I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella “iconoclastica” del 2012

Alberto Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella “iconoclastica” del 2012, Riv. Dir. Proc., 2013, 1, 145

I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella “iconoclastica” del 2012

 

L’autore esamina i vari dibattiti che si sono succeduti negli anni aventi ad oggetto il giudizio di appello fino a giungere al nuovo testo dell’art. 342 c.p.c. introdotto ex abrupto con emendamento governativo durante i lavori parlamentari per la conversione in legge del d.l. n. 83/2012 e applicabile ai giudizi di appello promossi con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dall’11 settembre 2012.

Sommario: 1. Le risalenti proposte abrogative dell’appello e le reazioni “conservatrici”. – 2. L’appello quale revisio prioris instantiae nella giurisprudenza consolidata. – 3. La riscrittura dell’art. 342 (e dell’art. 434) c.p.c. con esercizio microcomparativo filogermanico. – 4. (Segue) Le censure sulla quaestio facti: prospettazione di una diversa ipotesi ricostruttiva, ma senza inversione dell’onus probandi. – 5. La revisione della quaestio iuris in appello. – 6. L’inammissibilità dell’appello per difetto di motivazione va pronunciata con sentenza, non con ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. – 7. Il caleidoscopico variare dei requisiti di ammissibilità delle nuove prove in appello. – 8. Problemi di diritto intertemporale sul regime delle nuove prove in appello: applicazione del principio tempus regit processum. – 9. Divieto di nuove prove e allegazione di nuovi fatti in appello. – 10. La causa non imputabile come inosservanza al dovere di accurata condotta processuale. – 11. Le nuove prove nell’appello secondo il rito sommario: necessità di leggere il requisito dell’indispensabilità in un significato ampio.

1.– Era il 1969 quando Mauro Cappelletti pubblicava il suo parere iconoclastico, proponendo l’abrogazione dell’appello per restituire centralità al giudizio di primo grado e all’oralità di cui questo era chiovendianamente innervato: non doveva, a parer suo, farsi luogo a un secondo giudizio di fatto in appello unicamente sulle carte e le corti distrettuali dovevano divenire sezioni distaccate della Cassazione, alle quali la Corte romana avrebbe dovuto rimettere i ricorsi, salvo trattenere quelli di generale interesse per la collettività, applicando una sorta di writ of certiorari, che consente alla Supreme Court statunitense di selezionare i casi da decidere. Si prospettava così una riedizione delle plurime Corti di cassazione esistenti sino al 1923, in chiave di decentramento territoriale(1).

Cappelletti scriveva però a cavallo degli anni Settanta, quando l’appello era ancora concepito come novum iudicium, le parti non s’imbattevano in preclusioni forti in primo grado e la decisione era ivi assunta, di regola, da un collegio, c’era il reclamo istruttorio ed era sopravvissuta al corso del tempo la figura storica del pretore, le cui decisioni trovavano sfogo impugnatorio innanzi al tribunale senza congestionare le corti d’appello, v’era ampio spazio per lo ius novorum in seconde cure e non esisteva un procedimento di cognizione sommario e atipico come quello oggidì disegnato negli artt. 702 bis ss. c.p.c., che lascia il giudice di primo grado libero artefice delle regole procedurali da seguire, in funzione della celerità del processo(2). Né si era ancora assistito, in Italia come nel resto del c.d. mondo occidentale, alla litigation explosion che si sarebbe avuta a partire proprio dagli anni Settanta del secolo scorso.

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L’equilibrio del sistema e il milieu socioeconomico erano, insomma, ben diversi da quelli che oggi ci si parano innanzi e che sono il frutto non solo delle imperversanti e incessanti riforme processuali susseguitesi, a ritmo insostenibile, dall’inizio degli anni Novanta in poi, ma di una giurisprudenza della Cassazione sempre più sensibile al problema della durata ragionevole dei processi, con pronunce moltiplicatesi in progressione geometrica, interamente imperniate, sino ad eccessi parossistici, sulla centralità di tale principio processuale, lasciando in ombra gli altri (non meno importanti, diremmo…), come il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale e il diritto di difesa, quasi eclissatisi di fronte al prepotente “sol dell’avvenire” inscritto nell’art. 111 Cost. dopo la riforma costituzionale del “giusto processo” datata 1999(3).

Vi fu, dopo il primo parere iconoclastico di Cappelletti, il convegno veneziano dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, con le relazioni di Alessandro Pizzorusso e di Edoardo Ricci e la discussione seguitane: il primo proponeva forme di appello circolare, poiché più consone al sistema democratico costituzionale; il secondo criticava la regola del doppio grado di giurisdizione, mostrandone tutte le imperfezioni e le aporie(4). Si levarono però voci autorevoli in difesa dell’appello nella conformazione esistente: Liebman, Allorio, Tarzia e Cerino-Canova sottolinearono come l’appello venisse incontro a “un criterio di logica del pensiero prima ancora che di logica del processo”, rimarcando che il giudice di appello è in grado di giudicare meglio non perché sia più bravo o più esperto o più preparato o più anziano e saggio o gerarchicamente superiore, ma perché semplicemente “giudica dopo”, su un campo arato e preparato da quanto avvenuto in prime cure e dalle critiche che le parti rivolgono al giudizio espresso dal primo giudice(5).

L’appello a critica libera, con la possibilità cioè di far valere sia l’illegittimità sia l’ingiustizia del provvedimento impugnato, è strumento per la corretta composizione della controversia anche sul piano della ricostruzione fattuale, indipendentemente dalla concezione epistemica piuttosto che retorico-persuasiva che s’abbia del fenomeno probatorio nel processo civile. Il metodo di confutazione e di falsificazione dell’ipotesi fattuale, che s’attua attraverso i motivi specifici di appello in guise non dissimili dal criterio epistemologico di matrice popperiana, contribuisce a depurare e mondare da impurità e vizii le statuizioni decisorie, nel loro faticoso cammino verso la verità (processuale, s’intende) e verso la stabilità del giudicato, con l’affidamento che almeno un riesame integrale del fatto possa rimuovere le insufficienze cognitive del primo giudizio, secondo la formula del Fehlerkalkül del viennese Merkl(6).

2. – L’art. 342 c.p.c., dal 1940 sino all’estate del 2012, era rimasto pressoché intatto: la l. 353 del 1990 l’aveva, è ben vero, lievemente ritoccato, senza mutarne però né la foggia né la sostanza, segno evidente che i legislatori via via succedutisi nel tempo non avevano mai ritenuto necessario intervenire sul requisito dei motivi specifici di appello e sulla funzione di tale strumento impugnatorio, qual tratteggiata dalla Cassazione in tre fondamentali tappe ermeneutiche che, tra il 1987 e il 2005, hanno segnato il passaggio definitivo dell’appello da novum iudicium a revisio prioris instantiae(7).

Al di là di qualche forzatura – implicante finanche un’inversione in appello delle normali regole sull’onere della prova, attraverso una sorta di presunzione iuris tantum di esistenza dei fatti quali accertati nella sentenza di primo grado, che l’appellante avrebbe dovuto darsi cura di vincere e superare, a prescindere dal normale riparto sancito dall’art. 2697 c.c(8). – oggetto del giudizio d’appello rimaneva pur sempre il rapporto sostanziale controverso, devoluto al giudice superiore attraverso i motivi specifici di impugnazione i quali, a differenza dei motivi di ricorso per cassazione, costituivano solo lo strumento tecnico-processuale per individuare la parte del rapporto sostanziale e le questioni su cui il secondo giudice era nuovamente chiamato a pronunciarsi. Né i limiti della cognizione del giudice di appello entro la griglia delle censure mosse alla sentenza impugnata significavano che oggetto del giudizio di seconde cure fossero esclusivamente la pronuncia resa nel precedente grado e la fondatezza o meno dei motivi di censura proposti dall’appellante(9).

