L’onere di appello incidentale nel processo civile

Alberto Tedoldi, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. It., 2001, 6

L’onere di appello incidentale nel processo civile

Sommario: 1. Appello incidentale e «riproposizione mera»: cenni storici sull’art. 346 c. p. c. – 2. L’equivoca esegesi dell’art. 346 e il concetto di «assorbimento» lato sensu. – 3. Le possibili ragioni per l’adozione della teoria dell’assorbimento in senso lato: l'(insufficiente) argomento logico-letterale. – 4. (Segue). L’argomento storico e la voluntas conditorum. – 5. (Segue). La prospettiva dell’interesse a impugnare: la soccombenza materiale e l’elemento soggettivo dell’interesse ad appellare per incidens. – 6. La forma e il termine per la riproposizione mera. – 7. Rilevanza della nozione di capo o parte di sentenza per la soluzione del problema? – 8. Il rapporto tra acquiescenza parziale ex art. 329, cpv., e riproposizione mera. – 9. L’effetto devolutivo e il cosiddetto divieto di reformatio in peius. – 10. Formulazione di un criterio orientativo ed esame di alcune fattispecie. – 11. (Segue). Il cumulo di domande. – 12. (Segue). Casi di litisconsorzio alternativo. Specificazione e riformulazione del criterio. – 13. (Segue). La chiamata in garanzia. – 14. (Segue). L’omissione di pronuncia. – 15. (Segue). Le domande a petitum divisibile. – 16. (Segue). La riproposizione delle eccezioni. – 17. Appello incidentale da sentenza non definitiva. – 18. L’appello incidentale condizionato. – 19. Breve conclusione sulla casistica esaminata.

1. Appello incidentale e «riproposizione mera»: cenni storici sull’art. 346 c. p. c.

1. Chiedersi quando vi sia per l’appellato l’onere di interporre appello incidentale affinchè il giudice del gravame riesamini le decisioni a lui sfavorevoli, significa interrogarsi sul rapporto esistente tra questo istituto e la previsione normativa dell’art. 346 c.p.c., ov’è disciplinata la cosiddetta riproposizione mera delle domande e delle eccezioni non accolte. L’esatta individuazione del significato di essa ha dato luogo a notevoli incertezze(1): converrà, quindi, ripercorrerne un poco la storia recente al fine di coglierne la portata, secondo quella che era l’intenzione del conditor del 1940.

Una norma simile non esisteva nel codice di rito del 1865, nel cui vigore si sosteneva la pienezza della devoluzione a favore dell’appellato: in seconde cure si rinnovava la cognitio causae, per effetto automatico del solo appello principale, «su tutti gli elementi della controversia che avevano relazione con la soccombenza dell’appellante, cioè su tutti quelli che avevano servito di base a questa parte della pronuncia impugnata ed altresì su tutti gli altri che appartenevano in prima istanza al rapporto processuale e che avrebbero potuto servire del pari a determinare la di lui soccombenza nella stessa misura ovvero in più ristrette proporzioni»(2).

Questa soluzione si poneva in linea di continuità storica con quelli che erano stati gli sviluppi della Lex Ampliorem giustinianea presso i giuristi dell’età intermedia(3): in origine la devoluzione della lite consentiva al giudice superiore di conoscere anche dei capi di sentenza diversi da quelli impugnati dall’appellante e gli conferiva addirittura il potere di riformare la sentenza a favore dell’appellato contumace; successivamente si affermò il principio in base al quale, se l’atto di appello investiva uno solo o alcuni fra più capi di una sentenza, gli altri restavano fuori dalla cognizione del secondo giudice, salvo che non fossero connessi(4). L’effetto devolutivo aveva modo di spiegarsi nella sua pienezza nell’ambito del capo o dei capi di sentenza dai quali era derivata la soccombenza dell’appellante e che erano stati da lui espressamente impugnati, nonché in relazione ai capi connessi o che comunque costituivano il necessario presupposto logico della soccombenza sofferta. Riemergeva automaticamente il materiale cognitorio che poteva conservare intatta per l’appellato la vittoria conseguita in prime cure o che serviva a circoscrivere la riforma invocata dall’appellante principale. Soltanto per gli elementi idonei a determinare una diversa soccombenza dell’appellante (diversa in qualità o quantità e comunque maggiore di quella sopportata in primo grado) la devoluzione automatica non operava e aveva bisogno di essere integrata mediante un’iniziativa impugnatoria dell’appellato, con cui egli insorgeva contro il dictum giudiciale per rimuovere la parziale soccombenza e per l’interesse che questa gli forniva(5).

L’onere di appello incidentale a carico dell’appellato si correlava così al divieto di reformatio in peius, cioè al divieto di riformare, senza un’apposita richiesta, la sentenza in danno della parte che impugna: la soccombenza reciproca dava sostanza e costituiva il presupposto indefettibile dell’onere di gravarsi in via incidentale(6). Là dove mancasse soccombenza reciproca, si negava che occorresse appello incidentale: così, esso non serviva per investire il giudice ad quem della cognizione di quei capi di sentenza che, essendo subordinati o alternativi rispetto al capo impugnato, non avrebbero potuto condurre ad un miglioramento della posizione giuridica dell’appellato e ad un correlativo peggioramento della soccombenza dell’appellante(7). Si evidenziava a fortiori la pienezza della devoluzione delle questioni e delle eccezioni non accolte nell’ambito del capo impugnato in via principale e si escludeva che per esse vi fosse necessità di appello incidentale(8).

Al contempo però, pur in assenza di un’esplicita disposizione di legge, si faceva strada l’idea che l’appellato, affinchè operasse in suo favore l’effetto devolutivo, dovesse manifestare senza equivoci la volontà di far valere in appello tutte le difese di primo grado, riproducendole mediante espressi richiami, peraltro sottoposti a modalità e termini assai meno rigorosi «che non nel caso in cui era necessario produrre appello incidentale»(9). In sede di gravame si imponeva un’indagine sulla volontà dell’appellato, il cui negativo riscontro faceva presumere abbandonate le istanze non riproposte e impediva al giudice di supplirvi con la propria iniziativa(10).

conditores del codice attuale, per strutturare l’appello come revisio prioris instantiae anziché novum iudicium, vollero tradurre quest’idea in norma positiva. Il Progetto preliminare Solmi all’art. 344 dispose che s’intendevano abbandonate le domande o eccezioni che non fossero state espressamente riproposte in appello, con salvezza delle questioni rilevabili d’ufficio. La norma fu riprodotta nell’art. 357 del Progetto definitivo, con l’aggiunta di un capoverso sulla posizione dell’appellato contumace, le cui domande ed eccezioni, purché proposte in primo grado ed espressamente del giudice a quo, dovevano essere riesaminate automaticamente dal giudice di appello, con possibilità di una rimessione in termini dell’appellato successivamente comparso per proporre le istanze non esaminate dal primo giudice perché assorbite dalla decisione favorevole(11).

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Da qui trasse origine l’attuale art. 346 c.p.c., che accosta ai sostantivi «domande» ed «eccezioni» l’attributo (volto al negativo) di «non accolte», non si occupa dell’appellato contumace né delle questioni rilevabili d’ufficio e mantiene, con la locuzione «s’intendono rinunciate» (sostanzialmente equivalente al «s’intendono abbandonate» dei Progetti Solmi), il riferimento alla volontà dell’appellato, anche se nella rubrica vi è l’espressione «decadenza».

2. L’equivoca esegesi dell’art. 346 e il concetto di «assorbimento» lato sensu.

2. Si aprono a questo punto i problemi ermeneutici ai quali inizialmente accennavamo. Quali sono «le domande e le eccezioni non accolte»? In quale forma ed entro quale termine si deve ottemperare all’onere di riproposizione? Quando è necessario, invece, l’appello incidentale?

Riservando al seguito la formulazione di un generale criterio discretivo delle ipotesi in cui occorre l’appello incidentale e di quelle in cui esso non è necessario e movendoci, per ora, sul piano dell’analisi linguistica, si può subito notare la genericità delle espressioni utilizzate nell’enunciato normativo in esame(12). Genericità che induce a conferire a queste espressioni un’ampia latitudine semantica e una valenza, in qualche misura, atecnica, si da comprendere nel termine «domanda» ivi adottato non solo la domanda in senso stretto come «atto con cui la parte, affermando l’esistenza di una volontà concreta di legge che le garantisce un bene, dichiara di volere che questa sia attuata e invoca a tale scopo l’autorità dell’organo giurisdizionale»(13), ma anche le ragioni o i motivi in cui si articola la domanda (14) e persino le istanze istruttorie(15).

Il vocabolo «eccezioni» va del pari inteso con estrema ampiezza, potendo indicare sia le eccezioni sostanziali in senso proprio con le quali si alleghino fatti impeditivi, estintivi o modificativi della fattispecie controversa, sia le eccezioni sostanziali in senso improprio, quando l’effetto giuridico sia rilevabile d’ufficio, sia le eccezioni processuali concernenti il rito(16). Al proposito, anzi, va precisato sin d’ora che le questioni rilevabili ex officio già esaminate dal primo giudice rientrano nella norma in discorso e non vengono devolute alla cognizione del giudice ad quem senza un’iniziativa della parte interessata(17).

L’attributo negativo «non accolte», se preso in isolata considerazione, può riferirsi a differenti fenomeni processuali: può trattarsi di rigetto o di assorbimento o, infine, di omissione di pronuncia(18). Collegandolo però ai sostantivi «domande ed eccezioni», assunti nell’ampia valenza sopra precisata, il significato ad esso riconducibile pare essere quello dell’assorbimento(19).

Gli è che l’ampiezza semantica e l’equivocità delle espressioni usate nell’art. 346 lasciano spazio per le letture piú varie e per le soluzioni più divergenti(20). Il metodo interpretativo letterale di cui al 1° comma dell’art. 12 prel. non è in grado di produrre il frutto di una sufficiente certezza giuridica e, per la norma in esame, converrà abbandonarlo per far ricorso ad altri metodi che evidenzino l’intenzione del legislatore e che meglio si prestino a fornire criteri dotati di qualche univocità.

