Questioni giurisprudenziali in tema di rimedi caducatori, risarcitori e restitutori nei giudizi relativi ai preliminari di compravendita immobiliare

Michele Ruvolo, Questioni giurisprudenziali in tema di rimedi caducatori, risarcitori e restitutori nei giudizi relativi ai preliminari di compravendita immobiliare, in Corriere Giur., 2010, 9, 1155

Questioni giurisprudenziali in tema di rimedi caducatori, risarcitori e restitutori nei giudizi relativi ai preliminari di compravendita immobiliare

Sommario: I meccanismi caducatori e quelli risarcitori – I danni subiti dal promissario acquirente – Meccanismi caducatorio-risarcitori e diffida ad adempiere – La compatibilità tra i meccanismi caducatori e quelli risarcitori – Le risposte delle Sezioni Unite – L’effetto restitutorio e l’effetto risarcitorio – Exceptio doli generalis ed effetti restitutori

I meccanismi caducatori e quelli risarcitori

Nei giudizi relativi a preliminari non adempiuti si assiste alla formulazione delle domande più diverse e nella loro combinazione più varia.

Il promissario acquirente spesso chiede: 1) la risoluzione o l’accertamento della legittimità del proprio recesso dal contratto preliminare per grave inadempimento del promittente venditore; 2) la condanna del promittente venditore al pagamento del doppio della caparra; 3) la restituzione degli acconti; 4) il risarcimento del danno.

Il promittente venditore spesso chiede: 1) la risoluzione o l’accertamento della legittimità del proprio recesso dal contratto preliminare per grave inadempimento del promissario acquirente; 2) la condanna del promissario acquirente al rilascio del bene immobile; 3) l’autorizzazione alla ritenzione della caparra; 4) la condanna del promissario acquirente al pagamento di un’indennità per l’occupazione senza titolo conseguente al venir meno ex tunc del titolo; 5) il risarcimento del danno.

Ora, è fin troppo noto che nell’ipotesi in cui sia stata prestata la caparra confirmatoria l’ordinamento giuridico appresta alla parte adempiente l’opzione di agire per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno ovvero di recedere dal contratto ex art. 1385, comma 2, c.c., accompagnandosi all’esercizio del recesso la ritenzione o la restituzione del doppio della caparra a seconda che sia inadempiente la parte che ha dato la caparra o la parte che la caparra ha ricevuto.

La disciplina dettata dall’art. 1385, comma 2, c.c. non deroga alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza ai sensi dell’art. 1455 c.c. (anche in caso di recesso, infatti, l’inadempimento si identifica in ogni caso con quello che dà luogo alla risoluzione ed il giudice è tenuto comunque a sindacarne gravità ed imputabilità – v. Cass. 2032/1993; 398/1989; 4451/1985). Pertanto, nell’indagine volta a stabilire quale sia la parte inadempiente i criteri sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti (Cass. 398/89; 4451/85).

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Sul punto è il caso di notare che nella prassi giudiziale relativa ai contratti preliminari di compravendita immobiliare si verifica spesso che vengano fatti valere inadempimenti reciproci.

Ora, per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di denuncia di inadempienze reciproche ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento (e per la declaratoria della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c.), per stabilire da quale parte sia l’inadempimento colpevole non basta la valutazione dell’inadempimento di un solo contraente, ma occorre procedere ad una valutazione unitaria e comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto ed apprezzarne l’effettiva gravità ed efficienza causale rispetto alle finalità economiche del contratto. Ciò tenendo conto dei precetti generali sull’imputabilità e sull’importanza dell’inadempimento ed in modo da stabilire, per quanto riguarda le singole pattuizioni, quale dei due abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del contratto (cfr. tra le altre Cass. 23908/06; 20678/05; 10477/04; 16822/03; 16530/03; 5444/02; 59/02; 8621/01; 9158/91; 398/89; 4451/85).

Tale giudizio di comparazione deve tenere conto del comportamento complessivo di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma.

Occorre quindi procedere ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi comportamenti, che, al di là del pur necessario riferimento all’elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (sul piano causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in maniera da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l’inadempimento colpevole idoneo a giustificare quello dell’altro ed al fine di accertare la sussistenza degli inadempimenti reciprocamente dedotti e di apprezzarne la effettiva gravità ed efficienza causale (v. Cass. 14520/01; 4529/01).

In altri termini, tale valutazione comparativa deve tener conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell’incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto (v. Cass. 2992/04; 16930/03; 6756/03).

È importante segnalare che se risultano infondati entrambi gli addebiti formulati dalle parti, ritenendosi insussistente un grave inadempimento nel comportamento di parte convenuta ed in quello di parte attrice, si può risolvere il contratto inter partes per mutuo consenso delle parti in presenza di una richiesta scritta di risoluzione da parte dei convenuti.

Al riguardo si ricorda che in presenza di reciproche azioni di risoluzione del contratto, fondate da ciascuna parte sull’inadempimento dell’altra (ed anche il recesso ex art. 1385 c.c. configura uno strumento speciale di risoluzione del contratto), il giudice che accerti l’infondatezza di tali scambievoli addebiti e non possa, pertanto, pronunciare la risoluzione per colpa di nessuna delle parti, dovrebbe dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della manifestazione di volontà di entrambe le parti di non eseguirlo e provvedere di conseguenza sulle domande restitutorie da esse proposte e sugli effetti risolutori di cui all’art. 1458 dello stesso codice (v. Cass. 6134/79; 3744/82; 10217/94; 6354/96; 4089/00; 15167/00; 2304/01; 10389/05).

Se le azioni di risoluzione o ex art. 1385 c.c. sono reciproche (e non rileva che una parte abbia avanzato la domanda di risoluzione in via subordinata in caso di rigetto della domanda principale ex art. 2932 c.c., posto che tale rigetto deve fare tenere in considerazione la richiesta di risoluzione anche sotto il profilo della risoluzione per mutuo dissenso), entrambe le parti hanno mostrato concordemente di non avere interesse alla prosecuzione del rapporto, dal che deriva l’inefficacia del vincolo, una volta esclusa l’inadempienza, unica o prevalente, di uno dei due obbligati.

Le dette manifestazioni di volontà delle parti di non eseguire il contratto devono rivestire la forma scritta (trattandosi di una risoluzione, in via consensuale, di un preliminare di compravendita immobiliare e vista la necessità, a pena di nullità, della forma scritta per la stipulazione di tale negozio ex art. 1351 c.c. e considerata la medesima necessità, per relationem, anche per la sua risoluzione posto che per giurisprudenza pacifica la risoluzione consensuale di un contratto preliminare di un bene immobile richiede la forma scritta ad substantiam – cfr. per tutte Cass. 9341/04; 14524/02) ed a tal fine basta che siano contenute in atti giudiziali.

