Sul dovere di conoscenza della legge straniera applicabile da parte del notaio

Domenico Damascelli, Sul dovere di conoscenza della legge straniera applicabile da parte del notaio, in Professione e Ricerca. Attualità e problematiche in materia di nullità relative, Edizioni Viverein, Bari, 2009, p. 309 ss.

Sul dovere di conoscenza della legge straniera applicabile

da parte del notaio

  1. Il «trattamento processuale del diritto straniero» nel vigore delle preleggi.

Nel vigore delle preleggi, la dottrina maggioritaria, influenzata dai postulati positivistici dell’esclusività dell’ordinamento giuridico dal cui punto di vista ci si pone e dell’universalità delle sue valutazioni giusprivatistiche, assegnava al diritto internazionale privato l’unica funzione di individuare quale ordinamento straniero, tra i varî che ipoteticamente potevano venire in considerazione per la disciplina dei «fatti con carattere di estraneità» rispetto all’ordine giuridico del foro, dovesse essere applicato1. Il rinvio, attraverso i criteri di collegamento posti dalla norma di conflitto, all’ordinamento straniero competente, conferiva alle relative norme materiali il carattere di giuridicità di cui altrimenti erano sprovviste2. In altri termini, il diritto internazionale privato, provvedendo a inserire nell’ordinamento statale le norme di diritto privato dell’ordinamento straniero richiamato, avrebbe operato una sorta di «nazionalizzazione» del diritto straniero, altrimenti irrilevante per l’ordinamento giuridico del foro e considerato alla stregua di mero fatto.

La medesima dottrina, in assenza di una norma espressa che risolvesse il problema della conoscenza del diritto straniero applicabile ma coerentemente con le premesse teoriche appena indicate, sosteneva l’applicabilità del brocardo iura novit curia anche con riferimento al diritto straniero richiamato dalla norma di conflitto, in quanto esso non differiva dal diritto autonomamente posto dal legislatore nazionale se non per la tecnica legislativa impiegata.

Di contrario avviso andava la giurisprudenza la quale, preoccupata delle conseguenze pratiche degli illustrati assunti dogmatici, addossava alla parte che reclamava l’applicazione del diritto straniero l’onere di procurarne la conoscenza al giudice. In tal modo, la giurisprudenza assimilava il diritto straniero non già al diritto del foro bensì ai fatti di causa che, in quanto tali, incombe alla parte interessata di provare3.

La giurisprudenza, tuttavia, non traeva da tale impostazione tutte le conseguenze che essa implicava.

In primo luogo, conscia che il comportamento di parte potesse non essere informato a criteri di obbiettività, ma influenzato dall’interesse di fornire la conoscenza solo delle norme straniere favorevoli alla propria pretesa, la giurisprudenza si riservava un ruolo di controllo dell’attività delle parti, attribuendo al giudice la facoltà di integrare o correggere, facendo ricorso al suo sapere privato o intraprendendo ricerche ex officio, nell’interesse della giustizia, le ricostruzioni di parte al fine di pervenire alla corretta e completa conoscenza del diritto straniero applicabile4.

[thrive_lead_lock id=’4487′]Secondariamente, stante il generale obbligo per gli organi giurisdizionali dello Stato di rispondere secondo diritto alla domanda di giustizia, la giurisprudenza prevalente, nei casi in cui non fosse stato possibile pervenire alla conoscenza del diritto straniero applicabile, anziché rigettare la pretesa fondata sul diritto straniero inconoscibile (ciò che sarebbe stato coerente con i principi in materia di onere probatorio)5 dava competenza, per la soluzione del caso, alla lex fori6.

  1. La «conoscenza della legge straniera applicabile» dopo la legge di riforma.

Le conclusioni a cui era giunta la giurisprudenza nel vigore delle preleggi sono state completamente ribaltate dall’art. 14 della legge 31 maggio 1995 n. 218 recante riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato e processuale.

Il n. 1, primo periodo, di detta disposizione afferma che «l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice».

A tal fine, il giudice può avvalersi della propria scienza o ricerca diretta, dei mezzi messi a disposizione dall’ordinamento7 e, come precisa il secondo periodo della norma in esame, degli «strumenti indicati dalle convenzioni internazionali8, di informazioni acquisite per il tramite del Ministero» della giustizia e dell’ausilio di «esperti o istituzioni specializzate»9, anche stranieri.

Come si ricava dall’inciso iniziale del successivo n. 2, il legislatore della riforma ha previsto, tra i mezzi utili al fine di raggiungere la conoscenza del diritto straniero applicabile, anche la collaborazione delle parti; tuttavia, l’intervento delle parti – che può tradursi, in concreto, nella produzione di pareri e di ogni altro documento ritenuto utile10 – è limitato a un’attività sussidiaria a quella del giudice, destinata a coadiuvare quest’ultimo nel caso in cui i mezzi di accertamento di carattere obiettivo indicati dal n. 1 dell’art. 14 non abbiano prodotto risultati e volta a evitare le conseguenze derivanti dalla mancata conoscenza del diritto straniero11.

Nel caso in cui non sia stato possibile determinare il contenuto del diritto materiale straniero, il n. 2 dell’articolo 14 prescrive di ricercare la legge applicabile attraverso gli altri criterî di collegamento eventualmente contemplati dalla norma di conflitto competente.

La norma è scritta avendo a mente i casi in cui la norma di conflitto competente a disciplinare la fattispecie presenti una pluralità di criterî di collegamento in concorso successivo tra loro – si veda, a esempio, l’articolo 38 n. 1 della legge di riforma –; in tali casi, ove l’applicazione del primo di tali criterî abbia condotto a un ordinamento straniero le cui norme materiali siano risultate inconoscibili, si dovrà applicare la legge (straniera) richiamata mediante gli altri criterî di collegamento.

Solo in mancanza di ulteriori criterî di collegamento o quando anche la legge designata tramite questi ultimi non sia conoscibile12 dovrà farsi applicazione – a’ termini del secondo periodo dell’art. 14 n. 2 – della legge italiana.

Il meccanismo dell’art. 14 n. 2 trova applicazione anche con riferimento alle norme di conflitto che presentano criteri di collegamento in concorso alternativo tra loro – come, tipicamente, le norme in materia di forma degli atti – con la precisazione che «la mancata conoscenza del contenuto di una delle leggi (straniere) potenzialmente applicabili, non si traduc(e) automaticamente in una sostituzione della medesima da parte dell’applicazione sussidiaria della lex fori» a cui è giustificato fare ricorso solo quando «il contenuto di tutte le leggi in causa non sia suscettibile di accertamento»13.

Vale la pena di rammentare, a questo punto, che, in presenza di una norma favorevole al rinvio, il richiamo del diritto straniero operato dal sistema di conflitto italiano deve essere inteso, salve le eccezioni stabilite dall’art. 13 n. 2 della legge di riforma, come richiamo all’ordinamento giuridico straniero nel suo complesso, quindi non solo alle sue norme di diritto sostanziale ma anche alle norme di diritto internazionale privato14.