3.- “La motivazione dell’appello deve contenere:

1. l’indicazione delle parti della sentenza che si intendono appellare e l’indicazione delle modifiche che vengono richieste (domande di appello);

2. l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata;

3. l’indicazione di elementi concreti che fondano il dubbio sulla correttezza o completezza degli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza impugnata e che richiedono quindi un nuovo accertamento;

4. l’indicazione dei nuovi mezzi di attacco o di difesa e dei fatti che rendono ammissibili tali nuovi mezzi di attacco o di difesa (…)”.

Quello che abbiamo testé trascritto non è il nuovo art. 342 c.p.c., bensì il § 520, Abs. 3, della ZPO tedesca, nella traduzione del 2010(10). L’odierno art. 342 c.p.c. – introdotto ex abrupto con emendamento governativo durante i lavori parlamentari per la conversione in legge del d.l. 83/2012 e applicabile ai giudizii di appello promossi con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dall’11 settembre 2012 (corrispondente al trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione 134/2012, secondo quel che prevede l’art. 54, 2° co., d.l. 83/2012) – non è che la traduzione della norma teutonica, sincreticamente condensata in due numeri anziché in quattro. L’art. 342 novellato, è bene ricordare, s’applica anche agli appelli avverso ordinanze sommarie ex art. 702 quater c.p.c.; e identico testo si rinviene nell’art. 434 c.p.c. per il rito laburistico, mutando solo la forma dell’atto introduttivo (ricorso anziché citazione). Talché la conformazione dei tre riti archetipici (ordinario, laburistico e sommario, ai sensi del d.lgs. 150/2011 sulla semplificazione dei riti) è assicurata quanto ai requisiti di forma-contenuto dell’atto di appello.

Dovremo dunque consultare articoli, manuali e commentarii alla ZPO per comprendere il senso del nuovo art. 342 c.p.c.? La centralità geopolitica ed economica della Germania è divenuta tale da costringerci a questo? Nulla di tutto ciò. Ognun scorge come qui, con la giustificazione degli indicatori economici e dell’incidenza sul PIL della lentezza dei processi italiani(11), si sia profittato per compiere frettolosa e poco meditata opera di microcomparazione filogermanica, prendendo di peso (non già istituti di altri ordinamenti, valutati e ricostruiti entro coordinate ed equilibri di sistema, bensì) la traduzione – ex necesse non aggiornata(12) – di singole norme dell’ordinamento processuale tedesco, che ivi si inseriscono in ben diverso contesto istituzionale, processuale, culturale e operativo(13).

4. – Come si colloca il nuovo art. 342 c.p.c. sulla linea del diritto vivente? Al di là della copiatura, più o meno pedissequa e asistematica, della traduzione italiana del § 520, Abs. 3, ZPO, non pare che la nuova formula innovi radicalmente rispetto al quadro giurisprudenziale brevemente descritto nel par. 2, qual maturato dal 1987 in poi.

La norma novellata, infatti:

rende irreversibile l’indirizzo, ormai acquisito de plano, sulla sanzione d’inammissibilità per l’appello sprovvisto di specifica motivazione;

tratteggia la specificazione dei motivi come proposta di riforma del provvedimento reso in prime cure, impropriamente parlando di “motivazione dell’appello”, quasi ad instar di un progetto di pronuncia da sottoporre al secondo giudice(14), affinché questi abbia a esercitare esclusivamente e strettamente una revisio prioris instantiae circoscritta ai motivi dell’impugnazione, esigendosi non solo l’individuazione dei capi impugnati, ma anche (e soprattutto):

i) la specifica prospettazione della diversa soluzione della quaestio facti e/o

ii) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, cioè l’esatta identificazione dell’error iuris commesso dal primo giudice e dell’incidenza di questo sul decisum (ché, se incidenza non vi fosse, basterebbe correggere la motivazione, tenendo fermo il dispositivo).

Nihil sub sole novi, vien da osservare(15): anche prima della riscrittura dell’art. 342 c.p.c., come veduto, il giudice di appello poteva esercitare il proprio sindacato esclusivamente entro la griglia di soluzioni proposte dall’appellante sui capi e sulle questioni specificamente devolute. L’atto di appello, anche incidentale, doveva prima e deve a fortiori ora opporre alle motivazioni addotte dal primo giudice argomentazioni critiche, tese a infirmare in fatto o in diritto la pronuncia impugnata e che debbono ovviamente correlarsi all’accuratezza della motivazione del provvedimento impugnato.

Se le censure attengono alla quaestio facti, all’appellante si fa onere di esporre specifiche critiche alla pronuncia resa in prime cure e di proporre al secondo giudice una diversa ricostruzione dei fatti, in base alle prove acquisite o delle quali chieda l’assunzione o la rinnovazione in appello, entro i limiti dei mezzi di prova già dedotti o di quelli acquisibili anche d’ufficio o di quelli proponibili e producibili in base alla disciplina delle nuove prove in appello, anch’essa oggetto delle improvvide modifiche di cui infra diremo.

Le nuove norme, sia detto per inciso, non potranno non influire sull’onere di specifica riproposizione disciplinato nell’art. 346 c.p.c., rendendolo (se possibile) ancora più severo e imponendo che vi si provveda, anche per le istanze istruttorie, in coincidenza con gli atti introduttivi, salvo esigere che l’appellato osservi la forma e il termine dell’appello incidentale quando siavi soccombenza non solo teorica, ma anche pratica(16).

Questo, diremmo, è il significato da attribuire alla seconda parte del n. 1 dell’art. 342, che onera l’appellante di indicare le “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”. Un significato non certo innovativo del quadro esistente e delle consuetudini ormai invalse nel foro attorno all’onere di specifica motivazione del gravame, ma che non potrà più giovarsi di quella giurisprudenza, destinata a inesorabile scomparsa, che applicava un metro più comprensivo per saggiare la sufficienza dei motivi d’appello in fatto, contentandosi della “enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie, per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto, come nella diversa ipotesi del ricorso per cassazione, che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ovvero l’espressa indicazione delle questioni decisive non esaminate o non correttamente esaminate”(17).

È da ritenere, però, che dalla sentenza di primo grado non sorga alcuna presunzione iuris tantum che valga a invertire il normale riparto dell’onere probatorio sui fatti principali, come avevano ritenuto le Sezioni Unite nel 2005 e come paiono voler ritenere anche ora, nel 2012, sia pure nel diverso contesto dei rapporti tra sospensione necessaria ex art. 295 e facoltativa ex art. 337, comma 2°, c.p.c. in cause legate da nessi di pregiudizialità dipendenza in senso tecnico (v. supra al par. 2). L’appellante, più semplicemente, dovrà darsi carico di argomentare l’errore o l’ingiustizia commesse dal primo giudice, dovrà sottoporre al giudice di appello la sua ricostruzione in fatto, ma non dovrà darne prova quando non ne abbia l’onere a norma dell’art. 2697 c.c.; se convincerà il secondo giudice che le prove non erano sufficienti a ritenere esistente il fatto principale (costitutivo ovvero impeditivo, estintivo o modificativo che sia) o se la parte appellata, come avvenne nel caso deciso dalle Sezioni Unite nel 2005, non si curi di sostenere in appello la fondatezza del primo giudizio in fatto, la regola sussidiaria dell’onere probatorio non potrà che operare nel modo consueto, dovendosi ritenere inesistente il fatto non provato dalla parte che ne era normalmente onerata.

L’appellante, in altre parole, ha un onere argomentativo, confutatorio e demolitivo, non dimostrativo: gli basta la pars destruens, non serve una pars construens se l’onus probandi non incombe su di lui, secondo la regola generale di riparto del rischio della mancata prova sui fatti principali.

5. – Più delicato e controverso è il profilo delle censure in diritto, che dovrebbero estrinsecarsi, ai sensi del novellato art. 342 n. 2, nella “indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”, con norma copiata telle quelle dalla più volte ricordata traduzione italiana del § 520, Abs. 3, ZPO.