Una pronuncia risolutoria per mutuo dissenso non può invece essere formulata nel caso in cui manchino reciproche azioni di risoluzione, ossia nel caso in cui non entrambe le parti mostrino concordemente di non avere interesse alla prosecuzione del rapporto. Certo, quando rimane in vita il contratto preliminare, vanno evidentemente rigettate le domande finalizzate al risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento (nella prassi giudiziaria si verifica talvolta che, in assenza di reciproche domande di risoluzione o recesso – es. convenuto chiede solo il rigetto della domanda di risoluzione avanzata dall’attore o solo una pronuncia ex art. 2932 c.c. o solo il risarcimento danni per inadempimento – la causa viene rimessa sul ruolo al fine di verificare se anche l’altra parte abbia intenzione di chiedere, magari in via subordinata, la risoluzione del contratto. Ciò per evitare di lasciare in vita un contratto che non porterà mai alla stipula di un definitivo).

Mette infine conto osservare che si deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della manifestazione di volontà di entrambe le parti di non eseguirlo e provvedere di conseguenza sulle domande restitutorie da esse proposte (v., per un caso analogo, Cass. 6134/79; 3744/82; 10217/94; 6354/96; 4089/00; 15167/00; 2304/01; 10389/05) anche in ipotesi – analoga al caso di reciproche azioni di risoluzione (o ex art. 1385 c.c.) – di azione di risoluzione da una parte e di nullità dall’altra, posto che anche in questo caso entrambe le parti mostrano concordemente di non avere interesse alla prosecuzione del rapporto.

Per quanto ora concerne i collegamenti tra meccanismi caducatori e risarcitori è poi noto che la domanda risarcitoria è compatibile con la domanda di risoluzione e non con quella di recesso ex art. 1385 c.c., che si connette, come detto, alla ritenzione della caparra ricevuta o alla richiesta del doppio della caparra versata.

Al contrario, il principio di cui al comma 2 dell’art. 1385 c.c. (in forza del quale la parte non inadempiente ha facoltà di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta o esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile tutte le volte in cui la parte non inadempiente, anziché recedere dal contratto, si avvalga del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, perdendo, in tal caso, la caparra la detta funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno. In questo caso il danno andrà provato per intero e sarà liquidato nella sua misura effettiva dal giudice. Se la parte ha preferito domandare la risoluzione (o l’esecuzione del contratto) invece di esercitare il recesso, il diritto al risarcimento del danno, che rimane regolato dalle norme generali, postula che il pregiudizio subito sia provato nell’an e nel quantum, con conseguente possibilità di rigetto della relativa domanda in ipotesi di mancato raggiungimento della prova (Cass. 18850/04; 849/02; 7180/1997; 4465/1997). Introdotta la domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni, non è applicabile la disciplina della caparra di cui al secondo comma dell’art. 1385 c.c. (Cass. 18850/2004; 3555/2003; 13828/2000; 8881/2000; 8630/1998; 3602/1983); è illegittima la condanna della parte inadempiente a restituire il doppio della caparra ricevuta, stante la non cumulabilità dei due rimedi (Cass. 18850 del 2004); è necessaria la prova del danno secondo le regole generali (Cass. 17923/2007; 1301/2003; 849/2002; 4465/1997).

Mancando la prova del danno, se inadempiente è l’accipiens, la restituzione della caparra è un effetto della risoluzione come conseguenza del venir meno della causa che aveva determinato la corresponsione (Cass. 8630 del 1998); l’obbligo di restituzione della somma ricevuta, privo di funzione risarcitoria, rimane soggetto al principio nominalistico (Cass. 5007/1993; 2032/1993; 944/1992); se l’accipiens è adempiente, viceversa, la caparra svolge funzione di garanzia dell’obbligazione di risarcimento (funzione che si esplica nell’esercizio del diritto – da parte di chi l’abbia ricevuta e abbia titolo risarcitorio – a ritenere l’importo fino alla liquidazione del danno) e conserva tale funzione sino alla conclusione del procedimento per la liquidazione dei danni derivanti dall’avvenuta risoluzione, con la conseguenza che non trova giustificazione la richiesta di restituzione sino alla definizione di tale procedimento (Cass. 5846/2006) e vi è la compensazione con il credito risarcitorio.

Così stando le cose, risulta di agevole soluzione il problema relativo alla compatibilità tra la domanda di ritenzione della caparra o di condanna al pagamento del doppio della stessa da un lato e, dall’altro, la domanda risarcitoria.

Ed infatti, poiché la caparra assolve indubbiamente la funzione di liquidazione preventiva e forfettaria del danno contrattuale, non può essere riconosciuta, in caso di declaratoria di recesso e di autorizzazione alla ritenzione della caparra o di condanna al pagamento del doppio della stessa, anche la somma chiesta a titolo di risarcimento degli ulteriori danni. Non può attribuirsi un danno ulteriore (neppure sotto forma di rivalutazione monetaria – v. Cass. 2032/93) rispetto alla liquidazione forfettaria del danno costituita dalla ritenzione della caparra o dalla doppia caparra connesse alla domanda di recesso ex art. 1385 c.c. Ed è per questo motivo che non va disposta la CTU eventualmente richiesta per la quantificazione di danni.

Sulla caparra o sulla doppia caparra decorrono, però, quale credito di valuta, gli interessi dalla data della costituzione in mora (atto recettizio). Poi, in caso di inadempimento del promittente venditore, dichiarato legittimo il recesso del promissario acquirente e condannato il promittente venditore al pagamento della doppia caparra, bisogna condannare il promittente venditore anche alla restituzione degli acconti. In questo caso, però, la restituzione delle somme corrisposte a titolo diverso dalla caparra costituisce un effetto restitutorio, un debito di valuta, avente ad oggetto l’originaria prestazione pecuniaria, e non un debito risarcitorio, con la conseguenza che non è per queste somme dovuta la rivalutazione monetaria.

Per il diverso caso della risoluzione, invece, disposte la risoluzione e l’eventuale condanna alla restituzione del bene oggetto del preliminare consegnato anticipatamente ed alla restituzione della somma di denaro pagata, va poi emessa condanna al risarcimento danni.