Che cosa accade nel caso in cui il giudice italiano non sia stato in grado di accertare il contenuto della competente norma di diritto internazionale privato dell’ordinamento straniero richiamato dalla norma di conflitto italiana?

Secondo la dottrina, anche in tal caso opererà il meccanismo di cui all’art. 14 n. 2. Tuttavia, ove il ricorso agli ulteriori criteri di collegamento non «conducesse a un risultato utile», come pure nel caso in cui la norma di conflitto italiana impiegasse un solo criterio di collegamento, il giudice dovrà applicare il diritto materiale dell’ordinamento straniero richiamato in prima battuta15.

Inoltre, ove ricorra l’ipotesi di rinvio altrove il problema della conoscenza del diritto straniero si pone anche con riferimento alle norme di diritto internazionale privato dello Stato terzo – in base alle quali occorre stabilire, ai sensi dell’art. 13 n. 1, lett. a), se il rinvio è accettato – e, in caso di accettazione del rinvio, rispetto alle norme di diritto materiale di tale ultimo Stato. Secondo la medesima dottrina, in entrambi i casi l’inconoscibilità del diritto straniero comporta l’applicazione delle norme materiali dell’ordinamento straniero richiamato in prima battuta dalla nostra norma di conflitto16.

Infine, quando la norma di conflitto italiana richiama un ordinamento plurilegislativo, l’accertamento del diritto straniero concerne, anzitutto, i criteri impiegati dall’ordinamento principale per individuare il sistema normativo derivato applicabile e, quindi, il diritto materiale di quest’ultimo17.

  1. L’applicazione dell’art. 14 della legge di riforma al notaio.

La formulazione letterale dell’art. 14 della legge di riforma lascia trasparire l’inclinazione del legislatore a porre l’attenzione soprattutto sull’applicazione del diritto straniero da parte del giudice.

Ciò non toglie che tale norma operi in relazione a tutti i soggetti chiamati dal nostro ordinamento a garantire l’applicazione della legge, in particolare i pubblici ufficiali18 e, tra questi, i notai.

L’esattezza dell’assunto si apprezza considerando la duplice funzione che la dottrina più avvertita attribuisce al diritto internazionale privato.

La prima funzione si definisce delimitativa: il diritto internazionale privato, cioè, indica i confini di applicazione della lex fori (sotto questo profilo appartengono al diritto internazionale privato, a esempio, anche le norme che stabiliscono i limiti della giurisdizione e i limiti alla pretesa tributaria dello Stato).

La seconda, detta di rinvio, si attiva quando la prima si è esaurita ed è propria, almeno in principio, delle sole norme di conflitto: in altri termini, costatato che, rispetto a una data fattispecie, il diritto materiale del foro non deve essere applicato, il diritto internazionale privato interviene a designare la legge straniera applicabile.

Ora, se è lo stesso ordinamento giuridico a volere che date fattispecie siano regolate dal diritto straniero, è giocoforza concludere che l’applicazione di tale diritto debba essere assicurata da tutti i soggetti che l’ordinamento stesso pone a presidio del rispetto delle sue prescrizioni.

Quest’ultima conclusione comporta che, nell’esercizio delle sue funzioni, il notaio è tenuto a verificare se, in base al nostro sistema di conflitto, alla concreta fattispecie sia applicabile la legge italiana o la legge di uno Stato straniero e, in quest’ultimo caso, a conoscerne e osservarne le disposizioni.

Si potrebbe obiettare che, fatto salvo il caso in cui il contenuto del diritto straniero applicabile faccia parte del patrimonio di nozioni del notaio, quest’ultimo potrebbe avere difficoltà a conoscere il diritto straniero richiamato, essendogli precluso il ricorso agli strumenti a tal fine apprestati dall’ordinamento in ausilio del giudice.

A ben vedere, l’obiezione sarebbe priva di fondamento.

Su un piano generale, può replicarsi che, una volta chiarito che l’art. 14 deve intendersi rivolto non solo ai giudici ma anche a tutti i pubblici ufficiali della Repubblica, i mezzi di conoscenza previsti da tale disposizione saranno a disposizione di quanti ne facciano richiesta.

In particolare, va rilevato che il d.P.R. 200/1967 non pone limitazioni di sorta ai soggetti che possono chiedere le attestazioni consolari «concernenti leggi e consuetudini vigenti (…) nello Stato di residenza» del console; che l’art. 3, lett. a), del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione del Consiglio d’Europa in materia di informazione sul diritto straniero del 7 giugno 1968, stabilisce che le richieste di informazioni possono essere inoltrate «anche da qualsiasi Autorità o persona che agisca nell’ambito di sistemi ufficiali d’assistenza giudiziaria o consulenza legale» sia pure limitatamente all’ipotesi in cui la consulenza legale sia svolta «a favore di persone che si trovino in condizione di debolezza per motivi economici»; che, sebbene non risulti allo stato che siano state inoltrate al Ministero della giustizia richieste di informazioni sul diritto straniero da parte di notai, non è escluso che detto Ministero vi dia corso; e che, ovviamente, nessuna difficoltà vi sarà per il notaio a interpellare esperti o istituzioni specializzate o a valutare la documentazione proveniente dalle parti.

  1. La responsabilità del notaio nel caso di ricevimento di atto «espressamente proibito dalla legge» straniera applicabile.

Rimangono da considerare le conseguenze dell’impostazione accolta sulle responsabilità del notaio, in particolare sulla responsabilità disciplinare derivante, in base al combinato disposto degli articoli 28, 1° comma, n. 1, e 138, 2° comma, l. not., dal ricevimento di atti «espressamente proibiti dalla legge» straniera applicabile19.

La soluzione del problema comporta la necessità di affrontare preliminarmente talune complesse questioni di carattere generale.

Come è stato esattamente rilevato, la responsabilità disciplinare del notaio rientra nel più ampio genere della responsabilità amministrativa20 e le pene disciplinari21 a lui comminate in caso di mancanza ai doveri prescritti dalla legge notarile appartengono alla categoria delle sanzioni amministrative22.

L’assenza di una normativa speciale sui principî generali e i caratteri informatori delle sanzioni amministrative ha per lungo tempo condizionato l’analisi della dottrina amministrativistica italiana i cui contributi in materia – muovendosi all’interno di un’ampia, e per ciò stesso generica, nozione unitaria di tale sanzione, intesa quale reazione della pubblica amministrazione alla violazione di un precetto e caratterizzata, quanto al contenuto, dall’incidenza sfavorevole rispetto a un interesse del destinatario23 – si sono dimostrati scarsamente costruttivi sul piano sistematico24, concentrandosi, piuttosto, sull’individuazione dei caratteri distintivi delle diverse categorie di sanzioni amministrative25.