S’avevano sin qui due orientamenti:

i) quello tradizionale, che applicava anche in appello il principio iura novit curia, attribuendo al giudice di seconde cure il potere-dovere di conferire al rapporto controverso una qualificazione giuridica anche diversa da quella data dal primo giudice, con il solo limite di non esorbitare dai petita dell’atto di impugnazione e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell’ambito delle questioni sottoposte al suo esame(18);
ii) un altro più rigoroso, secondo il quale il potere di qualificazione del rapporto giuridico nei gradi successivi al primo andava coordinato con i principii proprii del sistema delle impugnazioni, essendo precluso al giudice di seconde cure di mutare d’ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione giuridica data dal primo giudice al rapporto controverso(19).

Autorevolmente si era alfine concluso, già prima della novella in esame, che le questioni di diritto relative all’individuazione e all’interpretazione della norma fossero di per sé astrattamente idonee a definire il giudizio: come tali esse, se da un lato possono costituire oggetto di sentenza non definitiva di merito (con la conseguente attitudine al giudicato formale e all’efficacia c.d. panprocessuale), dall’altro lato, in caso di omessa denuncia tramite i motivi specifici, risultano precluse al giudice d’appello, in quanto su di esse si è verificata la preclusione conseguente al formarsi del giudicato. L’unica ipotesi in cui il principio iura novit curia sopravvive in appello concerne la possibilità per il secondo giudice, nell’ambito della questione di diritto espressamente devolutagli attraverso il motivo specifico, d’individuare o interpretare la norma in modo difforme sia dal giudice di primo grado sia da quanto indicato dall’appellante(20).

Il nuovo art. 342, n. 2, c.p.c. pare destinato a far prevalere il secondo dei due orientamenti, quello più rigido e restrittivo: in mancanza di una specifica censura, con cui l’appellante indichi le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, il secondo giudice non potrà mutare la qualificazione giuridica del rapporto o far riferimento a norme diverse da quelle applicate in prime cure; qualora invece la quaestio iuris sia stata devoluta al secondo giudice mediante una specifica e motivata doglianza contenuta nell’atto di appello, principale o incidentale, questi potrà individuare o interpretare la norma anche in modo difforme da quanto proposto dall’appellante, con l’ovvia e obbligatoria cautela di sottoporre alle parti la “terza via” da lui ravvisata, in ossequio al dettato dell’art. 101, comma 2°, c.p.c.(21).

6. – Il nuovo art. 342 adotta insomma il canone più rigido e fa definitivamente dell’appello uno strumento di controllo, sia pure a critica libera (cioè senza predeterminazione rigida dei motivi)(22), del provvedimento di primo grado, cui segue una pronuncia sostitutiva sol quando sia specificamente motivato, in fatto come in diritto nel senso anzidetto, e abbia una ragionevole probabilità di successo, in base al nuovo filtro in appello di cui agli artt. 348 bis e ter c.p.c., che prevedono l’emanazione di un’ordinanza d’inammissibilità (recte, di manifesta infondatezza), aprendo la via a un ricorso in Cassazione per saltum avverso la sentenza di primo grado(23).

Se il giudice di secondo grado ritiene che l’atto di appello non risponda alle prescrizioni di forma-contenuto imposte dall’art. 342 (o, per il rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c.):

— deve dichiarare l’inammissibilità con sentenza, non con l’ordinanza di cui al nuovo filtro ex art. 348 ter c.p.c(24).;

— la sentenza d’inammissibilità dell’appello per difetto di specifici motivi sarà impugnabile con ricorso per cassazione, denunciando un error in iudicando de iure procedendi, segnatamente la violazione dell’art. 342 c.p.c.; la Cassazione sarà qui, come prima, giudice anche del fatto processuale, potrà cioè esaminare direttamente l’atto d’appello ritenuto non rispondente alle prescrizioni di forma-contenuto di cui al nuovo art. 342 c.p.c. e, come tale, non delibabile nel merito, neppure sul piano della “ragionevole probabilità” di cui discorre il nuovo art. 348 bis c.p.c.;

— in caso di cassazione della sentenza, ove non siano necessarii ulteriori accertamenti di fatto, la Suprema Corte potrà anche emettere direttamente una pronuncia sostitutiva di merito ex art. 384, comma 2°, c.p.c. (ciò che non è detto possa avvenire nel caso di ricorso per saltum a seguito di ordinanza d’inammissibilità per l’operare del nuovo filtro, visto che l’art. 348 ter pare imporre sempre il rinvio [(25)]).

Assai labile è, pur tuttavia, il confine che separa un appello privo di motivi specifici, quali oggi previsti dall’art. 342 c.p.c., da un appello privo di “una ragionevole probabilità di accoglimento”, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., con il rischio che il giudice di appello viri discrezionalmente verso un’ordinanza d’inammissibilità (recte, di manifesta infondatezza), innescando il meccanismo di ricorso per saltum ex art. 348 ter c.p.c. avverso la sentenza di primo grado, con tutti i limiti e i problemi che questo novello (e, davvero, iconoclastico) istituto comporta, ivi inclusa la tentazione di confermare d’emblée il giudizio di fatto reso in prime cure, così evitando ogni sindacato ulteriore sulla motivazione, giusta il sistema della “doppia conforme” di cui agli ultimi due commi dell’articolo suddetto.

7. – Lo ius novorum in appello nasce nel 520 d.C. con la Costituzione di Giustino, che ammise liberamente i nova in appello, affinché la causa “pleniore subveniatur veritatis lumine”. Si assiste poi, nella storia e nei sistemi giuridici comparati, alle formulazioni più varie(26).

Ben note solo le tappe normative e giurisprudenziali più importanti, che vanno da un’originaria e tendenziale chiusura ai nova nel testo dell’art. 345 del c.p.c. del 1940, alla completa riapertura con la controriforma del 1950, salvo soltanto la sanzione delle spese processuali per la tardiva deduzione, all’introduzione nel 1973 di una chiusura nel rito del lavoro, in consonanza con le rigide preclusioni, anche istruttorie, alle quali esso s’informa già in primo grado, salvo che i nuovi mezzi di prova non vengano ritenuti indispensabili dal giudice di seconde cure (art. 437 c.p.c.), sino all’importazione della chiusura ai nova nel rito ordinario ad opera della riforma del 1990, con estensione del divieto ai nuovi documenti dopo un duplice arrêt delle Sezioni Unite nel 2005(27), dipoi fatto proprio dal conditor con la formulazione dell’art. 345 adottata nel 2009. Peraltro, l’art. 702 quater c.p.c. sull’appello avverso ordinanze sommarie dettò per l’ammissione di nuove prove il solo criterio della rilevanza, che assorbiva e rendeva superfluo, ed anzi riduceva ad autentico nonsense, l’altro criterio della rimessione in termini per causa non imputabile.

Ora, tramite due emendamenti parlamentari alla legge n. 134/2012 di conversione del d.l. 83/2012, che originariamente nulla prevedeva in proposito, gli artt. 345, comma 3°, e 702 quater c.p.c. risultano modificati, eliminando del tutto dal primo il requisito di ammissione di nuove prove in appello imperniato sull’“indispensabilità”, che passa invece nel testo dell’art. 702 quater in luogo del pregresso criterio della mera rilevanza.

L’art. 437, comma 2°, c.p.c. sul rito del lavoro è passato indenne da ritocchi sia nel 2009 sia nel 2012: se ne potrebbe desumere che il legislatore non abbia inteso avallare Cass., sez. un., n. 8202/2005 sul tendenziale divieto di produrre nuovi documenti anche nell’appello laburistico, anche se in senso contrario, e dunque per la conservazione di tale divieto nell’appello laburistico, depone ora l’art. 1, comma 59°, della l. 92/2012 sui procedimenti d’impugnativa dei licenziamenti, che vieta anche i nuovi documenti in appello, salvo che non risultino indispensabili o la parte ne sia decaduta per causa non imputabile.