I danni subiti dal promissario acquirente

Con riferimento all’estensione del danno risarcibile in caso di disposta risoluzione contrattuale va osservato che se è stata formulata domanda di risoluzione (e non di recesso ex art. 1385 c.c.) e domanda di restituzione di quanto versato e di condanna al risarcimento del danno, il diritto al risarcimento del danno della parte adempiente che chiede la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del promittente venditore è comprensivo anche del pregiudizio costituito dal deprezzamento della somma pagata, con la conseguenza che tale somma, pur essendo oggetto di una obbligazione pecuniaria, avendo per oggetto il prezzo corrisposto alla parte adempiente, deve essere restituita con la rivalutazione monetaria perché solo in tal modo quest’ultima parte è reintegrata nella posizione in cui era al momento della conclusione del contratto, non potendo essere pregiudicata dalla mancata stipulazione del definitivo a lei non imputabile (Cass. 9091/2004; 639/96; 2456/93; 139/93; 587/90; 8834/90). Spettano, poi, anche gli interessi compensativi decorrenti dalla data del pagamento fino al soddisfo (cfr. Cass., sez.un, 12942/92).

Inoltre, per costante giurisprudenza, il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (cioè, al tempo in cui l’inadempimento è diventato definitivo) ed il prezzo pattuito (cfr., tra le altre, Cass. 25016/08; 1956/07; 22384/04). Tale differenza va rivalutata al tempo della liquidazione dell’indicato danno, per compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio; mentre non va rivalutato il prezzo eventualmente pagato dal promittente acquirente,essendo questo tempestivamente entrato nel patrimonio del promittente venditore (v. sul punto, tra le tante, Cass. 1956/07; 22384/04; 17340/03; 1298/98; 4280/97; 1641/97; 639/96; 13108/95; sez. un. 6938/94; 5778/93; 1006/92; 747/86; 2850/82).

Ecco, quindi, che in caso di inadempimento del promittente venditore il risarcimento dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita (che come appena detto consiste nella differenza fra il valore commerciale dell’immobile alla data della domanda di risoluzione ed il prezzo pattuito) deve tenere conto della svalutazione monetaria intervenuta nel corso del giudizio che può essere determinata anche mediante il ricorso a dati di comune esperienza, purché sia verificata con specifico riferimento alle fluttuazioni del mercato immobiliare. Ne consegue che, mentre non possono essere utilizzate le tabelle ISTAT relative alle variazioni dei prezzi relativi ai beni di consumo, il giudice può fare ricorso alle tabelle ISTAT relative alle variazioni dei prezzi per le costruzioni edilizie (Cass. 17340/03 e 22384/04).

In merito alla determinazione del detto danno-differenza ed ai limiti della sua liquidazione, deve precisarsi che, ex art. 1225 c.c., in tema di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale derivante da colpa del debitore, la prevedibilità – da valutarsi secondo un criterio di normalità – si pone come limite del danno risarcibile, con la conseguenza che il giudice non può prescindere dalle circostanze rilevanti ai fini della dimostrazione della prevedibilità. In particolare, in caso di risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare di vendita immobiliare, il risarcimento del danno va commisurato all’incremento di valore che, alla stregua di un giudizio di prevedibilità ex ante, l’immobile avrebbe avuto, secondo quanto normalmente accade in concreto per gli immobili consimili al tempo in cui sorge l’obbligazione di risarcimento, che va determinato al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (cfr. Cass. 21 maggio 1993 n. 5778).

Per determinare l’eventuale ammontare del danno risarcibile occorre disporre CTU in modo da valutare l’esistenza di un lucro cessante (differenza tra il valore del bene al momento della proposizione della domanda ed il prezzo pattuito dalle parti) e se l’eventuale incremento di valore sia dovuto o meno ad elementi eccezionali ed imprevedibili al momento della stipulazione ovvero a normali regole di mercato.

Va poi considerato che la liquidazione del danno derivante dall’inadempimento d’una promessa di vendita immobiliare deve essere compiuta avendo riguardo a tutte le conseguenze attive e passive determinate dall’inadempimento stesso, in quanto il risarcimento, anche se non può far ottenere al promissario risultati più vantaggiosi di quelli che gli sarebbero derivati dall’adempimento del preliminare, deve essere integrale e comprendere tutti quei vantaggi che avrebbero incrementato il suo patrimonio se la promessa di vendita fosse stata eseguita con la stipulazione del contratto di vendita definitivo in riferimento al corrispondente valore del bene che ne sarebbe stato oggetto (Cass. 2074/88).

Nel caso di risoluzione di un contratto preliminare di compravendita, il risarcimento del danno va calcolato accertando la diminuzione di valore subita dal patrimonio del contraente non inadempiente avuto riguardo a tutte le conseguenze attive e passive determinate dall’inadempimento, considerandosi risarcibile non solo quel danno che consegue direttamente ed immediatamente dall’inadempimento, ma anche quello che in via mediata ed indiretta si presenti come conseguenza normale dell’inadempimento stesso secondo un criterio di regolarità causale (v. Cass. 4202/87 e 7199/83).

Sempre in merito al quantum del risarcimento in caso di domanda di risoluzione si noti che secondo Cass. 3555/2003 chi agisce in risoluzione non ha diritto, a titolo di danno minimo risarcibile, alla caparra (o al doppio di quella data) se non prova il maggior danno: la Corte precisa che la soluzione contraria comporterebbe il venir meno di ogni interesse ad esercitare il recesso, con conseguente soppressione del rimedio che la legge espressamente disciplina al comma secondo dell’art. 1385 c.c. Altre pronunce, invece, predicano l’opposto principio secondo il quale la caparra avrebbe funzione di minimum risarcibile anche nel caso di domanda di risoluzione (Cass. 2613/1988, 11356/2006).

Nella sentenza delle sezioni unite n. 553/09 si legge che per qualche autore la tesi della caparra intesa come minimum risarcibile si basa anche sul fatto che, nell’attribuire la scelta dei due rimedi ai sensi del 1385 c.c., il legislatore “sarebbe stato mosso dall’intento di tutelare il contraente non inadempiente consentendogli di provare l’eventuale maggior danno, senza per questo dover perdere quanto già garantitogli in via preventiva e forfettaria”. Per le sezioni unite risulta poco comprensibile e ancor meno condivisibile tale istanza di “ipertutela” della parte non inadempiente, a fondamento della quale qualcuno sottolinea che altrimenti “si falcidierebbe l’istituto della caparra annullandone la funzione tipica di predeterminazione del danno” (mentre, sul piano comparatistico, si richiama – ma non del tutto conferentemente – il codice tedesco che, per un istituto omologo, prevede, in realtà, con disposizione del tutto “neutra” par. 336 e 337 BGB, soltanto che “qualora l’accipens chieda il risarcimento del danno per inadempimento, nel dubbio, la caparra vada imputata a risarcimento, mentre deve essere restituita al momento della prestazione del risarcimento del danno”).