Non sono mancati, tuttavia, i tentativi, anche risalenti, tendenti alla ricostruzione di una nozione di sanzione amministrativa fondata sulla specificità di questa misura rispetto alle altre forme di reazione della pubblica amministrazione alla violazione di un precetto. In particolare, secondo una corrente di pensiero la sanzione amministrativa sarebbe innanzitutto una «pena in senso tecnico» e quindi, per il suo carattere afflittivo, non potrebbe essere assimilata a strumenti principalmente diretti a conservare o a ripristinare gli interessi sostanziali lesi dall’infrazione26.

Quest’ultima impostazione – della cui correttezza e opportunità si poteva dubitare in un’epoca in cui a causa della forte frammentarietà e disorganicità della legislazione in materia mancava una tipizzazione normativa dell’illecito e della sanzione amministrativa – ha trovato positiva conferma nella l. 24 novembre 1981 n. 68927 che al Capo I detta alcuni principî di carattere generale sulla sanzione amministrativa, chiaramente ispirati a una nozione di tale sanzione intesa come pena28.

L’analisi della normativa da ultimo citata esula dai limiti del presente lavoro.

Ai nostri fini, è sufficiente costatare che dal complesso delle disposizioni di cui ai primi quattro articoli del citato Capo I emerge che gli elementi caratteristici dell’illecito amministrativo sono la tipicità (che discende dal rigoroso sistema delle fonti instaurato dall’art. 1), l’antigiuridicità (implicito nella sistematica delle scriminanti delineata dall’art. 4), la personalità (come si ricava dall’art. 2 che richiede l’imputabilità del fatto all’agente) e la colpevolezza29 (per cui, a norma dell’art. 3, per fondare la responsabilità è necessario il dolo o la colpa)30.

Occorre, a questo punto, avvertire che le disposizioni in esame, a mente del successivo art. 12 «si osservano (…) per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro» e «non si applicano alle violazioni disciplinari».

La portata della duplice autolimitazione imposta dall’art. 12 all’intervento codificatorio attuato con la l. 689/8131 è stata sottoposta ad attento vaglio critico da parte della dottrina.

Dopo aver rilevato come il prototipo di illecito delineato dal legislatore con le norme sopra indicate costituisca «il modello centrale» di illecito amministrativo e abbia «una capacità aggregante rispetto alle figure marginali non contrassegnate da irriducibili specificità»32, la dottrina è giunta ad affermare che, almeno alle prime quattro disposizioni del Capo I della l. 689/81, deve essere riconosciuto il valore di principî fondamentali, applicabili non solo agli illeciti puniti con la sanzione pecuniaria ma, al contrario, dotati di una capacità espansiva nei confronti degli illeciti puniti con sanzioni diverse dalla sanzione pecuniaria33; in altri termini, «la prospettiva più comune con cui si affronta il problema dell’àmbito di applicazione dei princìpi sull’illecito e sulla sanzione fissati dalla l. n. 689, cit., dev’essere capovolta: il problema va affrontato non tanto alla luce dell’art. 12, quanto alla luce dei ‘tipi’ di sanzione amministrativa, e desumendo dai profili di tali ‘tipi’ gli elementi utili per cogliere il significato e la portata dell’art. 12»34.

L’esattezza del discorso appena svolto si apprezza con particolare riguardo alle sanzioni interdittive, cioè a quelle sanzioni che, riprendendo la definizione di cui all’art. 20, 1° comma, della l. 689/81, consistono nella «privazione o sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione» e alle quali potrebbe essere ascritta la sanzione comminata al notaio in caso di violazione dell’art. 28, 1° comma, n. 1 l. not.35. Dopo aver acutamente dimostrato, sulla base dell’interpretazione sistematica della l. 689/81, che alle sanzioni interdittive accessorie a una sanzione amministrativa pecuniaria è applicabile il Capo I di detta legge36, la dottrina giunge alla conclusione che sarebbe irrazionale escludere tale applicazione in relazione alle sanzioni interdittive previste a titolo principale37.

Tuttavia, quanto precede non appare sufficiente per sostenere l’applicabilità dei principî fondamentali in materia di illecito amministrativo alla sanzione amministrativa della sospensione notarile. Quest’ultima conclusione, infatti, si scontra con l’espressa previsione dell’art. 12 l. 689/81 che, come accennato, dichiara inapplicabile il Capo I della medesima legge «alle violazioni disciplinari».

La più significativa deviazione della sanzione disciplinare rispetto al modello di illecito e di sanzione amministrativa definiti dalla l. 689/81 risiede nella non obbligatoria applicabilità del principio di legalità sostanziale (consistente nella necessaria determinatezza della fattispecie dell’illecito) sancito, in via generale, dall’art. 1 di quest’ultima legge38.

Tale deviazione – giustificata dal possesso in capo al destinatario della sanzione di qualifiche o status particolari che impongono criterî generali di condotta39, in relazione ai quali non è possibile una fissazione preventiva delle singole azioni vietate e quindi neppure delle singole violazioni -, sebbene di recente attenuata in talune importanti legislazioni di settore40, caratterizza tuttora il sistema sanzionatorio notarile che, accanto a fattispecie tipizzate, contiene una norma di chiusura diretta a punire i comportamenti del notaio che, «nella vita pubblica e privata», possano compromettere «la sua dignità e reputazione e il decoro e prestigio della classe notarile» (art. 147 l. not.)41.

Ciò non esclude che possano essere ritenuti applicabili all’illecito disciplinare gli altri principî fondamentali dell’illecito amministrativo e, in particolare, i principî di personalità e colpevolezza, come può ricavarsi dalla corretta interpretazione di norme di rango costituzionale. Infatti, l’art. 28 Cost., dichiarando «direttamente responsabili» i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici «secondo le leggi (…) amministrative», sancisce il principio di personalità della loro responsabilità disciplinare42; né può dubitarsi che tale responsabilità sia subordinata al requisito della colpevolezza (che richiede quanto meno la sussistenza della colpa in senso tecnico43) come «si ricava dalla struttura stessa dell’illecito disciplinare» che, in quanto «‘illecito di comportamento’ (…) non può mai essere collegato a [cor]responsabilizzazioni oggettive o ‘di posizione’ per un evento lesivo o per un rischio assunto»44.

Un’esplicita conferma di quest’ultimo assunto si trova nella recente giurisprudenza di legittimità che, richiamandosi tra l’altro ai principî ricavabili dall’art. 3 della l. 689/81, ha affermato, proprio in materia di responsabilità disciplinare notarile, che l’illecito disciplinare deve essere «ascrivibile almeno a colpa del notaio»45.

Può, a questo punto, compiersi un passo ulteriore.

Precisamente, se, sulla scorta di quanto fin qui detto, può affermarsi che la responsabilità disciplinare del notaio è subordinata al requisito della colpevolezza, possono venire in considerazione le cause soggettive di esclusione dell’illecito e, in particolare, le ipotesi di esclusione della colpevolezza per errore.

Al riguardo, va, in via generale, precisato che l’errore rilevante a tal fine è l’errore che esclude la coscienza e volontà del fatto, quale previsto dalla norma sanzionatoria46. Esso si distingue in errore di fatto, cioè quello che cade su uno (o più) degli elementi essenziali dell’illecito47 e in errore di diritto, che consiste nell’ignoranza o nell’erronea interpretazione di una norma giuridica.

