Immoralità, illiceità e soluti retentio

ALBANESE A (2005). IL CORRIERE GIURIDICO, p. 865-875, ISSN: 1591-4232

Antonio Albanese, Immoralità, illiceità e soluti retentio

Immoralità, illiceità e soluti retentio

Abstract: Alla base dell’art. 2035 c.c. sono esigenze di moralità, identificabili e giudicabili più sul piano della realtà sociale che su quello normativo. L’impossibilità di ripetere (che comprende anche l’impossibilità di agire con l’azione di arricchimento) riguarda le prestazioni illecite contrarie al buon costume, non invece quelle contrarie all’ordine pubblico o alle norme imperative. Una prima difficoltà interpretativa, tuttavia, è insita nella definizione stessa del concetto di buon costume. Altro problema è se la regola dell’irripetibilità afferisca anche alle numerose ipotesi connotate sia dalla immoralità sia dall’illegalità. È poi da vedere se permanga in capo al solvens il diritto di recuperare la cosa servendosi dell’azione di rivendicazione.

 

Sommario: 1. Le prestazioni ob turpe causam. Nozione di buon costume. – 2. La ratio della irripetibilità della prestazione immorale. – 3. La legittimazione del solvens alla rei vindicatio. – 4. Inapplicabilità della regola ex art. 2035 c.c. alle fattispecie non immorali, ma illecite per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico. – 5. Il problema della applicabilità della regola ex art. 2035 c.c. nei casi di negozi sia immorali per contrarietà al buon costume, sia illegali per contrarietà all’ordine pubblico o a norme imperative. – 6. Inesperibilità dell’azione di arricchimento ingiustificato. – 7. Brevi cenni sulle obbligazioni restitutorie derivanti da reato.

1. Le prestazioni ob turpe causam. Nozione di buon costume.

L’art. 2035 c.c. ([1]), introdotto con il nuovo codice ([2]), è posto all’interno del titolo dedicato al pagamento dell’indebito. La sua portata non si estende, però, alla condictio ob iniustam causa (prestazione effettuata in esecuzione di un contratto illegale), ma è limitata alla condictio ob turpem causam: «chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisce offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato». Per «scopo» deve intendersi il motivo finale programmato dalle parti ([3]), che può riferirsi all’illiceità dell’oggetto o della causa, ma può anche rappresentare il motivo illecito comune alle parti. Rientrano nell’ambito della norma, pertanto, sia l’ipotesi prevista dall’art. 1343 c.c., sia quella ex art. 1345 c.c.

Con riguardo alla questione se i “motivi” o “moventi” che hanno indotto ad eseguire la prestazione turpe ai sensi dell’art. 2035 c.c. rientrino nel «motivo comune» di cui all’art. 1345 c.c. ([4]), si è ritenuto che se l’immoralità è unilaterale, essendo il contratto valido, non può parlarsi di irripetibilità ([5]). Si è tuttavia notato che l’art. 2035 c.c. ha ad oggetto anche «accordi nei quali è illecito il motivo di uno solo dei contraenti e la nullità della convenzione discende dalla mancanza di interessi socialmente meritevoli di tutela alla base dell’accordo» ([6]).

La lettera dell’art. 2035 c.c., però, come riconoscono i giudici, richiede che l’immoralità attenga sia al comportamento del solvens sia a quello dell’accipiens.

In ogni caso, il solvens potrà ripetere quanto prestato nei casi nei quali sia stato vittima dell’altrui violenza o dolo, come quando l’accipiens lo abbia indotto con raggiri o minacce a compiere la prestazione immorale ([7]).

Il negozio con causa turpe, non deve essere necessariamente un contratto di scambio, ma potrebbe anche essere un atto a titolo gratuito: si pensi alla liberalità effettuata per remunerare servizi che costituivano comportamenti immorali, alle ipotesi integranti gli estremi per l’applicazione dell’art. 1345 c.c., alle donazioni sottoposte a condizione o

Contenuto Riservato!

Iscriviti alla nostra newsletter per avere accesso immediato

Se sei già iscritto, inserisci nuovamente la tua email per accedere

gravate da onere turpe.

Se nel caso delle obbligazioni naturali la soluti retentio è giustificata dal fatto che la prestazione fu eseguita in adempimento di un obbligo morale o sociale, nell’art. 2035 c.c. l’irripetibilità discende proprio dall’immoralità della prestazione eseguita. Per quanto l’effetto della norma sia identico a quello dell’art. 2034 c.c., diametralmente opposta ne è, pertanto, la ratio ([8]).

La norma codifica il noto principio secondo il quale in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis (o defendentis): in presenza di una pari turpitudine delle parti, al ripristino dello status quo ante l’ordinamento preferisce la soluti retentio.

La storia, antichissima, della regola dell’irripetibilità delle prestazioni con causa turpe, è contrassegnata, più di ogni altra, dalle massime latine, tanto da essere stata ritenuta uno dei maggiori esempi dell’attuale rilevanza dei brocardi del diritto comune ([9]): a partire da quello, del periodo romano, secondo cui nemo ex suo delicto meliorem suam condicionem facere potest, fino a quello più generale, risalente al diritto intermedio, secondo cui nemo auditur propriam turpitudinem allegans.

Stabilire su quale massima si fonda maggiormente oggi l’applicazione concreta, comporta conseguenze di rilievo: mentre il principio In pari causa turpitudinis ha ad oggetto soltanto il contegno immorale di chi riceve, l’allargamento al principio Nemo auditur consente di dare rilevanza all’immoralità sia di chi riceve sia di chi presta, e quindi di negare l’azione giudiziale anche a causa della indegnità morale della persona che agisce in giudizio: «risulta dunque dalla disposizione dell’art. 2035 che la regola della potior condicio possidentis si applica nel caso di turpitudine di chi esegue e di chi riceve la prestazione, e altresì nel caso di turpitudine del solo solvens; non si applica nel caso che versi in turpitudine solamente l’accipiens» ([10]). D’altra parte, l’art. 27 del progetto italo-francese per un codice comune delle obbligazioni recitava: «chi ha soddisfatto un’obbligazione contraria al buon costume non può esercitare l’azione di ripetizione salvo che egli sia stato immune dalla violazione del buon costume».

L’art. 2035 c.c., oltre che rappresentare un’importante eccezione alla regola della ripetibilità dell’indebito oggettivo, costituisce una estensione della regola della illiceità di cui all’art. 1343 c.c. anche sul piano quasi contrattuale, sebbene limitatamente all’area delle prestazioni immorali ([11]).

Una prima difficoltà interpretativa è insita nella definizione stessa del concetto di buon costume, inizialmente fortemente allacciato ai principi della morale cristiana ([12]), in seguito sempre più disegnato con riferimento ai principi costituzionali ([13]). La letteratura giuridica appare concentrata tradizionalmente sulle prestazioni sessuali a pagamento ([14]), sul gioco clandestino, sul contrabbando e sul prezzo del delitto ([15]); ma dalla casistica giurisprudenziale emerge la portata di clausola generale dell’art. 2035 c.c., con la quale il legislatore delega al giudice la creazione di una regola ricavabile dall’osservazione e interpretazione dei principi desumibili dalla comune morale sociale e dalla coscienza collettiva in un dato momento storico ([16]).

Esempi nei quali la ripetizione non è stata ammessa riguardano anche:

a) la prestazione consistente in un esborso di denaro, da un soggetto ad un altro, allo scopo di aprire e gestire in comune una casa da gioco non autorizzata ([17]);

b) il mutuo concluso dalle parti esclusivamente per il motivo, comune ad entrambe, di poter fare proseguire il gioco d’azzardo in locale aperto al pubblico ([18]);

c) l’accordo intercorso tra l’acquirente di immobili di proprietà di minori e il loro genitore, diretto a defraudare i minori del prezzo ([19]);

d) l’accordo fraudolento concernente il traffico di voti in materia fallimentare;

e) l’accordo per boicottare un determinato imprenditore ([20]);

f) l’accordo per controllare il prezzo di aggiudicazione di un’asta pubblica ([21]);

g) le somme di denaro reiteratamente pagate dall’imprenditore ad un dipendente dell’impresa committente, al fine di ottenere sempre nuove commesse, così da alterare le regole della concorrenza ([22]);

h) il patto di raccomandazione, sempre che non si sia semplicemente limitato a sollecitare la solerzia del funzionario nell’ambito di una attività a cui questo era comunque tenuto ([23]);

i) il patto di claque;

l) le convenzioni elettorali ([24]);

m) la promessa dell’accipiens, fatta dietro corresponsione di un compenso, di corrompere un pubblico funzionario nell’interesse del solvens ([25]);

n) le condizioni con cui il datore di lavoro impone al lavoratore, pena la risoluzione del rapporto, il celibato o il nubilato ([26]);

o) il divieto di impugnare il testamento, pena la decadenza dal legato ([27]);

p) i contratti che producano l’effetto di obbligare all’inizio o alla continuazione di una relazione more uxorio ([28]);

q) le liberalità a vantaggio della propria concubina, effettuate allo scopo (dichiarato nell’atto) di beneficiarla per le sue prestazioni sessuali ([29]);

r) la mediazione matrimoniale, ma esclusivamente se abbia comportato una pressione sulla volontà dei nubendi ([30]).

È ritenuto contrario al buon costume il commercio della propria libertà, della propria integrità, delle prerogative fisiche e morali delle persone, ove siano chiamate in gioco le esigenze della morale collettiva che hanno una sostanziale valenza etica: si pensi alla stipulazione del contratto con cui una donna consente, verso compenso, a ricevere il seme di un uomo e a portare a termine la gravidanza, rinunciando ai suoi diritti di madre ([31]).

