Il difficile cammino verso un diritto penale europeo minimo

Alfredo Montagna, Il difficile cammino verso un diritto penale europeo minimo, in Cass. pen, 2007, 2, p. 805.

Il difficile cammino verso un diritto penale europeo minimo

 

Premessa

Analizzare il difficile tema dei rapporti tra diritto comunitario e diritto del singolo Stato membro all’interno del sistema delle fonti del diritto richiede una sia pur breve premessa sui Trattati Europei, nati tra il 1951 ed il 19571, oggetto di fusione nel 19652, oggi conosciuti nella versione rielaborata ad Amsterdam, e più in particolare sugli strumenti attraverso i quali si realizza la produzione normativa di rango sovranazionale. E’ noto come il Trattato di Maastrict sull’Unione Europea3 si presenti articolato in quelli che vengono definiti Pilastri, infatti il nucleo storico del diritto comunitario è collocato nel primo Pilastro (Titolo II, disposizioni che modificano il trattato che istituisce la Comunità economica europea per creare la Comunità europea, Titolo III, Disposizioni che modificano il trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, Titolo IV, Disposizioni che modificano il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica)4, il secondo Pilastro è relativo alla politica estera e di sicurezza comune (Titolo V5), ed infine il terzo Pilastro attiene alla cooperazione in materia di giustizia e affari interni (Titolo VI), ed in relazione a ciò va in primis rilevata la progressiva comunitarizzazione dei contenuti del terzo Pilastro, con la fuoriuscita dallo stesso delle “questioni di interesse comune”, con la compressione dell’ambito di applicazione ai soli settori della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (ma finendo con l’estendere i suoi confini anche al riavvicinamento delle norme sostanziali dei diritti penali nazionali), e con il passaggio di tali materie all’interno del Pilastro comunitario con l’inserimento nel Trattato CE (si pensi alla lotta alle frodi comunitarie inserita nell’art. 280-ex 209 A, la lotta alle tossicodipendenze ricondotta all’art. 152- ex 129; la cooperazione doganale portata nell’art. 135-ex116, o infine all’intero Titolo III bis ora Titolo IV)6.

In relazione a tale divisione tematica si articolano le competenze e, per quanto più

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 interessa, risalgono alla Commissione quelle sulle norme di diritto comunitario di primo Pilastro, ed al Consiglio quelle di terzo Pilastro.

Più specificamente per l’assolvimento dei propri compiti il Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o pareri.

Il Regolamento ha 1) una portata generale, esso è 2) obbligatorio in tutti i suoi elementi e 3) direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.

La Direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Infine la Decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari, mentre le raccomandazioni ed i Pareri non sono vincolanti.

In relazione ai primi (i regolamenti) sussiste un carattere primario del potere regolamentare del Consiglio ed uno subordinato della Commissione (che si risolve nel potere di adottare regolamenti di esecuzione di altri regolamenti), esercitato all’esito di una procedura comunque attivata dalla Commissione, e con una efficacia obbligatoria per qualsiasi interessato. A differenza dei regolamenti le Direttive non hanno una portata generale e lasciano allo Stato membro la facoltà di scegliere le misure giudicate idonee a raggiungere l’obiettivo comunitario7 (in questo caso si parla di una efficacia mediata). La efficacia immediata delle direttive viene presa in esame in caso di direttive particolareggiate idonee ad attribuire ai singoli diritti nei confronti dello Stato, ovvero in senso verticale (il cui sviluppo, in presenza di specifiche condizioni, è il diritto al risarcimento). Peraltro la scadenza del termine di attuazione consente alla Commissione di attivare la procedura di cui all’art. 226 del Trattato (emissione del parere motivato a termine e successivo ricorso alla Corte di giustizia)8. La terza categoria degli atti delle istituzioni comunitarie, che qui interessa ricordare per le riflessioni che seguono, è costituita dalle Decisioni, un termine utilizzato in genere per indicare il potere delle istituzioni di deliberare in ordine a determinate materie, e pertanto ambiguo; ma con la caratteristica fondamentale della sua portata individuale, ovvero della sua riferibilità ai soli destinatari, individui o Stati9.

 

Lo sviluppo del rapporto tra diritto comunitario e diritto interno

Su questa sia pur breve premessa può passarsi all’esame del rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, che si mostra particolarmente complesso, e che ha spesso dato origine a controversie tra la Corte di Giustizia e le Corti Costituzionali, in particolare quella tedesca e quella del nostro paese. Peraltro il diritto comunitario risulta formato da un complesso di elementi nel quale le norme dei trattati istitutivi rappresentano soltanto la prima fonte, ed alle quali si aggiungono le norme di diritto derivato, in primis i regolamenti e le direttive adottate dagli organi comunitari, così come le sentenze della Corte di Giustizia, intervenuta nelle procedure di infrazione o in via pregiudiziale in tema di interpretazione del diritto comunitario.

Nel corso della evoluzione giurisprudenziale conseguentemente intercorsa è possibile individuare alcuni punti fermi, ed in primis il concetto che il Trattato CE ha di fatto realizzato un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani (causa 26/62, Van Gend en Loos, raccolta CGCE, 1963, 1, decisione del 1973).

Una affermazione che trova un aggancio costituzionale nell’art. 11 per il quale ““L’Italia .…consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni…”, nel richiamo ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario contenuto nell’art. 117, e nelle pronunce per le quali l’ordinamento comunitario e l’ordinamento statale sono distinti ma al tempo stesso coordinati10 così che le norme comunitarie ricevono diretta applicazione nell’ordinamento interno, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti, comportando non la caducazione, bensì solo la non applicazione, da parte del giudice nazionale, della norma interna incompatibile.

Infatti con la sentenza n. 170/1984 la Corte Costituzionale aveva avuto modo di affermare come nelle materie riservate alla normazione delle Comunità Europee il giudice ordinario dovesse applicare direttamente la norma comunitaria, la quale prevale sulla legge nazionale incompatibile, anteriore o successiva; ciò in quanto l’ordinamento dello Stato e quello della Comunità europea sono due sistemi reciprocamente autonomi e, al tempo stesso, coordinati secondo le previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma oggetto, in forza dell’art. 11 Cost., di una specifica, piena e continua garanzia (Corte Costituzionale 19 aprile 1985 n. 113). In particolare nella decisione 113 del 1985 il giudice delle leggi, dopo avere ribadito che allorquando una fattispecie cada sotto il disposto della disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. immediatamente applicabile nel territorio dello Stato, la regola comunitaria deve ricevere da parte del giudice statale necessaria ed immediata applicazione – pur in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello Stato, non importa se anteriore o successiva, precisava come tale percorso dovesse essere rispettato non soltanto ove si tratti di disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento, ma anche di statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Giurisprudenza confermata anche successivamente in occasione di questione vertente sulla libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi dei lavoratori autonomi, allorché ci si riferiva agli artt. 52 e 59 del Trattato, come interpretati, in sede di giudizio promosso a norma dell’art. 169, dalla Corte di Giustizia (Corte Costituzionale 4 luglio 1989 n. 389).

Ma l’interpretazione e l’applicazione del Trattato, e delle disposizioni comunitarie in genere, non sono riservate al solo giudice comunitario, atteso che “ è compito dei giudici nazionali incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del diritto comunitario, garantire la piena efficacia di tali norme e tutelare i diritti attribuiti ai singoli” (CGCE 19/11/91, Francovich, C 6/90 e C9/90, Raccolta 1991, p.I, 5357); giudici definiti dalla stessa Corte quali giudici comuni del diritto comunitario.