Va soggiunto — ancora a mo’ di premessa e solo per concludere questo breve discorso sulla lettura esegetica dell’art. 346 che ci è parsa preferibile tra le tante possibili — che nel seguito e per le ragioni che si vedranno, adotteremo un concetto di «assorbimento» più ampio di quello tradizionale (che include solo le ipotesi di mancato esame di una domanda o di un’eccezione per accoglimento di un’altra domanda o eccezione che assorbono quelle alternative o subordinate), concetto che fondiamo sull’indifferenza utilitaristica per un soggetto giuridico del mancato esame o del rigetto di domande o di eccezioni. In esso inglobiamo quei casi in cui la domanda, la ragione di essa o l’eccezione non esaminate o, addirittura, espressamente respinte restino superate dalla vittoria altrimenti conseguita, senza recare alla parte alcun pregiudizio sotto un profilo utilitaristico (o, come dicono i tedeschi, senza produrre alcuna materielle Beschwer). Sicché «le domande e le eccezioni non accolte» vengono, appunto, assorbite dal vantaggio altrimenti apportato alla parte mercé la sentenza.

3. Le possibili ragioni per l’adozione della teoria dell’assorbimento in senso lato: l'(insufficiente) argomento logico-letterale.

3. Naturalmente, l’apparente soluzione così enunciata è apodittica e vuole le sue giustificazioni.

Sul piano della coerenza interna (cui naturalmente non è tenuto chi accolga un significato ristretto di «domande ed eccezioni») si rende compatibile l’aggettivo «non accolte» con l’ampio significato che si è più sopra ricondotto ai sostantivi «domande ed eccezioni». Infatti, se si ammette che con la parola «domande» il legislatore ha inteso designare sia le domande in senso tecnico, sia i motivi di esse, sia le istanze istruttorie, all’attributo «non accolte» non si può assegnare il significato di «respinte» tout-court, perché tale accezione mal si concilia con le domande in senso tecnico le quali, ove non fossero in alcuna relazione con altra domanda proposta dalla parte e accolta dal giudice (è il caso del cumulo semplice), in ipotesi di esplicito rigetto troverebbero la propria disciplina nell’art. 329 cpv., e non nell’art. 346(21). Cosí, delle istanze istruttorie si può dire che siano state respinte, ma non è possibile parlare per esse di omissione di pronuncia, giacché nel nostro ordinamento processuale il giudice non è tenuto a dar corso a tutte le istanze istruttorie delle parti, ma soltanto a quelle che egli ritiene necessarie e sufficienti ai fini della risoluzione della quaestio facti(22). Mentre è possibile per esse parlare di assorbimento, nel senso che il loro rigetto non ha pregiudicato la pronuncia favorevole a chi le aveva proposte.

Leggere «non accolte» come «assorbite» (nell’ampio significato tracciato) resta l’unica via percorribile, in quanto unica accezione del termine riferibile contemporaneamente alle domande in senso tecnico, alle ragioni di esse e alle istanze istruttorie, secondo quella latitudine semantica che abbiamo inteso conferire all’espressione «domande ed eccezioni». È chiaro però che questo argomento è tutt’altro che risolutivo per chi compie un’esegesi dell’art. 346 diversa da quella indicata nel paragrafo precedente.

Diviene inevitabile allora, come già dicevamo in premessa, ricorrere ad altri metodi interpretativi e, segnatamente, al metodo storico e a quello sistematico.

4. (Segue). L’argomento storico e la voluntas conditorum.

4. L’art. 346, la cui storia abbiamo brevemente ricordato nel par. 1, segue il solco tracciato da (autorevole ancorché isolata) dottrina anteriore al codice oggi vigente: l’effetto devolutivo, che da automatico e illimitato (cioè «reale», nel senso di oggettivo e comune ad entrambe le parti) divenne subiettivo e «personale»(23), era giunto a restringersi sino al punto da richiedere all’appellato non solo un’autonoma iniziativa impugnatoria per ottenere la reformatio in melius della pronuncia, ma anche una manifestazione al secondo giudice della volontà di far valere in appello tutte le difese di primo grado, riproducendole mediante appositi richiami, peraltro sottratti alle modalità e ai termini dell’appello incidentale(24); il quale gravame si giustificava solo in caso di soccombenza reciproca, che fornisse all’appellato la ragione e l’interesse per impugnare(25).

Sempre in questa prospettiva diacronica, neppure va trascurato il fatto che la situazione avuta presente dai conditores legum fu, nell’art. 346 c.p.c., quella dell’appellato, come dimostrano i lavori preparatori ricordati nel paragrafo 1(26), pur se la norma può essere senz’altro applicata anche all’appellante(27). Il legislatore ha assunto il punto di vista dell’appellato, recte della parte riuscita sostanzialmente vittoriosa in primo grado, a favore della quale più pienamente in passato operava l’effetto devolutivo(28). Ciò è testimoniato sia dalle soluzioni dottrinali che precedettero la formulazione della norma, sia dalle fattispecie sottoposte, nella maggior parte dei casi, alla giurisprudenza (e delle quali diremo infra ai parr. da 11 a 16).

5. (Segue). La prospettiva dell’interesse a impugnare: la soccombenza materiale e l’elemento soggettivo dell’interesse ad appellare per incidens.

5. Alla base dell’appello incidentale, come dell’appello principale, deve esservi una soccombenza sofferta a causa della pronuncia resa in primo grado(29): soccombenza non già «formale», che consiste nella differenza tra le conclusioni assunte dalla parte e il contenuto della pronuncia(30), bensì «materiale», onde la parte risente di un pregiudizio concreto ed attuale che il mezzo di impugnazione è volto a rimuovere(31).

Il nucleo utilitaristico della nozione di interesse a impugnare, il cui fondamento soggettivo è l’aspirazione a conseguire un vantaggio mediante il gravame(32), è proprio anche dell’appello incidentale. Tale nucleo va ricostruito non soltanto attraverso i tradizionali elementi presi in considerazione per definire la soccombenza formale (le conclusioni della parte nel precedente grado e la pronuncia del giudice a quo), ma anche per mezzo della domanda introduttiva della fase di gravame, la quale anticipa quella che potrà essere, negli auspici dell’appellante, la sentenza emessa all’esito dell’impugnazione(33). Dal contenuto della domanda di gravame può, infatti, evincersi l’aspirazione del soggetto a ottenere un vantaggio dalla prospettata riforma e può misurarsi la concreta possibilità che ciò avvenga(34): si potrà in tal modo verificare la sussistenza di un interesse all’impugnazione secondo schemi elastici e non precostituiti, che consentano di individuare le ipotesi di beneficio utilitaristico effettivo per la parte che impugna(35), beneficio che costituisce il nucleo minimo ed essenziale dell’interesse all’impugnazione(36).

Un’effettiva utilità conseguibile attraverso la riforma — come detto — deve essere alla base non solo dell’appello principale, ma anche dell’appello incidentale. In molti casi l’interesse a impugnare per incidens in nulla si distingue dall’interesse a impugnare in via principale: ciò accade, exempli gratia, allorquando l’appellato sia già sul punto di interporre il proprio gravame in via principale, ma prima di potervi provvedere riceva la notificazione dell’appello di un’altra parte e profitti così dell’instaurato secondo grado per inserirvi la propria impugnazione. Questa, nel complesso, è la situazione avuta presente dal legislatore nel formulare la norma dell’art. 333 c.p.c.(37), nel cui disposto non trova spazio la peculiarità dell’interesse a impugnare in via incidentale che subito cercheremo di porre in rilievo.

La parte destinataria di un’altrui impugnazione può talora ricevere concreto stimolo ad appellare proprio dal gravame notificatole, laddove, in assenza di esso, non si sarebbe autonomamente attivata contentandosi del risultato conseguito in prime cure. Questa è proprio la situazione tutelata dall’art. 334 c.p.c., la cui ratio è palesemente soggettiva(38).

L’interesse a impugnare è sollecitato, in tal caso, dall’impugnazione principale, ma ha pur sempre quale presupposto una materielle Beschwer, la prima impugnazione è la causa immediata dell’interesse a controimpugnare, ma il presupposto ne è comunque la soccombenza parziale della parte, una situazione cioè di soccombenza-vittoria che realizza la concomitanza di un pregiudizio e di un vantaggio giuridico(39). Questa concomitanza può spingere il soccombente pro parte a soppesare comparativamente, in termini utilitaristici, vantaggi e svantaggi apportati dalla pronuncia, in un apprezzamento integrale e unitario di essa che può indurlo ad acquietarsi al decisum e a non proporre impugnazione(40). L’appello da altri proposto può mutare l’atteggiamento soggettivo della parte dimostratasi, con comportamenti attivi (acquiescenza esplicita) od omissivi (mancata impugnazione), globalmente soddisfatta dell’esito del precedente giudizio; può turbare, per cosí dire, l’equilibrio raggiunto al termine del primo grado, perché rimette in discussione la parziale vittoria, mentre lascia immutata la situazione di svantaggio che deriva dalla parziale soccombenza e pertanto provoca la parte ad appellare in via incidentale(41).

Tuttavia, non pare completamente esatto affermare l’insorgenza dell’interesse ad appellare per incidens soltanto e per la prima volta a cagione del gravame principale; interesse che risulterebbe nuovo, giacché la situazione prodotta dall’appello avversario sarebbe affatto diversa da quella soccombenza-vittoria in base alla quale la parte si era determinata ad accettare la sentenza: si tratterebbe, secondo questa tesi, di una situazione equiparabile alla mera soccombenza, poiché la vittoria parziale non è piú certa e all’appellato va riconosciuto un interesse eguale a quello che avrebbe avuto ad impugnare per primo se fosse stato totalmente soccombente(42).

Ora, a parte l’ipotesi (sopra accennata) in cui l’appellato era già in procinto di attivarsi per ottenere la riforma delle pronunce a lui sfavorevoli, si deve considerare che la cagione del suo interesse a impugnare, cioè l’utilità conseguibile attraverso un riesame della controversia, non viene intrinsecamente modificata dal gravame principale. Il pregiudizio da rimuovere attraverso la riforma della sentenza di primo grado è sempre il medesimo, prima e dopo l’impugnazione avversaria. Ciò che avviene in seguito all’impugnazione principale è una metamorfosi estrinseca del pregiudizio inferto dalla sentenza di primo grado: in forza dell’iniziativa avversaria l’interesse a impugnare diviene più urgente, più pressante, si da indurre il soccombente parziale che si fosse in precedenza acquietato nella complessiva valutazione della pronuncia, a ritornare sui suoi passi e a perseguire a sua volta la rimozione del pregiudizio. L’urgenza deriva precisamente dal rischio di veder tramutata la propria soccombenza parziale in soccombenza totale o maggiore di quella derivante dalla sentenza. Sicché, quell’interesse all’impugnazione che, per volontà esplicita o implicita dell’appellato, si era assopito, era quiescente e sarebbe scomparso del tutto una volta che il termine per impugnare fosse trascorso per tutte le parti, vien fatto riemergere dal gravame principale(43).