Ai nostri fini occorre maggiormente indagare la seconda tipologia di errore48.

L’approfondimento del tema comporta la necessità di affrontare una delle questioni più dibattute tra gli specialisti del diritto penale, cioè quella consistente nello stabilire se, per integrare la colpevolezza, è sufficiente la conoscenza potenziale del disvalore giuridico del fatto o se, viceversa, è necessaria la conoscenza effettiva della sua antigiuridicità. Per converso e in altri termini, detta questione si risolve nell’interrogativo se, a tali fini, rileva o no e in che misura l’ignorantia legis49.

La dottrina italiana più avvertita – abbandonate le posizioni basate sul dogma della inescusabilità assoluta dell’ignoranza50 – ha sostenuto la posizione intermedia della scusabilità relativa, che afferma la necessità, ai fini della sussistenza della colpevolezza, non della conoscenza, ma della conoscibilità della legge e, in conseguenza, la scusabilità dell’ignoranza inevitabile e l’inescusabilità dell’ignoranza evitabile51.

Tale soluzione è stata accolta dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 364 del 198852 che ha dichiarato illegittimo, per contrasto con l’art. 27, 1° e 3° comma, Cost., l’art. 5 c. p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità l’ignoranza «inevitabile»53.

Restano a questo punto da stabilire i criteri discretivi tra ignoranza evitabile (e, pertanto, inescusabile, e, in quanto rimproverabile al soggetto agente, fonte di colpevolezza) e ignoranza inevitabile (per ciò stesso scusabile ed escludente la colpevolezza).

Sulla scorta della citata giurisprudenza costituzionale, può dirsi, con la migliore dottrina54, che l’ignoranza colpevole comprende l’ignoranza preordinata55, l’ignoranza volontaria56 e l’ignoranza colposa.

Quest’ultima è tale se ricorrono i tre requisiti della colpa, e precisamente: la mancanza della volontarietà della ignorantia legis; l’inosservanza delle regole cautelari di condotta, impeditive della ignorantia o error legis, perché prescrivono una presa di informazione sulla esistenza e contenuto della legge, rapportabile e proporzionata alla diversa complessità dei tipi di attività e ai diversi tipi di soggetti; l’attribuibilità della ignorantia o error legis all’agente per la non osservanza di quelle regole cautelari di informazione, il rispetto delle quali era ragionevolmente esigibile rispetto all’homo ejusdem professionis et condicionis57.

Per esclusione, l’ignoranza incolpevole si ha al di fuori dei sopra elencati casi di ignoranza colpevole e, dunque, quando essa è dovuta a caso fortuito o forza maggiore, ovvero a errore scusabile, perché generato dalla fallace informazione o addirittura dall’inganno di fonti qualificate58.

Ma il discorso non può fermarsi qui.

Infatti, a ben vedere, nel caso che ci occupa l’ignoranza non cade direttamente sull’esistenza e contenuto della disposizione sanzionatoria (cioè sulla norma che – in base al combinato disposto degli articoli 28, 1° comma, n. 1, e 138, 2° comma, legge notarile – punisce con la sospensione da sei mesi a un anno il notaio che ha ricevuto un atto espressamente proibito dalla legge) ma sull’esistenza e contenuto della disposizione di diritto materiale straniero – applicabile all’atto medesimo in virtù del nostro sistema internazionalprivatistico – che espressamente proibisca l’atto in questione e che, in quanto richiamata dalla disposizione sanzionatoria, integra il contenuto di quest’ultima.

In altri termini, l’errore in cui incorre il notaio il quale, ignorando l’esistenza o il contenuto della legge straniera, riceva un atto espressamente proibito da quest’ultima, è un errore su norma diversa da quella che prevede l’illecito disciplinare e da quest’ultima richiamata, che, in tanto scusa, in quanto si risolva in un errore sul fatto59.

Ora, stabilire quando l’errore su norma extrasanzionatoria richiamata da una norma sanzionatoria riguarda il precetto (e, pertanto, non esclude la colpevolezza) dal caso in cui tale errore finisce per investire il fatto (e, dunque, scusa) è questione che ha lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza penalistiche.

Secondo un primo orientamento, consolidato in giurisprudenza, occorre distinguere tra norme extrapenali integratrici e norme extrapenali non integratrici del precetto penale: le prime, completando la descrizione del reato ed essendo perciò incorporate nel precetto, devono considerarsi legge penale, per cui l’errore su di esse non scusa, salva l’ipotesi di ignorantia legis inevitabile; le seconde, conservando la loro autonomia, attengono al fatto, per cui l’errore su di esse scusa60.

Per altra parte della dottrina, invece, «il problema dell’errore sulla legge extrapenale va risolto sulla base degli effetti psicologici ultimi, dell’oggetto finale di esso: a seconda cioè che esso si limiti soltanto a un errore sul precetto. Oppure si traduca anche in un errore sul fatto»; quando l’errore comporta un errore sul fatto «l’agente vuole un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale, quindi agisce senza la coscienza della offensività-illiceità del fatto» che, pertanto, non gli è rimproverabile61.

A ben vedere, l’accoglimento dell’una o dell’altra posizione non influisce sulle conclusioni della lunga e complessa indagine fin qui svolta, diretta a rispondere al quesito consistente nell’interrogativo se il notaio che abbia ricevuto un atto espressamente proibito dalla legge straniera dichiarata applicabile dal nostro sistema di conflitto incorra nell’illecito disciplinare di cui al combinato disposto degli articoli 28, 1° comma, n. 1, e 138, 2° comma, legge notarile.

Prima di procedere oltre, occorre osservare che il legislatore del 1995 – pur avendo posto sullo stesso piano la conoscenza della legge italiana e la conoscenza della legge straniera, facendo anche di quest’ultima l’oggetto di un obbligo gravante sui soggetti tenuti ad attuare l’ordinamento –, conscio che, almeno di regola, il contenuto del diritto straniero non fa parte del patrimonio di nozioni dell’operatore giuridico nazionale ne ha, per così dire, «procedimentalizzato» l’accertamento.

Pertanto, il notaio chiamato a ricevere un atto cui è applicabile, in tutto o in parte, la legge straniera, ove non ritenga sufficiente la sua scienza personale al fine dell’accertamento del contenuto di tale legge, sarà tenuto ad attivare gli strumenti indicati dall’art. 14 della legge di riforma.

Fatta salva l’ipotesi in cui il notaio si determini a ricevere un dato atto pur avendo raggiunto la consapevolezza che esso sia proibito dalla legge straniera applicabile62, tutte le volte in cui egli, nonostante abbia diligentemente osservato le regole di condotta dettate dall’art. 14 della legge di riforma, sia incorso in un errore circa il contenuto della legge straniera, convincendosi che l’atto in questione potesse essere ricevuto, ogni responsabilità disciplinare dovrà essere esclusa.