Le sezioni unite fanno specifico riferimento ai principi cui «uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e sani principi, in un determinato momento ed in un dato ambiente» ([32]). E aggiungono che poiché la causa turpe deve essere apprezzata in relazione al momento in cui il negozio è stato compiuto, deve escludersi che sia contrario al buon costume un contratto diretto a violare norme imperative ma non più sanzionate penalmente al momento della conclusione del contratto, in quanto lo stesso legislatore, escludendo la rilevanza penale di tali fatti, quanto meno pro tempore, attenua la valutazione negativa dei fini stessi anche sotto il profilo etico e sociale. In altre parole, non sarebbe possibile definire in termini di immoralità il comportamento delle parti se in quel momento non è più prevista alcuna sanzione penale a loro carico[33]. Per converso, dalla circostanza che un determinato comportamento è sanzionato penalmente, sarebbe possibile dedurre l’immoralità.

Può obbiettarsi che la depenalizzazione ha poco a che vedere con il comune sentire sociale e, viceversa, un comportamento riprovato dal codice penale potrebbe non esserlo, o non esserlo più, dall’opinione pubblica: se si dà il giusto peso alla natura di clausola generale della norma, la quale impone una valutazione di fatto delle circostanze in cui si è concretamente posto in essere il comportamento, la distinzione tra illegalità e immoralità sembra sufficientemente netta.

Proprio in virtù della sua natura di clausola generale che si nutre delle indicazioni del sentire collettivo, l’art. 2035 c.c. deve trovare applicazione anche con riferimento a comportamenti che, seppure comunemente praticati nella cerchia sociale cui appartengono gli interessati, siano immorali alla stregua dell’opinione pubblica e della coscienza sociale collettiva ([34]).

La tendenza è di delimitare e di specificare la nozione di buon costume all’interno della morale sociale: mentre questa esprime un concetto più ampio, comprensivo di tutti i doveri morali riconosciuti nei rapporti di convivenza, inclusi i doveri di correttezza, il buon costume indicherebbe, più in particolare, i precetti negativi dell’onestà sociale, i quali impongono l’astensione dal compimento di atti contrari ai fondamentali canoni di onestà pubblica e privata alla stregua della coscienza sociale ([35]).

La distinzione ora tracciata mi sembra sia stata posta alla base della soluzione del seguente caso ([36]): gli organi di un’istituzione pubblica di assistenza e beneficenza avevano stipulato un contratto avente ad oggetto il conferimento di un incarico professionale (nella specie, direzione di lavori), con un membro del consiglio di amministrazione dell’ente, in violazione della norma di cui all’art. 15 della l. 17 luglio 1890 n. 6972. Questo contratto era affetto (in base al combinato disposto di detta norma di natura imperativa e del successivo art. 17), da nullità relativa, e, conseguentemente, era inopponibile all’ente. I giudici hanno ritenuto che il contratto presentasse altresì «una causa contraria al buon costume o turpe, in relazione al carattere lucrativo dell’incarico, senza alcun controllo o cautela, e con intenzionale lesione degli interessi dell’ente da parte dei suoi amministratori»: hanno pertanto applicato l’art. 2035 c.c., negando al professionista il diritto al corrispettivo per l’opera svolta, anche a titolo d’indebito od in forza di azione sussidiaria di arricchimento, e consentendo invece all’ente, sottratto ad ogni impegno contrattuale in relazione al fatto illecito dei propri organi ed al conseguente venire meno del rapporto organico, di agire per la ripetizione di quanto indebitamente versato al professionista medesimo.

2. La ratio della irripetibilità della prestazione immorale.

Il concetto dei boni mores, risalente al diritto romano, è ben più antico di quello di ordine pubblico, che si riscontra per la prima volta nel Codice Napoleone. Tuttavia la regola della irripetibilità del contratto immorale non è stata codificata in Francia, né vigeva nel nostro codice del 1865, pur rappresentando, in tutti i sistemi privi di una norma espressa, un indiscusso caposaldo nella realizzazione della «moralizzazione del contratto» ([37]).

L’opportunità di una codificazione del principio, nel 1942, non era condivisa da tutti ([38]), sebbene la Relazione al codice civile (n. 790) elevasse ad esigenza dell’ordine giuridico «non dare tutela a chi non è degno». Anche dopo la codificazione del principio, si sottolineava la difficoltà della questione, rilevando che «nessuna soluzione è perfetta: o si permette all’accipiente di godersi ciò che ha avuto per causa turpe, o si consente a chi ha dato di trarre vantaggio dalla propria turpitudine con la ripetizione» ([39]). E la stessa giurisprudenza ravvisava gli inconvenienti dell’irripetibilità, non ultimo quello costituito dallo «spettacolo offerto dall’accipiens, il quale per difendere unguibus quanto percetto sarà portato a svelare, penetrare, accentuare quella immoralità contrattuale che alla fine è anche sua» ([40]).

Alla base della regola sono esigenze di moralità, identificabili e giudicabili più sul piano della realtà sociale che su quello normativo; tuttavia il giudice ha facoltà di intervento solamente in assenza di una contraria disposizione normativa: se identificasse, ad esempio, la nozione di buon costume nella morale cattolica, contraddirebbe i principi di cui agli artt. 8 e 19 della Carta Costituzionale.

Le spiegazioni offerte dell’irripetibilità di prestazioni immorali sono diverse e di varia natura: avendo riguardo principalmente al fondamento del principio, la regola si preoccupa di impedire a chi abbia esercitato attività immorali o criminali di trarre vantaggio dalla propria condotta ([41]); la legge non concede ristoro a chi era consapevole di eseguire una prestazione immorale: «l’autonomia privata, di cui è permeato il negozio giuridico, deve trovare un campo di applicazione assolutamente morale» ([42]).

Si è voluto, così, «escludere dalla tutela giurisdizionale inerente all’esercizio dell’azione ex indebito il soggetto che per goderne dovrebbe allegare il fatto della propria immoralità ed in definitiva … apprestare una misura sanzionatoria a suo carico».

Si è portati a concludere, sulla scorta della regola quieta non movere, che il legislatore abbia ritenuto opportuno non permettere ulteriori discussioni in punto di diritto una volta che la prestazione immorale sia stata eseguita ([43]).

Sul piano processuale, si è spiegato, l’irripetibilità consegue alla denegazione dell’azione esecutiva, che impedisce al solvens di ottenere coattivamente la restituzione nonostante la mancanza di una giustificazione causale dello spostamento patrimoniale: la regola di cui all’art. 2035 c.c. si risolverebbe pertanto in una «sanzione irrogata a carico di chi si sia reso autore di una prestazione ob turpem causam» ([44]). Ne deriva l’inesistenza di un titulus adquirendi in capo al percipiente e la conseguente possibilità del solvens, ancora proprietario, di agire in rivendica nei suoi confronti (salvo il caso che si tratti di cose commiste con altre del medesimo genere appartenenti al patrimonio dell’accipiens).

In senso inverso, si è da altri sostenuto che il contratto avente ad oggetto una prestazione immorale, sarebbe ritenuto dall’ordinamento causa sufficiente a giustificare lo spostamento patrimoniale Il solvens, a seguito dell’esecuzione della prestazione immorale, non sarebbe più proprietario della res tradita, e perderebbe quindi la legittimazione ad esercitare l’azione di rivendicazione nei confronti dell’accipiens, il quale si gioverebbe di un idoneo titulus adquirendi: il contratto nullo. L’accordo illecito, infatti, sarebbe sufficiente a giustificare l’attribuzione se considerato non in quanto negozio, ma quale fatto (seguito dall’atto volontario della solutio) costituente una giusta causa della dazione ([45]).

Della regola della soluti retentio andrebbe negato, dunque, il carattere sanzionatorio, dovendo spiegarsi la sua vera ratio «muovendo dalla sua attitudine, piuttosto che a prevenire l’accordo immorale e la sua esecuzione, ad impedire che l’accordo immorale inneschi un’ulteriore vicenda immorale: quella che si verificherebbe quando la parte del contratto nullo, avendo ricevuto in esecuzione di questo una prestazione “di per sé” irripetibile, ed avendo quindi ottenuto la soddisfazione irreversibile del proprio interesse, invocasse la nullità per ottenere la restituzione di quanto pagato» ([46]).

A fronte delle numerose incertezze che gravano sulla stessa ragione giustificativa della regola, la soluzione codicistica che esclude la ripetibilità è stata ricondotta ad una più logica coerenza, da chi ha valorizzato la ratio dell’art. 2035 c.c ([47]) sostenendo che l’irripetibilità della prestazione illecita mantiene una sua utilità se si utilizzano gli strumenti dell’analisi economica del diritto, se si cerca, cioè, una spiegazione razionale del principio valutandone l’effetto in termini di rischi e di costi. Ne risulterebbe che la regola dell’art. 2035 c.c. ha una importante funzione di rafforzamento della regola della nullità, in riferimento all’obbiettivo di evitare l’attuazione dello scambio dichiarato illecito dalla legge ([48]): una volta, infatti, che una delle parti abbia dato esecuzione all’accordo, essa, grazie alla regola dell’irripetibilità, perde il controllo della situazione e la possibilità di indurre anche l’altra parte all’esecuzione. In altre parole, il contraente, da un lato sa che, per effetto della nullità, non potrà costringere l’altra parte all’adempimento, dall’altro non ha la possibilità di ripetere quanto prestato: ecco quindi che «l’irripetibilità rafforza gli effetti disincentivanti della nullità» ([49]) (il ragionamento non vale, evidentemente, per il caso di esecuzione simultanea del contratto da parte di entrambe le parti).

3. La legittimazione del solvens alla rei vindicatio.

Rimane il dato inconfutabile della cristallizzazione, ad opera della norma, della situazione sorta dal contratto immorale, la quale danneggia il solvens e favorisce l’accipiens sebbene il primo, a differenza del secondo, abbia quanto meno rispettato l’impegno preso: alla fine ne risulta avvantaggiata, tra le due parti, proprio quella che ha tenuto il comportamento più immorale ([50]).