L’interesse ad appellare per incidens si palesa dunque come interesse complesso, il cui nucleo è costituito dal pregiudizio cagionato dalla sentenza, aggravato dall’impugnazione avversaria che rimette in discussione il bilanciamento scaturito dal primo grado di giudizio. La soccombenza materiale è elemento costitutivo originario ed intrinseco dell’interesse a impugnare; il gravame della controparte interviene come fattore estrinseco che accresce tale interesse senza però mutarne la sostanza, il contenuto minimo ed essenziale consistente nella materielle Beschwer.

Si può dire che l’interesse ad appellare in via incidentale ha una componente oggettiva, sempre presente, che consiste nella soccombenza sostanziale, ed una soggettiva, che non sempre emerge ma che produce il ridestarsi del sopito interesse a modificare una statuizione sfavorevole, cui la parte avrebbe prestato acquiescenza, nella valutazione globale del risultato scaturito dalla sentenza resa in primo grado, sol che la sua controparte a sua volta avesse rinunciato al gravame. Sicché la materielle Beschwer è il presupposto dell’interesse ad appellare tanto in via principale, quanto in via incidentale; mentre l’altrui impugnazione può operare come sprone soggettivo e, diremmo, intcriore a proporre appello incidentale.

Non sempre l’appellante incidentale sarà mosso da un interesse cosiffatto; egli, già lo si è detto, potrebbe essere spinto a impugnare incidentalmente soltanto perché il suo avversario è stato più solerte di lui e l’ha preceduto nel proporre l’appello principale. Ma è certo che nell’art. 334 c.p.c. il legislatore ha conferito al sopra descritto interesse un rilievo obiettivo.

6. La forma e il termine per la riproposizione mera.

6. Ci pare che riescano così evidenti la funzione dell’art. 346 c.p.c. e la differenza tra riproposizione mera e appello incidentale: la prima spetta alla parte sostanzialmente e materialmente vittoriosa; l’onere di proporre il secondo incombe su chi abbia subito dalla prima pronuncia un pregiudizio pratico, una materielle Beschwer non diversa da quella che ha indotto l’appellante principale a interporre gravame. La soccombenza reciproca è dunque il presupposto indefettibile dell’appello incidentale: senza soccombenza sostanziale non v’è onere di appello incidentale ma solo di riproposizione mera ex art. 346 c.p.c., che è disposizione idonea a comprendere tutte le ipotesi di assorbimento lato sensu, cioè di indifferenza utilitaristica della pronuncia sfavorevole(44).

Detto questo e salvo tornare nel seguito di questo scritto ad esaminare alcune recenti posizioni dottrinali, è bene chiedersi sin d’ora quali siano la forma e il termine per la riproposizione mera.

Quanto alla prima si è sostenuto che essa debba sempre consistere in un appello incidentale, perché la parte invoca comunque la riforma della sentenza in ordine a un punto oggetto di decisione sfavorevole, né può distinguersi, agli effetti dell’onere di impugnazione, tra soccombenza reale e soccombenza virtuale(45). Questa dottrina adotta un originalissimo concetto di «parte» di sentenza (cui si accennerà nel paragrafo seguente) e con esso giunge ad annoverare «le domande ed eccezioni non accolte» enunciate dall’art. 346 tra le parti di sentenza che possono essere attaccate solo mediante appello incidentale. Soluzione che contrasta, invero, con la storia della norma ed onera soverchiamente l’appellato il quale, pur essendo stato vincitore, si vede costretto a impugnare una sentenza che vuole, invece, tener ferma nel risultato pratico da essa scaturito. Questi è privo dell’interesse ad appellare, poiché da una pronuncia sulle domande o sulle eccezioni assorbite dalla decisione favorevole non otterrebbe alcun sostanziale giovamento (46) e la riproposizione di esse varrebbe soltanto a conservare, in un modo o nell’altro, il vantaggio prodotto dalla sentenza di primo grado.

E ovvio che questa critica è — se si vuole — aprioristica, perché fondata a sua volta su premesse che sono tutte da vagliare. Ma se si riconosce che l’interesse ad appellare sussiste solo allorché si tende alla rimozione di un pregiudizio concreto, non v’è onere di appello incidentale onde rimuovere una pronuncia sfavorevole che non reca alcun nocumento pratico. Del resto, pare strano che il legislatore, solo tre articoli dopo la norma sulla forma e sul termine dell’appello incidentale (art. 343 c.p.c.), abbia impropriamente parlato di «domande ed eccezioni non riproposte», mentre avrebbe dovuto — secondo la tesi qui criticata — piú correttamente usare l’espressione «non appellate» (47)(48).

Nell’astratta fattispecie contemplata dall’art. 346 l’iniziativa imposta all’appellato consiste nella mera riproposizione in un atto difensivo della domanda o dell’eccezione non accolta, senza alcun onere di appello incidentale, poiché egli assume una posizione di semplice difesa della sentenza favorevole(49). Tale riproposizione deve avvenire mediante specifiche enunciazioni, non essendo sufficiente il generico richiamo alle conclusioni o alle difese formulate in primo grado(50).

Quanto al tempus della riproposizione ex art. 346 c.p.c., la giurisprudenza formatasi sul rito vigente sino al 30 aprile 1995 stabiliva che essa potesse avvenire sino alla precisazione delle conclusioni(51). In contrario si osservava come il lassismo giurisprudenziale contrastasse con il rigore mostrato nei confronti dell’appellante, al quale è fatto obbligo di specificare i motivi nell’atto di appello, a pena di inammissibilità del gravame (52) e con divieto di aggiungerne in corso di causa(53). Se ne proponeva così l’equiparazione, o consentendo all’appellante di aggiungere motivi fino all’udienza di precisazione delle conclusioni (54) o costringendo l’appellato a riproporre espressamente le domande o le eccezioni non accolte nella comparsa di risposta(55).

L’orientamento della Suprema Corte, con la riforma del processo civile che ha introdotto severe barriere preclusive in sede di formazione del thema decidendum, dovrebbe essere abbandonato, ma è incerta la soluzione da adottare. Se, come abbiamo tentato di dimostrare altrove(56), non v’è motivo per discostarsi in grado di appello dalla struttura processuale del giudizio di primo grado, salvi gli adattamenti imposti dalla clausola di compatibilità ex art. 359 c.p.c., l’unica preclusione per l’appellato anteriore all’udienza di prima comparizione è quella per proporre appello incidentale (art. 343 c.p.c.). Le altre decadenze e, segnatamente, quelle per la determinazione del thema decidendum sono successive e si collocano in coincidenza con la costituzione dell’appellato che, come noto, può avvenire anche all’udienza ai sensi dell’art. 171, comma 2, c.p.c.(57).

È appena il caso di aggiungere che, mentre per la riproposizione ex art. 346 è sufficiente il mero e non equivoco richiamo delle domande e delle eccezioni non accolte in primo grado, senza formule sacramentali, l’appellante incidentale — oltre a rispettare il termine appositamente fissato dall’art. 343 e, nel rito del lavoro, il termine e gli adempimenti [deposito e notificazione della memoria(58)] di cui all’art. 436, ult. comma — è tenuto: a) ad esporre (cosí come l’appellante principale) i motivi specifici di impugnazione a pena di nullità-inammissibilità del gravame (v., del resto, lo stesso ult. comma dell’art. 436)(59)b) a produrre copia autentica della sentenza impugnata (ove a ciò non abbia già provveduto un’altra parte del giudizio di appello); c) a comparire alla prima udienza, a pena di improcedibilità del gravame, secondo il meccanismo disciplinato dall’art. 348, 2° comma (applicabile anche all’appellante incidentale)(60)d) a notificare l’atto contenente l’appello incidentale alla parte contro cui è rivolto qualora questa non siasi costituita, nonché a eseguire le notificazioni ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c.(61).

Anche sul piano degli adempimenti processuali sussiste dunque una considerevole differenza tra appello incidentale e riproposizione mera.

Converrà ora passare alla disamina del controverso concetto di «parte» o «capo » di sentenza, sul quale vien spesso fondata l’individuazione dei casi in cui sussiste l’onere di appello incidentale.

7. Rilevanza della nozione di capo o parte di sentenza per la soluzione del problema?

7. Molte tesi sono state avanzate intorno alla nozione di «capo» o «parte» di sentenza, in un dibattito dottrinale che s’agita da più di settant’anni(62).

Essenzialmente tre paiono essere le concezioni accolte(63); la prima, più antica e diffusa(64), identifica il capo di sentenza con il capo di domanda, cioè con ogni decisione su un autonomo oggetto capace di costituire di per sé il contenuto di una sentenza definitiva di merito. La seconda individua il capo di sentenza nella soluzione di ogni questione controversa(65). A mezzo di queste due si colloca una posizione eclettica, che equipara il capo di sentenza al capo di domanda per il giudizio di appello e alla soluzione di questioni per le impugnazioni cosiddette limitate, quale il ricorso per cassazione(66).

Non semplice è orientarsi tra le ricostruzioni avanzate e presceglierne una. Tutte le soluzioni, infatti, paiono consentite dalla genericità con cui è utilizzata l’espressione «parti della sentenza» nelle due uniche norme (gli artt. 329 e 336 c.p.c.) in cui essa compare. La diffusa tesi che identifica capo di sentenza con capo di domanda è spesso rettificata nel senso che capo di sentenza è non solo ogni decisione su autonoma domanda, ma anche ogni pronuncia su questioni processuali che, se negativa, comporterebbe la definizione del giudizio(67), perché essa, pur lasciando impregiudicato il merito, ha in ogni caso un effetto diretto e immediato sull’oggetto del processo, in quanto rende ammissibile o inammissibile un giudizio su di esso. Le questioni preliminari di merito — secondo questa tesi — andrebbero invece escluse dal concetto di capo di sentenza (68) e costituirebbero semplici punti di cognizione all’interno di esso, appartenenti al cosiddetto «piano verticale» della decisione, cioè al processo di formazione logica di essa(69).

A questa ricostruzione si obbietta che le questioni pregiudiziali attinenti al processo, al pari delle questioni preliminari di merito, non possono formare oggetto di un autonomo giudizio diretto a risolverle con efficacia di cosa giudicata (70) e si preferisce impostare il discorso sul contenuto decisorio della pronuncia giudiziale, distinguendo tra parti del dispositivo e parti della sentenza, tra le quali rientrerebbero anche le predette questioni, nel senso che concorrono a formare il decisum della sentenza definitiva(71).