L’ordinamento comunitario viene così visto come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune (causa 6/64, Costa c. Enel, raccolta CGCE, 1964, 1127).

Una immediata comprensione di questa gerarchia si ha con riferimento ai Regolamenti comunitari, occupandosi dei quali la Corte di Giustizia (in un caso nel quale era stata chiamata a giudicare sui rapporti fra un regolamento ed una legge nazionale italiana) elaborò il concetto di preminenza o supremazia dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento interno affermando come in forza del principio della preminenza del comunitario le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, in quanto tali disposizioni fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri, di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie (causa 106/77, Simmenthal, raccolta CGCE, 1978, 629).

La dottrina e la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia hanno poi avuto modo di precisare come la prevalenza sopra descritta non potesse limitarsi ai soli regolamenti, ma dovesse essere estesa a tutte le norme comunitarie dotate di un “effetto diretto”. Effetto che la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto in ogni caso in cui la norma sia chiara, precisa e non condizionata, ovvero suscettibile di applicazione immediata (non necessitante di alcun atto nazionale per la sua applicazione) (causa Van Gend en Loos, cit). Il citato effetto diretto può conseguentemente essere riconosciuto, secondo la giurisprudenza della Corte, oltre che ai regolamenti alle disposizioni del Trattato, a quelle direttive con le caratteristiche sopra evidenziate e per le quali sia scaduto il termine di attuazione (cd self executing), ed alle decisioni della Corte stessa.

A fronte di tale quadro di riferimento sussisterebbe inoltre un generale “obbligo di interpretazione conforme” della normativa interna rispetto a quella comunitaria, che troverebbe la propria fonte nell’obbligo di leale collaborazione tra autorità nazionali e comunitarie contenuto nell’art. 10 (ex 5) del Trattato, e che ingenererebbe un diffuso potere di disapplicazione da parte di qualsiasi giudice nazionale adito nell’ambito della propria competenza.

Il principio di interpretazione conforme va applicato, secondo la Corte di Lussemburgo11, anche con riguardo alle decisioni quadro adottate nell’ambito del Titolo VI del Trattato “al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all’art. 34, n. 2 lett. b9 UE”. Un affermazione di notevole ricaduta (pur con i limiti operativi generali che saranno in seguito delineati) in quanto è in progressiva espansione il numero delle decisioni quadro in materia di diritto penale sostanziale; e tra queste la decisione quadro 2202/457/GAI in materia di terrorismo che fornendo una definizione di terrorismo ha influenzato il dettato dell’art. 270 sexies c.p., quella 2002/626/GAI sul contrasto alla tratta di esseri umani, la decisione quadro 2003/568/GAI in tema di corruzione, quella 2004/68/GAI sulla sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile.

Peraltro il Trattato istitutivo della Comunità europea non impone agli Stati membri soltanto l’obbligo di adeguare la propria disciplina interna ai precetti comunitari, ma altresì quello di adottare le misure idonee a rendere tale obbligo di conformazione “attuale”. Ciò in quanto allorché l’istituzione comunitaria abbia regolamentato un determinato settore con una direttiva di armonizzazione, finalizzata, come è noto, ad assicurare regole uniformi per i cittadini comunitari, la applicazione interna ad opera di un singolo Stato con una disciplina che, sia operando sul profilo terminologico e/o delle esclusioni sia su quello sanzionatorio, si riveli del tutto o in parte inefficace, vanificherebbe il citato presupposto dell’intervento comunitario, ovvero la armonizzazione delle legislazioni.

Questo comportamento nazionale dovrebbe in tal caso essere letto come contrario al dedotto principio contenuto nell’art. 10 del Trattato, ai sensi del quale “gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità”

Una ulteriore riflessione va spesa con riferimento a quelle discrasie tra ordinamento comunitario e legislazione nazionale che, diversamente da quanto l’esperienza più recente ci ha mostrato, possono porsi in una direzione di maggiore restrizione in ambito nazionale di quanto non sia previsto a livello comunitario. In questo senso andando ad analizzare le norme del Trattato (dotate di quell’effetto diretto di cui sopra), si pensi all’art. 28, ai sensi del quale sono vietate fra gli Stati membri:

a) le restrizioni quantitative all’importazione

b) nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

Il secondo di tali concetti, essendo chiaro che le restrizioni quantitative si riferiscono a norme che impongono limiti quantitativi-numerici all’importazione, è stato precisato dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha affermato come “le misure ad effetto equivalente riguardano tutte le regole commerciali emanate dagli Stati membri che sono capaci di limitare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, il commercio intercomunitario” (causa 8/74, Dassonville, in Raccolta CGCE, 1974, 837).

Pur tuttavia lo stesso legislatore comunitario si era posto il problema di giustificare l’adozione di misure nazionali restrittive, lì dove particolari esigenze di fondamentale importanza le imponessero. Ai sensi dell’art. 30 del Trattato sono impregiudicati “i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone …”, a condizione che tali restrizioni non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria , né una restrizione dissimulata al commercio fra gli Stati. In merito ai motivi giustificatori delle deroghe al divieto di restrizioni fra paesi membri la Corte di Giustizia, dopo avere escluso che i motivi previsti dal Trattato potessero essere interpretati estensivamente, elaboro la cd. dottrina Cassis de Dijon, ovvero delle esigenze imperative, per la quale “gli ostacoli per la libera circolazione intracomunitaria che derivano da disparità fra le norme nazionali devono essere accettati nella misura in cui tali disposizioni possono essere riconosciute come necessarie per soddisfare esigenze imperative” identificate in quattro esigenze supervisione fiscale, protezione della salute, giustizia delle transazioni commerciali e difesa dei consumatori (causa 120/78, Cassis de Dijon, in Raccolta CGCE, 1979, 649).

In questo quadro si collocano i successivi articoli del Trattato, ed in particolare l’art. 43, per il quale “… le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato membro”, nonché l’art. 49, primo comma, per cui: «Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione», pur se, ex art. 46 «Le prescrizioni del presente capo e le misure adottate in virtù di queste ultime lasciano impregiudicata l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica

In definitiva allorché vengano a mancare tali ragioni giustificatrici, non vi sarà controversia, come si vedrà in seguito, sulla immediata efficacia in bonam partem del diritto comunitario,.

Rapporti tra diritto comunitario e diritto penale nazionale

A questo punto si rende necessaria una puntualizzazione sui rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, alla luce del principio della riserva di legge di cui all’art. 25 Costituzione, nonché di quello di irretroattività della legge penale, atteso che la attribuzione al Parlamento della scelta dei comportamenti meritevoli di sanzione penale rientra12 tra i principi nazionali non derogabili da parte del diritto comunitario.

La stessa dottrina13 precisa come se la riserva di legge rappresenta l’aspetto formale del principio di legalità, in quanto prescrive la fonte ed il procedimento di produzione delle norme penali, il principio di determinatezza ne esprime l’aspetto sostanziale. Conseguentemente viene osservato come l’attuale effettiva connotazione delle norme comunitarie sia tale da non rendere possibile una immediata applicazione delle stesse al fine di irrogare una sanzione penale. Peraltro l’orientamento maggioritario in dottrina esclude una diretta competenza penale da parte delle istituzioni comunitarie14, né allo stato risultano norme comunitarie direttamente incriminatrici. Conseguentemente, mentre l’interpretazione conforme a costituzione deve essere privilegiata per evitare il vizio di incostituzionalità della norma interpretata, il complesso dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona, fra i quali rientra il principio di irretroattività della legge penale, costituiscono un controlimite del quale non può non tenersi conto nella valutazione dell’ambito di operatività della limitazione di sovranità accettata dallo Stato in base all’art. 11 della Costituzione15. Una riserva dei principi e dei diritti inviolabili che mentre da un lato individua ambiti nei quali l’impatto delle normative sopranazionali è limitato, dall’altro conferma la possibilità di una distinzione tra diritti inviolabili e norme costituzionali cedevoli rispetto alle norme comunitarie.

