Alessandro Panzera, Preliminare di vendita di cosa altrui e promessa del fatto del terzo, in Notariato, 2002, 6, 563
Preliminare di vendita di cosa altrui e promessa del fatto del terzo
Sommario: La vendita di cosa altrui: struttura e compatibilità con la forma preliminare – Vendita di cosa altrui e promessa del fatto del terzo – La spettanza al promittente compratore «di mala fede» del diritto alla risoluzione ed all’eventuale risarcimento – L’onere a carico del promittente venditore: prova dell’impossibilità della prestazione dovuta a causa a lui non imputabile – Cenni su profili redazionali, risarcimento del danno e limiti ex art. 1229 c.c.
La fattispecie approdata al vaglio di questa Cassazione vede due soggetti stipulare un preliminare di vendita di cosa parzialmente altrui avente per oggetto un immobile, nel cui possesso viene subito immesso il promissario acquirente, impegnandosi ad addivenire al contratto definitivo entro circa due anni.
Con apposita clausola il promittente venditore si obbliga ad acquistare per quella decorrenza le quote di cui non è proprietario, pena la risoluzione del contratto, la restituzione della somma anticipatagli comprensiva di interessi legali e rivalutazione monetaria qualora il mancato acquisto dipenda da cause a lui non imputabili.
Alla scadenza del termine pattuito quest’ultimo, non essendo riuscito a conseguire quanto promesso, chiede la risoluzione del contratto in forza della predetta pattuizione, offrendo la restituzione di quanto percepito e la corresponsione di quanto dovuto minus la somma rappresentata dall’uso abitativo del biennio e l’eventuale risarcimento in caso di occupazione protratta dell’immobile. [thrive_lead_lock id=’4487′]
Giusta l’opposizione del promissario acquirente, sia il primo che il secondo grado pronunciano la risoluzione del contratto e condannano la parte attorea alla restituzione della somma ricevuta con interessi e rivalutazione monetaria come pure al risarcimento del danno, rilevando l’inadempimento dovuto a sua colpa.
La Suprema Corte conferma in toto le risultanze del merito e rigetta tutti i motivi di gravame proposti dal ricorrente attore.
La vendita di cosa altrui: struttura e compatibilità con la forma preliminare
Con una semplice parafrasi dell’art. 1478 c.c., possiamo definire la vendita di cosa altrui come il contratto mediante il quale una parte si obbliga verso l’altra a procurarle, dietro corrispettivo, l’acquisto di un bene di cui un terzo è proprietario; esempio scolastico di vendita obbligatoria, tale negozio comporta per l’acquirente un effetto traslativo differito, posticipato al momento in cui il venditore consegue la proprietà dall’originario titolare (1).
La disciplina del codice considera due ipotesi di vendita di cosa altrui, in relazione al fatto che l’acquirente sia conscio o meno dell’altruità del bene; nella prima fattispecie, che la dottrina addita come fisiologica, abbiamo una vendita obbligatoria «bilateralmente palese» potendo risultare la detta altruità espressamente dal contratto o essere comunque nota alla parte acquirente.
Nel secondo caso, con la previsione ex art. 1479 c.c., il legislatore costruisce una tutela specifica, attribuendo al compratore che scopra solo in seguito di aver stipulato a non domino la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto, sempre che il venditore non abbia già adempiuto; esperita l’azione, proseguono il 2° ed il 3° comma, il venditore è tenuto a restituire il prezzo percepito, rimborsare le spese ed i pagamenti connaturati al contratto, nonché le spese necessarie ed utili per la cosa ed infine a risarcire l’eventuale danno.
Fatta questa premessa strutturale, dobbiamo evidenziare come sull’ammissibilità di realizzare questo schema di vendita in forma preliminare si sia positivamente pronunciata tanto la giurisprudenza (2) quanto la dottrina più autorevole (3) sostenendo l’applicazione analogica degli artt. 1478 ss. in quanto compatibili (4).