Nei Paesi della ex area socialista è codificata la regola, già contenuta nel codice prussiano, secondo cui le somme che rappresentano il corrispettivo della prestazione immorale sono devolute alla Stato ([51]): viene così conservata la regola della irripetibilità e nel contempo è risolta la questione se debba essere preferita una parte (quella che grazie alla soluti retentio può nel nostro ordinamento avvantaggiarsi della prestazione immorale), o l’altra (quella che ha eseguito la prestazione: ciò che accadrebbe se, come anche si è ventilato, si procedesse ad una interpretazione abrogante dell’art. 2035 c.c.). Questa scelta, prontamente scartata dai sistemi occidentali ([52]) forse anche per la diffidenza ideologica verso le soluzioni contemplate nel codice civile sovietico ([53]), era in realtà stata suggerita, nell’ambito dell’antica disputa tra moralisti cristiani, dalla dottrina tomista, e non è priva di razionalità: la confisca in favore dello Stato, o anche in favore di istituzioni pubbliche di beneficenza, evita che sia concessa tutela restitutoria ad un solvens che non la merita ed impedisce che l’accipiens,il quale nel ricevere agì contro la legge, trattenga il prezzo ([54]).

Quanto alle conseguenze negative, della vigenza del principio ex art. 2035 c.c. nel nostro ordinamento, sembra da preferire l’opinione, già accennata, secondo la quale l’irripetibilità della prestazione immorale non impedisce in assoluto al solvens il recupero della cosa: questi può comunque rivendicare il bene (sobbarcandosi ovviamente il relativo onere probatorio) ([55]), perché il venire meno, ex art. 2035 c.c., dell’azione personale, non muta la titolarità del bene consegnato e non incide pertanto sulla tutela reale, che continua a spettare al solvens quale proprietario della cosa trasferita ([56]). Infatti l’accipiens non potrebbe invocare, come causa legittimante del proprio acquisto, la causa turpe, la quale «se impedisce il sorgere dell’obbligazione restitutoria, non assicura però alla consegna la forza giuridica necessaria per produrre un’attribuzione patrimoniale» ([57]).

Ma è altrettanto vero che sovente il negozio immorale è composto da un lato da un facere e dall’altro dal suo corrispettivo consistente nel denaro, e cioè in un bene che si è confuso nel patrimonio dell’accipiens: tipico esempio è, ancora una volta, quello della prestazione sessuale a pagamento. Inoltre, anche quando si tratti di contratti traslativi, si pensi ad una vendita, si rischia di pervenire a risultati iniqui, giacché chi ha trasferito il bene potrà rivendicarlo, mentre la controparte, che ne ha pagato il prezzo, perderà sia la cosa sia il denaro. Il principio generale che vieta arricchimenti ingiustificati, si oppone a questa soluzione, che può trovare spazio solamente in ipotesi residuali (ad esempio nel contratto di permuta, ove entrambi i contraenti potranno rivendicare il rispettivo bene). Occorre considerare che, nelle ipotesi di irripetibilità ex art. 2035 c.c., le parti sono “in pari causa turpitudinis”, e sarebbe profondamente ingiusto che una si avvantaggiasse, a discapito dell’altra, della possibilità di recuperare il prestato solamente in ragione della natura della prestazione (di dare anziché di fare) o del bene trasferito (ad es.: un immobile piuttosto che denaro).

Al risultato sopra descritto è invece possibile pervenire se si ritiene corretto, in ossequio al principio nemo auditur turpitudinem suam allegans, applicare l’art. 2035 c.c. anche ai casi di immoralità soltanto unilaterale. Occorre però distinguere, secondo che si tratti di immoralità del solo accipiens ovvero del solo solvens: nel primo caso, il solvens, per ragioni elementari di giustizia, dovrebbe poter ottenere la restituzione anche tramite l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito (senza essere costretto ad agire in rivendica) ([58]). Altrimenti, ad esempio, il sequestratore sarebbe legittimato a trattenere il prezzo versato per il riscatto.

Diversamente, se è il solo solvens a versare in condizioni di immoralità, allora può trovare campo il ragionamento fatto supra, sicché egli, perduta la possibilità di ripetere, potrà rivendicare.

La lettera dell’art. 2035 c.c. depone però contro un’interpretazione che dà rilevanza anche all’immmoralità unilaterale, poiché esige che il solvens abbia «eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume».

4. Inapplicabilità della regola ex art. 2035 c.c. alle fattispecie non immorali, ma illecite per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico.

Qualunque sia la ragione tecnica sottesa all’art. 2035 c.c., inquadrare una fattispecie nell’ambito della contrarietà al buon costume piuttosto che all’ordine pubblico comporta delle conseguenze di notevole diversità.

Si è acutamente affermato che l’art. 2035 c.c. si risolve in «un invito, specialmente per la giurisprudenza, ad inquadrare una fattispecie nella illegalità o nella immoralità a seconda che si voglia o non si voglia tutelare il solvens, in particolare valutando la sua eventuale posizione di supremazia psicologica nei confronti dell’accipiens come motivo per denegare la ripetizione, essendo la condizione di costui da preferire, per avere egli in qualche modo subito l’iniziativa del solvens» ([59]). E in effetti, la giurisprudenza sovente invoca la violazione di norme imperative ([60]) o dell’ordine pubblico congiuntamente al carattere immorale della prestazione, oppure si richiama solo a quest’ultimo anche quando ciò è una evidente forzatura, come nel caso di violazione delle libertà individuali.

Il problema si è posto anche all’estero ([61]): in Francia se ne è occupata soprattutto la dottrina, mentre le Corti non hanno avuto tentennamenti nel limitare il principio di irripetibilità alle convenzioni immorali ([62]); in Germania, al contrario, la soluzione opposta, che equipara sul punto illegalità e immoralità, ha una solida base nel § 817 BGB, che è stato anche interpretato nel senso che la prestazione sarebbe irripetibile se compiuta per uno scopo contrario al buon costume da parte di entrambi i contraenti (§ 817, II parte), mentre sarebbe ripetibile se l’immoralità è riferibile esclusivamente alla posizione dell’accipiens ([63]); in Inghilterra, infine, la distinzione tra illegalità e immoralità non ha incidenza sull’applicazione della regola in pari delicto potior est condicio defendentis, che è operativa pure per il contratto illegale ([64]): i giudici inglesi hanno l’abitudine di risolvere i problemi legati alla soluti retentio attraverso il vaglio degli interessi protetti dalla norma elusa o violata, sicché tendono ad escludere la irripetibilità nei casi in cui il contratto ha violato precetti posti a tutela del solvens ([65]).

In Italia la lettera della legge è chiara: l’impossibilità di ripetere riguarda le prestazioni illecite contrarie al buon costume, non invece quelle contrarie all’ordine pubblico o alle norme imperative. Né la regola può essere applicata alle prestazioni eseguite in adempimento di un contratto in frode alla legge, il quale non diverge, per quanto qui interessa, dal contratto vietato: in entrambi i casi non si tratta di condictio ob turpem causam ma di condictio ob iniustam causam, ed è data al solvens la facoltà di esigere la restituzione. Il principio in pari causa, inoltre, non opera per le prestazioni oggetto di un contratto collegato a quello immorale ([66]), come quello, ad esempio, con il quale l’obbligazione immorale è garantita: la funzione dell’atto è socialmente apprezzabile ed è necessario capire, in base a valutazione di fatto, se le parti si siano servite del negozio immorale al fine di raggiungere uno scopo contrario al buon costume ([67]).

Non c’è dubbio che la norma stia subendo un processo di lenta e costante erosione che ne limita l’ambito di validità ([68]).

Il campo delle ipotesi contrarie ai boni mores viene via via occupato da quello dell’illegalità per violazione dell’ordine pubblico: poiché quest’ultima attiene ai fondamenti dell’ordinamento, la difesa delle libertà fondamentali è un compito che appartiene sempre più allo Stato (e di conseguenza al legislatore), in specie a seguito del riconoscimento costituzionale dei diritti individuali dell’individuo. Si capisce allora perché alcuni ritengano che la nozione di ordine pubblico conservi una sua autonomia nel nostro ordinamento soltanto nell’accezione di «ordine pubblico economico» ([69]).

5. Il problema della applicabilità della regola ex art. 2035 c.c. nei casi di negozi sia immorali per contrarietà al buon costume, sia illegali per contrarietà all’ordine pubblico o a norme imperative.

È, questo, il problema fondamentale in materia di causa turpe: se la regola della irripetibilità afferisca anche alle numerose ipotesi connotate sia dalla immoralità sia dall’illegalità. Le sezioni unite hanno ritenuto che la norma sia ugualmente applicabile ([70]).

V’è però chi obbietta che se il contratto è anche contrario all’ordine pubblico, le ragioni dell’ordine pubblico devono prevalere, con la conseguenza che la sanzione della nullità assorbe quella dell’irripetibilità ([71]). In concreto accade che, essendo la gran parte dei comportamenti immorali già proibita dall’ordinamento, seguendo la tesi estensiva si amplierebbe eccessivamente l’ambito di applicazione della regola; sarebbe quindi preferibile riservare l’impossibilità della condictio alla sola area dei comportamenti immorali che non siano anche illegali ([72]).

Questo suggerimento è stato accolto nell’ambito di una recente controversia ([73]): venditore ed acquirente si erano accordati per dichiarare, nell’atto pubblico di vendita di un immobile, un prezzo inferiore a quanto effettivamente concordato e corrisposto, al fine di versare un importo inferiore all’erario a titolo di imposte. La Corte, dopo aver opportunamente ribadito che la norma di cui all’art. 2035 c.c. funge da limite legale all’applicabilità dell’art. 2033 c.c. ed impone pertanto al giudice di accertare la contrarietà al buon costume dell’atto o del contratto, ha precisato che detto accertamento deve essere condotto «tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili – ai sensi dell’art. 2035 c.c. – i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, non anche le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative».