Ma al riguardo non può non osservarsi come il principio della riserva assoluta di legge sia attualmente sottoposto ad una forte pressione nel contesto degli assetti istituzionali sopranazionali16, che, se non in modo automatico, esprimono una forte capacità condizionante sul potere discrezionale del legislatore nazionale. Ciò in dipendenza di:

fenomeni criminali transnazionali sia sotto il profilo della organizzazione criminale (si pensi allo spaccio di sostanze stupefacenti) che degli effetti del fatto criminale (le catastrofi naturali);

rilancio delle concezioni ermeneutiche del diritto con il riconoscimento del ruolo svolto dalle prassi applicative17;

l’aumento di forme di governance globale, frutto della individuazione di nuovi interessi di carattere generale cui viene riconosciuta dignità tale da richiedere la loro presa in considerazione da parte dei legislatori nazionali.

Il discorso si sposta conseguentemente sulla possibile influenza del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati nazionali.

Come ricordato in precedenza nessuno discute l’immediata efficacia in bonam partem del diritto comunitario, cui quel “giudice comune” nazionale, come definito dalla CG, può, e deve, dare esecuzione attraverso la disapplicazione, totale o parziale, delle norme penali interne eventualmente incompatibili; in applicazione di tale principio la corte di cassazione18 ha ritenuto che la legge 9 dicembre 1977 n. 903, che regola e sanziona il divieto di lavoro notturno per le donne nelle aziende manufatturiere anche artigianali, contrastasse con la Direttiva 76/207/CEE, come interpretata dalla Corte di Giustizia, e dovesse conseguentemente essere disapplicata con salvezza della parte che fa divieto di lavoro notturno durante il periodo della gravidanza e del primo anno di vita del bambino. Sotto questo profilo si è ritenuto che l’esercizio di un diritto riconosciuto dalla normativa comunitaria potrebbe dare vita ad una causa di giustificazione19 ai sensi dell’art. 51 cod. pen (si pensi alla libertà di stabilimento o di prestazione dei servizi quale scriminante dell’esercizio abusivo della professione); ma anche nei casi in cui la norma comunitaria contrasti integralmente con il divieto penalmente sanzionato dal diritto nazionale, e tale conseguenza può verificarsi anche per il contrasto di una disposizione nazionale con una disposizione comunitaria come interpretata dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, si produrrà quell’efficacia in bonam che si sta esaminando.

Peraltro non va dimenticato come il diritto comunitario consenta un ampio sindacato di proporzionalità della pena e di ragionevolezza, in generale, delle incriminazioni20, attraverso l’interpretazione del citato art. 10 del Trattato, così da consentire un esame non soltanto sulla compatibilità delle norme nazionali di carattere repressivo, ma anche sulla tipologia e l’entità delle sanzioni; anche se va sottolineato come la giurisprudenza comunitaria attribuisca al legislatore nazionale un’ampia discrezionalità, una volta controllate la effettività della sanzione e la sua proporzionalità, nella scelta tra sanzioni amministrative o penali21

Diversa è la problematica dell’influenza in malam partem, allorché il significato di una norma penale dipende dalla sua integrazione con altre norme, ovviamente distinguendo il caso in cui l’eterointegrazione incida soltanto sulla definizione del fatto, dai casi nei quali incida sullo stesso precetto.

Secondo la giurisprudenza costituzionale la possibilità dell’integrazione della legge penale da parte di norme non legislative incontra precisi limiti relativamente al precetto, alla sanzione ed ai soggetti, così che si è ritenuto che “se pure è vero che una cosa è riprodurre una norma non autoesecutiva, come quella contenuta in una direttiva non dettagliata, ed altro è riprodurre una norma autoesecutiva, come quella dettata da un regolamento, pur tuttavia, atteso che la riserva di legge preclude l’immediata esecutività (in malam) anche di un regolamento, ne consegue che una norma interna recettizia sarà comunque destinata a renderne effettiva l’applicazione”.

Nel caso in cui la disciplina comunitaria preveda non soltanto un obbligo di tutela di un determinato bene, lasciando aperta la scelta tra sanzione penale o amministrativa, ma imponga un obbligo di tutela esclusivamente penale, la mancata ottemperanza da parte del legislatore nazionale potrà comportare, in ossequio di quanto sopra, la sola condanna da parte della Corte di Giustizia ai sensi degli artt. 226-228 del Trattato, non potendosi dare altrimenti ingresso a forme di incriminazione non legislativamente predeterminate22.

Ma, secondo alcuni, se è pur vero che la integrazione in malam partem va a misurarsi con il principio di legalità, con la teoria delle fonti e con la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 5 cod. pen., diversa sarebbe l’ipotesi in cui la eterointegrazione incida solo sulla definizione del fatto, contribuendo, come ogni altra fonte normativa, alla descrizione della fattispecie (come in tema della nozione di rifiuto)23.

Ancora diversa si presenta la tematica del rapporto disciplina comunitaria-nazionale nel caso in cui una norma penale risulti già introdotta in un ambito nazionale, e con successivo intervento legislativo la sanzione penale venga modificata o abrogata. In questo caso appare potersi percorrere due diverse strade: la prima è quella del ricorso in via pregiudiziale ex art. 234 affinché la Corte di Giustizia fornisca la interpretazione del diritto comunitario, in uno con la valutazione di adeguatezza e proporzionalità delle sanzioni rispetto alle esigenze di tutela ed alla gravità del fatto24, la seconda prevede la sottoposizione della questione alla corte costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Costit. stante la difformità dal diritto comunitario della norma interna derogatrice.

Un contributo a tale ricostruzione è dato da alcuni passaggi della decisione 7 febbraio 2000 n. 31 della Corte Costituzionale, che dichiarava inammissibile, per il rilevato contrasto con norme di trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, la richiesta di ‘referendum’ popolare per l’abrogazione dell’intero testo unico approvato con d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 7-13 dicembre 1999 dell’Ufficio centrale per il ‘referendum’ costituito presso la Corte di cassazione, con la denominazione “Immigrazione e condizione dello straniero”. In tale pronuncia il giudice delle leggi ricordava come in base al cosiddetto “Acquis di Schengen – che ricomprende convenzioni, protocolli e dichiarazioni immediatamente applicabili ai tredici Paesi membri dell’Unione europea per effetto del protocollo B, artt. 1 e 2, del Trattato di Amsterdam – i singoli Stati aderenti abbiano assunto numerosi obblighi in materia di controlli al passaggio delle frontiere interne, di transito dei cittadini extracomunitari che si rechino in altro Paese contraente o di attraversamento delle frontiere esterne e, infine, in tema di sanzioni penali nei confronti di chi favorisce l’immigrazione clandestina. Nell’occasione, pur rilevando che l’art. 2, comma 2, del Protocollo sull’art. J.7 del trattato sull’Unione europea, allegato al trattato di Amsterdam, riservi al Consiglio, fondandosi sulle “pertinenti disposizioni dei trattati, la base giuridica di ciascuna delle disposizioni o decisioni che costituiscono “lo ‘Acquis’ di Schengen”, la Corte affermava come non vi fosse dubbio che gli artt. 5, 6 e 27 della Convenzione dell’accordo di Schengen costituissero espressione di un preciso indirizzo normativo, rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi. In questo quadro normativo la Corte affermava, perciò, che l’eventuale abrogazione delle norme del d. lgs. n. 286 del 1998 – che per effetto delle abrogazioni disposte dall’art. 47 dello stesso testo unico sono le uniche che regolavano, nel nostro ordinamento interno, le suddette materie, ed in alcune delle quali, oltretutto, si riflettono valori fondamentali della nostra Carta costituzionale – avrebbe reso l’Italia inadempiente ai suoi obblighi, con conseguente esclusione della consultazione popolare.