Salva contraria (ed espressa) volontà delle parti, si ritiene prevalentemente (5) che con siffatto negozio i contraenti si impegnino a stipulare un contratto definitivo di vendita di cosa non più altrui e con effetti reali immediati, in quanto una diversa interpretazione porterebbe pochi miglioramenti alla progressione della trattativa: la descritta presunzione di volontà negoziale si rafforza ancor più laddove, come nel caso di specie, si concordino (e realizzino) effetti anticipati quale l’immissione nel possesso (6).
Da ultimo, giova fare un breve richiamo alla vendita di cosa parzialmente altrui, disciplinata dall’art. 1480 c.c., sulla cui sussistenza nel caso in esame la Cassazione sembra glissare con una certa tranquillità. Qualora la vendita riguardi un bene solo in parte del venditore ed il compratore ignori lo stato di comproprietà (7), si dovrà valutare se questi avrebbe o meno acquistato la sola porzione di bene su cui il dante causa vantava una disponibilità: in caso di risposta affermativa egli può ottenere una congrua riduzione del prezzo laddove in caso contrario può agire in risoluzione (8), fatto comunque salvo in entrambe le ipotesi il diritto al risarcimento del danno.
Vendita di cosa altrui e promessa del fatto del terzo
La massima in commento, costituisce una fedele riproposizione di principi dettati dalle Sezioni Unite (9) più di un ventennio fa, con la precisazione che gli stessi si applicano anche al preliminare di vendita di cosa altrui (10).
Si coglie innanzitutto l’inciso attinente la palese differenza tra fattispecie ex art. 1478 c.c. e promessa del fatto del terzo di cui all’art. 1381 c.c. (11), per cui solo nella seconda ipotesi si è ritenuto lecito argomentare in termini di responsabilità senza colpa (o oggettiva) in caso di rifiuto, dal quale deriva un espresso obbligo di indennizzo: l’obbligato ex art. 1381 si impegna affinché il terzo realizzi direttamente l’oggetto della promessa, mentre il venditore di cosa altrui «assume in proprio l’obbligazione del trasferimento del bene».
Nell’ambito della vendita ex art. 1478 la manualistica tradizionale opera quasi sempre un’analisi comparatistica delle due figure per evidenziarne le differenze strutturali e rendere noto il diverso regime di responsabilità contrattuale che attiene all’una ed all’altra; oltre agli elementi appena descritti, la dottrina rileva che il contratto con cui si promette il fatto del terzo ingenera solo effetti obbligatori (12) ed espone il promittente all’obbligo di indennizzo in quanto si ravvisa la sussistenza di un’autonoma prestazione di garanzia (13).
Chi scrive ha, tuttavia, la netta impressione che tale puntualizzazione sia stata immessa ad abundantiam , essendo incidentalmente inserita nel processo ermeneutico svolto sulla clausola «incriminata» del contratto che ha originato la lite.
Infatti il primo punto di contestazione riguardava la qualificazione dell’impegno assunto dal promittente venditore, obbligazione che doveva presumibilmente articolarsi in tal modo: «la parte promittente la vendita si impegna ad acquistare le quote di proprietà dell’immobile non facenti al lui capo, pari a …, entro e non oltre il 31 dicembre 1991; in caso contrario, qualora il mancato acquisto sia dovuto a cause a questa non imputabili, il contratto sarà da considerarsi risolto ed essa restituirà la somma anticipatale comprensiva di interessi legali e rivalutazione monetaria».
Secondo il ricorrente si doveva ritenere che la clausola integrasse una «condizione impropria o condicio iuris risolutiva» «al cui mancato avveramento conseguiva la risoluzione del contratto e la ricostituzione delle parti nella loro posizione originaria» e non un’obbligazione ai sensi degli artt. 1476, n. 2 e 1478 c.c.
La Suprema Corte non manifesta dubbi sulla correttezza dell’indagine svolta dal merito, individuando a sua volta la sussistenza di una promessa di vendita di cosa (parzialmente) altrui la quale ingenera nel promittente l’obbligazione di far acquistare al promissario la proprietà del bene mediante la stipula di un futuro definitivo.
