore della controprestazione.
In conclusione, nonostante le numerose difficoltà applicative, l’inconciliabilità con le regole dell’azione di riduzione e della collazione non porta ad escludere l’accoglimento, da parte del nostro ordinamento, della “donazione di contratto”, ma soltanto ad un adattamento di quelle regole alla particolare natura del bene interessato.
3. La cessione del contratto gratuito
Dalla questione della cedibilità a titolo gratuito del contratto, va distinta quella della cedibilità del contratto gratuito. In questo caso, la soluzione permissiva sembra trovare un ostacolo insormontabile nella legge: l’art. 1406 c.c., nel richiedere che si tratti di «rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive», sembra limitare l’istituto ai contratti onerosi ed escluderlo in maniera categorica proprio per i contratti a titolo gratuito (laddove la formula di legge non è invece tale da escludere i contratti unilaterali, con natura onerosa).
In linea teorica, anche la cessione del contratto gratuito sarebbe coerente con il principio di autonomia privata e con la flessibilità che caratterizza l’istituto secondo la costruzione qui fattane: se Tizio si impegna con Caio, con apposito contratto, a ristrutturare il tetto della sua casa, può accadere che Tizio voglia liberarsi di questa obbligazione e che un terzo, Sempronio, verso corrispettivo o per amicizia nei confronti di Tizio, sia disposto a subentrare nel rapporto. Ed è ancora più credibile che Caio, vista la gratuità del rapporto, non faccia pesare a Tizio il suo pentimento e acconsenta al subingresso di Sempronio (potrebbe peraltro acconsentire senza liberare il cedente). In tal caso, il cessionario sarà tenuto alla ristrutturazione e il ceduto avrà un correlativo credito alla prestazione pattuita, mentre nessun obbligo sarà a suo carico.
Ora, questa seconda affermazione (l’assenza di obbligazioni in capo al ceduto) non costituisce un ostacolo alla cessione, giacché si è ammessa la cedibilità di contratti con prestazioni già eseguite ex uno latere: la circostanza che nella specie la prestazione non sia già adempiuta, ma persino inesistente ab origine, non pare differenza determinante.
È però alla posizione del cessionario che occorre a mio avviso guardare. Egli, a differenza di quanto accade nei contratti onerosi, non subentra in un Organismus: il fatto che la sua controparte non sia ab origine, e per la stessa natura del rapporto di base, tenuta ad alcuna prestazione nei suoi confronti, fa sì che egli non possa vantare neanche quelle facoltà che gli spetterebbero nell’ambito di un rapporto, sorto da un contratto oneroso, ma nello svolgimento del quale una delle parti abbia esaurito le proprie prestazioni.
Il cessionario, in definitiva, subentra come mero debitore della prestazione contrattuale, così come il ceduto era e rimane mero creditore. Con la conseguenza che Sempronio, nell’accettare la proposta di Tizio, si limita ad accollarsi il suo debito nei confronti di Caio.
Parimenti, se fosse stato Caio il cedente del negozio gratuito, non avremmo avuto una cessione del contratto, ma una mera cessione del credito.
Infine, la soluzione negativa, già espressa in sede di definizione dall’art. 1406 c.c. nella formula «contratto con prestazioni corrispettive», è avvalorata dalla disciplina dell’istituto: la trilateralità necessaria e l’imprescindibile consenso del ceduto, così come la configurazione normativa di una cessione senza liberazione del cedente, confermano che l’istituto è dettato per il contratto a prestazioni corrispettive, che prescinde dalla bilateralità o unilateralità e va inteso nel senso di «contratto oneroso».
[1] Cicala, Il negozio di cessione del contratto, Napoli, 1962, passim. E v. oggi Briganti, in Enc. giur. Treccani, voce Cessione del contratto (Diritto civile), VI, Roma, 1988, 6.
[2] V. ora, ampiamente, Albanese, La cessione del contratto, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2008, 1 ss.
[3] Andreoli, La cessione del contratto, Padova, 1951, 29 e segg.; Betti, Teoria generale del negozio giuridico, inTrattato dir. civ. it., dir. da F. Vassalli, Torino, 1955, 560 (pur chiarendo che questa funzione economico-sociale si colloca diversamente secondo gli intenti pratici perseguiti dalle parti); Alpa e Fusaro, in Digesto IV, Discipline privatistiche, Sezione civile, voce Cessione del contratto, II, Torino, 1988, 339, i quali sostengono, riprendendo l’idea di Mossa, che la causa della cessione è la stessa della vendita: si ha una vendita del contratto con l’effetto di sostituzione nella posizione contrattuale; si avrebbe una causa fissa, consistente nel sostituire il cessionario al cedente anche per Criscuoli, Il negozio di sostituzione e la cessione del contratto, in Giust. civ., 1957, I, 1604, per il quale il consenso delle tre parti del negozio di cessione sarebbe «determinato dalla medesima causa del sostituire». A quest’ultima tesi, obietta R. Clarizia, La cessione del contratto, in Commentario Schlesinger,artt. 1406-1410, 2ª ed., Milano, 2005, 42, che non è possibile porre sullo stesso piano cedente, cessionario e ceduto, perché quest’ultimo «certamente, come motivo ultimo determinante il proprio consenso, non ha quello di voler sostituire il cessionario al cedente. Il ceduto, normalmente, subisce la sostituzione e, comunque, raramente se ne farà promotore».