Un ulteriore aspetto è quello relativo alla valutazione delle misure nazionali più restrittive adottate da uno Stato membro, in quanto per giungere ad affermare la loro eventuale incompatibilità con il diritto comunitario, occorre tenere presente che la facoltà da parte di uno Stato membro di mantenere o introdurre disposizioni nazionali si fonda anche sul contenuto dell’art. 95 (ex art. 100 A) che riguarda l’adozione di misure per il riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri.

Nel citato art. 95 risulta prevista da un lato (comma 4) la possibilità di mantenere, anche dopo la adozione da parte del Consiglio o della Commissione di una misura di armonizzazione, disposizioni nazionali giustificate da esigenze importanti di cui all’art. 30 o relative alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. D’altro lato è consentita (al comma 5), sempre dopo la adozione da parte del Consiglio o della Commissione di una misura di armonizzazione, la introduzione di disposizioni nazionali ; in questa occasione la disposizione del Trattato impone altresì l’esistenza di tre condizioni specifiche: la prima delle tre condizioni specifiche prevede che la nuova disposizione nazionale da introdurre deve basarsi su nuove prove scientifiche; la seconda e che sia giustificata da un problema specifico allo Stato membro; la terza e che tale problema sia insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione.

Sia per il mantenimento che per l’introduzione di misure nazionali in presenza di misure di armonizzazione lo stesso art. 95 (al comma 6) prevede tre condizioni generali, ovvero che la misura nazionale non costituisca uno strumento di discriminazione arbitraria, una restrizione dissimulata nel commercio fra gli Stati membri, non rappresenti un ostacolo al funzionamento del mercato interno.

Ma, come ricordato in precedenza, la Corte di Giustizia ha elaborato, in merito ai motivi giustificatori delle deroghe al divieto di restrizioni fra paesi membri, la cd. dottrina Cassis de Dijon, ovvero delle esigenze imperative, individuate originariamente nelle quattro esigenze di supervisione fiscale, protezione della salute, giustizia delle transazioni commerciali e difesa dei consumatori.

Successivamente la stessa Corte affermava che la categoria delle esigenze imperative doveva esser considerata come una categoria aperta, con la conseguente possibilità di allargamento ad opera della stessa giurisprudenza comunitaria, ed una prima applicazione di tale teoria si aveva in occasione della valutazione di due casi (causa 240/83, Oli usati, in Raccolta CGCE 1984, 531; causa 302/86, Bottiglie danesi, in raccolta CGCE 1988, 4607) che portavano ad includere tra le esigenze imperative la protezione dell’ambiente, tenendo sempre fermi quali parametri di riferimento i criteri di necessità e di proporzionalità, che accorta dottrina25 ha precisato quale meccanismo di bilanciamento tra gli interessi economici legati alla libera circolazione delle merci e le esigenze di natura non economica legate alla protezione dell’ambiente.

Il ruolo del giudice nazionale a fronte di una discrasia diritto comunitario- nazionale

In relazione al quadro istituzionale che si è cercato di delineare si pone il ruolo “pratico” che il giudice nazionale deve assumere, in relazione al quale le opzioni appaiono prima facie diverse, e tali da ingenerare dubbi applicativi allo stesso giudice di legittimità.

Una esemplificazione si è avuta nella recente vicenda relativa alla individuazione della nozione di rifiuto, ricordando26 come nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di “rifiuto” erano riprodotte nell’art. 6, comma 1 – lett. a), del D.Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive comunitarie sui rifiuti) secondo cui “è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Il primo elemento essenziale della nozione di “rifiuto” era costituito, pertanto, dall’appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma sottolineando come l’elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non fosse esaustivo ed avesse un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato “A) – Parte 1” comprendeva due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti. Il secondo elemento, collegato all’atteggiamento del detentore, e relativo alle tre diverse previsioni del concetto di “disfarsi”, aveva trovato “interpretazione autentica” nell’art. 14 del D.L. 8.7.2002, n. 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178 (esemplificativo di un modo caotico di legiferare, atteso che la disposizione in questione si trova in un testo denominato “interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate”), secondo il quale per: a)“si disfi” deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997; b) “abbia deciso di disfarsi” deve intendersi: la volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997; c) “abbia l’obbligo di disfarsi” deve intendersi: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi)

La stessa normativa prevedeva, introducendo una doppia deroga alla nozione generale di rifiuto, che le fattispecie di cui alle lettere b) e c) non ricorressero – per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo – ove sussistesse una delle seguenti condizioni: 1) riutilizzato nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente; 2) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.

Rispetto a tale situazione normativa, ed una volta sottolineato come le deroghe introdotte dal secondo comma dell’art. 14 riguardano solo le ipotesi “abbia deciso” e “abbia l’obbligo di disfarsi” e non anche l’ipotesi “si disfi”27, si erano determinate una serie di posizioni interpretative che affrontano, anche a livello di giurisprudenza di legittimità, l’argomento della nuova definizione di rifiuto applicabile nell’ordinamento interno28.

Secondo un primo orientamento la normativa nazionale del 2002 non si sarebbe potuta applicare in quanto in contrasto con la definizione di rifiuto elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, e fra l’altro contenuta nel Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993 n. 259 (sui trasporti transfrontalieri), attesa la natura della fonte (regolamento, e come tale direttamente applicabile nell’ordinamento degli Stati membri ai sensi dell’art. 249 (ex 189) del Trattato) che la contiene29; una posizione condivisa dalla corte in più occasioni con l’ulteriore affermazione che “la definizione di rifiuto comunitaria non possa essere interpretata secondo i criteri dettati dalla nostra normativa nazionale30.

Diversamente31 si era sostenuto come le nuove disposizioni fossero vincolanti per il giudice in quanto introdotte con atto avente pari efficacia legislativa della precedente normativa sebbene fosse stata modificata la nozione di rifiuto dettata dall’art. 1 della Direttiva 91/156/CEE e riprodotta dalla previgente disposizione nazionale del 199732. L’argomentazione si fondava sul rilievo che la Direttiva 91/156 non fosse autoapplicativa (self executing) e che in proposito non potesse adirsi direttamente la Corte di Giustizia per acquisire una interpretazione pregiudiziale ex art. 234 (ex 177) atteso che a dovere essere interpretata era non già la norma europea, bensì quella nazionale; con la conseguenza che unico strumento operativo, peraltro attivato, rimaneva quello della procedura di infrazione contro lo Stato italiano ed il successivo ricorso alla Corte di Giustizia in caso di non adeguamento dello Stato al parere motivato della stessa Commissione, ai sensi dell’art. 226 (già 169) del Trattato di Roma33.