Lungi dall’inficiare la centralità dell’obbligazione di acquistare la porzione altrui, la predetta clausola costituiva la mera riproduzione contrattuale di un obbligo comunque gravante ex lege sul promittente venditore, il cui inadempimento comporta le conseguenze previste in generale per i contratti a prestazioni corrispettive.
La spettanza al promittente compratore «di mala fede» del diritto alla risoluzione ed all’eventuale risarcimento
Come sopra anticipato, il principio applicato dalla Suprema Corte al caso di specie risale ad un orientamento consolidatosi nei primi anni ’80, secondo il quale l’acquirente di cosa altrui che sia «in mala fede» (ovvero sia conscio dell’altruità del bene) condivide le tutele espressamente previste dall’art. 1479 c.c. per il proprio omologo di buona fede, in forza dei principi generali sanciti dagli artt. 1218, 1223 e 1453 c.c. (14); in altre parole, la giurisprudenza di legittimità conferma il criterio interpretativo per cui dall’art. 1479 c.c. non può desumersi a contrario che il legislatore, in deroga ai principi generali, abbia voluto privare l’acquirente di mala fede dei rimedi contrattuali connaturati ai negozi sinallagmatici.
La maggiore tutela garantita da tale norma per colui che acquista a non domino non attiene all’ an della risoluzione o del risarcimento del danno ma solo relativamente al tempus quando degli stessi, di modo che l’acquirente di cosa altrui consegue il potere di agire in risoluzione nel momento stesso in cui scopre l’altruità del bene.
L’onere a carico del promittente venditore: prova dell’impossibilità della prestazione dovuta a causa a lui non imputabile
In merito alle basi soggettive su cui fondare la risoluzione per inadempimento di una siffatta obbligazione ed il correlativo risarcimento del danno, diverse sono state le posizioni sostenute dagli operatori, sia in dottrina che in giurisprudenza.
Partendo dall’orientamento più rigoroso, una Cassazione ormai risalente (15) ha sancito la nascita del diritto alla risoluzione per inadempimento ed al risarcimento del danno sul mero presupposto oggettivo del rifiuto del terzo «prescindendo da qualsiasi profilo di colpa dell’alienante» in forza del disposto di cui all’art. 1381 c.c. (16).
La posizione della citata giurisprudenza è stata recisamente contestata da successive pronunce (17), sempre della Suprema Corte, con le quali si è consacrato il requisito della colpa, ancorché presunta, per legittimare il contraente che ha adempiuto ad esperire le azioni de qua; in altre parole, l’unica via percorribile dal venditore inadempiente è quella di provare l’impossibilità sopravvenuta per causa a lui non imputabile.
Una terza posizione, sottolineando innanzitutto come la questione attinente la colpa assuma concreto rilievo solo per gli aspetti risarcitori, ha sostenuto l’eccessivo rigore del concetto di imputabilità delineato dalla Cassazione, poiché dal panorama normativo degli artt. 1176 e 1218 c.c. deriverebbe un’ulteriore strada «liberatoria» per il venditore, ovvero la prova della diligenza posta nel tentativo di far acquistare il bene al compratore (18).
Invero, per quanto riguarda l’azione di risoluzione, di fronte a quella dottrina (19) che richiede la sussistenza del requisito della colpa per esperire l’azione ex art. 1453 c.c., ci sentiamo di preferire la tesi di chi (20) evidenzia la funzione di protezione del patrimonio del creditore sottesa al rimedio in esame, escludendone la natura (puramente) sanzionatoria; a nostro avviso, non si può infatti permettere un ingiustificato impoverimento della parte adempiente sulla base di un comportamento incolpevole del debitore, dovendosi fissare l’attenzione sul concetto di inadempimento elaborato dalla migliore dottrina (21): esso viene integrato dalla mancata o inesatta esecuzione della prestazione, costituendo quindi un fatto oggettivo.
Ma allora, riportando l’attenzione sul profilo del risarcimento dei danni, il venditore (o promittente venditore) di cosa altrui che risulti inadempiente soggiace ad una presunzione relativa di colpa?