A fronte della complessità della questione, e dell’abitudine delle corti di rifarsi tralaticiamente ad affermazioni di principio “standardizzate”, è bene adottare particolare cautela nella lettura delle motivazioni, che non sempre rispecchiano la massima ([74]).

6. Inesperibilità dell’azione di arricchimento ingiustificato.

La norma contenuta nell’art. 2035 c.c., è ritenuta «tale da paralizzare persino l’azione generale di arricchimento, che pure costituisce lo strumento più idoneo, quando manchi qualunque altra azione, per farsi indennizzare il pregiudizio sofferto a causa della nullità di un contratto stipulato contra legem» ([75]). Ne consegue che prima di concedere non solo l’azione di ripetizione, ma qualsiasi rimedio restitutorio, inclusa l’azione di arricchimento, si dovrà escludere il carattere immorale della prestazione ([76]).

Le obbligazioni naturali e le prestazioni contrarie al buon costume trovano la loro disciplina all’interno della sezione dedicata al pagamento dell’indebito; e tuttavia si rivolgono pure alle ipotesi di arricchimento ingiustificato: sul piano sistematico, si tratta di una conferma che non vi è una norma-guida, l’art. 2041 c.c., che prevalga sugli altri istituti che ad essa devono ricondursi, ma esiste, piuttosto, una congerie di rimedi che formano, nel loro insieme, il diritto delle restituzioni, e che vivono tra loro in un rapporto non di centralità/subalternità, ma di complementarietà: nel loro insieme questi rimedi offrono, attraverso una gamma di modelli restitutori distinti che formano un microsistema completo, il carattere della completezza al sistema giuridico generale; essi conferiscono all’ordinamento quel carattere di esaustività che non trova adeguati riscontri nelle sole responsabilità civile e contrattuale ([77]).

E questa funzione “riempitiva”, ha una natura unitaria, la quale si riassume nella funzione restitutoria di rimedi variegati che si ricompongono unitariamente in un puzzle ove ogni pezzo non va considerato come parte a sé stante e fine a se stessa, ma come indispensabile tassello della volontà del legislatore di riequilibrio dei patrimoni e di tutela della sfera soggettiva all’insegna del costituzionale principio di solidarietà.

Ecco perché tutti i singoli rimedi restitutori, anzi il diritto delle restituzioni nel suo insieme, è sottoposto ai principi espressi agli articoli 2034 e 2035 c.c.; ecco perché detti articoli sono collocati all’interno di uno solo dei rimedi, e perché nulla importa che siano collocati lì e non altrove.

7. Brevi cenni sulle obbligazioni restitutorie derivanti da reato.

L’art. 185, comma 1º, c.p. rinvia espressamente alla disciplina civilistica, affermando che «ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili».

Il problema si è posto con riferimento ai reati di corruzione e di concussione ([78]), ed in particolare con riguardo alla restituibilità delle tangenti pagate ([79]): la Cassazione penale, in una fattispecie relativa al reato di cui all’art. 319 c.p., ha statuito che in capo al pubblico ufficiale corrotto nasce comunque un’obbligazione restitutoria ex art. 2033 c.c., non applicandosi l’art. 2035 c.c.: «in tema di corruzione, non costituisce preclusione alla condanna del pubblico ufficiale alla restituzione della somma versatagli dal privato, la natura illecita del patto, poiché unica eccezione alla ripetibilità dell’indebito è data dalla prestazione contraria al buon costume (art. 2035 c.c.), mentre va ricondotto allo schema dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di contratto nullo, in quanto viziato, tra l’altro, da motivo illecito, unico ed esclusivo; diritto il cui esercizio non è incompatibile con la qualità di imputato che, in conseguenza del contratto illecito, possa assumere colui che ha indebitamente pagato, poiché il titolo alla restituzione risiede nel fatto oggettivo dell’eseguito pagamento non dovuto» ([80]).

Quanto invece al contratto illecito coincidente con la fattispecie criminosa della concussione, si ritiene che il solvens concusso abbia diritto alla ripetizione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., in quanto egli non versa in pari causa turpitudinis rispetto all’autore del reato: i vizi psicologici che inficiano la determinazione del privato al contratto illecito, in questo caso, non incarnano una «significativa adesione morale del solvens alla turpitudo della prestazione che questi è costretto o indotto ad eseguire a vantaggio dell’accipiens» ([81]). L’immoralità sarebbe qui del solo percipiente, mentre il solvens potrebbe aver agito in modo non del tutto libero ([82]).

Quanto alla situazione psicologica del solvens di prestazione contraria al buon costume, è discusso se essa rilevi al momento della conclusione del contratto ([83]), ovvero solo al momento del pagamento ([84]).

In tema di confisca di somma ricavata dalla vendita di una dose di eroina, le Sezioni Unite penali hanno ritenuto il negozio di cessione, a fine di consumo, di sostanza stupefacente, un atto contrario a norme imperative, ma non anche al buon costume: «mentre la contrarietà di un atto al buon costume deve essere necessariamente bilaterale, nel negozio in questione è penalmente illecita solo la condotta di chi vende, non anche quella di chi acquista per uso personale. Ne consegue che ad esso non può applicarsi il principio in pari causa melior est condicio possidentis che è proprio dei negozi contrari al buon costume, onde lo spacciatore non ha diritto di ritenzione delle somme ottenute dalla cessione» ([85]).

Con riguardo, infine, ad un soggetto nei cui confronti era stata disposta l’applicazione di pena concordata per il reato di sfruttamento della prostituzione, si è escluso che egli avesse titolo ad ottenere la restituzione delle somme sequestrate ed acquisite in virtù di tale attività criminosa ([86]).

 

[1] L’art. 2034 c.c. disciplina le obbligazioni naturali: il secondo comma, riallacciandosi ai «doveri morali o sociali» di cui al primo comma, estende la soluti retentio ad ogni altro dovere «per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato». Si ritiene che nella formula, nonostante l’uso del termine «doveri», ricada anche l’ipotesi di prestazione contraria al buon costume prevista all’art. 2035 c.c. Ne consegue che anche per le obbligazioni nascenti da contratto turpe trovano applicazione le regole sancite dall’art. 2034 c.c., sicché: a) non si produce altro effetto all’infuori della soluti retentio; b) affinché si produca la soluti retentio occorre che la prestazione sia stata effettuata spontaneamente; c) l’operatività dell’art. 2035 c.c. è limitata al caso in cui il solvens, al momento dell’adempimento, sia un soggetto capace: altrimenti, la tutela dei soggetti incapaci, ancorché la loro attività sia qualificabile come turpe al momento del contratto, prevale sulla protezione del percipiente quando la prestazione è stata eseguita. Così, Rescigno, Ripetizione dell’indebito, in Noviss. Dig. It., XV, 1968, p. 1230.

L’opinione non è però pacifica: v. ad es. Bellizzi, Contratto illecito, reato e irripetibilità ob turpem causam, Torino, 1999, p. 51: «non appare suscettibile di analogia quanto espressamente disposto sulla capacità del solvens dall’art. 2034 c.c. in materia di obbligazioni naturali, poiché in tale contesto il meccanismo, in sé assiologicamente neutro, della soluti retentio si ispira ad una ratio radicalmente opposta». Analoga obbiezione era stata già sollevata, tra gli altri, da Moscati, Del pagamento dell’indebito. Artt. 2033-2040, inCommentario del Codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 309 ss. e p. 406, evidenziando però (p. 407) che l’impossibilità di ricondurre l’art. 2035 c.c. sotto la previsione del secondo comma dell’art. 2034 c.c., non significa che non debba tenersi conto dell’incapacità del solvens; al contrario questa, rileva sia in sede di conclusione del contratto, ove vale ad escludere l’immoralità del solvens, sia nella fase di esecuzione del contratto. Nel secondo caso, infatti, pur rimanendo la pattuizione immorale, la prestazione sarebbe ripetibile per effetto dell’inapplicabilità dell’art. 1191 c.c. (che come noto vieta al debitore di impugnare il pagamento a causa della propria incapacità): essendo il contratto nullo, «la mancanza del rapporto impedisce di considerare il solvens alla stregua di un debitore, sia pure incapace».

[2] Ma già sotto l’impero del codice del 1865 i giudici facevano applicazione della soluti retentio attraverso il richiamo, consentito dall’art. 3 delle Preleggi, agli antichi brocardi «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis» e «nemo auditur turpitudinem suam allegans». La stessa cosa accade tuttora, in mancanza di una norma codificata, in Francia: cfr. Tourneau, L’adage «nemo auditur…», Paris, 1970. Il principio è invece espressamente previsto, oltre che dall’art. 2035 del nostro attuale codice, dal § 817, comma 2º, BGB, dal § 1174 ABGB e dall’art. 66 OR, mentre in Olanda, l’art. 6:211 NBW dà facoltà al giudice di negare il diritto alla restituzione quando ciò sarebbe contrario alla buona fede o all’equità: cfr. KØtz, La invalidità dei contratti per contrarietà alla legge e al buon costume. Appunti di diritto comparato, in Riv. crit. dir. priv., 1995, p. 689 ss.

[3] Nota Giusiana, Movente e motivo illecito della disposizione testamentaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, p. 969, che «gli esempi di motivo illecito fatti in dottrina e giurisprudenza nel campo contrattuale … hanno riguardo alla rappresentazione del futuro risultato illecito che si conseguirà mediante il contratto».

[4] Levi, Il pagamento dell’indebito, Milano, 1989, p. 98.

[5] Moscati, op. cit., p. 387.

[6] Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 18 (lo stesso saggio è stato pubblicato anche in Studi in onore di Edoardo Volterra, V, Pubblicazioni della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, Roma, p. 336 ss.).