Una ulteriore e articolata metodica di approccio al problema risultava in altra pronuncia della corte34, che muoveva dalla lettura delle numerose decisioni della Corte Europea di Giustizia le cui decisioni (siano esse di condanna per inadempimento dello Stato oppure interpretative del diritto comunitario) sono, come ricordato in precedenza, immediatamente e direttamente applicabili in Italia, e tra queste basti richiamare, in tema di rifiuti, le sentenze 28.3.1990, nelle cause riunite Vessoso e Zanetti; 25 giugno 1997, in proc. 304/94 Tombesi; 15.6.2000, in proc. 418 e 419/1997 Arco; 18.4.2002, Palin Granit Oy; 11 settembre 2003, AvestaPolarit Chrome Oy35..

La Corte di Cassazione mostrava di avvicinarsi a quella che sarà la terza e definitiva opzione interpretativa con una decisione36, ove si osservava come la pronuncia che precisi o integri il significato di una norma comunitaria abbia la stessa efficacia di quest’ultima, così da essere direttamente ed immediatamente efficace nell’ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata; conseguentemente se tale efficacia sussiste il giudice nazionale non può più applicare la norma interna, ma ove l’interpretazione abbia riguardato una norma comunitaria priva di efficacia diretta il giudice nazionale dovrebbe ancora applicare la norma interna a meno di non sollevare eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. (per la cui opzione la decisione Maretti propende, anche se nel caso specifico giudica la questione irrilevante avendo nel merito condiviso la natura di rifiuto dei materiali in questione).

Ed è così che l’ulteriore punto di approdo diviene la rimessione alla Corte Costituzionale operata in due occasioni dalla corte di cassazione, sulla nozione di rifiuto37 e sull’art. 30, comma 4, del d. lgs. 22 del 1997, come modificato dall’art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426 38 39, in entrambi i casi per contrasto con gli artt. 11 e 117 Costituzione. Nel primo caso non si è determinato un pronunciamento del giudice delle leggi per la entrata in vigore, medio tempore, del d. lgs 3 aprile 2006 n. 152, con la conseguente necessità di una rivalutazione della persistenza o meno dei dubbi di legittimità anche delle nuove disposizioni, rispetto alle quale già si pongono ulteriori problemi di adeguamento alle disposizioni comunitarie40; mentre nella seconda occasione la riproposizione del medesimo articolato nel nuovo testo ambientale legittima l’attesa di una decisione “nel merito” da parte del giudice delle leggi.

Le indicazioni della Corte di Giustizia in caso di inadeguatezza del diritto nazionale agli standards comunitari

Il tema della posizione del giudice interno rispetto al rapporto tra diritto comunitario e diritto penale nazionale ha trovato due significativi contributi in due pronunce della Corte di Giustizia, la prima del 11 novembre 2004, Niselli, in causa C-457/0241, la seconda del 3 maggio 2005, Berlusconi ed altri, in cause riunite C- 387/02, 391/02 e 403/0242.

In questi due casi i giudici remittenti avevano rilevato la esistenza di un contrasto tra la disposizione penale interna e gli obblighi di matrice comunitaria contenuti in Direttive, peraltro sprovviste di effetti diretti43, ipotizzando un potere disapplicativo della legge penale contrastante con l’obbligo comunitario, e ciò in quanto in entrambi i casi la norma penale “viziata” aveva sostituito una precedente disposizione nazionale conforme al diritto comunitario.

La tesi dei giudici remittenti, argomentata con sottile finezza giuridica dall’Avvocato generale Kokott, partiva dal dato che in questo caso non si sarebbe creato un vuoto normativo effetto della disapplicazione, bensì la riespansione della norma penale nazionale (compatibile) abrogata dall’intervento di modifica incompatibile con il diritto comunitario, la conseguenza sarebbe stata la sanzionabilità di condotte non in ragione delle previsioni della direttiva. ma della legge penale previgente, illegittimamente abrogata ed illegittimamente sostituita44.

Quale sarebbe stata la forza di una tale interpretazione nella gerarchia delle fonti e nella regolamentazione dei rapporti diritto comunitario – diritto nazionale in materia penale è di facile intuizione: la Direttiva avrebbe avuto il potere di rendere intoccabili dall’ordinamento nazione quelle disposizioni emanate in attuazione di disposizioni comunitarie, se non all’esito di una rivisitazione preliminare sempre a livello comunitario, ma anche di rendere non emendabili quelle disposizioni (come il previgente art. 2621 c.c.) che fossero state giudicate coerenti con gli standards comunitari anche successivamente delineati. A fronte di ciò il giudice nazionale avrebbe potuto disapplicare la legge successiva incompatibile con il diritto comunitario.

La Corte di Giustizia nel primo caso si defilava rispetto a tali problematicità, interpretando le direttive in tema di rifiuti e le proprie pregresse pronunce sul tema, e lasciando al giudice nazionale l’onere di ricavarne le proprie scelte processuali e sostanziali; atteggiamento che la Grande sezione non poteva mantenere nel successivo caso Berlusconi, ove si ricorda come una disapplicazione della nuova disposizione nazionale, con il recupero della precedente più severa disposizione, avrebbe comportata un aggravamento della posizione del singolo (sotto il profilo della sua responsabilità penale) non possibile per costante giurisprudenza della stessa Corte di giustizia45.

La peculiarità delle due fattispecie consentono pertanto di affermare come il giudice nazionale non possa porre rimedio immediato e diretto agli inadempimenti comunitari del legislatore nazionale non soltanto, come è più comprensibile, nel caso in cui manchi una disciplina nazionale di adeguamento a quella comunitaria (per essere lo Stato membro inadempiente), ma altresì nell’ipotesi in cui lo Stato membro, dopo avere apprestato una disciplina coerente con lo standard comunitario, abbia poi provveduto a rimodularla in modo incoerente con questo; ritenere in quest’ultimo caso nuovamente applicabile il diritto preesistente significherebbe attribuire al provvedimento di disapplicazione interno una potestà legislativa di fatto non riconosciuta neppure alle pronunce di illegittimità della Corte costituzionale46.

A fronte di tale situazione si conferma la soluzione del cd, doppio binario di cui sopra, la prima a livello comunitario attraverso la attivazione di una procedura di infrazione prevista dal citato art. 226; la seconda di livello interno, rimettendo al giudice costituzionale la valutazione di legittimità della disposizione nazionale per il suo dedotto contrasto con gli obblighi comunitari, così come in precedenza enunziato47

Dalla decisione quadro 2002/584/GAI alla sentenza della Corte di Giustizia 13 settembre 2005, verso un diritto penale europeo minimo.

Alla luce delle osservazioni svolte si può comprendere la portata innovativa della decisione 13 settembre 2005 della Corte di Giustizia (Grande sezione in causa C 176/03 avente ad oggetto un ricorso di annullamento ai sensi dell’art. 35 UE proposto dalla Commissione il 15 aprile 2003), relativa alla decisione quadro 2003/80/GAI.