Meccanismi caducatorio-risarcitori e diffida ad adempiere

Spesso la liquidazione forfettaria legata al recesso ha dato luogo ad abusi.

Per avvalersi di tale liquidazione forfettaria si verifica non di rado che chi ha effettuato una diffida ad adempiere rinunci poi all’effetto risolutorio (magari concedendo un altro termine o accettando acconti) preferendo la doppia caparra invece di sobbarcarsi l’onere di provare gli effettivi danni subiti o sapendo già (se è un promissario acquirente) che l’importo della caparra (che nella doppia caparra costituisce il quantum risarcitorio che si aggiunge a quello restitutorio) è maggiore del danno ordinariamente risarcibile, ossia della differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto ed il prezzo pattuito.

Ammettere la rinuncia all’effetto risolutorio può quindi comportare dei possibili abusi ai danni della parte inadempiente e degli effetti processuali non prevedibili da parte dello stesso contraente inadempiente ed in considerazione dei quali la rinuncia all’effetto risolutorio può non avvenire per la volontà di rendere efficace il contratto, ma di fare cessare solo in un secondo momento i suoi effetti per avvalersi di meccanismi di liquidazione forfettaria del danno conseguenti a soluzioni alternative a quella della risoluzione di diritto. Ed infatti, in seguito alla rinuncia all’effetto risolutivo il contratto risulta pienamente efficace tra le parti, con la conseguenza, tra le altre, che si può ben esercitare il diritto di recesso previsto dall’art. 1385 c.c. (v. Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., cit. In senso contrario si è però espresso, nella giurisprudenza di merito, Tribunale Cagliari, 13 marzo 1997, in Riv. giur. sarda 1999, 109). Invece di dovere provare il danno subito (come deve farsi se si segue la via della risoluzione), si può reputare più comodo rinunciare all’effetto risolutivo al fine di operare il recesso ex art. 1385 c.c. e chiedere, quale liquidazione forfettaria del danno, la ritenzione della caparra o il pagamento del doppio della stessa. In senso in qualche modo contrario è bene ricordare Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido./89 (in Giust. civ. Mass. 1989, fasc. 5), per la quale il contraente non inadempiente che, dopo avere intimato diffida ad adempiere con dichiarazione che, decorso il termine fissato, il contratto sarebbe stato senz’altro risolto (art. 1454 c.c.), sia stato convenuto in giudizio dall’altro contraente con richiesta di risoluzione del contratto per suo inadempimento e sua condanna al pagamento del doppio della caparra confirmatoria ricevuta, non può – quando il termine da lui concesso con la diffida sia decorso – chiedere la declaratoria, in via riconvenzionale, del suo diritto di recesso dal contratto con il diritto a ritenere la caparra ricevuta, poiché la sentenza che, nel pronunciare sulle contestazioni circa i presupposti e le condizioni di efficacia dell’atto di diffida, le rigetta, accerta l’avvenuto verificarsi della risoluzione di diritto del contratto al momento della scadenza del termine concesso, sicché la dichiarazione di recesso trova il contratto già risolto. Ne consegue che la parte la quale non abbia potuto operare la ritenzione della caparra a titolo di risarcimento del danno dovrebbe chiedere il risarcimento stesso in base alle norme generali. Certo, Cass. 2557/89 riguardava il caso del recesso ex art. 1385 c.c. operato dopo una diffida produttiva della risoluzione. La sentenza in questione non si era invece pronunciata sulla possibilità o meno di una rinuncia all’effetto risolutivo conseguente alla diffida e sulla possibilità di operare il recesso di seguito a tale rinuncia, possibilità ammessa, come detto, da Cass. 7182/97. È comunque da preferire l’impostazione, ormai accolta dalle sezioni unite della Cassazione con la decisioni n. 553/09, che evita abusi ai danni del debitore diffidato, che esclude il recesso dopo l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto e ciò sia in presenza che in assenza di una successiva rinuncia. Una tale soluzione, infatti, tutela l’interesse del diffidato a non subire le conseguenze dei mutamenti di opinione da parte del creditore (interesse tutelato dalla disciplina generale in tema di risoluzione – art. 1453, comma 2, c.c. – ) ed a provocare l’effetto risolutivo con il suo inadempimento persistente anche dopo la ricezione della diffida.

Va ora osservato che la sentenza delle sezioni unite n. 553/09 (estensore Travaglino) muta radicalmente il trentennale orientamento in tema di diffida ad adempiere e rinuncia all’effetto risolutorio per ritrattazione da parte del contraente non inadempiente (dopo l’inutile decorso del termine fissato nella diffida). Viene così superata quella granitica impostazione, avversata in dottrina, secondo la quale anche se il soggetto non inadempiente aveva manifestato la sua volontà di sciogliersi dall’impegno contrattuale comunicando alla controparte la diffida ad adempiere, l’effetto risolutorio restava ancora nella disponibilità dell’intimante, che conservava la facoltà di ritrattare tale diffida. Finalmente si è pervenuti alla conclusione di negare che il creditore che ha diffidato la controparte ad adempiere possa cambiare idea e rinunciare a posteriori (per avvalersi di altri mezzi di tutela) all’effetto risolutorio.

Con la sentenza n. 553/09 il giudice di legittimità ha posto fine, con l’autorevolezza di una pronuncia a sezioni unite, al consolidato orientamento secondo il quale chi aveva intimato la diffida ad adempiere conservava la facoltà, connessa all’esercizio dell’autonomia privata, di rinunciare all’effetto risolutorio già verificatosi per far ricorso ad altri mezzi di tutela (v. Cass. 23 aprile 1977, n. 1530, in Foro it., 1977, I, 1, 1913, con nota di A. Lener; Cass. 9 maggio 1980, n. 3052, in Giust. civ. Mass. 1980; Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it., 1988, I, 448, con nota di C. Scognamiglio; in Vita not. 1987, 717; in Dir. e giur. agr. 1988, 289; Cass. 4.8.1997, n. 7182, in Giust. civ. Mass. 1997, 1321; Cass. 28 giugno 2004, n. 11967;Cass. 8 novembre 2007, n. 23315, in questa Rivista, 2008, 7, 936 con commento di Michele Ruvolo, commento nel quale si illustravano le ragioni che dovevano portare ad un revirement giurisprudenziale, ragioni che sono state recepite dalla recente sentenza delle sezioni unite n. 553/09.