Infatti, anche ad ammettere che, seguendo l’impostazione maggioritaria, nel caso in esame l’errore sulla legge straniera costituisca un errore sul precetto63, il notaio potrà invocare l’incolpevolezza dell’ignoranza, in quanto essa sarà stata determinata dalle indicazioni fuorvianti ricevute dai soggetti dallo stesso legislatore preposti a formare il convincimento circa il contenuto della disciplina straniera applicabile64.

A maggior ragione l’addossabilità dell’illecito dovrà essere esclusa ove si accolga l’altra posizione dottrinale di cui si è detto. Seguendo quest’ultima impostazione, infatti, l’errore in questione si risolve in un errore sul fatto, cioè sulla corrispondenza del fatto commesso (il ricevimento di un atto che, benché vietato dalla legge straniera, si ritiene erroneamente consentito) alla fattispecie legale (il divieto di ricevere un atto proibito dalla legge); è, pertanto, esclusa in re ipsa l’imputabilità del fatto a titolo di dolo65; né può residuare alcuna responsabilità a titolo di colpa, avendo il notaio rispettato le regole di condotta imposte dalla legge.

In conclusione, se il notaio si avvale diligentemente66 degli strumenti messi a sua disposizione dall’ordinamento per perseguire l’obiettivo della conoscenza del diritto straniero applicabile e se sulla scorta delle indagini svolte raggiunge il convincimento che tale diritto non pone un espresso divieto al ricevimento dell’atto, egli non potrà essere ritenuto responsabile dell’illecito disciplinare di cui al combinato disposto degli articoli 28, 1° comma, n. 1, e 138, 2° comma, legge notarile, anche nell’ipotesi in cui dovesse in séguito risultare – sulla base di disposizioni del diritto straniero applicabile di cui non sia venuto a conoscenza nel diligente esperimento delle sue indagini – che l’atto in questione fosse espressamente proibito.

Domenico Damascelli

1 V., per tutti, Ago, Teoria del diritto internazionale privato, Padova, 1934, p. 96 ss., Id., Lezioni di diritto internazionale privato, Milano, 1939, p. 73 ss.; Morelli, Lezioni di diritto internazionale privato, Padova, 1941, p. 35 ss., Id., Elementi di diritto internazionale privato italiano¹², Napoli, 1986, cit., p. 19.

2 V., per tutti, Morelli, op. ult. cit., p. 11 ss.

3 V. le decisioni citate da Di Muro, La ricerca e l’interpretazione del diritto straniero. La Cassazione di fronte agli art. 14 e 15 l. n. 218 del 1995, in Giur. it., 2003, p. 480 ss., nota 8, a cui adde, con riferimento a fattispecie alle quali, in virtù dell’art. 72 l. 218/95, era applicabile il sistema internazionalprivatistico previgente alla riforma, Cass. 30 maggio 2001 n. 7365, Ansaldo Energie s.p.a. c. Corneo e INAIL, in Riv. dir. int. priv. proc., 2002, p. 745 ss., Cass. 11 dicembre 2003, n. 18935, Banco Napoli c. Fall. Fin. Boschetti, ivi, 2005, p. 169 ss., Cass. 9 gennaio 2004 n. 111, Avesani c. Raiffeisen Landesbank Tirol GmbH, ivi., 2005, p. 172 s., Cass. 29 marzo 2006 n. 7250, Soc. Cta International Cargo Travel Air c. Delta Airlines Inc e altro, in Giust. civ. Mass., 2006, f. 3.

Non va sottaciuta, a onor del vero, l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale, tuttavia minoritario, che ammetteva, anche con riferimento al diritto straniero applicabile, l’operatività del principio jura novit curia: v. le decisioni citate da Di Muro, op. cit., nota 15, a cui adde Cass. 17 novembre 2003 n. 17388, Casagrande c. Alitalia, in Giust. civ. Mass., 2003, p. 11, e, per esteso, nella banca dati Juris Data della casa editrice Giuffrè.

4 V. le decisioni citate da Di Muro, op. cit., nota 12.

5 Questa soluzione era autorevolmente sostenuta in dottrina da Morelli, op. ult. cit., p. 27 e Monaco, L’efficacia delle leggi nello spazio², Torino, 1964, p. 91 ss., ma scarsamente seguita in giurisprudenza: v. l’obiter dictum di Cass. 13 aprile 1959 n. 1059, in Riv. dir. int., 1959, p. 620 ss., nonché le decisioni di merito citate da Di Muro, op. cit., nota 9.

6 V. le decisioni citate da Di Muro, op. cit., nota 9, nonché le ulteriori sentenze di legittimità indicate alla nota 3.

7 Tra i quali vengono in considerazione le attestazioni consolari «concernenti leggi e consuetudini vigenti (…) nello Stato di residenza» del console, da quest’ultimo rilasciate ai sensi dell’art. 49 del D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200 contenente disposizioni sulle funzioni e sui poteri consolari (c.d. legge consolare).

8 V., a esempio, la Convenzione del Consiglio d’Europa in materia di informazione sul diritto straniero firmata a Londra il 7 giugno 1968, resa esecutiva in Italia con D.P.R. 2 febraio 1970 n. 1510, entrata in vigore il 20 novembre 1970, che vincola, al momento, 42 Stati (alcuni dei quali estranei al Consiglio) e il Protocollo aggiuntivo di Strasburgo del 15 marzo 1978, reso esecutivo in Italia con D.P.R. 27 luglio 1981 n. 591, nonché alcune convenzioni bilaterali di contenuto analogo.

9 Secondo Mosconi, Diritto internazionale privato e processuale. Parte generale e contratti³, Torino, 2004, p. 174, il giudice può chiedere l’intervento di esperti o istituzioni specializzate «anche nella forma di una consulenza tecnica»; per Barel, Art. 14, in Cian, Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, Diritto internazionale privato e Diritto societario prima della riforma, volume complementare alla settima edizione, Padova, 2004, p. 29 ss., a p. 30 «l’interpello di esperti o istituzioni specializzate è riconducibile alla generale facoltà del giudice di chiedere l’assistenza di esperti, ammessa dall’art. 68 c.p.c., piuttosto che al ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio».

10 Secondo la giurisprudenza l’attività delle parti non è soggetta alle regole sulla produzione in giudizio di prove documentali (v. Cass, sez. I, 27 febbraio 1979 n.1273, Oleificio Bestetti c. Xcan Grain Ltd, in Riv. dir. int. priv. proc., 1980, p. 594 ss.) e sarebbe ammessa anche la prova testimoniale (v. Cass., sez. III, 26 maggio 1980 n. 3445, Platzer c. Picler e altro, in Foro it., 1981, I, c. 2278 ss.).