Per altri versi si sottolinea come il concetto di parte di sentenza quale statuizione su un capo di domanda non può applicarsi alle sentenze non definitive, che decidano una questione preliminare di merito o una questione pregiudiziale di rito (72) e, ampliando l’oggetto di una sentenza non definitiva in modo da comprendervi non solo le questioni pregiudiziali o preliminari in senso stretto, ma anche «tutte le fattispecie idonee a costituire, impedire, modificare, estinguere il diritto azionato», si è identificata la «parte di sentenza» di cui all’art. 329, cpv., con ogni possibile contenuto di una sentenza non definitiva(73).

Il nodo non pare solubile attraverso gli equivoci elementi che emergono ex positivo iure. Sicché — anche alla stregua del collegamento operato dalla norma stessa tra «parte di sentenza» e impugnazione, collegamento che impone di tener conto della struttura dei singoli mezzi impugnatori — pare essere nel giusto chi osserva che «il concetto di capo di sentenza è un concetto eminentemente relativo, che acquista diverso significato a seconda che si consideri il solo contenuto imperativo o anche i presupposti cognitivi della sentenza; a seconda del metodo di formazione di questa (formazione simultanea o progressiva) e — nell’ambito del metodo progressivo — a seconda del tipo di sentenza considerato; infine, a seconda del tipo di gravame dato contro la sentenza. Ad ogni processo corrisponde, quindi, una diversa nozione di capo di sentenza; per ogni processo, anzi, l’espressione può presentare più significati»(74). E, se proprio occorre esprimere una preferenza per un determinato concetto di «parte di sentenza», la scelta cade su una definizione ampia e tale da porre in luce i nessi esistenti tra codesto concetto e la soccombenza: «capo di sentenza è ogni frazione del contenuto imperativo di una sentenza del processo, frazione dotata di autonomia giuridica nel senso che è idonea a determinare una situazione a sé stante di soccombenza in relazione al tipo di sentenza cui appartiene e ad acquistare il carattere dell’immutabilità (anche questa in relazione al tipo di sentenza): capo è così non ogni soluzione di questione da parte del giudice (come si afferma da teorie estremiste), ma solo quella soluzione che arreca rispettivamente un vantaggio e un pregiudizio qualificato (soccombenza) che tendono a consolidarsi, vantaggio e pregiudizio da valutare in relazione al tipo di sentenza. Solo rispetto a una siffatta parte della sentenza è legittima l’impugnazione (parziale), operano l’acquiescenza (parziale) e il correlativo divieto al giudice del gravame di modificare la sentenza spostando la soccombenza»(75).

Si può ribattere che questa definizione è tanto ampia da dire tutto e nulla. Ma ci pare l’unica in grado di tenere conto della molteplicità dei casi che possono prospettarsi, laddove le restanti visioni rivelano, in un modo o nell’altro, lacune rispetto alla varietà delle fattispecie e alle diversificate strutture dei mezzi di impugnazione(76).

8. Il rapporto tra acquiescenza parziale ex art. 329, cpv., e riproposizione mera.

8. Tornando ora al tema che ci interessa, si è spesso sottolineata la necessità di rendere compatibile il disposto dell’art. 329, cpv, con quello dell’art. 346(77), e si è pensato di risolvere il problema in base al diverso ambito di applicazione delle due norme: la prima farebbe riferimento a plurimi capi di sentenza cumulati nel processo di primo grado; la seconda invece regolerebbe la devoluzione di questioni dal giudice di prime cure al giudice d’appello all’interno di un unico capo di sentenza(78). Implicite a questa tesi sono due nozioni: l’identificazione, almeno per l’appello, di capo di sentenza con capo di domanda (79) e la lettura dell’espressione «domande non accolte», di cui all’art. 346, come «ragioni» o «motivi», cioè come articolazioni di un’unica domanda(80).

Senonché, la storia dell’art. 346 (esposta nel paragrafo 1) dovrebbe aver dimostrato che la parola «domande» contenuta in questa disposizione normativa ha un significato generico ed estremamente ampio; mentre il concetto di «capo» o «parte» di sentenza è così incerto da far dubitare dell’opportunità di estenderlo al di fuori dell’art. 329, utilizzandolo quale criterio discretivo dei casi in cui può essere applicato l’art. 346(81). E a rafforzare quest’impressione contribuisce la circostanza che l’onere di appello incidentale anche per compiere la riproposizione prevista dall’art. 346 è ravvisato, con tesi inaccoglibile, proprio da chi identifica la nozione di capo di sentenza con quella di soluzione di questione(82). Perciò, far dipendere l’interpretazione della norma in discorso dal concetto [per molti versi aprioristico(83)] di capo o parte di sentenza che, per una ragione o per l’altra, l’interprete prediliga, appare quantomeno inopportuno.

Non può addursi a sostegno dell’opinione qui respinta l’idea che gli effetti della rinuncia sancita dall’art. 346 sono limitati al processo e non impediscono di riproporre domande ed eccezioni in un altro giudizio(84): si potrebbe cioè sostenere, sulla base di quest’affermazione, che mentre l’art. 329 cpv. disciplina un fenomeno di formazione del giudicato, per evitare il quale andrebbe sempre interposto appello incidentale avverso i capi di sentenza non anteriormente impugnati, l’art. 346 regola un mero fenomeno endoprocessuale che concerne le sole questioni poste all’interno di un medesimo capo. Tale osservazione, peraltro, suole essere circoscritta nel senso che la mancata riproposizione delle domande e delle eccezioni non implica rinuncia a farle valere in qualunque altro giudizio, purché ciò sia ancora possibile, purché non vi osti, cioè, l’autorità di giudicato promanante dalla pronuncia o purché le domande o le eccezioni non siano collegate alla domanda che è stata, rispettivamente, accolta o respinta in quel processo(85).

Il pensiero va alle domande subordinate o alternative a quella accolta, le quali, ove non riproposte al secondo giudice, non sono sempre proponibili in un altro processo. Ciò può avvenire soltanto nel caso in cui esse non sono state decise dal primo giudicante e in grado di appello è stata riformata la pronuncia di primo grado, con il rigetto della domanda che era stata precedentemente accolta. Invece, in ipotesi di conferma della sentenza resa in prime cure, l’appellato ha già conseguito un’utilità maggiore o equivalente a quella della domanda (rispettivamente, subordinata o alternativa) non esaminata dal primo giudice e non riproposta in appello: egli non ha perciò interesse ad avanzare nuovamente questa domanda in un diverso processo. La riforma della pronuncia impugnata fa rinascere, invece, l’interesse a proporre ex novo la domanda alternativa o subordinata non esaminata, poiché non coperta dal giudicato. Qualora invece tali domande fossero state esplicitamente rigettate in primo grado e non fossero state riproposte in appello, si verificherebbe una preclusione pro iudicato(86).

Le eccezioni non accolte (non importa se perché non decise o perché rigettate) sono, di solito, strettamente finalizzate al rigetto della domanda e, data la loro mancanza di autonomia, è naturale che non siano riproponibili in un diverso processo nonostante non si sia formato un giudicato sostanziale. Se però il fatto impeditivo, modificativo o estintivo è tale da poter essere fatto valere in via di azione (e dunque da divenire fatto costitutivo di una domanda giudiziale, ad es., di annullamento del contratto per dolo, errore o violenza), il rigetto esplicito dell’eccezione e la mancata riproposizione di essa in appello ne precluderà definitivamente l’esame anche in un altro processo, producendo efficacia di giudicato(87).

Dunque, la decadenza di cui all’art. 346 può talora condurre alla formazione di un vero e proprio giudicato interno, preclusivo della successiva riproponibilità in un diverso processo delle domande e delle eccezioni non accolte(88). Costituirebbe però una petitio principii partire da questa constatazione per onerare la parte a riproporre le domande e le eccezioni non accolte sempre con un gravame incidentale, anziché con lo strumento dell’art. 346, quando intende evitare la formazione del giudicato(89); esso, anche nell’accezione limitata di «giudicato interno»(90), è un posterius rispetto alla disciplina dei mezzi di impugnazione e dipende dalla struttura che il diritto positivo ad essi conferisce. Semplicemente si deve prendere atto che il legislatore, memore della storia dell’effetto devolutivo, ha strutturato il giudizio di appello in modo da consentire alla parte vittoriosa in primo grado di riproporre le domande e le eccezioni non accolte, le quali non producano soccombenza materiale, senza l’osservanza dei termini e delle forme dell’appello incidentale.

Mentre il coordinamento (postulato dalle teorie qui respinte) tra l’art. 329 cpv. e l’art. 346 può essere più pianamente raggiunto pensando alla differente prospettiva in cui si è collocato il conditor iuris nel formulare le due norme: quella della parte soccombente, che ha risentito un pregiudizio concreto dalla pronuncia giudiziale, nella prima; quella della parte vittoriosa che nessun pregiudizio pratico può lamentare, nella seconda. Solo ponendosi in quest’ottica ci pare che possa essere compreso il significato più pregnante delle due norme, evitando ad un tempo che l’interprete si trovi nella necessità di utilizzare l’equivoco concetto di «parte o capo di sentenza» o di adottare l’una o l’altra delle diverse teorie sui limiti oggettivi del giudicato(91).

9. L’effetto devolutivo e il cosiddetto divieto di reformatio in peius.

9. Bisognevoli di monografico spazio sarebbero i due temi enunciati nel titolo di questo paragrafo. Il discorso verrà però circoscritto alla rilevanza di essi nell’interpretare l’enunciazione normativa dell’art. 346 e nello stabilire quando occorra appello incidentale.

Che l’art. 346 tragga le proprie origini dal cosiddetto principio devolutivo dell’appello è indubbio. Già nella Lex Ampliorem e nello sviluppo storico che ad essa segui(92), all’appello furono riconosciuti i caratteri del novum indicium sulla fattispecie controversa, come beneficium commune ad appellante ed appellato, al quale ultimo non era chiesta alcuna iniziativa per sottoporre nuovamente al secondo giudice il materiale cognitorio di primo grado nella sua interezza. La primigenia latitudine dell’effetto devolutivo nel corso dell’età intermedia venne ristretta ai soli capi di sentenza oggetto di appello (93) e a quelli connessi con i capi impugnati(94). Proprio un principio devolutivo così concepito giunse, attraverso i secoli, sino alle moderne codificazioni, prima delle quali il Code Napoléon del 1806, che introdusse l’appel incident derivandolo dalla pratica giudiziaria anteriore e destinandolo specificamente all’impugnazione dei capi diversi da quello gravato dall’appellante principale(95). Nel Code francese (ma lo stesso accadde con la ZPO tedesca per l’Anschlußberufung) la libertà di forme e di termini accordata per l’appello incidentale palesa il trattamento fatto all’appellato, nei cui riguardi l’effetto devolutivo ha la sua massima espansione(96). Fortissimo è dunque, in questi sistemi, il legame tra appello incidentale e devoluzione del materiale cognitorio al secondo giudice, si che in essi non esiste il problema di distinguere tra gravame incidentale e riproposizione mera: ambedue possono infatti avvenire «jusqu’à la clôture des debats» («bis zum Schluß der mündlichen Verhandlung»), senza la necessità di forme peculiari (97)(98).