Nel processo tributario resta intatto l’art. 58, d.lgs. 546/1992, esentato dal filtro e comunque dall’intero art. 54 d.l. 83/2012 grazie a un emendamento parlamentare in sede di conversione in legge: qui il criterio di ammissione delle nuove prove costituende in appello, per vero assai rare nel processo tributario, è espresso in termini di “necessità”, mentre i documenti nuovi sono liberamente producibili.

Come ben vedesi, vi è un utilizzo a dir poco confuso, per non dire pandemico, di nozioni indefinibili come quella di “indispensabilità”, costituenti pure clausole generali, la cui quidditas non si presta a essere esplicata in termini logico-razionali: è dal 1973 che vanamente ci si affanna in tal senso(28). Il legislatore, sia pure nei più varii contesti, continua ad alternare e, diremmo quasi, a giuocare con le vaghe e indeterminate nozioni della rilevanza e dell’indispensabilità, ad esempio negli artt. 669 sexies, comma 1°, sul procedimento cautelare uniforme e nell’art. 702 ter, comma 5°, sul procedimento sommario di cognizione, ivi discorrendo di atti di istruzione che hanno da essere, rispettivamente, “indispensabili” e “rilevanti”. Non pago lo fa ancora nel nuovo procedimento speciale sui licenziamenti (l. 92/2012, art. 1 commi 48 ss.), dove parla di atti di istruzione “indispensabili” per la fase sommaria e tout court “rilevanti” per il giudizio di merito successivo all’eventuale opposizione di una delle parti al provvedimento sommario, facendo dell’indispensabilità, a quanto pare, il canone del giudizio sommario e della rilevanza quello della pienezza cognitiva.

8. – Per le ultime improvvide modifiche agli artt. 345, comma 3°, e 702 quater, secondo periodo, c.p.c. manca persino un regime intertemporale.

Si prospettano, dunque, queste tre alternative:

1) le modifiche in materia di nuove prove in appello sono entrate in vigore il 12 agosto 2012 con la legge n. 134/2012 di conversione del d.l. 83/2012 (pubblicata in G.U. l’11 agosto 2012, con vigenza dal giorno successivo per esplicita norma transitoria): pertanto, i nuovi limiti si applicano anche agli appelli a tale data pendenti, come pare volere il legislatore, che ha (scientemente?) omesso di dettare una disciplina transitoria nell’art. 54, comma 2°, d.l. 83/2012 come convertito, forse confidando tout court sul principio processuale del tempus regit actum, da riferire al momento in cui il giudice di appello provvede sulle nuove istanze istruttorie.

2) Le modifiche al regime dei nova sono entrate in vigore l’11 settembre 2012, essendosi trattato di mera svista del conditor e dovendosi parificare anche queste modifiche alle altre che hanno riguardato l’appello, talché i riscritti limiti alle nuove prove si applicano soltanto agli appelli proposti a partire da tale data, ché il principio tempus regit actum vuol che si guardi non al provvedimento ammissivo delle prove, ma all’atto di parte con cui è proposta l’istanza istruttoria, che in appello coincide, almeno per l’appellante, con l’atto impugnatorio.

3) In applicazione del principio tempus regit processum(29), i nuovi limiti s’applicano soltanto alle cause proposte ex novo in primo grado dal 12 agosto 2012, posto che il regime di ammissibilità di nuove prove in appello si lega e si bilancia con le preclusioni cadute in prime cure, contribuendo a disegnare i diritti di difesa e d’azione delle parti nell’equilibrio complessivo e sistematico del processo.

Quest’ultima è, a nostro avviso, la soluzione corretta, alla stregua di un generale principio di affidamento legislativo d’irretroattività delle leggi ex art. 11 prel.: in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio tempus regit actum che riferirsi ai singoli atti processuali da compiere, isolatamente considerati, e non già a norme che incidano sull’intero rito nel suo complesso, il quale è da intendersi come l’insieme delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, con precipuo riguardo al regime delle preclusioni; l’applicazione di un nuovo rito a un processo già iniziato, in assenza di norme transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe in una non consentita applicazione retroattiva di quell’insieme, vietata dal principio di irretroattività della legge contenuto nell’art. 11 prel., di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è applicazione e la cui violazione determinerebbe una gravissima compressione del diritto al contraddittorio e alla tutela giurisdizionale(30).

Le regole del gioco, insomma, non si cambiano mentre i giocatori sono in campo e stanno disputando la partita. Le modifiche in materia di nuove prove in appello, introdotte sine strepitu nel corso dei lavori parlamentari sul d.l. 83/2012, cambiano le regole del gioco. L’appello mostra, così, tutta la sua centralità nell’equilibrio del processo civile italiano: una modifica al regime dei nova incide sulle regole di svolgimento dell’intero processo, sulle aspettative e sul legittimo e incolpevole affidamento delle parti, nel significato ricostruito dalle stesse Sezioni Unite sia pure in tema di overruling giurisprudenziale, secondo un principio che non può che valere a fortiori di fronte a uno ius superveniens processuale, che comporti un effetto restrittivo sulle prerogative processuali delle parti(31).

9. – Il divieto di nuove prove nell’appello more ordinario, pur nella chiusura pressoché assoluta, stabilita dal novellato 3° comma dell’art. 345 c.p.c., deve tener conto della possibilità di allegare nuovi fatti in seconde cure. Invero, per i nuovi fatti allegabili per la prima volta in appello non può esservi alcuna forma di limitazione probatoria, che risulterebbe contraria al diritto di azione di cui il diritto alla prova è componente fondamentale: se un fatto può essere allegato ex novo in appello, necessariamente si potrà anche fornirne la dimostrazione, senza limitazioni diverse o ulteriori rispetto ai criterii di rilevanza e ammissibilità vigenti in prime cure. Lo stesso limite dell’indispensabilità è un quid pluris inapplicabile al fatto nuovo, allegabile per la prima volta in appello(32).

Così, vi sono nuovi fatti costitutivi deducibili per la prima volta in appello, come avviene per le domande consequenziali di cui al 1° co. dell’art. 345 c.p.c., concernenti gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa o, ancora, le pretese restitutorie delle prestazioni rese all’esito del primo grado, suscettibili di caducazione per l’effetto espansivo esterno della domandata riforma (ex art. 336, comma 2°, c.p.c.). È considerata ammissibile altresì la deduzione di nuovi fatti divenuti rilevanti a seguito di ius superveniens o di pronuncia d’incostituzionalità o di sentenza della terza via, emanata in violazione dell’art. 101, comma 2°, c.p.c.: poiché non può aversi qui rimessione in prime cure ex artt. 353 e 354 c.p.c., la parte potrà allegare e provare in appello quel che non le fu possibile dedurre in primo grado per difetto normativo o in relazione a una questione rilevata d’ufficio dal giudice senza sottoporla al contraddittorio delle parti. Ancora, si considerano usualmente allegabili ex novo in appello i fatti costitutivi operanti ipso iure e quelli posti a base di domande autodeterminate(33).

Sulle eccezioni rilevabili anche d’ufficio e, segnatamente, sulla possibilità di allegare in appello i fatti estintivi, impeditivi e modificativi ad esse sottostanti, conviene ricordare come accanto a posizioni più restrittive – per le quali i fatti posti a fondamento delle eccezioni debbono essere stati già introdotti o, quantomeno, acquisiti sul piano probatorio nel processo di primo grado(34) – vi siano voci secondo cui la rilevabilità anche in appello delle eccezioni in senso lato, ai sensi del 2° comma dell’art. 345 c.p.c., comporta ex necesse la possibilità di allegare i fatti sui quali esse si fondano(35). Infatti, l’ammissibilità delle sole eccezioni relative a fatti tempestivamente allegati e acquisiti in primo grado si risolverebbe in una censura di omessa pronuncia, per non avere il giudice di prime cure rilevato quel che già emergeva ex actis(36).