La Decisione quadro 2003/80/Gai del 27 gennaio 200348 aveva previsto che gli Stati membri adottassero “i provvedimenti necessari per rendere perseguibili penalmente, in virtù del proprio diritto interno,” una serie di comportamenti ritenuti offensivi dell’ambiente; in particolare la decisione aveva previsto la incriminazioni di comportamenti intenzionali, posti in essere per negligenza o quanto meno per negligenza grave, la partecipazione o istigazione agli stessi, da contrastare con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, comprendendo per lo meno nei casi più gravi, pene privative della libertà (con l’ulteriore possibilità di procedere all’estradizione)

La Corte ha ritenuto che il Consiglio, adottando la propria decisione sulla base del Titolo VI del Trattato UE avesse sconfinato nelle competenze attribuite alla Commissione dallo stesso Trattato ex art. 175, osservando come lo strumento giuridico idoneo non fosse quello della Decisione, ma, trattandosi di una competenza comunitaria in senso stretto, dovesse farsi ricorso alla forma della Direttiva (diversa dalla decisione per il processo di formazione, per gli effetti, per le procedure attivabili nei confronti dello Stato membro inadempiente); ciò in quanto la Decisione si inserisce nel cd Terzo Pilastro quale strumento di coordinamento e di riavvicinamento delle disposizioni nazionali, mentre le disposizioni sanzionatorie di diritto penale possono essere disciplinate esclusivamente nell’ambito del Primo Pilastro49.

La valenza della pronuncia in esame50 si rileva nei passaggi motivazionali con i quali si disattendono le tesi del Consiglio, e dei paesi intervenuti a sostegno51, contro la rivendicazione della Commissione. In particolare era stato richiamata la riserva di legge in tema di applicazione del diritto penale e di amministrazione della giustizia contenuta nell’art. 280, comma 4, del Trattato (come modificato dall’art. 2. par. 52 del Trattato di Amsterdam) quale ostacolo alla possibilità che un progetto sanzionatorio (penale) fosse recepito in un atto di primo Pilastro (di diritto comunitario)52; la Corte si è però dimostrata di contrario avviso.

La decisione del 2005 afferma, infatti, che tutto ciò non può impedire al legislatore comunitario “di adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri, ritenuti necessari a garantire la piena efficacia delle proprie previsioni”.; individuando la forma per tutto ciò in una Direttiva.

Una posizione che ha già dato origine ad ulteriore contenzioso tra Commissione e Consiglio, come a seguito dell’emanazione della decisione quadro 2005/667/GAI, avverso la quale la Commissione, in data 23 novembre 2005, ha già proposto ricorso53.

Lo spunto di riflessione originato dalla decisione della Corte di Giustizia trascende ovviamente dal settore specifico nel quale la decisione 2003/80/GAI operava, e ciò in quanto indirizza la Commissione ad operare verso l’adozione di misure penali di livello comunitario, anche se su basi settoriali e per garantire la piena efficienza di una determinata politica comunitaria. In precedenza la Commissione, anche in settori comunitarizzati, aveva richiesto agli Stati membri l’adozione di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, ma lasciando agli stessi la scelta sulla natura della sanzione (amministrativa o penale9; così che spesso alla Direttiva si accompagnava una Decisione quadro che la integrava per i profili penali.

Ora appare indubbio il rafforzamento di quella idea di microcodificazione penale europea, di un vero e proprio Corpus Juris che nasce dalla doppia consapevolezza, l’assenza di un vero e proprio diritto penale europeo, e l’inadeguatezza dei meccanismi sinora utilizzati per superare le disarmonie54.

La previsione di sanzioni penali minime comuni in una Direttiva, innescando il meccanismo di verifica delle conformità delle disciplina dello Stato membro al diritto comunitario, diviene così il primo passo di un sistema di norme sanzionatorie comuni (pur con il ricorso all’intervento “mediatorio” del legislatore nazionale), con positive ricadute anche sul momento processuale55 .

La dimostrazione che la strada è ormai tracciata è l’adozione da parte della Commissione di una proposta di una Direttiva sulla lotta contro i comportamenti lesivi della proprietà intellettuale comunicata dalla stessa Commissione in data 26 aprile 2006 (comunicato CE 26/04/2006, n. IP/06/532), ed ampiamente illustrato dal Vice Presidente della Commissione, che si inserisce nella autoaffermazione da parte della Commissione della competenza ad adottare, nell’ambito del primo Pilastro, le disposizioni di diritto penale necessarie alla effettiva attuazione del diritto comunitario56

Un percorso a senso unico che conforta la riflessione di quanti si rendono conto delle sempre maggiori difficoltà a considerare il diritto penale come una materia riservata in modo esclusivo al legislatore dello Stato membro, in quanto deve almeno darsi atto che il diritto europeo può concorrere già oggi alla effettiva configurazione del sistema penale, sia con effetti di possibile riduzione dell’area penale, sia con richieste vincolanti di tutela penale, e non più soltanto sanzionatorie, pur con la conservazione delle prerogative incriminatorie nazionali, ma con limitazione della discrezionalità in ordine alla specie e misura della pena57.

Un percorso pertanto sul quale l’Unione Europea appare finalmente incamminata, lungo il quale si rendono necessari anche aggiustamenti istituzionali e di competenze, ma che ci rende ogni giorno di più, a dispetto degli ostacoli anche recenti che la Costituzione europea ha dovuto subire, cittadini di un unico paese: l’Europa.

Roma 17 novembre 2006

Alfredo Montagna

Magistrato dell’Ufficio
del Massimario della
Corte di Cassazione

 

1 Al 1951 risale il Trattato della CECA, firmato il 18 aprile, mentre i Trattati CEE e CEEA (o Euratom) vennero stipulati il 25 marzo 1957

2 Il Trattato sul Consiglio Unico e Commissione Unica delle Comunità Europee è dal 8 aprile 1965, con il progressivo allargamento nel 1972 alla G.B, Irlanda e Danimarca, nel 1979 alla Grecia, nel 1985 ai paesi iberici.

3 Ratificato e reso esecutivo con legge 3 novembre 1992 n. 454, e entrato in vigore il 1 novembre 1993; le modifiche al Trattato UE, così come ai trattati che istituiscono le Comunità europee, sono state approvate con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, ratificato e reso esecutivo con legge 16 giungo 1998 n. 209, ed entrato in vigore il 1 maggio 1999. Successivamente un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam ha integrato l’”acquis” di Schengen (nato il 14 giugno 1985 , e reso operativo in Italia il 26 ottobre 1997) nel quadro dell’Unione Europea.

4 Si tratta dell’insieme degli obiettivi e degli strumenti normativi previsti e regolati dai Trattati europei, come modificati dall’Atto Unico Europeo (ratificato e reso esecutivo con legge 23 dicembre 1986 n. 909, ed entrato in vigore il 1 luglio 1987), dal trattato di Maastricht e di Amsterdam, successivamente al quale si parla di terzo pilastro riformato

5 Interamente riscritto ad Amsterdam

6 Una ripartizione in Pilastri che il Trattato di adozione di una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e che sarebbe potuto entrare in vigore il 1 novembre 2006 se fossero stati depositati tutti gli strumenti di ratifica, prevede di eliminare (l’Italia ha ratificato il Trattato con legge 7 aprile 2005 n. 57). Le difficoltà per la entrata in vigore del Trattato non dipendono soltanto, anche se in modo prevalente, dall’esito dei referendum francesi (nel maggio 2005) e nei paesi bassi (luglio 2005), ma altresì dai rapporti fra il Trattato e i principi di sovranità degli Stati membri (come precisati dal Tribunale costituzionale polacco nella decisione 18 del 2004 o dal Tribunal Constitucional spagnolo del 13 dicembre 2004, in Foro it,2005, IV, 270.