Inoltre, per Cass. 26 febbraio 2002 n. 2791, Regoli c. Etchi, in Riv. dir. int., 2002, p. 463 ss., in Giur. it., 2003, p. 479 ss., con nota Di Muro, La ricerca e l’interpretazione del diritto straniero. La Cassazione di fronte agli art. 14 e 15 l. n. 218 del 1995, p. 480 ss., e in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 22 ss., con nota Zamboni, Sugli strumenti di conoscenza della legge straniera da parte del giudice italiano, p. 26 ss., ai fini dell’assolvimento del potere-dovere di accertamento d’ufficio della legge straniera è sufficiente l’acquisizione del testo tradotto in italiano di un estratto di una legge straniera (nella specie, del Camerun), proveniente dall’ambasciata in Italia di quel Paese che ne attesti la conformità all’originale, senza che – in difetto di qualsiasi specifica contestazione di divergenza fra la traduzione acquisita e la norma nel suo testo originale – si rendano necessarie né la legalizzazione di tale documento a cura di organo abilitato italiano, né l’acquisizione del testo di legge straniera in lingua originale, né la sua traduzione ad opera di un interprete giurato.

11 V. Conetti, Art. 14, in Conetti, Vismara, Tonolo, Commento alla riforma del diritto internazionale privato italiano, Torino, 2001, p. 45 ss., a p. 48.

12 V. Picone, La teoria generale del diritto internazionale privato, in La riforma italiana del diritto internazionale privato, Padova, 1998, p. 137 ss., a p. 191, secondo cui l’art. 14 n.2 «sembra letteralmente prevedere l’applicazione in via sussidiaria e in ultima istanza della legge italiana, solo nell’ipotesi in cui la disposizione di conflitto in causa non contenga dei collegamenti “a cascata”: mentre è chiaro, invece, che la medesima soluzione si impone, anche quando non si raggiunga la conoscenza del contenuto della legge straniera in ipotesi solo “successivamente” richiamata».

13 V. Picone, La teoria generale cit., p. 191.

14 «Anzi» precisa Pagano, Lezioni di diritto internazionale privato², Napoli, 2003, p. 233, «l’accertamento di queste norme deve costituire l’oggetto della prima verifica che il giudice italiano è chiamato a compiere».

15 V. Mosconi, Diritto cit., p. 176; Pagano, Lezioni cit., p. 233.

16 V. Mosconi, op. loc. ult. cit.; Barel, Art. 14 cit., p. 31.

17 V. Barel, Art. 14 cit., p. 30.

18 V. Barel, op. loc. ult. cit.

19 Le osservazioni che seguono sono scaturite dai suggerimenti e dagli stimoli critici del notaio David Ockl, a cui vanno i sinceri ringraziamenti dell’autore.

20 V. Di Fabio, Notaio (dir. vig.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 565 ss., a p. 618, Id., Manuale di notariato, Milano, 1981, a p. 244, Boero, La legge notarile commentata, II, Torino, 1993, a p. 576.

21 Secondo la definizione dell’art. 135 legge notarile.

22 V. Boero, op. loc. cit. In generale, sull’appartenenza delle sanzioni disciplinari alla categoria delle sanzioni amministrative, v., ex multis, Paliero, Travi, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 345 ss., a p. 356, Landi, Potenza, Italia, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1999, a p. 315 s., Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, a p. 319.

23 V. Tesauro, Le sanzioni amministrative punitive, Napoli, 1925, spec. p. 90 ss. e p. 170 ss., Ardizzone, Sanzioni amministrative, in N.D.I., XI, 1939, p. 1084 ss., nonché, più di recente, De Roberto, Le sanzioni amministrative non pecuniarie, in Le sanzioni amministrative (Atti del XXVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna – Villa Monastero, 18 – 20 settembre 1980), Milano, 1982, p. 126.

24 Non sorprende, in quest’ottica, l’affermazione di Giannini M. S., Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, a p. 416, secondo cui l’illecito amministrativo e la sanzione amministrativa non sarebbero veri e proprî istituti giuridici, ma mere «sintesi verbali di ipotesi diverse» ed eterogenee. V., inoltre, le osservazioni di Casetta, Illecito amministrativo, in Dig. disc. pubb., VIII, Torino, 1993, p. 89 ss., a p. 90.

25 Distinte in sanzioni «punitive», «risarcitorie», «ripristinatorie», decadenze e revoche «sanzionatorie», ecc.

26 V. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, a p. 2 ss. e, più di recente, Capaccioli, Principî in tema di sanzioni amministrative: considerazioni introduttive, in Le sanzioni in materia tributaria, Milano, 1979, p. 125 ss.

27 Recante «Modifiche al sistema penale» e volgarmente nota come legge sulla depenalizzazione.

28 In tal senso, Paliero, Travi, op. cit., p. 351. Sulla natura affittiva della sanzione amministrativa pone l’accento Casetta, Sanzione amministrativa, in Dig. disc. pubb., XIII, Torino, 1997, p. 598 ss., a p. 599, Id., Manuale cit., a p. 317.

29 Intesa, in senso tecnico, come l’«insieme dei requisiti per l’imputazione soggettiva del fatto all’agente»: così, Mantovani, Diritto penale, Parte generale5, Padova, 2007, p. 276 s.

30 Cfr. Paliero, Travi, op. cit., p. 390 ss.

31 Per tale lettura della legge in esame, v. Paliero, La legge 689 del 1981: prima «codificazione» del diritto penale amministrativo in Italia, in Politica del diritto, 1983, p. 117 ss.

32 Così, Paliero, Travi, op. cit., p. 392.

33 V. Paliero, Travi, op. cit., p. 296, Sandulli A., Manuale di diritto amministrativo15, I, Milano, 1989, p. 180, Virga, Diritto amministrativo², II, Milano, 1992, p. 105, Casetta, Illecito cit., p. 94 s.

34 Così, Paliero, Travi, op. loc. ult. cit.

35 Si tratta, infatti, della sospensione di facoltà attribuite al notaio dalla legge, il cui legittimo esercizio discende dal decreto di nomina del Ministero della Giustizia.

36 La dimostrazione muove dall’art. 20, 1° comma, della legge 689/81 che, allo scopo di trasferire alla pubblica amministrazione la competenza a irrogare le sanzioni accessorie collegate a fattispecie depenalizzate, ne trasforma la natura rendendole sanzioni amministrative, prosegue analizzando l’art. 11 della medesima legge che, con prescrizione riguardante i numerosi illeciti ab origine amministrativi corredati da sanzioni interdittive (si pensi, a esempio, alla sospensione delle attività di vendita comminata, congiuntamente a una sanzione pecuniaria, dall’art. 22 D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 114 sulla riforma della disciplina relativa al settore del commercio), prevede espressamente il ricorso ai criterî dettati per la determinazione della pena pecuniaria fra il minimo e il massimo nel caso di «applicazione di sanzioni accessorie facoltative» e si conclude con il rilievo che la soluzione indicata nel testo non è in contrasto neppure con la lettera dell’art. 12 della legge in esame che, come detto, fa riferimento non immediatamente al tipo di sanzione, ma alle «violazioni» («per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro»): v. Paliero, Travi, op. cit., p. 408.

37 In tal senso, v. Dolcini, , sub art. 72, in Commentario delle «Modifiche al sistema penale» a cura di Dolcini, Giarda, Mucciarelli, Paliero, Riva Crugnola, Milano, 1982, p. 84 ss., Paliero, op. cit., p. 128 ss.