La giurisprudenza, pur oscillante e non perspicua sul punto, pare ammettere in appello nuove eccezioni rilevabili anche d’ufficio, a prescindere dalla già avvenuta allegazione del fatto in prime cure, purché questo emerga dalle risultanze istruttorie ritualmente e tempestivamente acquisite(37): talché si finisce con l’imporre (se non la tempestiva allegazione comunque) la tempestiva prova del fatto estintivo, impeditivo o modificativo per poterlo rilevare anche ex officio in appello, senza incidere sul regime delle preclusioni istruttorie ormai cadute in prime cure. Un atteggiamento che pare eccessivamente rigoroso e che merita d’esser attentamente vagliato, specialmente ora che è scomparsa anche la “valvola di sicurezza” dell’indispensabilità della prova in appello: non pare invero giusto né sensato negare in appello ogni possibilità di provare, ad es., che il credito accertato dal primo giudice era, in effetti, estinto per intervenuto pagamento o per altra causa di estinzione automatica, il cui effetto sia rilevabile anche d’ufficio.

È ovviamente consentita l’allegazione di fatti sopravvenuti o resi necessarii dagli sviluppi del processo (ad es., il limite del massimale assicurativo a seguito dei pagamenti eseguiti dopo il primo grado di giudizio e a fronte di ulteriori pretese avanzate dai danneggiati in appello).

Ebbene, per i fatti allegabili per la prima volta in appello, di qualunque segno essi siano (costitutivi ovvero impeditivi, modificativi o estintivi), vale il diritto alla prova quale componente del diritto di azione e di difesa: debbono cioè poter essere provati senza limitazioni diverse né maggiori rispetto a quelle applicabili al primo grado di giudizio, poiché essi entrano per la prima volta in appello a far parte del thema probandum e vanno assoggettati al medesimo regime probatorio che s’applica in generale ai fatti rilevanti per la decisione della causa in un grado di giudizio. Principio questo che va tenuto fermo anche di fronte al sopravvenuto radicale divieto di dedurre nuove prove e di produrre nuovi documenti, salvo rimessione in termini per causa non imputabile, ai sensi del novellato art. 345, ult. cpv., c.p.c.

Se dovessero, invece, prevalere interpretazioni rigide, che vietino drasticamente di dedurre nuove prove e di produrre nuovi documenti pur a fronte di fatti allegabili per la prima volta in appello, non soltanto il sistema s’irrigidirebbe in modo eccessivo, per dare precipua valenza a un’artificiosa verità processuale quando pure il giudice disponga di una prova in grado di mostrare una diversa realtà effettuale (questo, al postutto, era il senso ultimo dell’indispensabilità: garantire in appello un recupero in extremis della verità sostanziale di fronte a verità processuali avulse dalla realtà effettuale), ma si dovrebbero rivedere le consuete concezioni sull’oggetto del processo. Infatti, se si precludesse in appello di provare nuovi fatti costitutivi del diritto controverso (ad es., un diverso titolo di acquisto della proprietà), non si potrebbe poi precluderne la riproposizione in separato processo e la latitudine oggettiva del giudicato non potrebbe più essere la stessa: quando si vieti di provare in appello una nuova fattispecie costitutiva che pure, secondo la prevalente teoria dell’“individuazione”, non modifica l’oggetto del giudizio, sarà inevitabile riconoscere la possibilità di dedurre e provare quella stessa fattispecie costitutiva in un nuovo processo, così perdendo in termini di economia esoprocessuale e di moltiplicazione delle liti i vantaggi che s’intendono frettolosamente conseguire sul piano della mera economia endoprocessuale, mediante rigidissime preclusioni e un’applicazione miope della Eventualmaxime.

10. – La rimessione in termini per causa non imputabile, unico criterio di ammissibilità per nuove prove e nuovi documenti nell’appello more ordinario sopravvissuto al furore iconoclastico del conditor del 2012, dovrà assumere un significato evidentemente più ampio ed elastico rispetto al pur recente passato, se non si vuole irrigidire a dismisura il sistema. Un significato che faccia perno, oltre che sulle nozioni di forza maggiore e di caso fortuito propriamente dette, sul metro soggettivo della diligenza impiegata nel compiere gli atti del processo, in base a un principio di autoresponsabilità incentrato sul c.d. dovere di accurata condotta processuale (Prozessförderungspflicht)(38). Tutto ciò che in primo grado la parte non poteva ragionevolmente prevedere, pur con una condotta processuale attenta e scrupolosa, o che costituisce naturale sviluppo del contraddittorio in appello o prospettiva aperta dalla pronuncia emessa in prime cure, dovrà (anche nel dubbio) essere ammesso in appello, ove serva a compiere opera di giustizia in sede di gravame e nel caso concreto.

Neppure i tedeschi hanno irrigidito l’appello al punto in cui lo ha ridotto ex abrupto l’ultima novella all’art. 345, comma 3°, c.p.c.: la formula del § 531, Abs. 2, n. 1, della ZPO tedesca ammette nuovi mezzi di attacco e di difesa, ivi inclusi gli strumenti istruttorii e i documenti, se “riguardano un aspetto all’evidenza trascurato o ritenuto non rilevante dal tribunale di primo grado” e che la parte ha interesse a valorizzare in appello. L’italica schiatta, usualmente incline a elastiche capacità di adattamento, per smania microimitativa diviene ora persino più rigida del modello teutonico, mentre omette del tutto di guardare ai cugini d’Oltralpe, dalla cui tradizione il nostro codice di rito trasse storica origine e che hanno mantenuto e da sempre conservano un appello aperto, concepito come voie d’achévement du procès, che non ostacola certo l’efficienza e la rapidità dei processi ed anzi tende a favorire la completezza della cognizione e la composizione della lite tra privati nella sua interezza e in tutti i suoi risvolti(39).

11. – Il precedente testo dell’art. 345, comma 3°, passa, per così dire, al piano inferiore, trasferendosi con armi e bagagli nel nuovo art. 702 quater c.p.c., che sinora del primo era il pallido riflesso, malamente adattato alle esigenze del rito sommario.

Fino al 2012 l’ammissione di nuove prove nell’appello contro ordinanze sommarie era soggetta, apparentemente, a due criterii alternativi che, accostati tra loro, meritavano “la palma dell’involontaria comicità”, come è stato efficacemente scritto(40): nel processo non possono ammettersi che prove “rilevanti” (frustra probatur quod probatum non relevat) e, se ciò basta a rendere ammissibili nuove prove in appello, del criterio alternativo della rimessione in termini per causa non imputabile non v’era alcun bisogno, non potendosi certo far luogo a prove irrilevanti sol perché la parte ne fosse decaduta per causa non imputabile(41).

Con emendamento parlamentare al d.l. 83/2012 il termine “rilevanti” è stato sostituito con “indispensabili”. Il che avrà anche eliminato la pregressa incongruenza dell’art. 702 quater c.p.c. nell’accostare rilevanza e causa non imputabile quali criterii alternativi per l’ammissione di nuove prove in appello, giungendo a un testo ora pressoché identico (soltanto ex littera, non per significato e contesto, come diremo infra) all’ante vigente comma 3° dell’art. 345 c.p.c. sulle nuove prove nell’appello more ordinario, ma compromette i delicati equilibrii tracciati dal conditor del 2009 e le soluzioni ermeneutiche faticosamente ricostruite dagli interpreti nel primo triennio di applicazione del novello istituto processuale, anche alla stregua della pregressa esperienza dell’appello nel procedimento societar-sommario di cui all’abrogato art. 20 d.lgs. 5/2003.