7 E infatti pacifico che l’attuazione di una direttiva non richieda necessariamente una riproduzione testuale delle disposizioni comunitarie, anche se è necessario che le misure di attuazione realizzino quanto prescritto in modo cogente affinché si abbia la possibilità che i destinatari possano fare valere le prescrizioni in esse contenute dinanzi ai giudici nazionali.

8 La procedura di infrazione è pressoché unanimemente ritenuta esperibile solo in caso di inadempimento di un direttiva, e non anche con riferimento alle decisioni quadro; per una estensibilità del procedimento di infrazione in caso di inottemperanza alle decisioni quadro in tema di criminalità organizzata A. Bernardi, Strategie per l’armonizzazione dei sistemi penali europei, in AA VV Il diritto penale nella prospettiva europea, Milano, 2005, 430, con rif. all’art. 61, comma 1 lett. a) del Trattato;

9 Nell’ambito del terzo Pilastro acconto alle Decisioni tout court si pongono le Decisioni Quadro, vincolanti quanto al risultato da ottenere, ma che fanno salva la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma ed ai mezzi (uno strumento analogo alla Direttiva, ma privo di efficacia diretta)

10 Corte Costituzionale 5 giugno 1984 n. 170, in Giur. Costit., 1992, 4479, ed in Foro. It., 1984, I, 2062, con nota di Tizzano.

11 Decisione 16 giugno 2005, proc. Pupino, n. C 105/03, nella quale si discuteva del presunto contrasto delle norme del codice di procedura penale italiano relative alla posizione della vittima nel processo penale con la decisione quadro 2001/220/GAI, e che ha peraltro soggiunto come l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto della decisione quadro “trovi i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività”. Si tratta peraltro di una decisione che ha suscitato forti perplessità in dottrina, in quanto allontana le decisioni quadro dagli altri strumenti di diritto internazionale (privi di un effetto nazionale diretto), sul punto M. Lombardo, L’erosione della legalità statale per opera della Corte di Giustizia, in Dir. pen. e proc., 2006, 11, 1432.

12 A. Nappi, L’immediata applicabilità del diritto comunitario nell’ordinamento italiano, in Incontri del CSM, Roma 2003.

13 A. Nappi, op. cit.

14 F. Sgubbi, Diritto penale comunitario, in Dig. Pen., IV, Utet 1990, 102; Parodi G., Diritto penale e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pen. econom., 1999, 105; G. Marinucci- E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Giuffrè, 2001, 61; C. Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 188; I. Caraccioli, Manuale di diritto penale, Padova, 2005, 41.

15 Come precisato dalla stessa Corte costituzionale sin dalla sentenza 27 dicembre 1965 n. 68.

16 Più in generale su un indebolimento del principio di legalità E. Dolcini, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 50; M. Ronco, Il principio di legalità,in AA VV, Commentario al codice penale, I, 26, Bologna, 2006;

17 In proposito A. Kaufmann, Filosofia del diritto ed ermeneutica, Milano, 2003

18 Cass. Sez. III 1 luglio 1999, Valentini, in CED Cass. 214345;

19 Cfr. Pret. Lodi, 17 maggio 1984, Rienks, in Dir. com. scambi int., 1984, 189, che ha prosciolto dal reato di esercizio abusivo della professione di veterinario il cittadino di uno stato estero cui era stata rifiutata l’iscrizione all’albo. In dottrina G. Grasso, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989.

20 Cfr. Corte di Giustizia 29 febbraio 1996, in raccolta 1996, 943; Corte di Giustizia 17 ottobre 1995 83/94, in raccolta 1995, 3221;

21 Come si ricava dall’esame dei casi Commissione c. Rep. Federale Tedesca, Corte di Giustizia 29 settembre 1998 e Corte di Giustizia 4 dicembre 1997, Daihatsu handler c. Dahatsu Deutschland GmbH;

22 Ai sensi dell’art. 226 “La commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo avere posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia”.

23 Una posizione che è stata presente in giurisprudenza, anche di legittimità, ma che appare superata dai più recenti orientamenti di cui si darà conto brevemente in sede di esemplificazione sulle scelte offerte al giudice nazionale a fronte della incompatibilità comunitaria della disposizione nazionale

24 S. Riondato, Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale dell’economia, in Riv. trim. dir. pen. econom., 1997, 1138 e ss;

25 M. Montini, La necessità ambientale nel diritto internazionale e comunitario, Padova, 2001;

26 A. Montagna, voce Rifiuti (gestione dei), Enc. Giur. Treccani, vol. aggiorn. XII, 2004;

27 Come precisato da Cass. Sez. III 12 novembre 2003 n. 1723, dep. 3 febbraio 2004, Puppo, inedita;

28 In generale sui rapporti fra diritto penale classico e diritto penale dell’ambiente F. Palazzo, Principi fondamentali e opzioni politico criminali nella tutela penale dell’ambiente, in AA VV, Ambiente e diritto, Firenze, 1999, 545.

29 Cass. Sez. III 27 novembre 2002 n. 2125, Ferretti, in CED Cass. 223291 e in Foro it., 2003, II, 116, criticata in modo esplicito sul punto da Cass. Sez. III 4 marzo 2005, dep. 13 maggio 2005 n. 17836, Maretti, ivi;

30 Cass. Sez. III 10 febbraio 2005 n. 9503, Montinaro e Cass. Sez. III 22 febbraio 2005 n. 11127, Conti, inedite

31 Cass. Sez. III. 13 novembre 2002 n. 4052, Passerotti, in Ced Cass, n. 223532 e in Foro it., 2003, II, 116;

32 A tale impostazione hanno aderito successivamente ulteriori decisioni del giudice di legittimità, sovente in modo acritico come Cass. sez. III 27 ottobre 2004, dep. 25 novembre 2004 n. 45582, p.m. in proc. Sollo, inedita;

33 in senso conforme al dictum della decisione Passerotti si sono espresse Cass. Sez. III 29 gennaio 2003 n. 4051, Ronco, ivi, 223604; Cass. Sez. III 22 gennaio 2003, Costa; 11 febbraio 2003, Mortellaro; 31 luglio 2003, Agogliati e 9 ottobre 2003, De Fronzo, tutte su specifiche questioni di merito

34 Cass. Sez. III 15 gennaio 2003 n. 17656, Gonzales, in CED Cass. 224716 e in Ambiente e sicurezza, 2003, 16, 17, ripresa da Cass. Sez. III 11 novembre 2004 n. 48402, p.g. c/ Brugnolaro)

35 in RivistAmbiente, 2003, 12, 1339

36 Maretti, cit., e che si presenza come una evoluzione delle tesi illustrate nella pronuncia Passerotti, dello stesso estensore

37 da Cass. sez. III 14 dicembre 2005, dep. 16 gennaio 2006 n. 1414, Rubino

38 Cass. 24 novembre 2005, dep. 24 marzo 2006 n. 10328, Italiano

39 La disposizione citata impone l’obbligo dell’iscrizione all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti solo per “le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi”. Chiamata a valutare una ipotesi nella quale il trasporto era relativo a materiali di risulta dell’attività edilizia svolta in forma professionale dall’imputato, la Corte ha osservato che la Direttiva 91/156/CEE prevede, all’art. 12, che “gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione”. Peraltro a tale punto della Direttiva si era data esatta attuazione con il decreto n. 22, allorché era stato previsto che “le imprese che svolgono a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti…devono essere iscritte all’Albo”. Inopinatamente il legislatore ha operato la modifica di tale disposizione con l’art. 1, comma 19, della legge 426 del 1998, che ha portato alla disposizione sopra riportata (tra l’altro riportata nel nuovo d. lgs 152 del 2006). La Corte ha mostrato di condividere sul punto le perplessità già espresse dalla Corte di Giustizia con la sentenza 9 giugno 2005 che, nella procedura di infrazione promossa dalla Commissione, aveva affermato che il nostro paese era venuto meno agli obblighi imposti con le direttive in materia di rifiuti consentendo l’esercizio in tale ipotesi senza obbligo di iscrizione all’Albo, ritenendo di rimettere la questione alla Corte Costituzionale per il dedotto contrasto con i principi costituzionali.