[4] Così, in paricolare, Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 560, nota 6.
[5] De Nova, La cessione del contratto, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. 10, tomo II, Obbligazioni e contratti, 2ª ed., Torino, 1995, 558; Messineo, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm., dir. da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1972, 19 ss.; Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, 2ª ed., Milano, 2002, 681.
[6] Carresi, La cessione del contratto, cit., 53 ss.; Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 286.
Per Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, cit., 719, non può parlarsi né di una causa propria né di una causa variabile, ma «come tutti i negozi di alienazione la cessione del contratto ha la funzione che di volta in volta giustifica l’operazione. Secondo la causa riscontrata l’alienazione del contratto rientrerà nel tipo della vendita, della donazione, della transazione, ecc.».
[7] Cfr. sul punto Albanese, La cessione del contratto, cit., 182 ss.
[8] Trib. Messina, 23.1.1997, in Dir. fallim., 1997, II, 579.
[9] Per Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, 604, la cessione non ha una causa tipica: si tratta, piuttosto, di una prestazione tipica suscettibile di formare oggetto di tanti contratti causalmente diversi.
Avverte l’esigenza di dare massimo rilievo agli interessi concreti perseguiti dalle parti R. Clarizia, La cessione del contratto, cit., pag. 54: «l’interprete dovrà dunque valutare e verificare quanto e come questo “interesse” incide sul contratto di cessione – se cioè esso resta nell’ambito dei motivi – pertanto giuridicamente irrilevanti – oppure se si esprime nel contenuto contrattuale, caratterizzandolo peculiarmente».
[10] Cass., 15.3.2004, n. 5244, in Gius, 2004, 2971.
[11] De Nova, La cessione del contratto, cit., 566; Mirabelli, Dei contratti in generale, in Commentario Utet, IV, Torino, IV, 2, Delle obbligazioni, 424.
[12] R. Clarizia, La cessione del contratto, cit., 55.
[13] Vale quindi la pena ricordare brevemente i concetti di liberalità e di gratuità. La donazione è un atto gratuito: in particolare, essa è un atto di liberalità e, sicuramente, la principale liberalità. Si tratta di un rapporto tra genere e specie che va così ricostruito: il negozio gratuito è il genere, la liberalità è una specie del negozio gratuito, la donazione è una delle liberalità. Il concetto di gratuità è quindi più ampio di quello di liberalità, perché comprende tutti i negozi privi di corrispettivo, ossia tutti i negozi nei quali al vantaggio patrimoniale di una parte non corrisponde il sacrificio patrimoniale dell’altra. La liberalità (che richiama l’idea di libertà e spontaneità) si distingue, all’interno degli atti gratuiti, perché definisce un atto che comporta l’impoverimento del suo autore. È liberalità, dunque, soltanto l’atto che importa l’impoverimento di chi lo compie e l’arricchimento del beneficiario. Sono atti di liberalità la donazione e le c.d. liberalità non donative. La prima, secondo la nozione data dall’art. 769 c.c., «è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione». Le seconde sono negozi che producono gli stessi effetti della donazione, pur non essendo donazioni in senso tecnico: si tratta, soprattutto, delle donazioni indirette (art. 809 c.c.) e delle liberalità d’uso (art. 770, 2° comma, c.c.). Con la nozione del contratto di donazione fornita dall’art. 769, innanzitutto, il legislatore moderno ha voluto chiarire che è donazione non soltanto la donazione reale (com’era invece nel codice del 1865, che parlava di «spoglio di una cosa»), ma anche la donazione obbligatoria e quella liberatoria. Il nostro ordinamento, con la norma da ultimo citata, ha inoltre accolto l’idea che elemento caratteristico della donazione è l’animus donandi: l’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo è un atto gratuito, ma non incarna di per sé donazione. Occorre, a tal fine, che l’autore dell’attribuzione abbia intenzione e coscienza di arricchire l’altra parte, senza esservi costretto («per spirito di liberalità»).
[14] Lepri, La forma della cessione del contratto, Padova, 1993, 55, il quale osserva che l’arricchimento è incerto anche quando venga ceduto gratuitamente un contratto vantaggiosissimo, il quale può comunque avere un altissimo rischio di litigiosità, con relativi oneri.
[15] V’è chi preferisce parlare, però, in ogni caso, di negozio gratuito atipico, assumendo che il cedente soddisfa, di norma, un proprio interesse economico, come accade quando sia indotto a cedere la propria posizione contrattuale perché non è in grado di adempiere. Così, ad esempio, Anelli, Cessione del contratto, in Riv. dir. civ., 1996, 280.