Già nei codici sardi del 1854 e del 1859 questo legame è però attenuato dall’imposizione di termini da rispettare a pena di decadenza(99). Siffatta tendenza acceleratoria permane nel codice del 1865, nel cui vigore, pur affermandosi la pienezza della devoluzione nell’ambito del capo impugnato, si richiede che l’appellato manifesti senza equivoci la volontà di riproporre al giudice ad quem le domande o le eccezioni non accolte in primo grado(100). L’effetto di una progressiva restrizione dell’area cognitoria del giudice nel passaggio da un grado all’altro del giudizio veniva in tal modo accentuato, nell’ambito di un’impostazione ideologica che voleva privilegiare la rapidità nella definizione delle liti(101).

Il legislatore del 1940 ha dato risposta a queste aspirazioni, ristrutturando il giudizio di appello secondo i caratteri della revisio prions instantiae(102), cioè concependolo come controllo della pronuncia emanata dal primo giudice sui temi introdotti dalle parti, onde evitare il piú possibile inutili dilazioni(103).

In questo contesto si situa l’art. 346 c.p.c., ultima progenie della millenaria tradizione dell’effetto devolutivo rispetto alla quale esso si pone in esplicita rottura(104).

Alcuni autori però, dal rilievo (storicamente esatto) che l’art. 346 trova le sue origini nell’ambito del principio devolutivo dell’appello, traggono l’errata conseguenza che esso lo abbia conservato esistente e sostengono che la norma ha semplicemente limitato in linea di fatto i poteri del giudice di gravame, i quali già gli apparterrebbero in virtù del solo operare dell’effetto devolutivo, laddove l’omessa riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte cagionerebbe semplicemente l’estinzione di tali poteri, senza incidere sull’originaria esistenza di essi(105). A conforto di questa tesi si porta la lettera dell’art. 346, che si riferisce ad un fenomeno di tacita rinuncia, cioè a un venir meno, a un estinguersi appunto di poteri processuali in seguito al comportamento omissivo della parte(106). Comportamento e sottostanti intenzioni che non potrebbero ravvisarsi nelFappellato contumace, al quale pertanto l’art. 346 non può essere applicato(107).

Questa tesi lascia notevolmente perplessi. Anzitutto, non sembra opportuno conferire soverchia importanza alla lettera dell’art. 346: essa rispecchia le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali in uso sotto il codice abrogato e ne ha perpetuato, per naturale vischiosità, la terminologia(108). Nel testo dell’articolo si indugia, infatti, su una finzione volontaristica che sarebbe stato preferibile abbandonare(109), com’è avvenuto nella rubrica la quale parla più propriamente di «decadenza»(110). La norma, perciò, dovrebbe essere applicata anche all’appellato contumace, non scorgendosi ragione per cui la parte completamente inattiva debba ricevere un trattamento privilegiato rispetto a chi si è diligentemente costituito in giudizio, né per consentirle di ottenere la cassazione con rinvio della sentenza sfavorevole, qualora il secondo giudice abbia omesso di esercitare quel potere-dovere di riesame che gli viene attribuito con l’asserire che l’art. 346 c.p.c. si applica solo all’appellato costituito(111).

La dottrina qui criticata pare incorrere in un’inversione concettuale, quando afferma che al giudice di appello è automaticamente devoluta la piena cognizione del rapporto controverso, mentre la mancata riproposizione opera quale causa estintiva del suo potere cognitorio(112).

Esclusa qualsiasi devoluzione automatica, riesce più semplice giustificare il divieto di reformatio in peius, senza che sia necessario evocare ragioni dogmatiche volte a sorreggerlo. Se il principio capace di positivamente fondare codesto divieto pare essere quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.)(113), è anche vero che esistono ipotesi in cui una riforma in danno dell’appellante è possibile nonostante la mancanza di qualunque iniziativa dell’appellato: sono i casi di questione rilevabile d’ufficio e non esaminata nel corso dell’anteriore grado di giudizio, nonché quello in cui la reformatio in peius è una possibile conseguenza della fondatezza dei motivi di impugnazione e del successivo esame del merito(114).

Non sembra però che queste ipotesi siano in grado di privare di fondamento un principio di civiltà giuridica qual è il divieto di reformatio in peius. Esso, prima ancora che in norme di diritto positivo, trova ispirazione nelle idee liberali ed egualitarie che hanno trasformato l’appello da impugnazione con effetto reale, com’era disegnato dalla Lex Ampliorem di Giustiniano, a gravame con efficacia personale, qual si rinviene oggi in tutti i Paesi occidentali(115). Non è un caso che la progressiva limitazione dell’effetto devolutivo vada di pari passo con l’affermazione di queste ideologie individualiste e che l’istituto stesso dell’appello incidentale nasca proprio in quei sistemi nei quali più presto si diffuse il principio di personalità dell’impugnazione(116).

La regola, salve le eccezioni sopra accennate, dovrebbe essere la seguente: la riforma in danno dell’appellante è consentita al giudice di gravame soltanto allorché l’appellato proponga appello incidentale(117). Estendendo il principio a tutte le parti del processo di primo grado, in generale può dirsi che una riforma in danno di una parte può avvenire solo allorquando la controparte abbia assunto una specifica iniziativa impugnatoria.

L’appello incidentale manifesta, in tal modo, il suo carattere di strumento di garanzia del diritto di difesa della parte contro cui è proposto, oltre che della parte che se ne serve (sub specie di appello incidentale tardivo e secondo quella che è la ratio propria dell’art. 334 c.p.c.: su cui v. supra al par. 5): i termini rigorosi ai quali è sottoposto e l’onere di specificazione dei motivi cui l’impugnante incidentale deve ottemperare, al pari dell’appellante principale, ben si comprendono in quest’ottica di tutela della controparte, che non può correre il rischio di affrontare una generica domanda di riforma in suo danno a fase istruttoria ultimata, con limitate possibilità difensive(118). E il tradizionale divieto di reformatio in peius rinviene, ci pare, piú forte giustificazione nella tutela del diritto di difesa della parte contro cui la domanda di riforma è avanzata.

Queste considerazioni inducono a preferire il sistema italiano a quello vigente negli ordinamenti francese e tedesco, in cui l’appello incidentale è proponibile fino alla chiusura della trattazione, sebbene tali sistemi siano più fedeli alla tradizione storica risalente alla Lex Ampliorem(119).

10. Formulazione di un criterio orientativo ed esame di alcune fattispecie.

10. È tempo di formulare un criterio atto a sceverare, almeno in linea di massima, i casi nei quali la parte ha l’onere di interporre appello incidentale da quelli in cui basta la riproposizione mera ex art. 346 c.p.c.

La giurisprudenza si è sempre servita a tale scopo della distinzione tra soccombenza pratica (o reale) e soccombenza teorica (o virtuale): la prima consiste nell’effettivo diniego del bene della vita oggetto del giudizio; la seconda si ha allorché la parte, pur essendosi vista respingere una domanda o un’eccezione, ha comunque ottenuto per altra via lo stesso risultato o un risultato maggiore di quello cui aspirava con la domanda o con l’eccezione non accolte. L’interesse ad appellare per incidens e il susseguente onere esistono solo in caso di soccombenza pratica, laddove in ipotesi di soccombenza teorica è sufficiente la riproposizione mera ex art. 346(120). Sicché la situazione di pregiudizio prodotta dalla pronuncia del giudice a quo e generatrice dell’interesse ad appellare in via incidentale, in nulla intrinsecamente differisce dalla situazione di concreto svantaggio che ha mosso l’appellante principale(121).

Ora, sulla base di quanto veduto sin qui, possiamo affermare la generica idoneità di questo criterio a individuare le ipotesi in cui è necessario proporre appello incidentale se si vuole evitare il consolidarsi del pregiudizio pratico. Esso va, però, riformulato al fine di tener conto dei più recenti sviluppi della scienza giuridica nel campo dell’interesse ad impugnare(122)l’appellato è tenuto a proporre appello incidentale solo allorché miri al conseguimento di un’utilità maggiore dì quella accordatagli dalla sentenza di primo grado; in ogni altro caso in cui l’appellato ambisca ad ottenere un’utilità minore o equivalente a quella conseguita nel precedente grado, è sufficiente riproporre, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., la domanda o l’eccezione non accolta (nel duplice senso dì non esaminata o respinta).

Tale criterio è in linea con la tradizione storica da cui è nato l’art. 346(123), evita di riferirsi al controverso concetto di «capo» o «parte» di sentenza, non esige l’adesione ad alcuna particolare teoria del giudicato ed è agevolmente utilizzabile nella prassi. Esso, benché riferito al solo appellato della cui situazione l’art. 346 più specificamente si occupa, può senza dubbio essere esteso a tutte le parti. Né si discosta dalle opinioni manifestate dalla dottrina più autorevole sulla necessaria presenza di una soccombenza parziale di natura pratica per generare l’interesse ad appellare incidentalmente(124).

Si tratta di un semplice criterio-guida, capace di fornire un orientamento quantomeno approssimativo per la soluzione dei casi, di cui la realtà forense è sempre prodiga e imprevedibile creatrice. Converrà dunque scendere all’esame di alcune fattispecie concrete, onde saggiare le capacità selettive dell’enunciato criterio, senza disperdersi però in una casistica minuta.

11. (Segue). Il cumulo di domande.

11. Incominciamo dalle ipotesi di domande cumulate. È noto che le tradizionali figure di cumulo sono tre: a) il cumulo successivo o condizionale in senso stretto; b) il cumulo eventuale o subordinato; c) il cumulo alternativo(125).

a) Si ha cumulo successivo quando un’azione viene proposta con la condizione che prima ne sia accolta un’altra da cui prenderà vita(126). Se è accolta la domanda condizionante, ma viene respinta la domanda condizionata, entrambe le parti hanno ricevuto un pregiudizio dalla sentenza ed entrambe hanno interesse a impugnarla: è il classico caso di soccombenza parziale reciproca(127). Qualora il convenuto in primo grado chieda la riforma della pronuncia sulla domanda condizionante, l’attore appellato, se vorrà ottenere che venga riesaminata la domanda condizionata, dovrà interporre gravame incidentale(128).