[7] Cass., 23 giugno 1961, n. 985, in Mass. Foro it., 1961, c. 244 ss.

[8] Cfr. Ferrara sen., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano, 1914, p. 290: «il principio della irripetibilità del pagamento ob turpem causam si costruisce in modo diverso che l’irrevocabilità del pagamento nelle obbligazioni naturali. Nelle obbligazioni naturali il pagamento è irrevocabile perché esso estingue un debitum se anche imperfetto e con substrato etico-sociale (…). Nelle obbligazioni con causa illecita invece il fondamento del rifiuto di agire è l’indegnità del solvens». La conclusione è che trattasi di «due principi distinti per scopo e per funzioni che tuttavia pervengono al medesimo risultato di rendere il pagamento irrevocabile».

[9] Roland-Boyer, Locutions latines et adages du droit franc·is contemporain, Lyon, 1986. La regola trova oggi puntuale espressione, oltre che nell’art. 2035 c.c., anche nel § 817 BGB tedesco, nel § 1174 ABGB austriaco e nell’art. 66 c.o. svizzero.

[10] La constatazione che la regola «in pari causa turpitudinis» viene dai giudici allargata al più ampio principio «nemo auditur turpitudinem suam allegans», è di Rescigno, Ripetizione dell’indebito, in Noviss. Dig .it., XV, 1968, p. 1230. V. ancora Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 345 ss., per i vari problemi di diritto familiare, come quelli ex artt. 265, 266, 263, ult. comma, c.c., che per mezzo del principio Nemo auditur sarebbe possibile risolvere nel diritto italiano ed in quello francese. L’autore (p. 399) nota anche che dopo aver così ampliato l’enunciazione della regola, se ne rifiuta però l’applicazione al diritto di famiglia, e fa gli esempi della domanda di divorzio o di annullamento del matrimonio, e della impugnazione per difetto di veridicità delle legittimazioni «di compiacenza».

Sulla illiceità: G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970; Palermo, Funzione illecita e autonomia privata, Milano, 1970; Ferrara sen., op. cit., 1914.

[11] Gallo, Ripetizione dell’indebito. L’arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Digesto/civ., Torino, 1998, § 18.

[12] Trabucchi, «Buon costume», in Enc. dir., V, Milano, 1959, p. 700.

[13] Panza, Buon costume e buona fede, Napoli, 1973.

[14] Sia chiaro che la prestazione sessuale è immorale soltanto in quanto fatta oggetto di uno “scambio”: non è immorale, evidentemente, e quindi non costituisce prestazione contraria al buon costume, la dazione di somme di denaro effettuata spontaneamente e non a titolo di corrispettivo a seguito di prestazioni omosessuali (è il caso di cui si è occupato Trib. Milano, 1 luglio 1993, in GIUS, 1994, fasc. 5, p. 103).

Il caso delle prestazioni sessuali a pagamento si connota, non solo in Italia ma anche su scala internazionale, come quello nel quale la giurisprudenza si mostra maggiormente compatta nel negare un diritto alla restituzione: ne dà atto D. Carusi, Ordine pubblico e buon costume, in Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta, a cura di L. Cabella Pisu e L. Nanni, Padova, 1998, p. 325. Non altrettanta decisione caratterizza i giudici europei, nei casi: 1) della locazione immobiliare, con programma, comune alle parti, di adibire l’immobile all’esercizio di un’attività illecita; 2) della consegna ad un soggetto di un bene, con mandato a farne un determinato uso illecito; 3) del pagamento in eccedenza rispetto ai prezzi o ai canoni di locazione determinati imperativamente dalla legge. Carusi riferisce che in questi tre casi, a differenza del primo, «si registrano sporadiche applicazioni della retentio ed una netta prevalenza di decisioni favorevoli alla ripetizione». Dello stesso autore cfr. anche Contratto illecito e «soluti retentio», Napoli, 1995, nonché Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 495. Tra i contributi più recenti in materia, segnalo anche le monografie di Delle Monache, Il negozio immorale tra negazione dei rimedi restitutori e tutela proprietaria. Per una riflessione sul sistema traslativo dei diritti, Padova, 1997 (Id., Della irripetibilità delle prestazioni «ob turpem causam» nel sistema del diritto italiano, in Riv. dir. civ., 2002, p. 697); di Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999; nonché, con particolare riguardo ai profili restitutori dei delitti di corruzione e concussione, di Bellizzi, Contratto illecito, reato e irripetibilità ob turpem causam, Torino, 1999 e di Rabitti, Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000.

[15] Nell’ipotesi di prezzo del delitto, l’art. 2035 c.c. viene applicato ad una somma di denaro data in corrispettivo di una prestazione illecita. È invece dubbio se la norma trovi applicazione riguardo ad una somma data con mandato a retribuire la prestazione illecita di un terzo: in senso contrario si è espressa Cass., 14 maggio 1955, n. 1378, in Giur. it., 1956, I, 1, c. 516.

[16] Tra le tante, Cass., sez. un., 17 luglio 1981, n. 4414, in Giust. civ., 1982, I, p. 2418: la nozione dei negozi contrari al buon costume non può essere limitata ai negozi contrari alle regole del pudore sessuale e della decenza, ma si estende fino a comprendere i negozi contrari a quei principi ed esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale in un determinato momento e in un determinato ambiente. Conforme: Cass., 23 marzo 1985 n. 2081, in Riv. notar., 1985, p. 1276.

In dottrina, cfr. Trabucchi, op. cit., p. 702, che sottolinea l’impossibilità di reperire il concetto di buon costume dall’ordine giuridico «come pretendevano di fare gli esegeti che tutto volevano trovare nell’ambito del codice», e ribadisce che tale concetto va invece identificato con «l’espressione della morale sentita dal popolo secondo il concetto di bene e le valutazioni seguite dai boni homines». V. però le osservazioni di Carusi, Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 517, nt. 64 e p. 518.

[17] Cass., 17 giugno 1950, n. 1555, in Foro it., 1951, I, c. 185.

[18] Cass., 17 giugno 1950, n. 1552, in Foro it., 1951, I, c. 185, con nota di Fragola, e in Giur. compl. Corte Supr. Cass. – sezioni civili, 1950, II, p. 506, con nota di Funaioli.

[19] Cass., 15 febbraio 1960, n. 234.

[20] Cass., 26 giugno 1973, n. 1829, in Mass. Foro it., 1973, c. 526 s.

[21] Cass., 23 giugno 1961, n. 985, in Mass. Foro it., 1961, c. 244 ss.

[22] Trib. Milano, 12 febbraio 2001, in GIUS, 2001, p. 2423.

[23] Cass., 26 maggio 1961, n. 1257, in Giur. it., 1961, I, 1, c. 1332.

[24] Ferri, Illiceità di convenzioni elettorali, in Riv. dir. comm., 1972, I, p. 20.

[25] Cass., 14 luglio 1972, n. 2420, in Foro it., 1973, I, c. 1224: la sentenza non distingue, però, tra somma data a titolo di compenso per lo stesso percipiente e somma data al percipiente in quanto da “girare” al funzionario quale prezzo della corruzione.

[26] Trib. Milano, 6 aprile 1961, in Giur. it., I, 2, c. 404. Per il divieto di sposare una determinata persona, v. Cass., 30 maggio 1953, n. 1633, in Mass. Foro it., 1953, c. 320 s.

[27] App., 4 maggio 1951, in Temi, 1952, p. 234.

[28] Cass., 14 marzo 1952, n. 672, in Mass. Foro it., 1952, c. 672.

[29] Cass., 30 giugno 1950, n. 1678, Mass. Foro it., 1950, c. 351.

[30] Arg. a contrario da Cass., 25 marzo 1966, n. 803, in Giur. it., 1967, I, 1, c. 960, che giudica immorale il contratto di prossenetico, ravvisando la presunzione della coartazione della volontà dei nubendi ad opera del prosseneta, nei casi in cui il compenso di quest’ultimo sia subordinato alla celebrazione del matrimonio.

[31] Trib. Monza, 27 ottobre 1989, in Foro it., 1990, I, c. 298, in Giur. merito, 1990, p. 240, in Giust. civ., 1990, I, p. 478, in Giur. it., 1990, I, 2, c. 296, in Dir. fam pers., 1990, p. 173 ed ivi, 1991, p. 191, con nota di Landolfi, Inseminazione artificiale e tutela del nascituro, ha respinto l’istanza di adempimento avanzata dalla coppia committente ed ha escluso la possibilità di ripetere quanto pagato in anticipo a titolo di compenso per la maternità surrogata. Trib. Napoli, 20 luglio 1988, in Dir. fam pers., 1988, p. 1728, in Dir. e giur., 1989, p. 544 ed in Giur. merito, 1990, p. 61, ha negato che il genitore biologico (ossia il soggetto partecipante al rapporto di procreazione mediante un apporto genetico) abbia, allo stato attuale della legislazione, alcun rilievo. Pertanto, ne ha escluso la titolarità di qualsiasi diritto-dovere nei confronti del nato prima del riconoscimento e, di conseguenza, ha escluso altresì il suo diritto ad assumere la qualità di parte processuale in un giudizio nel quale si controverte del rapporto di filiazione, rispetto al quale l’ordinamento riconosce unicamente situazioni legali. App. Salerno, 25 febbraio 1992, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 177, con nota di Bitetti, Contratti di maternità surrogata, adozione in casi particolari ed interesse del minore, ha affermato che, nonostante l’illiceità del contratto di maternità surrogata che preveda la cessione del nascituro, non è escluso che, una volta nato e volontariamente ceduto dalla madre biologica, il minore, riconosciuto dal padre naturale, possa essere dalla moglie di questi adottato ai sensi dell’art. 4, comma 4º, 1, lett. b) l. 4 maggio 1983 n. 184.