Le più volte citate Sezioni unite del 1982 (22) hanno fornito risposta positiva in applicazione dell’art. 1218 c.c., in base al quale l’onere della prova ricade sul debitore, il quale deve provare l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile: una volta accertato che l’impegno traslativo non è stato rispettato entro il termine stabilito, sembra pertanto lecito desumere la colpa del venditore. Non concordiamo infatti con l’opinione precedentemente descritta (23) che ritiene doveroso permettere al venditore che dimostri la propria diligenza di sottrarsi all’obbligo risarcitorio, poiché ci sembra alquanto pericoloso ancorare la dialettica processuale ad un dato così nebuloso.
La sentenza che si esamina non mostra di preoccuparsi degli aspetti relativi alla presunzione (o meno) di colpa, ma sembra potersi desumere da tale disinteresse che la Suprema Corte ragioni in maniera univoca: fissata la natura dell’obbligazione ed accertato l’inadempimento rimane spazio solo per la prova dell’impossibilità non imputabile. Alle allegazioni relative agli sforzi compiuti dal geometra del promittente venditore per rintracciare i terzi comproprietari la Cassazione attribuisce valore solo nella misura in cui si possa escludere l’imputabilità che (aggiungiamo noi) si presume sussistere; a ben vedere, nessuna valutazione circa la messa in atto di un comportamento diligente è stata compiuta dai magistrati di legittimità, i quali hanno ragionato solo in termini di possibilità o impossibilità.
Appare allora che le corti di merito e la Cassazione, nel pronunciare e poi confermare la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno a carico del promittente venditore, abbiano applicato l’equazione per cui se la prestazione non può ritenersi impossibile ne consegue la colpa del debitore, a nulla rilevando la diligenza; per la Suprema Corte infatti, «a parte la considerazione che la dedotta difficoltà di adempiere era ben prevedibile al momento del preliminare […] non vi era una concreta impossibilità di adempimento, essendo comunque possibile, anche se un po’ disagevole, rintracciare i vari comproprietari dell’immobile».
Cenni su profili redazionali, risarcimento del danno e limiti ex art. 1229 c.c.
Da ultimo, pare opportuno interrogarsi su quale clausola contrattuale avrebbe permesso una più agevole composizione degli interessi delle parti.
Ad avviso di chi scrive, si sarebbe potuto sottoporre il preliminare de qua alla condizione risolutiva del mancato acquisto della porzione di immobile altrui, entro il termine stabilito per la stipulazione del definitivo.
A ben vedere, prima di approfondire il come relativo agli effetti ed alla operatività di una simile pattuizione, bisogna necessariamente confrontarsi con il se in merito alla configurabilità della stessa.
Se, infatti, si realizza un meccanismo contrattuale in forza del quale il promittente venditore si impegna a trasferire l’intera proprietà di un immobile a patto di divenirne proprietario esclusivo, possiamo ritenere di essere di fronte ad una condizione di adempimento: l’acquisto della porzione mancante appare al tempo stesso obbligazione ed evento poiché, in forza della descritta disciplina, il venditore di cosa altrui (o parzialmente altrui) si obbliga «a procurarne l’acquisto al compratore» (24).
La facoltà di dedurre in condizione una prestazione o un obbligo contrattuale è stata, ed è, oggetto di ampio dibattito in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza dividendo gli operatori fra coloro che escludono la possibilità di mascherare un inadempimento con un mancato avveramento (25) e coloro che negano questa supposta incompatibilità fra evento e prestazione.
Attualmente la tesi affermativa trova rispondenza in buona parte della dottrina (26) e nella giurisprudenza quasi univoca (27) e ciò costituisce una base argomentativa alquanto rassicurante per il redattore che voglia inserire una simile clausola in un regolamento contrattuale.
L’autonomia privata può così rafforzare la tutela prevista dal legislatore agli artt. 1453 ss. godendo di un effetto retroattivo erga omnes e non meramente inter partes, forte del regime pubblicitario proprio della condizione; si nota inoltre come risulti più agevole rendere operativa una risoluzione condizionale che esperire un’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c. Infine, al pari di una clausola risolutiva espressa, si prescinde dalla constatazione in merito all’importanza dell’inadempimento (la quale è data per presupposta) e si conferisce ad entrambe le parti il potere di risolvere il contratto, laddove la fattispecie di cui all’art. 1456 c.c. attribuisce alla sola parte adempiente la facoltà di effettuare la dichiarazione risolutiva (28).