Proprio tenendo conto di quanto appena evidenziato, in tale ultima sentenza delle sezioni unite si legge che “la concezione dell’effetto risolutivo disponibile in capo al creditore pare figlia di una ideologia fortemente punitiva per l’inadempiente, si atteggia a mò di sanzione punitiva senza tempo, assume forme di (ingiustificata) “ipertutela” del contraente adempiente, del quale si legittima ogni mutevole e repentino cambiamento di “umore” negoziale”. Il principio di diritto affermato in conclusione dalle sezioni unite sul punto è, quindi, quello per cui la rinuncia all’effetto risolutorio da parte del contraente adempiente “non può ritenersi in alcun modo ammissibile, trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del contraente stesso”.

La compatibilità tra i meccanismi caducatori e quelli risarcitori

Il problema è ora quello di comprendere i vari rapporti possibili tra le domande caducatorie e quelle risarcitorie ed in particolare: 1) se sia possibile sostituire la domanda di risoluzione con quella di recesso; 2) se sia possibile sostituire alla coppia di domande risoluzione/risarcimento quella sul recesso e sulla caparra; 3) cosa succeda in caso di incongrua, congiunta formulazione delle domande di risoluzione e di ritenzione della caparra (o di condanna al pagamento del doppio della stessa).

Solo in un secondo momento si potrà verificare la compatibilità tra le domande risarcitorie e quelle restitutorie.

Per quanto innanzitutto concerne i rapporti tra domanda di risoluzione e di recesso deve osservarsi che molteplici sono stati gli orientamenti giurisprudenziali che si sono venuti a formare al riguardo.

  1. A) ammissione della possibile sostituzione della domanda di risoluzione con quella di recesso.

Secondo questa impostazione non costituirebbe domanda nuova, e quindi inammissibile, la domanda di recesso (correlata con richiesta di ritenzione di caparra o di condanna alla doppia caparra) formulata dopo l’originaria domanda di risoluzione (o esecuzione) del contratto (v. Cass. n. 3331 del 1959; n. 2380 del 1975; n. 1391 del 1986; n. 1213 del 1989; n. 7644 del 1994; n. 186 del 1999; n. 1160 del 1996; n. 11760 del 2000; n. 849 del 2002). Una tale variazione sarebbe ammissibile anche in appello e costituirebbe l’esercizio di una perdurante facoltà posto che la domanda di recesso sarebbe una istanza più ridotta rispetto alla risoluzione (in quanto anche il recesso è fondato su un grave inadempimento ed anche il recesso è finalizzato allo scioglimento del contratto). La domanda di recesso del contratto costituisce, in quest’ottica, una domanda più limitata rispetto a quella della risoluzione per inadempimento, poiché – in quanto ricompresa nell’unico fatto costitutivo del diritto vantato – non altera i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione e non sposta la controversia su un piano diverso e non introduce nel processo un nuovo tema di indagine (Cass. 6 marzo 1989;7644/94; 2032/94; 10683/92; 1213/89; 1391/86; 205/70). Non mutando il petitum o la causa petendi non vi sarebbe una domanda nuova.

In sostanza, si sostiene l’idea che il recesso ex art. 1385 c.c. – in quanto presuppone necessariamente l’inadempimento dell’altro contraente ed in quanto funzionale all’estinzione di tutti gli effetti giuridici sia del contratto sia dell’inadempimento della controparte – configuri uno strumento speciale di risoluzione del contratto, affidato alla manifestazione di volontà e ad un potere di iniziativa della parte non inadempiente (Cass. 14 marzo 1988 n. 2435) e collegato alla pattuizione di una caparra confirmatoria.

Inoltre, la possibile sostituzione (anche in appello) della domanda di risoluzione con quella di recesso si fonda pure sul fatto che la domanda di ritenzione della caparra (ovvero di pagamento del suo doppio) è pur sempre una domanda risarcitoria.

Questa impostazione è stata pure di recente espressa da Cass. 11356/06.

  1. B) possibile sostituzione della domanda di risoluzione in recesso anche dopo la risoluzione di diritto se vi è stata rinuncia all’effetto risolutivo.

Un’applicazione della tesi appena esposta portava, prima del riferito mutamento di orientamento della Cassazione, a ritenere possibile la detta sostituzione anche qualora l’effetto risolutivo fosse venuto meno di seguito a rinuncia allo stesso. In questo caso il recesso poteva operare perché non trovava il contratto già risolto (Cass. 7182/97; 1952/03. In assenza di rinuncia all’effetto risolutivo di diritto il recesso non poteva operare, essendo stato caducato il contratto; v. Cass. n. 2557 del 1989, n. 26232 del 2005, n. 9040 del 2006).

  1. C) possibile sostituzione della domanda di risoluzione in recesso anche dopo la risoluzione di diritto se non vi è stata, insieme alla domanda di risoluzione di diritto, una domanda risarcitoria.

Sul presupposto della affinità sostanziale tra risoluzione e recesso ex art. 1385 c.c. si pone, in questa prospettiva, l’accento sulla funzione risarcitoria della caparra e si ritiene che la scelta tra questa o l’integrale risarcimento da provare non sia preclusa a chi si sia avvalso del meccanismo giuridico della risoluzione di diritto.

  1. D) esclusione della possibilità di sostituzione della domanda di risoluzione/risarcimento con quella di recesso/ritenzione caparra.

Tale esclusione si basa sul fatto che queste due azioni avrebbero diverso petitum (sostanziandosi l’azione di cui al secondo comma dell’art. 1385 c.c. in una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, operante alla stregua degli altri meccanismi di risoluzione stragiudiziale previsti dal codice, la sentenza che pronuncia su tale domanda non potrebbe avere – si sostiene – che natura dichiarativa, mentre è costitutiva quella che decide sulla risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., è di condanna quella che pronuncia sull’adempimento) e differente causa petendi. Conseguentemente, la domanda di recesso formulata dopo quella di risoluzione sarebbe nuova e non ammissibile (né in primo grado né in secondo grado) – v. Cass. n. 8995 del 1993.

Le risposte delle Sezioni Unite

La citata sentenza delle sezioni unite n. 553/09 getta luce sulla combinazione e qualificazione delle domande caducatorie e risarcitorie.