Per il problema dell’ammissibilità degli accordi di maternità surrogata, finalizzati cioè all’assunzione dell’obbligo di portare a termine la gravidanza per conto di una coppia sterile, v. Sesta, Norme imperative, ordine pubblico e buon costume: sono leciti gli accordi di surrogazione?, in Nuova giur. civ. comm., 2000, p. 203, il quale sottolinea l’esigenza di «un controllo di legittimità sotto il profilo della verifica di compatibilità con le disposizioni di cui all’art. 5 c.c., visto il carattere di atto di disposizione del corpo insito negli accordi di surrogazione».

[32] Cass., sez. un., 7 luglio 1981, n. 4414, in Giust. civ., 1982, I, p. 2418.

[33] Acquista quindi rilevanza anche la consapevolezza dell’agente in riferimento all’immoralità della propria condotta. Cfr. anche Cass., 23 marzo 1985, n. 2081, in Giust. civ. Mass., 1985, fasc. 3: «nel caso di contratto nullo per violazione di norme valutarie, che sia stato stipulato in un momento in cui la violazione stessa integrava mera infrazione amministrativa e non reato (nella specie, prima dell’entrata in vigore del d.l. 4 marzo 1976 n. 31, convertito in l. 30 aprile 1976 n. 159), l’esperibilità della condictio indebiti, per la ripetizione di quanto pagato in esecuzione del contratto stesso, non resta esclusa dal disposto dell’art. 2035 c.c.».

[34] Per una corretta applicazione di questa regola v. Cass., 14 maggio 1955, n. 1378, in Giur. it., 1956, I, 1, c. 516.

[35] Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, p. 585. La differenza tra contrarietà all’ordine pubblico e contrarietà al buon costume può desumersi, piuttosto che dal codice civile, dalla Costituzione, in particolare dagli artt. 19 e 21 ultimo comma.

[36] Cass., 18 ottobre 1982, n. 5408, in Giust. civ. Mass., 1982, fasc. 9.

[37] Tzarano, Ètude sue la règle “Nemo auditur propriam turpitudinem allegans”, Paris, 1926, p. 116 s.

[38] Erano favorevoli: F. Ferrara sen., Il pagamento ob turpem causam, in Stusi senesi, 1912, p. 148 ss.; Id., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano, 1902, p. 288 ss.; Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano esposta con la scorta della dottrina e giurisprudenza, Firenze, 1895-1899, V, p. 191; (e, nella settima edizione, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, V, Firenze, 1909, p. 210); Motta, La causa delle obbligazioni nel diritto civile italiano, Torino, 1929, pp. 326-327. Contrario all’irripetibilità fu, tra gli altri, N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, I, Parte generale, Milano, 1929, p. 21; v. inoltre le perplessità degli autori citati infra.

[39] Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1948, p. 380 s.

[40] App. Torino, 1º luglio 1947, in Foro pad., 2, 1947, I, c. 679, con nota di Roccarino.

[41] Cfr. Trabucchi, Buon costume, in Enc. dir., V, Milano, s.d., ma 1959, p. 700 ss.; ma già sotto il vecchio codice Ferrara sen., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano, 1902, p. 295 ss., ammoniva che «l’atto illecito non può servire da fondamento per sperimentare un diritto, l’ordine giuridico non ha da soccorrere colui che per la sua propria azione illecita soffre danno».

[42] Levi, Il pagamento dell’indebito, Milano, 1989, p. 94.

[43] De Martini, Ripetibilità della prestazione effettuata in dipendenza di un negozio immorale, in Giur. compl. Corte Supr. Cass. – sezioni civili, 1947, III, p. 1206; Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, II, Le fonti, Milano, 1964, p. 381; G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e teoria del contratto, Milano, 1970, p. 155; secondo Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, V, Firenze, 1909, p. 210, «i fatti illeciti e i fatti turpi non debbono interessare la giustizia come fonti di diritti per chi li commise, ma solo come materia di punizione». Gallo, Pene private private e responsabilità civile, Milano, 1996, passim, attribuisce alla regola la natura di pena privata.

[44] Delle Monache, Della irripetibilità delle prestazioni «ob turpem causam» nel sistema del diritto italiano, cit., p. 699 (e già Id., Il negozio immorale tra negazione dei rimedi restitutori e tutela proprietaria, cit., p. 230 ss.).

[45] Carusi, Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 504 ss.

[46] Carusi, Contratto illecito e «soluti retentio», Napoli, 1995, p. 17. L’opinione si basa sulla convinzione dell’autore che l’ambito operativo dell’art. 2035 c.c. sia limitato fondamentalmente alle attribuzioni eseguite in corrispettivo di prestazioni aventi ad oggetto un facere illecito, e che in tali casi il solvens della prestazione di facere, prestazione come tale non commerciabile, non goda della tutela restitutoria (neanche attraverso l’actio de in rem verso).

[47] Villa, Contratto illecito ed irripetibilità della prestazione. Una analisi economica, Q, 1992, p. 19; dello stesso autore cfr. anche Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993.

[48] Villa, Contratto illecito ed irripetibilità della prestazione, cit., p. 30, p. 32: «la nullità, se viene privata di alcuni mezzi sussidiari diretti a rafforzarne gli effetti, solo in alcuni casi marginali è in grado di evitare costantemente lo scambio indesiderato; in altri casi lo è solo a volte; in altre ipotesi ancora, non lo è affatto». Solamente nel contratto aleatorio la nullità sarebbe di per sé sufficiente deterrente contro l’esecuzione dell’accordo.

[49] Villa, Contratto illecito ed irripetibilità della prestazione, cit., p. 48. L’irripetibilità avrebbe una sua utilità, inoltre, anche in un altro senso: «se la prestazione resa consiste in un servizio, o se la cosa prestata è stata consumata, o si è confusa nel patrimonio dell’accipiens, sarebbe impossibile una restituzione in natura; pertanto, ammettendo la ripetizione, essa dovrebbe avvenire per equivalente: ma ciò potrebbe ricreare per altre vie uno scambio analogo a quello illecito che preveda un corrispettivo in denaro».

[50] Per una critica alla regola quieta non movere v. Panza, L’antinomia fra gli artt. 2033 e 2035 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 1183; Id., Buon costume e buona fede, Napoli, 1973, p. 291, ove si osserva che la immoralità in cui versa l’accipiens è maggiore di quella del solvens, poiché il primo è venuto meno all’impegno assunto, in spregio alla regola pacta sunt servanda; analogamente, Quadri, Ordine pubblico e nullità di contratti immobiliari non registrati, in Giur. it., 1946, I, 2, c. 161, dopo aver evidenziato la profonda moralità sottesa alla regola pacta sunt servanda, annota che l’accipiens che non ha eseguito la controprestazione ha violato anche questa regola morale; anche per Moscati, Del pagamento dell’indebito. Artt. 2033-2040, cit., p. 369, il solvens, che tenta di evitare un danno, avrebbe diritto a tutela più dell’accipiens, il quale può invece godere della prestazione ricevuta grazie all’immoralità del contratto.

Va anche detto, però, che non può parlarsi di pari turpitudine, né applicare il relativo principio, qualora il solvens abbia semplicemente subito la violenza o il dolo del percipiente.

[51] In argomento: Ajani, Le fonti non scritte del diritto dei Paesi socialisti, Milano, 1985.

[52] Ad eccezione, però, del codice civile portoghese e del codice civile messicano del 1938.

[53] Così, almeno riguardo ai giuristi inglesi, sospetta Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 406.

[54] Cfr. Grodecki, In pari delicto potior est condicio defendentis, in Law Quart. Rev., 71, 1955, p. 267 s., il quale, in senso contrario, obbietta che «la confisca da parte della Stato è, peraltro, una sanzione penale e l’intrusione di essa nel campo del contratto, se talvolta è inevitabile, non dovrebbe essere incoraggiata. Un altro difetto consiste in ciò, che si priva l’attore di ogni sostanziale interesse nella vicenda, col risultato che molte convenzioni illecite rimarranno nascoste agli occhi della legge». Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 406, considera più fondato il timore «che gli appetiti del fisco finiscano per impedire o pregiudicare una serena valutazione della immoralità delle convenzioni private».

[55] Schlesinger, Il pagamento al terzo, Milano, 1961, p. 26, nt. 11, il quale conferma che «in tal modo, si rispetta pienamente il principio per cui il pagamento ob turpem causam non può essere allegato in giudizio, perché né può invocarlo il tradens per far valere la mancanza di iusta causa del pagamento effettuato, né l’accipiens per paralizzare l’azione reale del dominus».

[56] Delle Monache, Il negozio immorale tra negazione dei rimedi restitutori e tutela proprietaria, cit., p. 138, p. 259 ss., p. 263, secondo cui se il principio di irripetibilità valesse anche da limite all’esercizio dell’azione di rivendicazione, saremmo costretti ad ammettere che nel nostro ordinamento esiste un diritto dominicale privo dello strumento tipico che deve assicurarne la tutela in sede giudiziaria. È interessante notare che quest’autore revoca in dubbio il tradizionale convincimento secondo il quale il rivendicante ha l’onere di provare l’acquisto a titolo originario della proprietà sul bene rivendicato: chi agisce in rivendica potrebbe limitarsi a provare l’esistenza del negozio con il quale gli è stato trasferito il bene, mentre spetterebbe al convenuto provare i fatti impeditivi o estintivi.

[57] Sacco, in Sacco-De Nova, Il contratto, I, Torino, 1993, p. 699 ss. Per l’idea contraria, secondo cui l’art. 2035 c.c. non precluderebbe soltanto la ripetizione, ma anche la rivendicazione, partendo dal presupposto che l’accipiens acquista la proprietà del solutum: Carusi, Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 504.

[58] Sulla compatibilità tra azione personale di ripetizione ed azione reale di rivendicazione, e sulle conseguenze della diversa qualificazione della domanda, v. Albanese, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, pp. 54-96.