Ulteriore questione risiede nella qualificazione dell’evento «acquisto della porzione altrui» come condizione casuale, potestativa o mista, secondo le tradizionali categorie elaborate dalla dottrina.
La giurisprudenza inquadra la condizione di adempimento (o di inadempimento) come condizione potestativa (29) ancorando tale valutazione sull’elemento volitivo coincidente con l’esecuzione della prestazione.
Vi è tuttavia un elemento in più nel caso di specie, consistente nella volontà altrui di trasferire o meno la quota di immobile al promittente la vendita facendo così «slittare» la clausola nell’ambito delle condizioni miste, portanti un elemento potestativo ed un elemento casuale.
In conclusione, rimane da valutare l’aspetto relativo alla tutela risarcitoria ed alla sua sopravvivenza di fronte al verificarsi di una condizione risolutiva od al mancato avveramento di una condizione sospensiva: in sostanza, ci si domanda, l’effetto retroattivo di cui all’art. 1360 c.c. esclude la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni eventualmente sopportati in forza di un contratto mai divenuto efficace o reso inefficace ab origine ?
Ad oggi la dottrina non sembra aver raggiunto una posizione consolidata in un senso o nell’altro ma la tesi che sostiene la risarcibilità del danno derivante dalla risoluzione condizionale appare perlomeno la più prudente, in un’ottica rivolta a considerare come eccezionali le ipotesi di mancato risarcimento (30).
Qualora si voglia quindi escludere (o limitare) la responsabilità per il risarcimento dei danni, si dovrà inserire una clausola di esonero da responsabilità per colpa lieve, articolata in maniera tale da non incorrere nella sanzione di nullità comminata dall’art. 1229 c.c.
A tal fine, risulterà opportuno strutturarla a guisa di clausola interpretativa, effettuando un’elencazione specifica di vari casi che le parti considerano integrare colpa lieve, eventualmente precisando che tali previsioni sono da stimarsi esemplificative e non tassative (31).
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(1) In verità, il 2° comma dell’art. 1478 c.c. si preoccupa solo di esplicitare l’automatismo con cui all’acquisto del venditore consegue la proprietà del compratore, lungi dal ritenere essenziale per l’adempimento che il bene (o il diritto) transiti previamente nel patrimonio del primo. Dottrina (cfr. Rubino, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1971, 345 ss.; Bianca, La vendita e la permuta, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, II Ed., 2 Torino, 1993, 656) e giurisprudenza (Cass. 14 febbraio 1980, n. 1116, in Vita not., 1980, 553; Cass. 18 febbraio 1986, n. 960, in Giust. civ. mass., 1986, fasc. 2; Cass. 5 luglio 1990, n. 7054, in Giust. civ. mass., 1990, fasc. 7) concordano nell’ammettere un adempimento che sia frutto dell’attività indiretta del venditore, il quale induca il terzo a trasferire la proprietà al compratore, con la precisazione che, appunto, «ai fini della valutazione dell’avvenuto adempimento dell’obbligo, è pur sempre necessario che la vendita diretta abbia avuto luogo in conseguenza di un’attività svolta dallo stesso venditore nell’ambito dei suoi rapporti con il proprietario» (così la recente Cass. del 2 febbraio 1998, n. 984, in Giust. civ., 1998, 3193); in tal caso, il negozio posto in essere dal terzo comporta l’effetto traslativo e non altera il rapporto tra gli originari contraenti, di modo che sul venditore «ricadono tutte le obbligazioni connesse a tale sua qualità, come quelle della consegna della cosa, della garanzia per l’evizione e della garanzia per i vizi» (così Cass. 6 luglio 1984, n. 3963, in Giur. it., 1985, I, 1, 1592).