“Rilevanza” vs. “indispensabilità”: già abbiamo avvertito della difficoltà, se non dell’impossibilità logica di distinguere l’una dall’altra, non potendosi determinare razionalmente né quantificare “matematicamente” il quid pluris dell’indispensabilità rispetto alla rilevanza. Con la prima si raccomanda al giudice di fare in fretta, ma non troppo (“aber nicht zu viel”, direbbe Musil); con la seconda il giudice deve fare anzitutto in fretta, perché esigenze cautelari o di rapida tutela contraggono i tempi e comprimono i diritti di difesa delle parti, che potranno in un successivo giudizio aver maggior agio di dedurre prove e produrre documenti (così avviene nel giudizio di merito rispetto alla tutela cautelare o a quella possessoria o, ancora, nel giudizio a cognizione piena che succeda alla fase sommaria nel procedimento d’impugnazione dei licenziamenti ex lege 92/2012).

In appello, però, la connotazione dell’indispensabilità va misurata e ricostruita in base a un diverso contesto. Nell’art. 345, comma 3°, c.p.c., quale vigente sino al 2012, e ancor oggi nell’art. 437, 2° co., c.p.c. sul rito del lavoro, il requisito d’indispensabilità delle nuove prove in appello s’innesta(va) su un giudizio di primo grado svoltosi secondo gli schemi della c.d. cognizione piena, più o meno concentrati a seconda del rito ordinario o laburistico di cui s’era fatta applicazione. Nella versione dell’art. 702 quater c.p.c. anteriore alla modifica del 2012 le nuove prove e i nuovi documenti in appello erano ammessi secondo il mero e consueto parametro della rilevanza (privo di senso per i documenti, al pari dell’indispensabilità, ché le prove precostituite normalmente entrano nel processo con un mero atto di produzione e la valutazione che le concerne non è mai di ammissibilità bensì, direttamente, di efficacia probatoria [(42)]), senza restrizioni particolari se non, al più, le cautele proprie del principio di contestualità nella deduzione e nella formazione delle prove costituende (specie testimoniali), che la giurisprudenza applica ab immemorabili in materia di nuove prove in appello(43): e ciò rispondeva alla logica di un appello aperto a novae probationes dopo un primo grado informato ai canoni della cognizione sommaria e accelerata.

Dall’estate del 2012 le nuove prove nell’appello more summario sono ammesse soltanto se “indispensabili”, con requisito di ammissibilità che rischia, se non sottoposto ad attenta lettura costituzionalmente orientata, di sbilanciare l’intero equilibrio del procedimento di ancor fresco conio. Invero, prima di tanto improvvida e malpensata modifica, costituiva notazione comune quella per cui l’appello nel rito sommario contribuisse a restituire alle parti quelle facoltà difensive che potevano essere state compresse nel giudizio di prime cure, mercé l’ampia discrezionalità concessa al giudice dal 5° comma dell’art. 702 ter c.p.c., che pur fa riferimento al metro della semplice rilevanza. Così si esprimeva la dottrina maggioritaria, la quale ricostruiva l’appello ex art. 702 quater come impugnazione “aperta” (se non, addirittura, di carattere oppositivo), in cui era possibile la produzione di tutti i documenti e la deduzione di tutti i mezzi di prova, purché ammissibili e rilevanti secondo le regole generali, anche se non prodotti né richiesti nel procedimento sommario svoltosi in prime cure(44), in linea con la giurisprudenza formatasi sull’appello avverso ordinanze societar-sommarie di cui agli abrogati artt. 19 ss. d.lgs. 5/2003(45). Si sottolineava, infatti, l’esigenza di riequilibrare in seconde cure la compressione delle facoltà difensive delle parti che s’era avuta in un primo grado trattato e istruito in forme sommarie, delineandosi attraverso il criterio della semplice “rilevanza” delle nuove prove un’impugnazione caratterizzata dalla massima apertura possibile(46).

L’equilibrio dell’ancor nuovo istituto processuale viene ora infirmato e l’improvvida modifica – maturata sine studio e contraddittoriamente accostata, nella novella del 2012, all’esenzione dell’appello avverso ordinanze sommarie dal filtro di cui al nuovo art. 348 bis c.p.c., con cui si vuol chiaramente evitare un doppio giudizio frettoloso e sommario in ambedue i gradi – necessita d’essere sottoposta a un intervento di ortopedia ermeneutica costituzionalmente orientata, se si vuol preservare la conformità a Costituzione del procedimento ex artt. 702 bis ss. c.p.c. e favorirne la diffusione(47). Abbiamo ricordato l’interpretazione affermatasi nell’appello avverso ordinanze societar-sommarie: lì il testo dell’abrogato art. 20 d.lgs. 5/2003, che si limitava a richiamare gli artt. 341 ss. c.p.c. (ivi incluso l’intero art. 345 nella precedente versione), “in quanto compatibili”, non impedì alla giurisprudenza di ricostruire l’appello contro ordinanze sommarie come impugnazione aperta a nuove istanze istruttorie e produzioni documentali, intesa a garantire almeno un grado a cognizione piena. Qui il compito è reso più difficile dalla presenza di una norma appositamente dedicata all’appello more summario, l’art. 702 quater c.p.c. Nondimeno è da credere che il carattere indeterminato della nozione d’indispensabilità e l’incipit della norma (che volge in un positivo “sono ammessi” la perentoria negazione che si rinviene, invece, nel 3° comma dell’art. 345) consentano applicazioni ermeneutiche non asfittiche, che sappiano rinvenire il giusto equilibrio tra esigenze di efficienza e di celerità e diritti di difesa delle parti e di accertamento veritiero dei fatti controversi.

Se così non fosse, l’intero impianto del procedimento sommario di cognizione, lungi dall’esser favorito dalle ultime modifiche (come si legge nella Relazione illustrativa al d.l. 83/2012), potrebbe esser ben presto spazzato via da pronunce d’illegittimità costituzionale(48).

(1) V. Cappelletti, Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano, in Giur. it. 1969, IV, 81 ss. e in Giustizia e società, Milano 1972, 116 ss.; Id., Doppio grado di giurisdizione: parere iconoclastico n° 2, o razionalizzazione dell’iconoclastìa?, in Giur. it. 1978, IV, 1 ss.

(2) V., con rassegna critica diacronicamente ordinata, Scarselli, Sugli errori degli ultimi venti anni nel porre rimedio alla crisi della giustizia civile, in Foro it. 2011, V, 50 ss.; v. anche Id., Poteri del giudice e diritti delle parti, in Giusto proc. civ. 2010, 45 ss.

(3) Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc. 2011, 505 ss.; E. F. Ricci, Nooo! (la tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della cassazione: da garanzia in cerca di attuazione a killer di garanzie), in Riv. dir. proc. 2010, 975 ss.; Bove, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della corte di cassazione, Napoli 2010.

(4) Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Atti del XII Convegno Nazionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, Milano 1980, e in Riv. dir. proc. 1978, 33 ss.; E. F. Ricci, Il doppio grado di giurisdizione nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1978, 59 ss.

(5) Liebman, Il giudizio di appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc. 1980, 401 ss., che proponeva la tesi, rimasta isolata, della garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione, argomentandola dalla previsione dell’art. 103 Cost. sul processo amministrativo; Allorio, Sul doppio grado del processo civile, in Studi in onore di Liebman, Milano 1979, III, 1783 ss.; Tarzia, Realtà e prospettive dell’appello civile, in Riv. dir. proc. 1978, 86 ss.; Cerino Canova, in Riv. dir. proc. 1978, 92 ss.

(6) Evocata da Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova 2012, 12 e 184.