38 V. Paliero, Travi, op. cit., p. 356, Landi, Potenza, Italia, op. cit., p.317.

39 Così, Paliero, Travi, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, spec. p. 48 ss., Casetta, Manuale cit., a p. 320.

Si richiamano alla posizione tradizionale che individua il fondamento della potestà disciplinare nella supremazia speciale della pubblica amministrazione, Landi, Potenza, Italia, op. cit., p. 315, secondo cui «tale supremazia può essere conseguenza di un atto d’ammissione quando il soggetto è assunto in un’istituzione od organizzazione dall’appartenenza alla quale derivino taluni doveri:», a esempio, «professionisti ammessi negli ordini professionali»; nella stessa ottica, con riferimento alle sanzioni disciplinari notarili, v. Boero, op. loc. cit., per il quale «esse sono espressione del particolare rapporto di soggezione del notaio rispetto alla pubblica amministrazione».

40 Si pensi, a esempio, all’art. 22, 1° comma, della legge 29 marzo 1983 n. 93, legge quadro sul pubblico impiego, secondo cui «Il dipendente che contravviene ai doveri del proprio ufficio è soggetto alle sanzioni disciplinari previste dalla legge solo per fatti che rientrano in categorie determinate», poi abrogato dall’art. 72, 1° comma, lett. f), del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, il cui art. 55, 3° comma, affida ai contratti collettivi la definizione della tipologia delle infrazioni rimproverabili al dipendente e delle relative sanzioni.

41 Ritengono che la disposizione citata nel testo costituisca dimostrazione dell’inapplicabilità alle sanzioni disciplinari notarili del principio nullum crimen sine lege, Falzone, Alibrandi, Dizionario enciclopedico del notariato, voce Avvertimento, Roma, 1973, p. 275 s., a p. 275, Boero, op. cit., p. 585.

Si noti, tuttavia, che, con riferimento alla consimile disposizione concernente i magistrati (si tratta, precisamente, dell’abrogato art. 18 r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511, i cui precetti sono stati trasfusi, con qualche modificazione, nell’art. 1, 2° comma, del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109), Corte cost. 8 giugno 1981 n. 100 ha escluso che essa violasse il principio di legalità in quanto tale principio «si attua non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie ma, in talune ipotesi, con l’uso di espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta l’abbia o meno violato».

I principî appena enunciati sono stati posti a base della decisione di Cass. 24 luglio 1996 n. 6680, Squizzato c. Proc. gen. App. Milano e Cons. not. Milano, in Riv. not., 1996, p. 1225 ss., con nota redazionale, in Vita not., 1996, p. 1512 ss. e in Notariato, 1997, p. 113 ss., con nota Celeste, p. 122 ss., che ha ritenuto «rispettoso del principio di legalità (…) il disposto dell’art. 147 della legge notarile, che, da un lato, individua con chiarezza l’interesse che si ritiene meritevole di tutela, e cioè la salvaguardia della dignità e reputazione del notaio nonché il decoro ed il prestigio della classe notarile, mentre, dall’altro, individua la condotta punibile in quella idonea a compromettere l’interesse tutelato; il contenuto di detta condotta, non individuato nel suo specifico atteggiarsi, è integrato dalle norme di etica professionale e quindi dal complesso di quei principi di deontologia, i quali sono oggettivamente enucleabili dal comune sentire in un dato momento storico, e, con riferimento, all’attività notarile, anche dai “Principi di deontologia professionale del notai”, emanati dal Consiglio Nazionale del notariato».

Quanto precede ha consentito di affermare che, sebbene in materia disciplinare il principio di legalità presenti una maggiore «elasticità» rispetto al diritto penale, ciò non toglie che «le condotte sanzionate debbano essere legislativamente previste, con conseguente divieto di applicazione analogica della norma sanzionatrice»: così, Triola (a cura di), La responsabilità del notaio, Milano, 1999, p. 131 s., il quale richiama Cass. 3 agosto 1998 n. 7602, Palermiti c. P.M. Trib. S. Maria Capua Vetere e altro, in Vita not., 1998, p. 1767 ss., che non ha ritenuto possibile far rientrare nella violazione dell’art. 51 n. 3 della legge notarile la violazione del precetto di cui all’art. 54 r.d. 10 settembre 1914 n. 1326, «in quanto ciò si porrebbe in violazione del principio di legalità».

42 V. Paliero, Travi, Sanzioni cit., p. 375.

43 V. Mor, Le sanzioni disciplinari ed il principio «nullum crimen sine lege», Milano, 1970, a p. 86, Cassetta, Illecito cit., p. 95, Id., Manuale cit., p. 321, Sandulli M. A., Sanzioni amministrative, in Enc. giur., Roma, 1992, p. 10.

44 Così, Paliero, Travi, op. loc. ult. cit.

45 V. Cass. 8 maggio 2001 n. 6383, Quarti c. Proc. gen. App. Brescia, in Riv. not., 2001, p. 1459 ss., con nota Zarrilli, Interprete ed “interesse all’atto”. La responsabilità disciplinare del notaio è esclusa dall’incolpevole affidamento nell’operato del giudice, ivi, 2002, p. 415 ss.

La sentenza citata costituisce una netta inversione di tendenza rispetto all’orientamento ripetutamente affermato in giurisprudenza secondo cui, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, sarebbe sufficiente, per affermare la punibilità dell’illecito disciplinare notarile, la mera volontarietà della condotta: v., fra le altre, Cass. 13 novembre 1957 n. 4380, De Turcis c. Proc. gen. App. Messina, in Rep. Giust. civ., t. 2, 1957, voce Notaio e arch. not., n. 11, Cass. 13 aprile 1963 n. 940, D’Alessio c. Proc. gen. App. Milano, in Riv. leg. fisc., 1963, p. 2151 ss., Cass. 7 agosto 1974 n. 2386, Giatti c. Proc. gen. Aapp. Trento, in Rep. Foro it., 1974, voce Notaio n. 23, Cass. 5 marzo 1979 n. 1370, Adami c. P.M. Trib. Taranto, in Riv. not., 1979, p. 652 ss., e in Foro pad., 1979, I, c. 1 ss.

L’assunto (sostenuto anche in dottrina: v., per tutti, ProtettÌ, Di Zenzo, La legge notarile, Milano, 1981, p. 329) poggiava sull’assimilazione delle infrazioni disciplinari notarili alle contravvenzioni e sull’opinione (ormai superata sia in dottrina che in giurisprudenza) che, sulla base della formulazione letterale dell’art. 47, 4° comma, c.p., riteneva sufficiente per l’imputabilità di tali reati la coscienza e volontà della condotta (c.d. suitas): v. Mantovani, op. cit., p. 349 ss., ove ulteriori ampî riferimenti.