(2) Cfr. Trib. Lanciano 29 luglio 1979, in Giur. it., 1980, I, 2, 484, per cui «è astrattamente configurabile la figura del contratto preliminare […] avente come oggetto la futura stipulazione di un contratto di vendita di cosa altrui» e Trib. Siracusa 17 febbraio 1995, in Gius, 1995, 3873, secondo il quale a detto preliminare «si applicano analogicamente le norme sulla vendita di cosa altrui».
(3) Bianca, cit., 726.
(4) Nel preliminare di vendita di cosa altrui si ravvisa una evidente discrepanza applicativa riguardo all’art. 1479 c.c., in quanto sorgono dubbi «sull’esperibilità dell’azione di risoluzione, da parte del promissario acquirente che ignori l’alienità del bene […], anche prima che sia scaduto il termine previsto per la stipulazione del definitivo» ( Pesiri, Il contratto preliminare di vendita di cosa altrui , in questa Rivista, 1999, 477.
(5) Di Majo, La trascrizione del contratto preliminare e regole di conflitto, in Corriere giur., 1997, 514; Pesiri, cit.
(6) Per una diffusa trattazione v. Pesiri, cit.
(7) Si parla di cosa parzialmente altrui «quando il diritto del venditore è limitato ad una porzione materiale del bene e non all’intero o viceversa, quando egli venda l’intero pur avendo un diritto pro-quota» (Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 1066). Invero, sebbene la predetta definizione risulti assolutamente corretta e meriti plauso per la sua sintetica valenza dogmatica, ci sentiamo di azzardare qualche incertezza sulla possibilità (ed opportunità) di applicare rigorosamente siffatto criterio di individuazione; pensando al caso in oggetto, che configura poi una classica ipotesi ex 1480 c.c., del comproprietario di un immobile che venda l’intero, viene quasi spontaneo ritenere come in presenza di grande disparità di quote in un senso o nell’altro (ad esempio il venditore detiene i 98/100 del bene ed il terzo i 2/100 o viceversa) si sia in realtà di fronte ad una vendita di cosa totalmente propria o altrui: in altre parole, consideriamo come una grossa sperequazione di quote importi formalmente la parziale altruità ma determini una sostanziale proprietà esclusiva (si pensi alla probabile facilità con cui l’acquirente di un immobile in ragione di 98/100 conseguirà l’attribuzione in natura in sede di divisione).
(8) Così per il giudice di legittimità, «nell’ipotesi in cui una porzione dell’immobile unitariamente venduto risulti in comproprietà del venditore e di terzi, l’acquirente in buona fede può chiedere la risoluzione del contratto soltanto qualora provi l’essenzialità, nella concreta economia dell’affare, della parte del bene da lui non acquistata» (Cass. 28 novembre 1981, n. 6355, in Foro it., 1982, I, 703).
(9) Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, in Giust. Civ., 1982, 1512.
(10) In tal senso, cfr. anche Cass. 12 maggio 1980, n. 3134, in Giust. civ., 1980, I, 2726.
(11) Vedi, ad esempio, Cass. 22 aprile 1981, n. 2363, in Giust. civ. Mass., 1981, 896.
(12) L’origine degli eventuali e differiti effetti reali sarà da imputarsi esclusivamente al negozio posto in essere dal terzo.
(13) Briganti, Fideiussione e promessa del fatto altrui, Napoli, 1981, 110; Capozzi, Dei singoli contratti, Milano, 1988, 118.
(14) V. Cass. 28 giugno 1980, n. 4106, in Giust. Civ., 1980, 2450 e Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, in cit., entrambe con nota di Costanza.
(15) Cass. 24 novembre 1976, n. 4449, in Giust. civ. Mass., 1976, 1840.
(16) Su questa tesi cfr. in dottrina Rubino, cit., 358, il quale sottolinea l’indispensabilità del fatto del terzo e quindi la sua implicita previsione in una vendita di cosa non propria, addossando così al venditore il «pieno risarcimento del danno anche quando non sia in colpa nel non aver ottenuto l’alienazione dal terzo titolare».