(7) Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro it. 1987, I, 3037, con nota di Balena, stabilì che l’atto di appello dovesse non solo individuare le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma anche esporre con sufficiente grado di specificità le ragioni e gli argomenti fondanti, da apprezzare in relazione alla motivazione della sentenza appellata, sanzionando con la nullità l’appello sprovvisto di specifici motivi, sanabile con la costituzione dell’appellato, con salvezza però dei diritti anteriormente quesiti (ivi incluso l’eventuale intervenuto decorso del termine breve ad impugnandum, decorrente comunque, anche in assenza di notificazione della sentenza, dalla notifica del gravame), al cospetto della versione dell’art. 164 c.p.c. anteriore alla riforma del 1990. Vi fu poi Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16/2000, in Foro it. 2000, I, 1606, con note di Balena, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui, e di Barone, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sezioni unite, in Giust. civ. 2000, I, 673, in Corriere giur. 2000, 750, con nota di De Cristofaro Inammissibilità, appello senza motivi ed ampiezza dell’effetto devolutivo, in Dir. e giustizia 2000, fasc. 4, 39 e in Gius 2000, 965, con nota di Berruti, che definì il requisito di specificità dei motivi come “prospettazione di argomentazioni, contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette a incrinarne il fondamento logico-giuridico”, con formula poi ripresa da tutta la successiva giurisprudenza e divenuta ormai tralatizia (v., ex plurimis, Cass. 19 febbraio 2009, n. 4068 e Cass. 27 gennaio 2011, n. 1924), e ne sanzionò il difetto con l’inammissibilità dell’appello. Nonché, infine, l’assai discussa Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it. 2006, I, 1433, con nota severamente critica di Balena, Oriani, Proto Pisani, Rascio, Oggetto del giudizio di appello e riparto degli oneri probatori: una recente (e non accettabile) pronuncia delle sezioni unite, di cui subito nel testo, in Corriere giur. 2006, 1083, con nota di Parisi, Oggetto dell’appello, onere della prova e principio di acquisizione processuale al vaglio delle sezioni unite, in Riv. dir. proc. 2006 1397, con nota di Poli, L’oggetto del giudizio di appello, ritiene che l’appellante sia persino tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse a ciascuna delle soluzioni offerte dalla sentenza impugnata sulle varie questioni rilevanti.

(8) Fortemente critica verso l’arrêt delle Sezioni Unite n. 28498/2005 è la nota “a otto mani” poc’anzi ricordata. Consolo, Le impugnazioni cit., 183 s., invece, rilegge la sentenza della Suprema Corte sotto il profilo dell’onere dell’appellante di dimostrare, sul piano logico-argomentativo, l’errore commesso dal giudice di prima istanza, in un appello concepito come strumento di Fehlerkontrolle und Fehlerbeseitigung. V. ora anche Cass., sez. un., 19 giugno 2012, n. 10027, la quale – sia pure nel diverso contesto dei rapporti tra sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. e sospensione facoltativa ex art. 337, 2° co., c.p.c. per pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico – attribuisce alla sentenza di primo grado una presunzione iuris tantum di conformità al diritto, quale risultato di un accertamento nel contraddittorio tra le parti, dinanzi a un giudice terzo e imparziale.

(9) Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino 2009, 463 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 2011, 376 ss.; Consolo, Le impugnazioni cit.,176 ss.; Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, Torino 2008, 399 ss.; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2012, 483 ss.; Id., Note sull’appello civile, in Foro it. 2008, V, 257 ss.; Verde, Profili del processo civile, 2, Processo di cognizione, Napoli 2008, 219 ss.; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari 2012, 370 ss.; Romano, Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d’appello civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2000, 1205 ss.; R. Poli, Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc. 2010, 48 ss.

(10) Codice di procedura civile tedesco. Zivilprozessordnung, a cura di Patti, Milano 2010, 333 (trad. it. a cura di Merlin).

(11) V. la Relazione illustrativa al d.l. 83/2012.

(12) Ciò vale soprattutto per il filtro in appello introdotto con gli artt. 348 bis e ter c.p.c., ché la fonte di più immediata ispirazione, il § 522 della ZPO tedesca, è stata significativamente modificata nell’ottobre del 2011, laddove la traduzione italiana ripresa dal legislatore è stata pubblicata nel 2010: v. Codice di procedura civile tedesco, cit., 335 e 337. Sulla riforma tedesca del 2011 cfr. Weller, Rechtsfindung und Rechtsmittel: zur Reform der zivilprozessualen Zurückweisung der Berufung durch Beschluss, in ZZP 124 (2011), 343 ss.

(13) V. Caponi, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it 2012; Id., L’appello nel sistema delle impugnazioni civili (note di comparazione anglo-tedesca), in Riv. dir. proc. 2009, 631 ss. Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it 2012, par. 1, segnala non solo la diversità del modello tedesco, ma soprattutto il rischio di letture del nuovo art. 342 c.p.c. che eliminino surrettiziamente dal nostro sistema un gravame a critica libera per trasformarlo in impugnazione a critica vincolata.

(14) V. il Parere, approvato con delibera consiliare del CSM del 5 luglio 2012, sulle disposizioni concernenti l’amministrazione della giustizia contenute nello schema di decreto legge recante misure urgenti per la crescita sostenibile (cd. Decreto sviluppo). Anche M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, in Foro it. 2012, V, 285 riconosce come si sia giunti a una soluzione non troppo distante da quella proposta dal CSM, secondo gli standard più rigorosi della Cassazione.

(15) Cfr. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, 2012, par. 3, rinvenibile in www.treccani.it e destinato alla pubblicazione nel Libro dell’anno del diritto Treccani, Roma 2013, dove si esclude che la riforma abbia trasformato l’appello in un’impugnazione a motivi limitati; Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di “svaporamento”, in Corriere giur. 2012, fasc. 10, par. 5; Galletto, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.judicium.it 2012, par. 2.

(16) Anche dopo la riforma del 1990 la giurisprudenza ha continuato a consentire all’appellato, purché non soccombente sul piano pratico, la riproposizione mera ex art. 346 c.p.c. di domande ed eccezioni non accolte sino al momento della precisazione delle conclusioni in appello (cfr. Cass. 19 luglio 2005, n. 15223;Cass. 23 settembre 2004, n. 19126). Peraltro, alcune pronunce tendono a imporre l’appello incidentale (condizionato) anche in taluni casi di soccombenza meramente teorica: v., ad es., Cass. 1 luglio 2004, n. 12005 e Cass. 23 settembre 2004, n. 19145 sulla riproposizione in appello, da parte del convenuto vittorioso in prime cure, della domanda di garanzia nei confronti del terzo chiamato, sebbene questa fosse rimasta assorbita dal rigetto della domanda dell’attore (contra, in precedenza e correttamente, Cass. 5 luglio 2000, n. 8973).Sul tema v., con varietà di tesi ricostruttive, Rascio, L’oggetto del giudizio di appello, in Studi in onore di Vittorio Colesanti, II, Napoli 2009, 997 ss.; R. Poli, La devoluzione di domande e questioni in appello nell’interesse della parte vittoriosa nel merito, in Riv. dir. proc. 2004, 332 ss.; nonché, si vis, Tedoldi, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. it. 2001, 1301 ss.

(17) Così Cass. 18 agosto 2004, n. 16190.

(18) V., ad es., Cass. 5 aprile 2011, n. 7789;Cass. 25 marzo 2010, n. 7190;Cass. 11 settembre 2007, n. 19090;Cass. 31 marzo 2006, n. 7620;Cass. 23 febbraio 2006, n. 4008.

(19) V., tra molte, Cass. 30 luglio 2008, n. 20730;Cass. 11 luglio 2007, n. 15496;Cass. 12 luglio 2005, n. 14573;Cass. 18 aprile 2005, n. 8082.

(20) Così Proto Pisani, Note sull’appello civile, in Foro it. 2008, V, 257 ss., par. 7. Sul tema v. Dalfino, Questioni di diritto e giudicato – Contributo allo studio dell’accertamento delle “fattispecie preliminari”, Torino 2008.

(21) Contra M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, in Foro it. 2012, V, 286, secondo cui, anche dopo la riscrittura dell’art. 342 c.p.c., non è inibito al giudice di appello, una volta preso atto che una parte della sentenza non è coperta dal giudicato (in relazione agli artt. 329 e 336 c.p.c.), di decidere la lite, accogliendo l’appello anche se per argomenti diversi, ove ritenga ingiusta la sentenza, ad esempio per una diversa lettura della questione di diritto.