Quando invece la domanda principale è stata respinta e il giudice di prime cure non è sceso all’esame della domanda condizionata, unico soccombente e unico interessato ad impugnare la sentenza sfavorevole è l’attore che, nell’interporre gravame, avrà cura altresì di riproporre la domanda condizionata, che era rimasta assorbita dal rigetto della domanda principale. È un caso questo in cui l’art. 346, concepito per l’appellato ma valido per tutte le parti del processo, va applicato all’appellante principale in relazione alla domanda non esaminata dal primo giudice.

Non può invece essere condivisa la facoltà di gravame incidentale condizionato all’accoglimento del gravame principale che un’Autrice ha ritenuto di dover accordare anche all’appellato, mosso dall’interesse a ottenere, anziché una conclusione in rito della causa sulla domanda condizionata qual è l’assorbimento di essa nel rigetto della domanda principale(129), una decisione sul merito idonea al giudicato(130). Difficilmente accadrà che l’attore, nell’impugnare la sentenza di rigetto della domanda condizionante, non riproponga altresì la domanda condizionata, sicché l’ipotesi esaminata appare alquanto remota. Ma quand’anche (per mera dimenticanza) l’attore-appellante ometta di formulare in appello la domanda condizionata, incorrendo così nella decadenza di cui all’art. 346 c.p.c., il convenutoappellato non ha subito alcuna soccombenza, né pratica né teorica, semplicemente perché una pronuncia sulla domanda condizionata manca del tutto e, pertanto, non ha alcun interesse a interporre gravame incidentale (neppure nella forma del gravame condizionato). Egli semplicemente ambirà a far confermare in appello il rigetto della domanda principale e, in caso contrario, le sue facoltà difensive sulla domanda condizionata resteranno intatte: anzi, quando l’attore-appellante abbia omesso di riproporre la domanda condizionata e (in ipotesi di accoglimento in appello della domanda condizionante) debba avanzarla in un nuovo processo, il convenuto-appellato tornerà a beneficiare del doppio grado di giudizio, del quale sarebbe stato privato qualora la domanda consequenziale, assorbita in prime cure nel rigetto della domanda principale, fosse stata debitamente riproposta in appello. Non v’è spazio, dunque, per un gravame incidentale condizionato all’accoglimento del gravame principale, che sarebbe inammissibile per difetto di interesse ad impugnare(131).

b) Si ha cumulo subordinato o eventuale quando un’azione è proposta per l’evento che l’altra sia respinta, secondo una gradazione di interessi prospettata dall’attore e alla quale il giudice è vincolato(132). Qualora sia accolta la domanda principale e sia rimasta conseguentemente assorbita in senso lato (perché non esaminata o anche, pleonasticamente, respinta) la subordinata, l’attore-appellato non ha l’onere di appellare per incidensla pronuncia del giudice a quo per far riesaminare dal giudice di appello la domanda subordinata, a ciò bastando la riproposizione mera ex art. 346 c.p.c.(133). L’appellato non aspira, infatti, ad alcun miglioramento della propria situazione sostanziale, né otterrebbe alcun vantaggio dalla riforma della pronuncia di primo grado.

Ove, invece, la domanda principale sia stata respinta e abbia ottenuto accoglimento la domanda subordinata, l’attore non ha interesse a impugnare soltanto nella rara ipotesi in cui la subordinata implichi per lui un risultato utile equivalente a quello della principale(134). Qualora — come normalmente avviene — la subordinata abbia recato all’attore un vantaggio inferiore a quello che si proponeva di conseguire con la domanda principale, egli, di fronte al gravame del convenuto avverso la pronuncia sulla domanda subordinata, ha l’onere di interporre appello incidentale(135). Identico onere grava sull’appellato-convenuto, che vuole impugnare la pronuncia sulla domanda subordinata successivamente al gravame principale dell’attore contro il rigetto della domanda principale(136).

c) Dal cumulo alternativo di domande vanno tenute distinte le domande di condanna a prestazioni alternative: nel primo caso vengono proposte in alternativa più domande, diverse per il titolo o per l’oggetto, perché il giudice accolga l’una o l’altra(137); nel secondo, l’azione è unica, mentre l’alternativa è circoscritta al petitum mediato(138). In quest’ultima ipotesi, qualora il giudice condannasse erroneamente il convenuto ad una sola delle due prestazioni alternative o ritenesse dovuta l’una e non l’altra, si deve distinguere a seconda che il diritto di scelta spetti al debitore oppure al creditore: se il diritto di scelta (di cui all’art. 1286 c. c.) spettava al debitore, di fronte all’appello principale da costui interposto, il creditore non ha interesse ad appellare incidentalmente la pronuncia che gli ha negato una delle due prestazioni, in quanto non ha subito alcun pregiudizio(139); la prestazione alternativa rigettata può dunque essere da lui riproposta a norma dell’art. 346. Quando invece la facoltà di scelta fu conferita per patto espresso (ex art. 1286, 1° comma, c. c.) al creditore, questi ha indubbiamente ricevuto un nocumento dalla sentenza di primo grado che ha negato una delle due prestazioni e ha perciò interesse ad impugnarla in via principale o incidentale, facendo valere la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato(140).

Quanto al cumulo alternativo, pare che l’unica ipotesi compatibile con l’esigenza di determinatezza della domanda imposta dal nostro ordinamento processuale sia quella in cui le pretese avanzate in via alternativa derivino da un comune complesso di fatti e implichino la soluzione di una medesima questione o di un medesimo gruppo di questioni, nel senso che da esse discende al contempo la fondatezza dell’una pretesa e l’infondatezza dell’altra, in maniera tale da sollevare il giudice da ogni libera scelta del thema decidendum che non rientra nel suo ruolo istituzionale(141). Si dice anche che una soccombenza (in termini formali) dell’attore v’è sempre, anche nel caso in cui una delle domande sia accolta, in quanto l’altra, proprio in forza del suo fondamento incompatibile con quello della pretesa accolta, verrebbe sempre (e semmai implicitamente) respinta(142). L’attore quindi, pur se carente di interesse ad appellare in via principale, in caso di impugnazione promossa dal convenuto soccombente, dovrebbe proporre un gravame incidentale condizionato all’accoglimento dell’impugnazione avversaria onde evitare una soccombenza che da potenziale diverrebbe attuale in seguito alla riforma della prima pronuncia(143).

Gli è che l’attore, nella gran parte dei casi, non ha subito alcun pregiudizio dall’accoglimento dell’una pretesa anziché dell’altra, e non può pertanto ambire ad alcun ampliamento del vantaggio accordatogli dal giudice a quo né ad alcun peggioramento della situazione della controparte. Il rigetto (esplicito o implicito) della domanda alternativamente proposta è per lui, dal punto di vista utilitaristico, indifferente, poiché ha già ottenuto il bene della vita cui aspirava(144). Allo scopo dovrebbe bastare la riproposizione ex art. 346, il cui generico disposto è idoneo a comprendere anche quest’ipotesi(145).

Ancora, dal cumulo di domande alternative (in senso proprio) appena esaminato va distinto il cumulo di pretese concorrenti al medesimo risultato, al riconoscimento cioè di un unico diritto, come quando siano addotti più inadempimenti a fondamento di un’azione di risoluzione del contratto(146). L’accoglimento di un fatto costitutivo soddisfa pienamente l’interesse della parte istante e non le reca alcun pregiudizio pratico, tanto nell’ipotesi in cui il fatto alternativamente prospettato sia stato ritenuto inesistente, quanto nell’eventualità che non sia stato esaminato (con assorbimento in senso stretto). L’attore non potrebbe ottenere alcun vantaggio da una riforma della pronuncia di primo grado e il fatto alternativo (dichiarato inesistente o assorbito) può essere riproposto a norma dell’art. 346, senza necessità di un appello incidentale(147).

12. (Segue). Casi di litisconsorzio alternativo. Specificazione e riformulazione del criterio.

12. V’è anche la possibilità che l’alternativa sia formulata in chiave soggettiva, allorché una pluralità di domande sia proposta da più attori (litisconsorzio alternativo attivo) o contro più convenuti (litisconsorzio alternativo passivo), in maniera tale che una sola debba essere accolta a favore dell’uno o dell’altro attore, oppure contro l’uno o l’altro dei convenuti(148). Nel caso di litisconsorzio alternativo passivo, l’accoglimento di una sola delle domande alternativamente proposte comporta il pieno soddisfacimento dell’attore, sicché egli non ha interesse a impugnare in via principale la sentenza(149). Tuttavia, qualora il convenuto soccombente proponga appello senza toccare la questione della titolarità passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio e semplicemente negando l’esistenza del diritto azionato dall’attore, ci si chiede se l’attore-appellato abbia l’onere di appellare incidentalmente la sentenza contro gli altri convenuti assolti (150) o possa riproporre tale domanda ai sensi dell’art. 346(151).

A preferire la prima soluzione spinge l’argomento che l’attore, sebbene non possa trarre alcun giovamento dalla pronuncia di secondo grado, chiede nondimeno una riforma in danno di un’altra parte. L’appello incidentale (come ricordavamo supra nel par. 8) svolge la funzione di strumento garantistico, necessario per ottenere una reformatio in danno di una parte processuale.

Ad eguale conclusione si deve giungere per l’ipotesi di litisconsorzio alternativo attivo, giacché l’attore cui è stata negata la titolarità attiva del rapporto giuridico, a seguito dell’impugnazione del convenuto soccombente nei confronti di altro attore, aspira ad una riforma in danno tanto di quest’ultimo quanto del primo (che, impugnando in via principale, in assenza di gravame incidentale di un altro attore potrebbe uscire definitivamente assolto da ogni pretesa)(152). Qualora invece il convenuto soccombente abbia già investito il giudice di gravame, con la propria impugnazione principale, della questione della titolarità (passiva nel primo caso esaminato, attiva nel secondo), l’attore deve comunque interporre gravame incidentale(153).

In nessun caso, comunque, si tratta di gravame incidentale condizionato all’accoglimento del gravame principale, essendo libero l’appellato di riprodurre la propria domanda contro altro litisconsorte senza condizioni di alcuna sorta, salva la possibilità di apporvi sponte sua un vincolo di subordinazione (sul che v. infra al par. 18).

L’analisi di queste fattispecie di litisconsorzio alternativo induce a precisare il criterio indicato in premessa, conferendogli una differente formulazione che costituisce, per così dire, «il rovescio della medaglia»: la parte ha l’onere di appellare in via incidentale, allorché invoca una riforma della sentenza di primo grado peggiorativa della situazione del primo impugnante o di una diversa parte.

13. (Segue). La chiamata in garanzia.