(17) Cass. 28 giugno 1980, n. 4106, cit. e Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, cit., nella cui motivazione si legge come «la possibilità di una risoluzione contrattuale senza colpa del contraente inadempiente comporterebbe una forma di responsabilità obiettiva che, per la sua natura eccezionale, non può essere configurata in assenza di uno specifico riferimento normativo».
(18) Costanza, in Nota a Cass. 28 giugno 1980, n. 4106, cit. ed in Nota a Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, cit.
(19) Auletta, Risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 412.
(20) Sacco, Il contratto, Torino, 1975, 948.
(21) Galgano, Diritto civile e commerciale, Vol. II, Tomo I, Padova, 1997, 53.
(22) Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, cit.
(23) Costanza, in Nota a Cass. 28 giugno 1980, n. 4106, cit. ed in Nota a Cass. 15 marzo 1982, n. 1676, cit.
(24) L’interpretazione proposta appare a prima vista la più lineare, ma dobbiamo avvertire come presenti una certa opinabilità qualora si analizzi la fattispecie da un altro punto di vista. L’evento così dedotto in condizione potrebbe al contrario considerarsi una normale condizione risolutiva mista in quanto l’obbligazione gravante sul venditore di cosa altrui consiste, appunto, nel procurare l’acquisto al compratore e non già nell’acquistare in proprio, configurando tale atto solo una modalità di adempimento; sappiamo infatti come la condizione di adempimento si concreti ogni volta che l’evento dedotto coincida con il contenuto della prestazione, di un obbligo o di una modalità di adempimento che sia espressamente pattuita, mentre l’acquisto diretto del venditore comportante l’effetto di cui al 2° comma dell’art. 1478 c.c. rimane di regola una scelta, ben potendo la proprietà essere procurata aliunde.
(25) In dottrina cfr. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966; Fusco, L’adempimento come condizione del contratto, in Vita not. 1981, I, 304. In giurisprudenza vedi le pronunce più risalenti di Cass. 10 luglio 1954, n. 2446, in Foro it., 1954, I, 1481; Cass. 21 dicembre 1962, n. 3398, in Foro pad., 1963, I, 271; Cass. 3 gennaio 1970, n. 8, in Giust. civ., 1970, I, 1666; vedi inoltre, isolata, Cass. 24 giugno 1993, n. 7007, in Giur. it., 1995, I, 1, 329.
(26) Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941; Rescigno, in Enc. del dir., VIII, voce «Condizione»; Lenzi, In tema di adempimento come condizione, in Riv. not., 1986, 94; Galgano, Il negozio giuridico, Milano, 1988; Patti, La condizione di adempimento, in Vita not., 2000, II, 1163.
(27) Cass. 10 ottobre 1975, n. 3229, in Riv. leg. fisc., 1976, 258; Cass. 24 febbraio 1983, n. 1432, in Giust. civ. Mass., 1983, fasc. 2; Cass. 8 agosto 1990, n. 8051, in Giust. civ. Mass., 1990, fasc. 8; Cass. 12 ottobre 1993, n. 10074, in Giust. civ. Mass., 1993, 1461; Cass. 3 marzo 1997, n. 1842, in Studium Juris, 1997, 837.
(28) Qualora si voglia concedere ad una sola delle parti questo potere, dovrà specificarsi che la condizione è posta nell’interesse esclusivo di una di esse, realizzando una condizione unilaterale.
(29) La giurisprudenza che ammette la condizione di adempimento ritiene pacificamente che essa non sia meramente potestativa in quanto l’esecuzione della prestazione comporta sempre una valutazione concreta degli interessi e pertanto non arbitraria. Cfr. in tal senso Cass. 10 ottobre 1975, n. 3229, cit. e, diffusamente, Patti, cit., 1173.
(30) Tra coloro che, in dottrina, escludono la responsabilità risarcitoria in forza dell’effetto retroattivo cfr. Di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, 431 e Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 94 ss. In senso contrario si segnala Patti, cit., 1168.
(31) Si dovrà naturalmente fare molta attenzione nel non prevedere casi specifici in cui la gravità della colpa è, per sentire comune, palese. [/thrive_lead_lock]