La pronuncia delle sezioni unite affonda le proprie radici nell’ordinanza interlocutoria n. 4442 del 28 febbraio 2006, con la quale la seconda sezione della Corte di Cassazione ha ravvisato e segnalato l’esistenza di un “contrasto di giurisprudenza sulla questione se, con riferimento ad un preliminare di vendita in relazione al quale il promissario acquirente abbia corrisposto al promittente venditore una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, il promittente venditore convenuto dal promissario acquirente per la risoluzione del contratto sul presupposto di un preteso suo inadempimento possa chiedere, in via riconvenzionale, in primo grado. la risoluzione del contratto per inadempimento del promissario acquirente ed il risarcimento del danno e in appello – dopo che il primo giudice abbia accolto la (sola) riconvenzionale di risoluzione, rigettando quella di risarcimento per mancanza di prova del danno – il recesso dal contratto ai sensi dell’art. 1385, secondo comma, c.c., e la (conseguente) ritenzione della caparra”.

Le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti principi di diritto:

  1. a) i rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale, da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altra si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perché verrebbe altrimenti vanificata la stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta;

  2. b) l’azione di risoluzione avente natura costitutiva e l’azione di recesso si caratterizzano per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali: sotto quest’ultimo aspetto, la trasformazione dell’azione risolutoria in azione di recesso nel corso del giudizio lascerebbe in astratto aperta la strada (da ritenersi, invece, ormai preclusa) ad una eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della caparra o di conseguimento del suo doppio (con evidente quanto inammissibile rischio di ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale);

  3. c) azione di risoluzione “dichiarativa” e domanda giudiziale di recesso partecipano sì della stessa natura strutturale, ma, sul piano operativo, la trasformazione dell’una nell’altra non può ritenersi ammissibile per i motivi, di carattere funzionale, di cui al precedente punto b);

  4. d) i rapporti tra l’azione di risarcimento integrale e l’azione di recesso, isolatamente e astrattamente considerate, sono, a loro volta, di incompatibilità strutturale e funzionale;

  5. e) la domanda di ritenzione della caparra è legittimamente proponibile, nell’incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell’introdurre l’azione “caducatoria” degli effetti del contratto: se quest’azione dovesse essere definita “di risoluzione contrattuale” in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convertirla formalmente (in presenza di una concomitante richiesta volta alla ritenzione della caparra o alla condanna al pagamento del doppio della stessa, richiesta compatibile con il solo recesso ex 1385 c.c.) in azione di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l’ulteriore corredo di qualsivoglia domanda “risarcitoria”, non potrà essere legittimamente integrata, nell’ulteriore sviluppo del processo, con domande “complementari”, né di risarcimento vero e proprio né di ritenzione della caparra, entrambe inammissibili perché nuove.

L’effetto restitutorio e l’effetto risarcitorio

Va ora aggiunto che poiché la caparra (con funzione di determinazione preventiva e forfettaria del danno in caso di inadempimento di una delle parti) vale a coprire (esaurendolo) il risarcimento dei danni (stricto sensu inteso), la restituzione della fruttificazione (che risarcimento non è) è dovuta dall’accipiens anche a prescindere dall’inadempimento colpevole. Il risarcimento dei danni (o la caparra) e le restituzioni conseguenti alla risoluzione (ed al recesso ex art. 1385 c.c.) sono rimedi concorrenti.

Se una parte chiede la ritenzione della caparra (liquidazione preventiva e forfettaria del danno che esaurisce lo stesso), la richiesta di un ristoro per la mancata fruizione dell’immobile non va qualificata quale “ulteriore danno” (anche se l’attore l’abbia configurata quale domanda risarcitoria) costituendo invece domanda di restituzione dei frutti civili o del loro equivalente in denaro.

Ed infatti, nei contratti a prestazioni corrispettive la retroattività della risoluzione ex art. 1458 c.c. (o la retroattività del recesso ex art. 1385 c.c.), in connessione con il venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali eseguite comporta non solo il sorgere di obbligazioni risarcitorie – a carico soltanto della parte inadempiente – ma anche il sorgere, a carico di ciascun contraente ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili, dell’obbligo di restituire la prestazione ricevuta e, nel caso in cui questa abbia avuto per oggetto una cosa fruttifera, i relativi frutti, naturali o civili, dal giorno dell’ottenuta disponibilità del cespite, e ciò in modo tale da ristabilire con effetto retroattivo la situazione di fatto preesistente al contratto (cfr., tra le altre, Cass. 3348/68; 5367/77; 2962/82; 2135/95; 4465/97; 7829/03). A tal ultimo proposito si noti, invero, che nel caso in cui la prestazione abbia avuto per oggetto una cosa fruttifera uno degli aspetti dell’effetto restitutorio connesso alla risoluzione (ed al recesso ex art. 1385 c.c.) è costituito dalla necessità per il promissario acquirente di restituire i frutti (naturali o civili) percepiti o che potevano essere percepiti, ovvero – qualora di essi non sia possibile la restituzione – di corrispondere l’equivalente in danaro nell’intervallo di tempo compreso tra la consegna ed il rilascio del medesimo (di tale prestazione, inoltre, deve essere fatta espressa richiesta dal promittente venditore, non atteggiandosi l’obbligo restitutorio come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento; circostanza, questa, che impedisce al giudice di rilevarla d’ufficio in base al principio della compensatio lucri cum damno, cfr. Cass. 4465/97, 2209/97, 2135/95, 875/95 e 2802/90).

Siffatto obbligo restitutorio (che come detto grava su entrambe le parti indipendentemente dall’imputabilità all’una od all’altra dell’inadempimento) si aggiunge, ovviamente, per la parte colpevolmente inadempiente, a quello del risarcimento del danno.

Quest’ultimo profilo assume particolare rilievo poiché spesso il promittente venditore chiede la risoluzione del contratto preliminare, nonché la dichiarazione del proprio diritto a ritenere la somma percepita a titolo di caparra confirmatoria ed il risarcimento dei danni per l’altrui illegittima occupazione dell’immobile (e quindi la condanna del promissario acquirente al pagamento di un’indennità per il mancato godimento del bene).

Ne consegue che quando viene richiesta la condanna al pagamento di una somma di denaro come ristoro per non avere potuto fruire dell’immobile dal tempo della consegna al promissario acquirente, pur volendo ritenere che la parte abbia qualificato la domanda volta alla corresponsione dei frutti civili dell’immobile come risarcitoria, la domanda in questione andrebbe comunque riqualificata (e tale facoltà spetta d’ufficio al Giudice) in domanda di restituzione dei frutti civili (o del loro equivalente in denaro).