Pur continuando a ingenerare il dubbio, tramite il tralaticio richiamo all’art. 47, 4° comma, c.p., che l’illecito disciplinare sia, in qualche misura, assimilabile alle contravvenzioni (mentre è da lungo tempo pacifico in dottrina che le infrazioni notarili non sono reati: v. già Solimena, Commento alla legislazione notarile, Milano, 1918, p. 440 ss.), la citata sentenza del 2001 ha l’indiscutibile merito di affermare senza esitazioni la necessità di accertare la colpevolezza dell’agente.

46 Cioè il c.d. errore-motivo che cade sul processo formativo della volontà, la quale nasce viziata da una falsa rappresentazione della realtà; esso si distingue dall’errore-inabilità che cade sull’esecuzione del reato, ostacolando o deviando il processo di attuazione pratica della volontà e che viene in considerazione nelle ipotesi del c.d. reato aberrante: così, per tutti, Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale16, Milano, 2003, p. 411, Mantovani, op. cit., p. 355.

47 Tale errore, a norma dell’art. 47, 1° comma, c.p. esclude la responsabilità salvo che l’ignoranza sia colpevole e il fatto sia previsto dalla legge come reato colposo.

48 Il discorso che segue è incentrato sull’interpretazione di alcune norme di diritto penale. Tuttavia, i precetti portati da tali norme si ritengono applicabili anche all’illecito amministrativo: v. Paliero, Travi, op. ult. cit., p. 386 s., Sandulli M. A., op. cit, p. 10 s.

49 Si noti che, dal punto di vista del diritto penale, i termini ignoranza ed errore – sebbene concettualmente distinti (in quanto la prima è mancanza di conoscenza, mentre il secondo è falsa conoscenza, cioè implica un convincimento) – si considerano equivalenti, in quanto ciò che interessa il diritto è l’ignoranza che determina un errore: v. Antolisei, op. loc. ult. cit., Mantovani, op. cit., p. 354, Fiandaca, Musco, Diritto penale, Parte generale5, Bologna, 2007, p. 368.

50 Fondato sul letterale tenore dell’art. 5 c.p., secondo cui «Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale» e dell’art. 3, 1° comma, c.p. secondo cui «La legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale».

51 V., già, Manzini, Trattato di diritto penale italiano, II, Torino, 1964, p. 29, nonché i riferimenti dottrinali citati da Fiandaca, Musco, op. cit., p. 394, nota 141. La medesima posizione era seguita dalla giurisprudenza di legittimità, anche prima della sentenza di Corte cost. subito citata nel testo, nel campo dei reati contravvenzionali: v. le decisioni citate da Antolisei, op. cit., p. 416 s., note 168-171.

52 Si tratta, precisamente, di Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 686 ss., con nota PulitanÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza.

53 Detta sentenza ha suscitato vasta eco tra gli esperti di diritto penale: v. la dottrina citata da Fiandaca, Musco, op. cit., p. 395, nota 142.

54 V. Mantovani, op. cit., p. 292 ss., verso cui si è debitori della schematizzazione che segue.

55 Che si ha quando il soggetto, a conoscenza dell’esistenza della legge, non prende conoscenza del suo contenuto per agire con maggiore tranquillità di coscienza o per procurarsi una scusa.

56 Che ricorre quando l’agente, consapevole dell’esistenza della legge, non prende conoscenza del suo contenuto per ostilità o indifferenza verso l’ordinamento giuridico o per pigrizia o trascuratezza e che abbraccia anche l’ipotesi del dubbio sulla esistenza o meno della legge, in quanto il dubbioso, che non assume le necessarie informazioni, accetta il rischio dell’ignoranza.

57 V. Mantovani, op. cit., p. 293.

58 Id., op. cit., p. 294.

59 Precisamente, secondo l’art. 47, 3° comma, cod. pen. «L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato».

60 Questa posizione è nota come c.d. teoria dell’incorporazione o della presupposizione, su cui v., per tutti, Antolisei, op. cit., p. 424 ss., nonché la giurisprudenza citata da Fiandaca, Musco, op. cit., p. 375, nota 95.

61 Così, Mantovani, op. cit., p. 364. Nello stesso senso, Fiandaca, Musco, op. cit., p. 377, secondo cui «la situazione di chi incorre in un errore sul fatto determinato – a sua volta – dalla inesatta interpretazione di una legge extrapenale (…) è psicologicamente identica, nella conseguenze, a quella di chi agisce sulla base di una falsa percezione del dato reale; ciò che cambia è solo la fonte dell’errore, originato nell’un caso da una errata valutazione giuridica, nell’altro da una falsa rappresentazione della realtà materiale. Se così è, il terzo comma dell’art. 47 finisce col collocarsi nello stesso alveo del primo comma della stessa disposizione: trattasi, in entrambi i casi, di errore sul fatto che costituisce reato».

Si noti che secondo questa impostazione è irrilevante, al fine di escludere l’imputabilità del fatto, che l’ignoranza della legge fosse inevitabile, perché l’errore che da tale ignoranza deriva vale, in ogni caso, a escludere la sussistenza dell’elemento psicologico del reato: v. Mantovani, op. loc. cit.

62 Caso in cui la responsabilità disciplinare gli sarà imputata a titolo di dolo.

63 Trattandosi di errore su legge extrasanzionatoria che, dando concretezza alla fattispecie dell’illecito, si integra col precetto.

64 Hanno attribuito rilevanza scusante all’errore determinato dalle indicazioni provenienti da fonti private: Cass. pen. 24 settembre 1990, Monti, in Foro it. 1991, II, c. 296 ss., Pret. Cagliari 12 novembre 1991, Ferrari, in Riv. giur. sarda 1993, p. 807 ss., con nota Ravenna, Pret. Busto Arsizio 23 settembre 1988, Molina e altro, in Foro it. 1990, II, c. 85 ss.

Si noti che secondo la giurisprudenza di legittimità, gli esercenti attività professionali sono soggetti a un dovere di informazione «particolarmente rigoroso» (essendo inescusabile anche la culpa levis), a differenza dei comuni cittadini a cui è richiesta l’«ordinaria diligenza»: v. Cass. pen., s.u., 10 giugno 1994, Calzetta e altro, in Foro it., 1995, II, c. 154 ss., con nota Belfiore, Brevi note sul problema della scusabilità dell’ignorantia legis, a cui adde le decisioni citate da Mantovani, op. cit., p. 295, nota 17.

65 Infatti, «punire per dolo chi ha voluto un fatto diverso da quello vietato dalla legge penale, sarebbe ammettere una ipotesi di responsabilità oggettiva, fuori dei casi fra l’altro espressamente previsti dalla legge»: così, Mantovani, Diritto penale, Parte generale3, Padova, 1992, p. 374.

66 Cfr. Cass. pen. 3 giugno 1993, Cardia, in Giust. pen., 1994, II, p. 339 ss., secondo cui la scriminante dell’ignoranza scusabile della legge può trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui l’agente abbia fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato della norma e questa sia stata violata per cause indipendenti dalla volontà dell’agente medesimo, al quale non può essere mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza.[/thrive_lead_lock]

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