13. Nel caso di chiamata in garanzia si sostiene che, di fronte all’appello dell’attore contro il rigetto della domanda proposta contro il garantito, costui è tenuto a riproporre la domanda contro il garante mediante appello incidentale, non solo nell’ipotesi di espresso accertamento negativo sull’esistenza del diritto di garanzia (154), ma anche in quella di mancato esame della richiesta di malleva come conseguenza del rigetto della domanda dell’attore(155). E il gravame incidentale del garantito sarebbe necessariamente condizionato al riconoscimento della fondatezza della pretesa dell’attore-appellante nei confronti del garantito stesso(156).

La soluzione non convince, giacché nel secondo caso sulla domanda di garanzia non v’è stata alcuna soccombenza del garantito né alcuna pronuncia idonea al giudicato, potendosi riproporre tale domanda in un successivo giudizio comunque si concluda il processo di gravame tra il terzo e il garantito(157). E un’impugnazione qual è l’appello incidentale (anche condizionato) non può concepirsi se non per rimuovere una soccombenza materiale. La situazione in appello non è, del resto, diversa da quella che si ebbe in primo grado, poiché al rigetto dell’azione del terzo ha fatto seguito l’assorbimento (stricto sensu) della domanda di garanzia. Sicché, al convenuto-appellato è sufficiente riproporre questa domanda ai sensi dell’art. 346, senza necessità di un gravame incidentale(158).

14. (Segue). L’omissione di pronuncia.

14. L’indicato criterio pare in grado di risolvere con sufficiente linearità anche i casi di omissione di pronuncia e di domande a petitum divisibile, senza che occorra evocare la problematica del «capo di sentenza».

Pur parendo indubitabile che una pronuncia omessa non può mai costituire «parte» di sentenza idonea a passare in giudicato per effetto di impugnazione parziale ai sensi dell’art. 329, cpv., con possibilità di riproporre la domanda in un nuovo processo(159), la parte che ha visto violare il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) ha pur sempre risentito di un pregiudizio concreto e, per rimuoverlo, deve gravarsi contro la sentenza con le forme e nei termini dell’appello principale o (per quel che ne occupa in questo scritto) di quello incidentale. E se è pur vero che l’appello potrà non contenere l’esposizione dei motivi — che avrebbe poco senso impegnarsi nel censurare una «pronuncia che non c’è» — e, nella sostanza, basterà ribadire al secondo giudice la volontà che si decida sulla domanda o sull’eccezione non esaminata né assorbita in prime cure(160), ciò non consente di adottare il metodo della riproposizione mera ex art. 346, che non vale a rimuovere la soccombenza né può far conseguire alla parte il bene della vita cui aspirava(161). Né può giustificarsi quest’idea rilevando come in tal modo meglio si spieghi l’orientamento che non ritiene necessaria, in caso di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato rilevata in appello, una rimessione in primo grado ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c.(162); cosí i termini del ragionamento paiono invertiti e, per fondare una soluzione correttamente e per altra via conseguita dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti(163), non si spiega perché la riproposizione mera ex art. 346 debba prevalere sull’adozione della forma impugnatoria.

Anzi, se si riconosce al convenuto, oltre che all’attore, il potere di lamentare il vizio di omissione di pronuncia su una domanda onde impedirne la proponibilità in un nuovo processo(164), in forza dell’enunciato criterio garantistico per cui qualunque domanda di reformatio in danno di una parte del processo deve estrinsecarsi in un atto di impugnazione, anch’egli dovrà adottare la forma e rispettare i termini dell’appello incidentale.

15. (Segue). Le domande a petitum divisibile.

15. Non diversa è la conclusione per le domande a petitum divisibile e specialmente per le azioni di risarcimento dei danni che, come noto, possono articolarsi in plurime voci (danno patrimoniale sotto forma di danno emergente o di lucro cessante; danno biologico; danno non patrimoniale; danno «esistenziale»). L’accoglimento parziale nel quantum della domanda formulata dall’attore (ad es., il convenuto viene condannato a pagare 50 anziché 100 come richiesto dall’attore; vengono riconosciuti gli interessi, ma non la rivalutazione monetaria; oppure, ancora, è accolta la domanda di risarcimento del danno emergente, ma non quella relativa al mancato guadagno) determina una tipica soccombenza reciproca, sicché ambedue le parti, se vogliono rimuovere il pregiudizio pratico scaturito dalla sentenza e ottenere un miglior risultato in appello, hanno l’onere di impugnare in via principale o incidentale. Questa conclusione, solitamente giustificata dalla giurisprudenza con il divieto di reformatio in peius(165), meglio si fonda sui concetti di soccombenza pratica e di interesse a impugnare da questa generato. Non occorre viceversa impegnarsi nel difficile compito di stabilire se (in caso di accoglimento parziale della domanda a petitum divisibile) si hanno due capi o un unico capo di sentenza o se le diverse voci di danno fondano autonome situazioni sostanziali e, dunque, le pronunce che le concernono costituiscono separate parti di sentenza(166): simili quesiti hanno rilievo, invero, per sapere se si può scomporre il quantum in diverse azioni giudiziarie o se si può agire separatamente per le singole voci risarcitorie o, al limite, per stabilire se costituisce mutatio libelli l’allegazione in corso di causa di danni diversi da quelli originariamente dedotti, ancorché generati dal medesimo fatto storico, ma non paiono utili per stabilire se sussista o meno un onere di appellare in via principale o incidentale(167). Quando l’appellato lamenta l’accoglimento solo parziale della sua domanda risarcitoria, se vuole che essa venga accolta totalmente o in misura maggiore rispetto al primo grado deve interporre gravame incidentale.

16. (Segue). La riproposizione delle eccezioni.

16. Si ammette che il convenuto possa graduare le varie eccezioni di merito secondo l’utilità che l’accoglimento dell’una invece che dell’altra gli assicura, anche se il giudice, nella soluzione delle varie questioni, può seguire l’ordine suggerito dal caso concreto, senza predeterminazioni di sorta(168).

Per esempio, il convenuto può dedurre in via principale la nullità del contratto su cui si fonda la domanda e, in subordine, il mancato avveramento della condizione cui la prestazione è sottoposta(169). Accolta dal giudice quest’ultima eccezione, il convenuto-appellato, pur formalmente vittorioso nel merito, ha l’onere di appellare per incidens la pronuncia di rigetto dell’eccezione di nullità del contratto se vuole ottenerne la riforma (la sua situazione è analoga a quella dell’attore che si sia visto rigettare la domanda principale e accogliere la subordinata)(170). Riforma che, riconoscendo l’inesistenza di un fatto costitutivo del credito preteso dall’attore (quod nullum est nullum producit effectum), anziché di un fatto meramente impeditivo dell’attuale esigibilità di esso, evita ulteriori controversie(171).

Ma vi sono altre ipotesi in cui, pur in assenza di una gradazione delle eccezioni basata sull’interesse del convenuto, l’accoglimento dell’una invece che dell’altra reca a questi un pregiudizio. Può farsi il caso dell’eccezione di compensazione (172) proposta contestualmente a un’eccezione di prescrizione: qualora il credito dell’attore fosse dichiarato estinto per compensazione, il convenuto deve appellare la sentenza se vuole ottenere una riforma della pronuncia di rigetto dell’eccezione di prescrizione, che gli recherebbe un vantaggio ben più ampio perché il credito opposto in compensazione rimarrebbe intatto. E, quand’anche mancasse una gradazione delle eccezioni da parte del convenuto, l’eccezione di compensazione sarebbe necessariamente subordinata alle altre eccezioni alternativamente proposte e coinvolgenti l’effettiva esistenza del credito vantato dall’attore, che imprescindibile presupposto dell’estinzione di due crediti per compensazione è l’accertamento della loro attuale esistenza(173).

Così assimilate le due fattispecie, va detto che in entrambe il caso inverso di accoglimento dell’eccezione principale impedisce che il convenuto-appellato debba utilizzare l’appello incidentale per far riesaminare dal giudice ad quem l’eccezione (volutamente o necessariamente) subordinata, a ciò bastando la mera riproposizione ex art. 346, giacché pieno è stato per il convenuto il risultato conseguito dalla sentenza di primo grado(174).

Questa conclusione vale anche per le eccezioni, processuali o di merito, rilevabili d’ufficio ed espressamente rigettate: l’esplicito rigetto di esse le priva della rilevabilità ex officio, ma solo nella misura in cui il convenuto possa aspirare ad un miglioramento della sua posizione in appello, egli sarà tenuto a riproporle nella forma e nei termini dell’appello incidentale; diversamente, la riproposizione mera potrà bastare(175). Se invece su tali eccezioni non è stata emessa alcuna pronuncia, esse resteranno rilevabili d’ufficio anche in seconde cure(176).

17. Appello incidentale da sentenza non definitiva.

17. La novella del 1950 ha, in parte, vulnerato il sistema originario del codice del 1940, trasformando la riserva di impugnazione della sentenza parziale da obbligatoria in facoltativa (artt. 340 e 361 c.p.c.): mentre nel testo del c. p. c. del 1940 le sentenze non definitive potevano essere impugnate solo con la sentenza definitiva, con la riforma del 1950 è divenuto possibile interporre contro di esse un gravame immediato, con evidente pregiudizio per l’economia processuale e per l’unità del processo(177).

Per comune ammissione, la riserva di gravame contro sentenze non definitive occorre solo per le impugnazioni principali e non anche per quelle incidentali(178). Da quest’opinione dovrebbe dedursi che l’appello incidentale da sentenza non definitiva è consentito in qualunque caso in cui ne esistano i presupposti, indipendentemente dalla circostanza che sia stata formulata un’esplicita riserva. Così, ove la sentenza non definitiva sia impugnata immediatamente da un’altra parte, chi sia rimasto in essa soccombente parziale ha l’onere di proporre il proprio gravame in via incidentale in quello stesso processo, poiché la riserva non è più possibile o, se già apposta, diviene inefficace (art. 340, ult. comma, c.p.c.)(179). Qualora altra parte impugni una sentenza parziale posteriore ad altra sentenza non definitiva riservata da chi, in questa, rimase soccombente, l’art. 340, 2° comma, costringe costui a sciogliere la riserva e a proporre appello incidentale contro la sentenza non definitiva che gli fu sfavorevole(180). A conclusione non dissimile si dovrebbe infine pervenire per l’ipotesi di impugnazione della sentenza definitiva ad opera di parte diversa da chi soccombette nella sentenza non definitiva(181).