Una cosa è il risarcimento dei danni (inteso in senso stretto), altra è la restituzione della fruttificazione (che, come precisato, risarcimento non è), che è dovuta dall’accipiens anche a prescindere dall’inadempimento colpevole. Sicché, in ultima analisi, il risarcimento dei danni (o la caparra) e le restituzioni conseguenti (alla risoluzione ed al recesso ex art. 1385 c.c.) sono rimedi concorrenti, per il fatto stesso che operano su pretese sostanzialmente diverse.

L’equivalente in questione spetta, come accennato, nonostante l’occupazione sia iniziata legittimamente in considerazione dell’effetto retroattivo della risoluzione. Poiché la risoluzione ha effetto retroattivo tra le parti, una volta pronunciata la risoluzione del contratto viene meno la legittimità originaria del possesso, con la conseguenza che l’occupazione dell’immobile si configura fin dall’inizio come sine titulo

Il promittente venditore – nei confronti del quale va ripristinata la situazione esistente prima del contratto (ex art. 1159 c.c.) – non ha potuto trarre frutti né dall’utilizzo della moneta, corrispondente al prezzo non pagato, né dal diretto godimento dell’immobile né godere dei frutti civili che questo poteva procurargli, con la conseguenza che, una volta risolto il preliminare con effetto ex tunc per il venir meno ab origine della causa delle attribuzioni patrimoniali, non assume rilievo la legittimità originaria del possesso ma il fatto che quest’ultimo, avente la peculiare e temporanea funzione di essere essenzialmente preordinato alla stipula del definitivo, si sia protratto in forza del preliminare rimasto inadempiuto, senza una giustificazione e, perciò, sine titulo (cfr., al riguardo, Cass. 1307/03; 4465/97; 2209/97; 2802/90).

Con riferimento alla somma dovuta in relazione alla domanda volta alla condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di “indennità di occupazione“, si osservi che al promittente venditore spetta l’equivalente pecuniario dell’uso e del godimento del bene nell’intervallo di tempo compreso tra la consegna e la pubblicazione della sentenza o il rilascio del bene. Tale equivalente, in cui si sostanzia la pretesa relativa all’occupazione sine titulo, consiste di solito nel valore locativo del bene nel periodo in questione.

In ordine alla quantificazione della somma dovuta va rilevato che nella fase istruttoria viene generalmente disposta CTU al fine di accertare il valore locativo (commerciale) del bene, anno per anno, a partire dalla consegna dello stesso. Secondo taluno la somma indicata dal CTU andrebbe ridotta di una certa percentuale in considerazione degli oneri di manutenzione che il promittente venditore avrebbe dovuto sostenere qualora avesse conservato la disponibilità del bene oggetto del preliminare. In questa prospettiva deve tenersi infatti in considerazione il valore locativo netto, in quanto senza la detta riduzione non si avrebbe un effetto restitutorio, ma una locupletazione ad opera del promittente venditore, che verrebbe ad ottenere più di quanto avrebbe effettivamente riscosso se avesse locato il bene.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, mette conto evidenziare che quando è pacifica la consegna dell’immobile del preliminare è il convenuto a dover provare di avere rilasciato lo stesso. In ogni caso, è al promissario acquirente che il bene era stato consegnato ed è questi che risponde del mancato percepimento dei frutti ad opera del promittente venditore.

Non può poi riconoscersi la rivalutazione monetaria, non trattandosi nel caso di specie di un debito risarcitorio, ma di un effetto restitutorio.

Vanno invece riconosciuti gli interessi legali che vanno calcolati a decorrere dalla costituzione in mora (se esistente in atti) o dalla domanda fino al saldo.

Exceptio doli generalis ed effetti restitutori

Si è detto che l’obbligo restitutorio sussiste non solo in ipotesi di inadempimento del promissario acquirente (caso nel quale il principio ha trovato comunque più frequente applicazione nelle soluzioni giurisprudenziali), ma in tutte le ipotesi di risoluzione del contratto preliminare (sempre che vi sia la relativa domanda giudiziale), essendo quest’obbligo rientrante tra gli effetti restitutori conseguenti alla retroattività della risoluzione o del recesso ex art. 1385 c.c. (cfr. la motivazione integrale di Cass. 550/02; 4465/97; 875/95).

Pertanto, anche nel caso di risoluzione o recesso conseguenti ad inadempimento del promittente venditore, vanno disposte non solo le restituzioni relative al bene immobile ed alle somme versate, ma anche (in caso di preliminare con consegna anticipata del bene) quella consistente nella condanna del promissario acquirente al pagamento di una somma di denaro pari al valore locativo (commerciale) del bene a partire dalla consegna dello stesso e fino al rilascio.

Tuttavia, se in caso di inadempimento del promissario acquirente è sempre conforme a buona fede e correttezza la domanda di restituzione dei frutti da parte del promittente venditore, in caso di inadempimento di quest’ultimo possono esservi dei casi in cui non pare equo provvedere ad un effetto restitutorio in favore del promittente venditore ulteriore rispetto alla consegna del bene.

Si pensi al caso in cui un preliminare del 2000 sia stato risolto nel 2008 per una vendita a Caio del bene già promesso in vendita a Tizio o perché il promissario acquirente scopre l’esistenza di un’ipoteca dichiarata come inesistente dal promittente venditore. In questi casi la domanda restitutoria del promittente venditore di condanna del promissario acquirente al pagamento di una somma di denaro (pari ad otto anni di canoni locativi) per occupazione senza titolo sembra formulata con dolo attuale, commesso cioè al momento in cui viene intentata l’azione nel processo, e costituisce forse l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti effettivamente attribuiti dall’ordinamento (in conseguenza della retroattività della risoluzione), soprattutto se si pensa che il promissario acquirente era munito di un titolo per la sua legittima detenzione dell’immobile e che questo titolo è venuto meno per un comportamento del promittente venditore. Inoltre, potrebbe pure verificarsi che il promissario acquirente non abbia versato caparra e non possa godere della condanna al pagamento della doppia caparra o che questa e gli eventuali acconti siano stati di importo parecchio inferiore rispetto al numero dei canoni da restituire al promittente venditore.

L’exceptio doli generalis servirebbe a paralizzare la domanda del promittente venditore di restituzione dei frutti civili quando tale promittente venditore abbia sottaciuto situazioni rilevanti nell’economia del rapporto contrattuale o abbia contravvenuto al divieto di “venire contra factum proprium“. Tale domanda del promittente venditore non pare infatti conforme a buona fede. Il dolo generale o presente dovrebbe ancora qualificarsi, genericamente, come un comportamento iniquo (si pensi, in diritto romano, al caso della exceptio doli generalis opponibile in sede di rei vindicatio formulata dall’attore proprietario che in maniera iniqua non aveva rimborsato le spese o al caso della replicatio doli idonea a neutralizzare l’exceptio iusti dominii che il dominus alienante – che aveva fatto, come venditore di res mancipi, solo traditio e non mancipatio o in iure cessio – poteva opporre all’actio Publiciana).