40 La Direttiva del parlamento e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE, ha abrogato la direttiva del 1975, ma riproduce la precedente definizione di rifiuto, così come il contenuto dell’Allegato I; mentre la nozione di rifiuto è oggi contenuta a livello nazionale nell’art. 183, comma 1 lett a) del d. lgs 3 aprile 2006 n. 152.

41 In Foro it., 2004, IV, 588.

42 In questa occasione la C d G era stata chiamata a verificare la compatibilità della legge di riforma degli artt. 2621 e 2622 c.c. in tema di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. e proc.,2005, 782; in merito, fra gli altri, R. Tartaglia, La sentenza sul falso in bilancio: i controlimiti della corte di giustizia, in Giust. pen., 2006, 65.

43 Questa condizione delle Direttive originava un ulteriore problematicità, in quanto per una direttiva inidonea a creare posizioni giuridiche per il cittadino, in quanto senza effetti diretti, si pretendeva di generare un effetto di diretta applicazione nell’ordinamento interno

44 Come espressamente affermato nelle conclusioni ai paragrafi 58 della Niselli e 1465 della Berlusconi

45 Una conferma successiva di tale orientamento si è avuta con l’ordinanza 4 maggio 2006 della sezione II che, pronunciandosi in via interpretativa sulla compatibilità delle nuove disposizioni in materia di false comunicazioni sociali con le Direttive 68/151/CEE, 78/669/CEE e 83/349/CEE, ha ribadito che una direttiva non può avere come effetto quello di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in contrasto con le disposizioni nella stessa contenuta, se non a seguito di una disposizione nazionale adottata per la sua attuazione.

46 E come ricordato da ultimo da Corte Costituzionale 1 giugno 2004 n. 161, in Giust. pen., 2004, I, 161, in tema di false comunicazioni sociali. Un ulteriore settore di riflessione è offerto, per i fatti commessi in vigenza di una disposizione nazionale coerente con il diritto comunitario, da una possibile rivalutazione dell’ambito di operatività del principio di retroattività della norma più favorevole allorché questa nasca con una situazione di incompatibilità con il livello comunitario, diversamente dalla norma che è andata a sostituire; ed a questo proposito è interessante il passaggio (par. 74) della decisione Berlusconi ove si afferma che il principio dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole “è parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario”.

47 Una linea che si va progressivamente consolidando, come si evince dalle citate pronunce della corte di cassazione, ma che appare diffondersi anche nella giurisprudenza di merito, come dimostrano le ordinanze 2 febbraio 2005 del Tribunale di Terni (che aveva sollevato la questione Niselli), o più di recente 12 maggio 2006 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana (in un giudizio sulla cd. Tav Firenze-Bologna in relazione alla disciplina delle terre e rocce da scavo contenuta nel d. lgs 3 aprile 2006 n. 152)

48 La Commissione, parallelamente alla elaborazione da parte del Consiglio della decisione quadro, aveva predisposto una proposta di Direttiva, ed il 9 aprile 2002 il Parlamento si era pronunciato sia sulla Direttiva che sulla Decisione, quali strumenti integrati, e la Commissione aveva rielaborato la proposta di Direttiva nell’autunno, ma il Consiglio, ritenendo che gli obiettivi prefissati si potessero raggiungere con uno strumento di terzo pilastro, emanava la decisione quadro il 27 gennaio 2003.

49 La Commissione evidenziava come il quadro normativo di riferimento per l’adozione di atti per armonizzare la legislazione degli Stati membri si rintraccia negli artt. 174, 175 e 176 del Trattato CE, e non nell’ambito del Titolo VI del Trattato UE

50 Come evidenziato da G. Izzo, Annullata la decisione qudro sull’ambiente, in Atti del Centro Studi Nino Abbate, in www.unicost.it

51 Si tratta della Finlandia, Francia, Grecia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi bassi, Portogallo, Spagna, Svezia,

52 Sul punto va osservato come dallo stesso art. 280 parte della dottrina ricavi il fondamento di una competenza penale della Comunità in materia di lotta alla “frode ed alle altre attività illecite che ledono gli interessi finanziari della Comunità stessa”; mentre l’ambito della riserva viene ricondotto non tanto alla formazione quanto alla applicazione della norma penale da parte degli organi interni (L. Picotti, Potestà penale dell’Unione europea nella lotta contro le frodi comunitarie e possibile base giuridica del Corpus Juris, in AA VV La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione, Milano, 2000.

53 Si tratta della Decisione quadro per il rafforzamento della repressione dell’inquinamento causato dalle navi, oggetto della Direttiva 2005/35/CE

54 In proposito A. Bernardi, Corpus juris e formazione di un diritto penale europeo, in Riv. it. dir. pub. comunit., 2001, 283; M. Delmas Marty, Verso un diritto penale comune europeo, in Riv. it dir. proc. pen, 1997, 543; A. Pagliaro. Limiti all’unificazione del diritto penale europeo, in Riv. trim. dir. pen. econom., 1993, 204, per una puntuale indicazione dei passi giuridicamente sostenibili di un processo di unificazione penale comunitaria.

55 Si pensi alla attuazione pratica del mandato d’arresto europeo, anche se sul tema della doppia incriminazione le posizioni rigoriste hanno subito di recente un forte ridimensionamento; peraltro la natura delle decisioni quadro consente un’ampia flessibilità in sede di attuazione, come avvenuto nel nostro paese con la legge 22 aprile 2005 n. 69, di attuazione della decisione sul mandato d’arresto europeo, anche se nel caso specifico, proprio per la eccessiva flessibilità, la Commissione ha affermato, con la Comunicazione 24 gennaio 2006, che l’Italia non si è ancora conformata pienamente alla decisione quadro in questione.

56 Comunicazione 23 novembre 2005 (2005,COM, 583) della Commissione al Parlamento ed al Consiglio sugli effetti della sentenza 13 settembre 2005, nella quale si legge che i provvedimenti potranno “includere il principio stesso del ricorso a sanzioni penali, la definizione delle fattispecie, ed eventualmente la natura e il livello delle sanzioni penali applicabili”

57 Le perplessità nascono dalla considerazione che pur rimanendo necessario, per la configurabilità della responsabilità penale del cittadino comunitario, un atto legislativo nazionale, il principio della riserva di legge risulterebbe intaccato a seguito della riduzione dell’ambito valutativo normalmente spettante al parlamento nazionale, atteso che la mancata conformazione alla Direttiva, anche sotto il profilo della elaborazione del precetto e della sanzione, farebbe scattare le procedure sanzionatorie a carico dello Stato membro. A ciò si aggiunge la ulteriore riflessione che il potere legislativo, nell’attuale sistema comunitario, risale non al Parlamento Europeo, bensì alla Commissione ed al Consiglio, organi non eletti direttamente dal popolo, così da rendere necessario una rivisitazione degli assetti globali comunitari.