[59] Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, p. 758 s.

[60] Cass., sez. un., 7 luglio 1981 n. 4414, in Giust. civ. Mass., 1981, fasc. 7.

[61] Sull’illiceità del contratto v. Kotz, La invalidità dei contratti per contrarietà alla legge e al buon costume. Appunti di diritto comparato, tr. It. Lo Surdo, in Riv. crit. dir. priv., 1995, p. 675 ss., il quale osserva che in ogni Paese nel quale la regola dell’irripetibilità delle prestazioni immorali è stata recepita dalla legge o riconosciuta dalla giurisprudenza, la sua applicazione pratica è diventata sempre più difficile con i rapporti moderni: «finché si trattava di casi in cui i partecipanti avessero violato elementari precetti consuetudinari o si fossero accordati per la perpetrazione di un atto inequivocabilmente punibile, poteva ancora essere plausibile giustificare il divieto di ripetizione … Oggi … il problema si pone per lo più in casi in cui il negozio viola divieti di mero carattere tecnico, volti a realizzare precisi fini di politica economica e sociale, anche ignoti a una o addirittura ad entrambe le parti al momento della conclusione del contratto».

[62] Pothier, Trattato delle obbligazioni, I, Napoli, 1832, p. 68; Ripert, La règle morale dans les obligations civiles, Paris, 1949, p. 190; Mazeaut, Lecons de droit civil, Paris, 1968-1973, p. 704.

[63] Von Thur, Der Allgemeine Teil des deutschen Burgelichen Rechts, Berlino, 1910-1918, I, 1, p. 33.

[64] Cfr. Grodecki, In pari delicto potior est condicio defendentis, cit., p. 258 ss.

[65] Ne dà atto Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 366 s. (v. anche la giurisprudenza ivi citata), il quale osserva che si tratta di una maniera di correggere e ridurre la regola in pari causa, e crede che anche nel nostro sistema l’indagine sull’interesse protetto potrebbe avere un suo rilievo: «servirebbe a fondare l’inapplicabilità dell’art. 2035 al contratto in fraudem legis (almeno nella normalità dei casi) per altra via che non sia la mera distinzione tra condictio ob turpem e condictio ob iniustam causam (intesa la causa iniusta in un significato ampio, comprensivo della frode)».

[66] In argomento, cfr. Grassetti, Negozio collegato, negozio illegale e ripetibilità del pagamento, in Temi, 1951, p. 154.

[67] Moscati, Del pagamento dell’indebito. Artt. 2033-2040, cit., p. 396 s.

[68] Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 335, il quale nel suo importante saggio si è posto, appunto, l’obbiettivo di mettere in evidenza come la regola in pari causa, sebbene formalmente accettata ovunque, sia da tempo in crisi presso la giurisprudenza pratica, concludendo la sua analisi (p. 408) nel senso che la norma operante di fatto è in realtà una versione talmente ridotta dell’art. 2035 c.c. che è difficile riconoscervi la formula legislativa.

[69] Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Studi in onore di Edoardo Volterra, cit., p. 380: «intendendo l’ordine pubblico nel senso di “ordine pubblico economico”, appare plausibile l’affermazione che l’art. 2035 non vi abbia riguardo e che limiti l’irripetibilità alle prestazioni contrarie ai boni mores nel senso tradizionale. La ripetizione del prestato è da ritenersi, dunque, consentita quando la convenzione urti contro i principi che si riassumono nel c.d. ordine pubblico economico».

[70] Per la sopraccitata Cass., sez. un., 7 luglio 1981, n. 4414, in Giust. civ., 1982, I, p. 2418, «l’accertamento della nullità di un contratto per contrarietà a norme imperative (art. 1343 c.c.), non impedisce un’autonoma valutazione dell’atto dal punto di vista della eventuale sua immoralità, al fine di negare l’azione di ripetizione». La soluzione ha l’appoggio di una parte sempre più consistente, della dottrina: Trabucchi, «Buon costume», in Enc. dir., V, Milano, 1959, p. 701; Moscati, Del pagamento dell’indebito. Artt. 2033-2040, cit., pp. 380-383; e, più di recente, di Levi, Il pagamento dell’indebito, Milano, 1989, p. 102 s., il quale dopo aver ricordato che quasi sempre ordine pubblico e buon costume sono considerati insieme, sicché normalmente non è necessario distinguere i due concetti, conclude: «il fatto poi che anche il legislatore del 1942, su influenza dei redattori del codice napoleonico e del vecchio codice, abbia creato una indissolubilità tra ordine pubblico e buon costume, se si eccettua l’art. 2035, dà ragione alla giurisprudenza che non distingue tra ordine pubblico e buon costume neppure nell’art. 2035».

Anche Gallo, Ripetizione dell’indebito. L’arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Digesto/civ., Torino, 1998, § 18, pur riconoscendo che nel nostro ordinamento la regola dell’irripetibilità è limitata ai soli casi di immoralità in senso stretto e non può essere applicata ai casi di semplice illegalità o contrarietà a norme imperative, aggiunge: «sempreché nel caso di specie non sia possibile ravvisare un cumulo dei profili di illegalità con quelli di immoralità o contrarietà ai buoni costumi».

Si è affermato che nei (pochi) casi nei quali nel nostro ordinamento è stato menzionato il solo buon costume con esclusione di ogni riferimento all’ordine pubblico, «si è voluta escludere ogni limitazione della libertà che sia legata a contingenti valutazioni di indole politica» (Rescigno, «In pari causa turpitudinis», in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 27).

[71] Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, 218; Carresi, Il negozio illecito per contrarietà al buon costume, in Riv. trim dir. proc., 1949, p. 35 ss.; G.B. Ferri, Illiceità di convenzioni elettorali, in Riv. dir. comm., 1972, I, p. 22.

[72] Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, p. 758 s.

[73] Trib. Milano, 2 dicembre 1999, in Giur. milanese, 2000, p. 149. Conforme: Cass., 18 giugno 1987, n. 5371, in Giust. civ., 1988, I, p. 197; Cass., 18 novembre 1995, n. 11973, in Giust. civ. Mass., 1995, fasc. 11: «il pagamento effettuato in base a contratto nullo per contrarietà a norme imperative configura un’ipotesi di indebito oggettivo cui consegue per il disposto dell’art. 2033 c.c. (diversamente dalla nullità per contrarietà dal buon costume) la ripetibilità di quanto sia stato pagato».

[74] È quanto accade, ad esempio, per Cass., 18 giugno 1987, n. 5371, in Giust. civ., 1988, I, p. 187, la cui massima recita: «in materia di ripetizione di indebito la norma di cui all’art. 2035 c.c. funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033 ed impone al giudice di accertare la contrarietà al buon costume dell’atto o del contratto, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili – ai sensi dell’art. 2035 c.c. – i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, non anche le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative». Dalla lettura della massima, sembrerebbe che la Corte abbia abbracciato la tesi che esclude l’operatività dell’art. 2035 c.c. nei casi in cui uno stesso negozio sia qualificabile come contrario a ordine pubblico o norma imperativa da un lato, e immorale dall’altro. Dalla lettura della motivazione, tuttavia, emerge chiaramente come la massima sia infedele: la Corte sancisce, infatti, che «il giudice di merito chiamato a pronunziarsi su di una condictio ob iniustam causam deve procedere d’ufficio o sulla base delle risultanze processuali acquisite all’ulteriore valutazione dell’atto o del contratto, di cui già abbia ravvisato la illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua eventuale contrarietà al buon costume». La parte massimata della sentenza, allora, significa semplicemente che ai fini dell’irripetibilità occorre accertarsi che la prestazione sia connotata, anche o esclusivamente, dal carattere dell’immoralità.

[75] Cass., 21 luglio 1979, n. 4398, in Giust. civ. Mass., 1979, fasc. 7; Cass., 7 giugno 1957, n. 2104, in Giust. civ., 1957, I, p. 1193; recentemente, sebbene incidentalmente, Cass., 18 luglio 2002, n. 10427, in www.deaprofessionale.it. V. amplius Albanese, Le obbligazioni restitutorie, in Le Obbligazioni. Tratt. dir. da M. Franzoni, parte III, Torino, 2004, cap. 2°, sez. III, § 3.1.4.

[76] Cfr. Cass., 2 novembre 1998, n. 8722, in Contratti, 1999, p. 29, con nota di Mucio: «il contratto stipulato dal privato con la p.a., ma nullo per difetto di forma scritta, non può essere considerato contrario al buon costume ai sensi dell’art. 2035 c.c. Ne consegue che il privato, il quale abbia effettivamente eseguito la propria prestazione, può utilmente agire nei confronti della p.a. con l’azione di indebito arricchimento».

[77] Per questa impostazione, cfr. Albanese, ult. op. cit., sez. I; Id., Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, p. 44 ss.

[78] In argomento, di recente, Rabitti, Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000, p. 225 ss.

[79] Schlesinger, Tangenti: profili civilistici e concorsuali, in Foro amm., 1995, c. 550, offre un ampio ventaglio delle opzioni entro le quali è possibile inquadrare il contratto concluso in dipendenza della tangente: nullità per illiceità della causa; nullità per illiceità dell’oggetto; nullità per contrarietà a norme imperative; nullità perché non corrisponde ad interessi meritevoli di tutela; nullità per illiceità del motivo unico e determinante; nullità per frode alla legge; annullabilità per conflitto di interessi; annullabilità per dolo.