(22) Analogamente M. Fabiani, op. cit., 286. Verde, Diritto di difesa, cit., par. 1, segnala il rischio di interpretazioni del novellato art. 342 che trasformino surrettiziamente l’appello in impugnazione a critica vincolata.

(23) Sul c.d. filtro in appello la letteratura, concordemente e duramente critica, è già molto ampia: v. Verde, Diritto di difesa cit., parr. 2 ss.; Consolo, Nuovi ed indesiderabili cit., parr. 6 ss.; Costantino, Le riforme cit., parr. 3.1 ss.; Id., Contro l’“appellicidio”, in www.civilnet.it 2012; Caponi, Contro il nuovo filtro cit., spec. par. 6; Id., La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in www.judicium.it 2012; Id., La riforma dell’appello civile, in Foro it. 2012, V, 292 ss.; De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it 2012; Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it. 2012, V, 287 ss.; Pagni, Gli spazi per le impugnazioni dopo la riforma estiva, in Foro it. 2012, V, 299 ss.; Impagnatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it 2012, parr. 3 ss.; Id., Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, in Foro it. 2012, V, 295 ss.; Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it 2012; Galletto, op. cit., parr. 3 ss.; nonché i gustosi dialoghi immaginarii di Russo, Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending review, in www.judicium.it 2012.

(24) Conf. Costantino, op. loc. cit.; M. Fabiani, op. cit., 284; Galletto, op. loc. cit.

(25) Costantino, op. loc. cit., sembra ammettere la pronuncia sostitutiva in Cassazione anche in tal caso.

(26) Sulla storia dello ius novorum ci permettiamo di rinviare a Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova 2000, 11 ss., dove ulteriori riferimenti.

(27) Cass., sez. un., 20 aprile 2005, nn. 8202 e 8203, in Riv. dir. proc. 2005, 1051, con nota di Cavallone; in Foro it. 2005, I, 1690, con note di Dalfino, Barone e Proto Pisani, in Foro it. 2005, I, 2719 (m), con nota di Cea, in Corriere giur. 2005, 929, con note di Ruffini e di Cavallini, in Giur. it. 2005, 1457, con nota di Socci.

(28) Sulla nozione sia consentito rinviare a Tedoldi, L’istruzione cit., 188 ss. Sul tema v. l’interessante, ancorché isolata, pronuncia di Cass. 17 giugno 2009, n. 14098, secondo cui il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello non attiene al merito della decisione, ma al rito, in quanto la relativa questione rileva ai fini dell’accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all’ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte: ne consegue che, nel caso in cui venga dedotta in sede di legittimità l’erronea ammissione di una prova documentale non indispensabile da parte del giudice di appello, la corte di cassazione, chiamata ad accertare un error in procedendo, è giudice anche del fatto, ed è quindi tenuta a stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile.

(29) Sul quale v., per tutti, Caponi, Tempus regit processum – Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc. 2006, 449 ss.; Id., Tempus regit processum ovvero autonomia e certezza del diritto processuale civile, in Giur. it. 2007, 689 ss.

(30) Cass. 7 ottobre 2010, n. 2081;Cass. 12 maggio 2000, n. 6099.

(31) Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in Foro it. 2011, I, 2254 e in Corriere giur. 2011, 1392, con nota di Cavalla, Consolo e De Cristofaro.

(32) Cfr., si vis, Tedoldi, L’istruzione cit., 140 ss. e 170 ss.; v., dopo l’ultima riscrittura normativa, Costantino, op. loc. cit.

(33) Quale è, ad esempio, un diverso titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3089). In dottrina sulle nuove allegazioni in appello v. Mandrioli, op. cit., II, 463 ss.; Punzi, op. cit., II, 410 ss.; Proto Pisani, Lezioni, cit., 488 ss.; Verde, Profili, cit., 2, 226 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, cit., II, 390 ss.; Consolo, Le impugnazioni, cit., 204 ss.; Balena, op. cit., II, 378 ss.; Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano 2010, 501 ss.

(34) V. Chiarloni, Prime riflessioni sui valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir. proc. 1991 680; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, 160.

(35) Sassani, Appello (dir. proc. civ.), in Enc.dir., Agg., III, Milano 1999, 190; Oriani, Eccezione, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XII, Torino 1987, 361; Consolo, Le proposte “Vassalli” di riforma del c.p.c., in Giust. civ. 1989, II, 198.

(36) Consolo, op. loc. ult. cit.

(37) V., in particolare, Cass., sez. un., 27 luglio 2005, n. 15661, in Foro it. 2005, I, 2660, con nota adesiva di Oriani, che si allinea a Cass., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099, in Foro it. 1998, I, 764 e in Giust. civ. 1998, I, 645, con nota di Giacalone. V. anche Cass. 6 marzo 2010, n. 6350.

(38) V. Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano 1996, 49 ss.; Id., La causa non imputabile alla parte nella disciplina della rimessione in termini nel processo civile, in Foro it. 1998, I, 2658 ss.

(39) Guinchard, Chainais, Ferrand, Procédure civile, Paris 2010, 823 ss.; Cadiet, Normand, Mekki, Théorie générale du process, Paris 2010, 930 ss.

(40) Dittrich, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc. 2009, 1598.

(41) V., per tutti, Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. it. 2009, 1570.

(42) V. Proto Pisani, Nuove prove in appello e funzione del processo, in Foro it. 2005, I, 1699; Cavallone, Anche i documenti sono “mezzi di prova” agli effetti degli art. 345 e 437 c.p.c., in Riv. dir. proc. 2005, 1072 ss.

(43) Sia consentito rinviare, per brevità, a Tedoldi, L’istruzione probatoria cit., 170 ss.

(44) Cfr., per tutti, Luiso, op. ult. cit., 1569; Id., Diritto processuale civile, IV, Milano 2011, 122, che concepisce l’appello nel rito sommario come un giudizio di primo grado a cognizione piena. Altra parte della dottrina invece, pur a fronte del precedente dettato dell’art. 702 quater, aveva sostenuto la possibilità di “interpolare” il testo, per sostituire l’indispensabilità alla rilevanza, così perequando le nuove prove ammissibili nell’appello more summario a quelle (in allora) deducibili nell’appello more ordinario (Bove, Il procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ. 2010, 451 s.; Dittrich, op.cit., 1599): tesi questa che trova ora esplicita conferma nella nuova loggia dell’articolo in esame.

(45) V. App. Milano, 3 dicembre 2007, in Giur. it. 2008, 2552, con nota adesiva di Carratta, Processo sommario societario e limiti dell’appello avverso l’ordinanza: riflessioni de iure condito e prospettive de iure condendo, confermata da Cass. 11 luglio 2008, n. 19238, in Riv. dir. proc. 2009, 495 ss., con nota adesiva di Tiscini, Primi interventi della Corte Suprema sul procedimento sommario di cognizione nelle controversie societarie, in Giur. it. 2009, 1216, con nota di Ronco, in Giust. civ. 2009, I, 1953, con nota di Licci e in Giust. civ. 2009, I, 2423 (m), con nota di Abbamonte.

(46) Cfr. Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009 n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corriere giur. 2009, 884.

(47) Cfr. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino 2012, 363 s.

(48) V. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, 2012, par. 3.4, rinvenibile in www.treccani.it e destinato alla pubblicazione nel Libro dell’anno del diritto Treccani, Roma 2013, che (al par. 3.5) prospetta altresì la violazione dell’art. 77 Cost. per difetto dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza nell’art. 54 d.l. 83/2012, stante la norma che ne ha disposto l’entrata in vigore trenta giorni dopo la legge di conversione. V. anche Verde, Diritto di difesa cit., par. 8.

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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