Con tale possibile applicazione dell’exceptio doli generalis si riuscirebbe a trovare uno spazio di manovra per “l’aequitas pretoria”, posto che sarebbe iniquo consentire la rigida applicazione del ius civile (nel caso di specie l’art. 1458 c.c. sulla retroattività dell’effetto risolutivo). In certi casi è necessario potersi avvalere di un rimedio corrigendi iuris civilis gratia come l’exceptio doli generalis appunto.

Né forse dovrebbe richiedersi necessariamente un comportamento volontario e fraudolento del promittente venditore.

Non pare, però, del tutto condivisibile l’impostazione giurisprudenziale che qualifica l’exceptio doli generalis come eccezione in senso proprio che va opposta dalla parte interessata entro i termini per la proposizione delle eccezioni in senso proprio (tra le altre v. Trib. Monza, sez. II, 8 gennaio 2007 e Trib. Potenza, 9 marzo 1999). Probabilmente sarebbe preferibile ritenere sufficiente che il convenuto faccia riferimento all’iniquità del comportamento. Basterebbe richiedere questo semplice onere di allegazione. L’exceptio doli nasce come parte della formula (“si in ea re nihil dolo malo Auli Agerii factum est neque fiat“) inserita dal pretore semplicemente sulla base delle circostanze esposte in iure dal convenuto.

Peraltro, ciò si pone in linea con le attuali tendenze normative e giurisprudenziali, sempre maggiormente tendenti a valorizzare la tutela della buona fede e del contraente debole. Si eviterebbe poi al giudice di dovere adottare soluzioni inique e sofferte.

Per far sì che il diritto possa tendere ad essere, in un’ottica celsina, ars boni et aequi, sarebbe bene valorizzare maggiormente lo strumento duttile ed efficace dell’exceptio doli.

L’arte del trovare soluzioni buone ed eque è stata esercitata correttamente dalle sezioni unite della Cassazione del gennaio 2009 (e già prima da quei giudici di merito che ne avevano anticipato le soluzioni) quando è stato affermato che la domanda di risoluzione va qualificata come recesso se formulata insieme alla domanda di ritenzione della caparra (o di condanna alla doppia caparra), posto che la soluzione alternativa era quella di rigettare la domanda relativa alla caparra in quanto incompatibile con la domanda di risoluzione, con il rischio che, formatosi il giudicato sulla domanda risarcitoria, non si potesse più avanzare una domanda risarcitoria.

Altra soluzione equa è quella, sempre adottata dalle sezioni unite della Cassazione, di ritenere non rinunciabile l’effetto risolutivo già prodottosi a seguito di diffida ad adempiere. In questo caso l’equità discende dal fatto che non può consentirsi di lasciare il diffidato-inadempiente in una situazione di incertezza sine die sul mantenimento o meno degli effetti negoziali, situazione peraltro legata alla scelta arbitraria del diffidante, quasi che l’inadempimento del diffidato dovesse esporre quest’ultimo ad una sanzione di rilievo e del tutto peculiare alla risoluzione di diritto, in quanto assolutamente sganciata dalla previsione dell’art. 1453, comma 2, c.c. sulla risoluzione giudiziale.

Infine, pure equa è la soluzione di non consentire di sostituire le domande di risoluzione-risarcimento con quelle di recesso-ritenzione caparra, considerati gli evidenti abusi processuali che possono altrimenti prodursi in tutti quei casi in cui, dopo l’esito negativo delle prove sulla quantificazione dei danni subiti, si preferisca optare (alla fine del giudizio di primo grado o in appello) per la liquidazione forfettaria del danno (caparra o doppia caparra) invece che per il danno integrale che all’inizio del giudizio si sperava di potere ottenere in una misura maggiore rispetto a quello forfettario.

Sembra potersi quindi affermare che, allo stato attuale della giurisprudenza della Cassazione sul regime di responsabilità connesso ai preliminari di compravendita, l’aequitas pretoria abbia raggiunto risultati soddisfacenti.

Ulteriori risultati possono essere conseguiti con una maggiore valorizzazione dello strumento dell’exceptio doli generalis.

Questa maggiore valorizzazione potrà avvenire ad opera della giurisprudenza solo se i giudici continueranno, come hanno fatto le sezioni unite della Cassazione nel gennaio 2009 nella citata sentenza sul preliminare di compravendita immobiliare e nel novembre 2008 nelle sentenze sul danno non patrimoniale, ad analizzare, dare conto e fare pure proprie le riflessioni della migliore giuscivilistica italiana, in un fecondo e sempre più intenso rapporto di sinergia di pensiero tra giurisprudenza e studiosi del diritto destinato sempre più spesso a tradursi in “diritto vivente”.

Giudice presso il Tribunale di Palermo. Componente del Consiglio giudiziario di Palermo. Magistrato collaboratore del Presidente del Tribunale di Palermo. Dottore di ricerca in discipline romanistiche. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, tra le quali anche: 1) un fascicolo monografico pubblicato nel 2011 per la Giuffrè editore, collana Officina del diritto, dal titolo: "Mediazione obbligatoria. Casi e questioni"; 2) una monografia, pubblicata per la IPSOA editore (collana Le monografie de “Il Corriere giuridico” diretta da Vincenzo Carbone, serie di diritto privato a cura di Guido Alpa), dal titolo “Il contratto preliminare nella giurisprudenza” (ottobre 2011); 3) una monografia, pubblicata nel mese di marzo 2014 e redatta insieme a Federico Russo, su “Le notificazioni nel processo civile” (La Tribuna editore). Autore di decine di provvedimenti giudiziari pubblicati su riviste giuridiche e relatore in molti convegni di natura giuridica organizzati dal CSM, dalla Scuola Superiore della Magistratura, da Università o da Consigli degli ordini professionali. Docente presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali “Gioacchino Scaduto” dell’Università degli Studi di Palermo Già referente distrettuale del C.S.M. per la formazione decentrata dei giudici togati (settore civile) del distretto di Palermo e già componente della commissione “Diritto e processo civile” dell’Associazione Nazionale Magistrati. Esperto formatore della Scuola Superiore della Magistratura.

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