[80] Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 1993, in Cass. pen., 1994, p. 1840, in Giur. it., 1994, II, c. 580, in Inf. prev., 1993, fasc. 8, p. 119 ed in Giust. pen., 1994, II, p. 75: in questo caso, pertanto, la Corte non ha rilevato l’immoralità ed ha pertanto sancito il nascere di un’obbligazione restitutoria. Contra: Bellizzi, Contratto illecito, reato e irripetibilità ob turpem causam, cit., p. 45: “Contrariamente a quanto stabilito dalla Cassazione, appare fin troppo facile osservare che il corruttore «non può ripetere quanto ha pagato», incarnando perfettamente “chi ha eseguito un prestazione che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume” ex art. 2035 c.c.». Anche Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, p. 162, ritiene che il contratto concluso a seguito del pagamento di tangenti sia immorale «sia che la tangente sia pagata da un pubblico funzionario, sia che la tangente sia pagata da un privato per indurlo all’infedeltà patrimoniale». Rabitti, Contratto illecito e norma penale, cit., p. 233 s., invita a distinguere l’oggetto della valutazione dai parametri del giudizio, ossia tra fattispecie negoziale da un lato e norme imperative, ordine pubblico e buon costume dall’altro, con la conseguenza che uno stesso contratto può risultare contrario a più parametri ed è ad esso applicabile l’art. 2035 c.c.

Soluzione opposta a quella della Suprema Corte è stata data da Trib. Milano, 14 aprile 1997, in Riv. arbitrato, 1998, p. 275 con nota di Criscuolo, che ha negato la ripetizione applicando l’art. 2035 c.c., rilevando l’illiceità degli accordi per contrarietà al buon costume, giacché «il disegno criminoso … ha determinato la volontà degli amministratori della (parte pubblica) e quella degli imprenditori, volta a lucrare tangenti per i primi e profitti contrattuali per i secondi».

[81] Bellizzi, Contratto illecito, reato e irripetibilità ob turpem causam, cit., p. 45; cfr. anche Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, p. 163 s.

[82] Si tenga però presente che in tema di reati contro la p.a., è configurabile il delitto di corruzione anziché quello di concussione quando, pur sull’iniziativa del pubblico ufficiale, l’accordo tra questi ed il privato venga raggiunto su un piano di sostanziale parità senza alcun riguardo al momento iniziale della proposta ed alla necessità di individuare l’autore di questa (cfr. Trib. Milano, 26 gennaio 2000, Foro Ambrosiano, 2001, c. 1, con nota di Amati).

[83] Delle Monache, Il negozio immorale tra negazione dei rimedi restitutori e tutela proprietaria, cit., p. 199 ss.

[84] Carusi, Contratto illecito e «soluti retentio», Napoli, 1995, p. 174.

[85] Cass. pen., sez. un., 27 settembre 1995, n. 10372, in Cass. pen., 1996, p. 67, con nota di Carcano, in Giust. pen., 1996, II, p. 281, in Riv. polizia, 1996, p. 513, e in Giur. it., 1996, II, c. 316, con nota di Boldo. Analogamente, Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 1990, in Riv. pen., 1991, p. 481, in Giust. pen., 1991, II, p. 354 ed in Cass. pen., 1992, p. 2078: «in tema di estorsione, il profitto deve ritenersi ingiusto allorché sia fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento giuridico né in via diretta – quando, cioè, si riconosce al suo titolare il potere di farla valere in giudizio – né in via indiretta – quando, pur negandosi il potere di agire, si accordi il diritto di ritenere quanto spontaneamente sia stato adempiuto, come nel caso delle obbligazioni naturali menzionate nell’art. 2034 c.c. Ne consegue, pertanto, che, essendo il contratto di cessione di droga nullo per illiceità della causa e non potendo sorgere dalla sua stipulazione, alcuna pretesa tutelata dall’ordinamento, nessun dubbio può esservi sul carattere ingiusto del profitto perseguito da chi, con minacce e percosse, costringa un’altra persona a farsi consegnare una certa somma quale prezzo della droga consegnatale, e quindi sulla piena sussistenza di questo elemento costitutivo, del delitto di cui all’art. 629 c.p., non potendosi peraltro, invocare la tutela indiretta predisposta dall’art. 2035 c.c., con il riconoscimento della soluti retentio, trattandosi di norma che fa riferimento ad un atto contrario al buon costume, e non, come nel caso di specie, ad un atto contrario a norme imperative, secondo la distinzione contenuta nell’art. 1343 c.c.».

Cass. pen., sez. IV, 26 marzo 1996, n. 4254, in Cass. pen., 1997, p. 2544, ha evidenziato, tra l’altro, che, non potendosi ritenere di buona fede il possesso di somme provenienti da negozio contrario a norme di ordine pubblico ed al buon costume in virtù di una negoziazione costituente reato e, comunque, ingiusta secondo la coscienza comune anche delle persone meno dotate, colui il quale riceve denaro costituente compenso della cessione della droga viene a trovarsi rispetto al bene in una relazione puramente materiale, segnata da malafede originaria e, perciò, priva di alcuna rilevanza e tutela giuridica ed escludente ogni titolarità. La confisca, pertanto, finisce per colpire un bene mai entrato nel patrimonio dello spacciatore, che non ha titolo ad ottenere la restituzione conseguente all’annullamento della confisca.

[86] Cass. pen., sez. III, 4 aprile 1997, n. 1550, in Cass. pen., 1998, p. 1187. 

Autore: Prof. avv. Antonio Albanese

Cofondatore e Direttore scientifico Lexenia. Direttore della Scuola avvocati e della Scuola Magistratura. Avvocato e Professore associato confermato di Diritto privato (con abilitazione da Professore ordinario) nell'Università di Bologna – Giurisprudenza, presso la quale è stato altresì titolare della Cattedra di Diritto dei contratti. È docente di Diritto civile nel corso di Laurea Magistrale a Bologna, di Diritto privato nel corso per Giuristi d'impresa a Ravenna e di Diritto privato dell’impresa presso il Dipartimento di Economia di Rimini. Insegna Diritto delle Successioni presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università di Bologna. Ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per l'accesso al ruolo di professore di prima fascia nel settore concorsuale 12/A1 - Diritto Privato. Ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca con lode presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. Ha svolto attività di ricerca in Inghilterra, Francia e Spagna. È membro del Comitato di redazione della rivista Contratto e impresa e dell’Osservatorio della rivista Diritto delle successioni e della famiglia (ESI). È componente del Comitato scientifico nazionale dell'Ant (Assistenza nazionale tumori, per la quale organizza Convegni nazionali per la raccolta fondi e ha presentato una Proposta di legge che favorisca i lasciti solidali). È membro del Comitato scientifico della Biblioteca del Dipartimento di Scienze giuridiche “Antonio Cicu” (maggiore biblioteca giuridica europea). Vincitore di un premio nazionale nel 2004 per la Ricerca, di un premio internazionale nel 2011 e del premio Eubiosia 2017, ha pubblicato un centinaio di saggi e 11 libri per le maggiori Collane internazionali, tra cui: “L’omologazione degli atti societari”, Cedam, Padova, 2000; “Il pagamento dell’indebito”, Cedam, Padova, 2004; “Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa”, Cedam, Padova, 2005; “Della cessione del contratto”, in Comm. del cod. civ. Scialoja–Branca, Zanichelli, Bologna-Roma, 2008; “Della collazione. Del pagamento dei debiti”, in Commentario Schlesinger dir. da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2009; “Della successione legittima” per il Commentario Schlesinger dir. da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2012; “Revocazione delle disposizioni testamentarie. Sostituzioni. Esecutori testamentari”, in Comm. del cod. civ. Scialoja–Branca, Zanichelli, Bologna, 2015; “Profili successori delle nuove famiglie”, Pacini, Pisa, 2018. Ha inoltre diretto e coordinato il II Libro c.c., in Codice civile commentato Giappichelli, a cura di M. Franzoni e R. Rolli, Torino, Giappichelli, 2018. È Direttore del volume collettaneo “Le nuove famiglie", Pacini, Pisa, 2019. Compositore e scrittore, ha conseguito numerosi Premi nazionali e internazionali di Poesia e ha fondato con Lexenia il Premio internazionale “Arte e Giustizia”. Ha dato vita al master in Diritto della musica, realizzato a Milano e a Roma. In qualità di compositore, ha collaborato con la band di Lucio Dalla (brani interpretati da Iskra Menarini e arrangiati ed eseguiti da Bruno Mariani) e con musicisti di livello internazionale, come Frank Nemola (Vasco Rossi), Enrico Guerzoni (Bocelli e Zucchero) e Pietro Posani (talent “Amici”). Ha vinto il Primo premio al concorso “Provincia cronica 2018” dedicato a Fabrizio De Andrè e al concorso “George Orwell, L’inganno della realtà” in nome di Fabrizio De Andrè. Autore finalista al Sanremo Music awards 2017 e presente nel relativo cd. Ha ricevuto la Menzione di merito al Premio Internazionale Salvatore Quasimodo (in giuria: Mogol) e un suo testo è stato selezionato per la pubblicazione nell’antologia del Premio Cet Scuola Autori di Mogol. È scrittore menzionato nell'Enciclopedia di Poesia Contemporanea 2018 ei suoi testi poetici sono stati pubblicati nell’Antologia 2019 della Fondazione Mario Luzi. È stato l’unico autore del Premio Mario Soldati 2018 (indetto dal Centro Pannunzio di Torino), finalista sia nella sezione Poesia sia nella sezione Narrativa. Il racconto “Candida”, quale vincitore del Concorso “Racconti tricolore”, è stato presentato al salone internazionale del Libro di Torino 2019. Nel marzo 2019 ha ricevuto la Publica Laus dalla Università Pontificia Salesiana al Certamen Apollinare Poeticum e nello stesso anno ha vinto il Premio Teatro Aurelio. Nel febbraio 2020 è stato pubblicato il suo primo romanzo, intitolato “L’abrogazione dell’amore. Una cronaca imparziale del 2038 e di come la Legge sconfisse il Diritto”, Edizioni Il Viandante, che ha sullo sfondo l’eterno dibattito giuridico tra giuspositivismo e giusnaturalismo.

Potrebbero interessarti anche:

  • Non sembrano esserci contributi relazionati