R. Clarizia, La cessione del contratto, cit., 55, esclude che in un’ipotesi di cessione senza corrispettivo al cessionario di un contratto, dal quale questi ricavi immediatamente un lucro, possa individuarsi un’ipotesi di donazione indiretta, «perché la posizione contrattuale che viene trasferita – per quanto a titolo gratuito – al cessionario verso il ceduto è in quanto tale comprensiva anche di obblighi e di situazioni non soltanto vantaggiose».
[16] Cass., 26.7.2005, n. 15586, in Guida al dir., 2005/41, 69: «La donazione modale non perde la sua natura di atto di liberalità, anche ai fini della collazione e dell’imputazione della quota di riserva». Sulla riduzione di tali donazioni: Basini, Se la donazione modale debba ridursi soltanto nei limiti dell’effettivo arricchimento del donatario, in Contratti, 1999, 959 ss.
[17] Lepri, La forma della cessione del contratto, cit., 59. Precisando il proprio pensiero, l’autore aggiunge (pag. 61) che l’istituto in esame «grazie alla particolare possibilità di formazione “a consenso preventivo” e grazie alla variabilità della sua causa, si presenta come istituto a struttura necessariamente plurilaterale (rectius: trilaterale) ma a forma eventualmente non omogenea».
[18] Ne consegue che l’azione di riduzione va nettamente distinta sia dall’azione di nullità (al contrario: le disposizione ridotte, per essere “lesive della legittima”, devono necessariamente essere disposizioni valide), sia dall’azione di rescissione e dall’azione di risoluzione, le quali tendono a colpire il negozio a causa di un vizio originario (rescissione) o sopravvenuto (risoluzione), laddove la riduzione rende semplicemente le disposizioni lesive inopponibili al legittimario. In tema, tra i tanti, ampiamente Basini, La riduzione delle donazioni, in La donazione, Trattato diretto da G. Bonilini, Torino, 2001, 1138 ss.; sinteticamente, Albanese, I soggetti che possono chiedere la riduzione, in questa rivista, 2006, 740 ss. Sul vento riformatore che spira in favore di una più ampia tutela dei terzi, a discapito dei legittimari, v. Bonilini, Sulla proposta di novellazione delle norme relative alla successione necessaria, in questa rivista, 2007, 581 ss., il quale osserva come il raffronto con gli ordinamenti stranieri dimostri uno sbilanciamento eccessivo del nostro sistema successorio in favore dei legittimari, e auspica una più estesa valorizzazione dell’autonomia dei privati; Amadio, La successione necessaria tra proposte di abrogazione ed istanze di riforma, in Riv. not., 2007, I, 803 ss., che parla di “obsolescenza assiologica” del sistema normativo della legittima; Delle Monache, Abolizione della successione necessaria?, in Riv. not., 2007, I, 815 ss., il quale, pur consigliando il mantenimento dell’istituto, considera “urgente” una sua radicale riforma.
[19] Cfr. Cass., 11.6.2003, n. 9424, in Mass.Giust. civ., 2003, 1421; Cass., 26.11.1987, n. 8780, in Riv. not., 1988, 1397; Cass., 19.6.1981, n. 4024, in Mass. Giust. civ., 1981, 1424; Cass., 12.4.2002, n. 5323, in Mass. Giust. civ., 2002, 638.
[20] Così, quanto al legato di posizione contrattuale, Gradassi, Clausole testamentarie in tema di legato di posizione contrattuale, in Notariato, 1999, 43 ss.
[21] I soggetti della collazione sono coloro che appartengono alle categorie di familiari enunciate dall’art. 737 cod. civ. purché siano coeredi ed abbiano ricevuto beni in donazione: i figli legittimi e naturali, i loro discendenti legittimi e naturali, il coniuge superstite. Detti soggetti sono tenuti alla collazione se hanno personalmente ricevuto donazioni in vita dal defunto, e sempre che abbiano accettato l’eredità ed abbiano quindi assunto la qualità di coerede.
[22] Roppo, Il contratto, cit., 591.
[23] La collazione per imputazione è obbligatoria quando oggetto della donazione sia stato: a) un bene mobile; b) del denaro; c) un immobile che il donatario ha alienato, ipotecato o colposamente distrutto (giacché se trattasi di cosa, mobile o immobile, perita per causa non imputabile al donatario, non è dovuta collazione: cfr. art. 744 c.c.; d) diritti, come crediti o rendite vitalizie. Il conferimento in natura, invece, è consentito soltanto, a scelta del coerede che conferisce, se trattasi di donazione di bene immobile, e sempre che esso non sia stato alienato o ipotecato, perché per quest’ipotesi il cpv. dell’art. 746 prevede che «la collazione si fa soltanto con l’imputazione». Spetta al coerede donatario, quindi, in questo caso, scegliere se conferire il bene in natura o per imputazione; si applicano analogicamente le norme dettate per la scelta nelle obbligazioni alternative: essa non può più essere revocata dopo che è stata comunicata agli altri coeredi. [/thrive_lead_lock]