Eppure, soventi volte si è esclusa la proponibilità di un gravame incidentale (soprattutto se tardivo) avverso la sentenza non definitiva, ancorché riservata, quando la sentenza definitiva sia stata impugnata(182). E a fondamento di ciò si è per lo più addotta la ragione che l’interesse a impugnare la sentenza non definitiva non è provocato dall’impugnazione della sentenza definitiva da altri proposta, in quanto le due pronunce restano autonome, senza che tra di esse corra alcun nesso(183). Che è poi la stessa ragione tradizionalmente posta alla base dei limiti oggettivi dell’impugnazione incidentale tardiva e che deve considerarsi (finalmente) superata dal più recente orientamento della Suprema Corte, dopo il revirement avallato dalle Sezioni unite(184).

Qui basterà sottolineare l’inaccettabilità di quest’opinione, che considera in termini puramente astratti l’interesse ad impugnare in via incidentale, facendo riferimento a un legame formale tra sentenza non definitiva e sentenza definitiva, senza considerare che, in realtà, tale interesse deve essere valutato complessivamente, in base all’intero esito del processo che tutti i decisa concorrono a determinare(185). Sicché, l’appello incidentale tardivo da sentenza non definitiva, in un processo aperto dall’altrui gravame contro la sentenza definitiva, è ammissibile (allorché ne ricorrano i presupposti di legittimazione) non solo nell’ipotesi di intervenuta riserva(186), ma anche in quella in cui la sentenza parziale non sia stata riservata, poiché l’art. 334 prevede i casi di scadenza del termine per impugnare in via principale e di acquiescenza, ai quali l’omessa riserva può essere parificata(187).

E ciò dovrebbe valere tanto per l’ipotesi in cui la sentenza non definitiva abbia deciso parzialmente il merito (artt. 279, nn. 3 e 4, e 340, comma 1, c.p.c.) ovvero sia consistita in una condanna generica ex art. 278 c.p.c.(188), quanto nell’ipotesi in cui siano state risolte questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito (artt. 279, nn. 2 e 4 e 340, 1° comma, c.p.c.)(189).

Proprio queste ultime sono le fattispecie che ci interessano in questa sede, onde completare il discorso sull’onere di appello incidentale. Si è infatti soliti escludere che occorra un gravame incidentale dell’appellato vittorioso nel merito per riproporre in appello le questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito risolte in senso a lui sfavorevole nella sentenza definitiva, a ciò bastando la riproposizione mera ex art. 346(190). Quando invece una di tali questioni viene risolta con sentenza non definitiva ex art. 279, n. 4, c.p.c., la parte in essa soccombente ma vittoriosa nel merito, se vuole che il giudice del gravame riesamini la pronuncia sfavorevole, è tenuta a interporre un appello incidentale avverso la sentenza parziale allorché la controparte, soccombente sostanziale, impugni la sentenza definitiva(191). Invero la questione ha assunto una sua autonomia, in quanto contenuta nel dispositivo di una sentenza espressamente ed esclusivamente diretta a risolverla (192) e, in caso di vittoria finale della parte che è rimasta soccombente nella sentenza parziale, l’impugnazione principale della controparte desta in lei l’interesse ad appellare per incidens la pronuncia sfavorevole, sia pure condizionatamente all’eventuale accoglimento del gravame avversario(193). D’altra parte, non si vede come possa ottenersi la riforma di una sentenza se non attraverso un’impugnazione: allo scopo certamente non basterebbe la riproposizione mera ex art. 346(194).

18. L’appello incidentale condizionato.

18. Ci siamo dunque imbattuti nella figura, un po’ particolare, dell’appello incidentale condizionato: esso è legato all’appello principale non soltanto formalmente (perché si colloca nel medesimo processo), ma anche sotto un profilo contenutistico, nel senso che il giudice ad quem potrà portare la propria cognizione sull’oggetto dell’appello condizionato solo qualora abbia accolto (interamente o parzialmente) la domanda di riforma avanzata dal primo impugnante(195). Questo perché il gravame condizionato non tende a ottenere un miglioramento della posizione giuridica dell’appellato (pienamente soddisfatto dalla pronuncia ottenuta in prima istanza), ma predispone un riparo e costituisce una difesa allo scopo di preservare l’utilità accordata dal giudice a quo (o un più ristretto vantaggio) nell’eventualità che la sentenza favorevole sia travolta dalla riforma domandata ex adverso. Né rileva la circostanza che la condizione apposta all’appello incidentale modifichi il cosiddetto ordine logico della pregiudizialità, cioè l’ordine che il giudice dovrebbe normalmente seguire nella trattazione delle questioni a lui sottoposte, occupandosi anzitutto di quelle pregiudiziali di rito e successivamente delle questioni di merito, giacché in fase di gravame è intervenuto, rispetto al primo grado, un fattore nuovo: la soccombenza teorica della parte vittoriosa nel merito(196). E poiché essa ha interesse a tenere ferma la sentenza impugnata, che le procura il massimo vantaggio, il giudice di appello non potrà conoscere della questione riproposta con gravame incidentale condizionato prima di aver accertato la fondatezza del gravame principale, anche se l’esame di essa in primo grado solitamente precede l’esame del merito: diversamente, il giudice ad quem attuerebbe un’inammissibile ingerenza in quelli che sono i diritti rientranti nell’esclusiva disponibilità delle parti(197). D’altronde, l’interesse dell’appellato si concretizza solo in caso di accoglimento dell’impugnazione principale, di guisa che l’appello incidentale condizionato è proposto in via di precauzione, per il caso di riforma della pronuncia di prime cure(198).

Patenti sono le sovrapposizioni tra le fattispecie che richiedono il gravame incidentale condizionato e le ipotesi rientranti nell’art. 346. E in effetti, stante l’ampia portata che si è preferito attribuire a tale norma, i casi di appello incidentale condizionato sono puramente residuali. Il più tipico caso è stato appena indicato: si tratta dell’appello incidentale condizionato da sentenza non definitiva su questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito. Altra ipotesi si incontra per il rigetto dell’azione di garanzia, quando risulti contemporaneamente rigettata la domanda principale (v. supra al par. 13), ma è situazione processuale non diversa da quella che si aveva in prime cure, dove l’esame della domanda di garanzia dipendeva ex necesse dall’accoglimento dell’azione principale.

Un ultimo caso è quello in cui l’appellato, pur se parzialmente soccombente nel merito, decida pro bono pads di condizionare il riesame della pronuncia a lui sfavorevole all’accoglimento dell’impugnazione principale, con un «potere di autorestringimento dell’ambito di operatività dell’impugnazione incidentale» rientrante nella disponibilità della parte(199).

Nei rimanenti casi l’appello incidentale condizionato va, in linea di massima, escluso: l’art. 346 c.p.c. è norma idonea a disciplinare la maggior parte delle ipotesi di assorbimento di una pronuncia sfavorevole per indifferenza della medesima con riguardo all’esito della prima fase del giudizio ed esonera dall’osservanza delle forme e dei termini del gravame incidentale.

Così, non occorre appello incidentale condizionato per le domande subordinate non esaminate o respinte nel caso in cui sia accolta la domanda principale(200), né per le domande alternative nell’ipotesi di accoglimento di una di esse(201).

19. Breve conclusione sulla casistica esaminata.

19. Le fattispecie analizzate dimostrano che la prospettiva in cui è opportuno che si collochi il giudice ad quem nel valutare la necessità o meno dell’appello incidentale è quella del vantaggio acquisibile attraverso il giudizio di seconde cure, anziché quella della differenza tra conclusioni della parte e dispositivo della sentenza, secondo il concetto classico della formelle Beschwer. Prospettiva, nel complesso, non diversa da quella in cui egli si deve collocare al fine di constatare l’esistenza del requisito dell’interesse a impugnare, in via principale o (appunto) incidentale, esaminando la Geltendmachung der Beschwer, cioè la prospettazione della soccombenza, dalla quale può evincersi il vantaggio cui la parte aspira attraverso il gravame(202).

Se poi si volesse dare a questo asserto una formulazione che tenga conto delle esigenze di tutela della parte, potrebbe dirsi che il giudice di secondo grado, per verificare quando occorre un gravame incidentale, deve porsi nell’ottica del pregiudizio pratico arrecabile ad una parte in conseguenza della riforma proposta da altra parte (diversa dal primo impugnante) avverso una pronuncia contenuta nella sentenza impugnata.

Questa prospettiva trova, ci pare, precise giustificazioni e presenta al contempo alcuni vantaggi: a) rispetta la storia e la ratio dell’art. 346 c.p.c.b) non oblia e un radicato principio di civiltà giuridica qual è il divieto di reformatio in peius, che merita di essere conservato anche se non trova sicuri appigli in iure condito (quantomeno nel codice di rito civile, ché in quello penale esso viene espressamente sancito); cevita di far ricorso all’equivoco concetto di «parte di sentenza», che muta a seconda della sentenza (definitiva o non definitiva) impugnata e, soprattutto, a seconda del tipo di impugnazione proposta, giacché è lo stesso art. 329, cpv., in quanto norma applicabile alla generalità dei mezzi di impugnazione, a collegare tale concetto con la struttura di ciascun mezzo impugnatorio, imponendone volta per volta un adattamento: ed è per questo che la nozione di «parte di sentenza» è eminentemente relativa e giova solo ad interpretare le norme in cui viene utilizzata (l’art. 329, cpv., e l’art. 336, comma 1, c.p.c.), trattandosi di un mero Gebotsbegriff, come è stato ben evidenziato(203)d) non richiede l’adesione a priori ad alcuna particolare teoria sui limiti oggettivi del giudicato e sembra compiere un errore prospettico chi esige sempre il gravame incidentale per rimuovere una pronuncia sfavorevole idonea a passare in giudicato, perché non tiene conto che la formazione del giudicato dipende dalla disciplina dei mezzi di impugnazione, disciplina che, nel caso dell’appello, non sempre richiede la forma impugnatoria per devolvere al secondo giudice la cognizione su una questione controversa e per evitare che la relativa pronuncia divenga irrevocabile; e) attraverso il concetto di «assorbimento» in senso lato, quale strumento fondamentale per applicare l’art. 346 ai casi in cui la pronuncia negativa od omessa su una domanda o su un’eccezione viene assorbita dalla vittoria altrimenti ottenuta dall’appellato, l’operazione interpretativa può fondarsi sulle nozioni di soccombenza materiale e di interesse ad impugnare ormai acquisite in dottrina e che, per quanto veduto al par. 5, fanno ormai breccia nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Le conclusioni alle quali siamo pervenuti si risolvono sostanzialmente in una difesa dell’orientamento tradizionale della Cassazione che, attraverso i concetti di soccombenza pratica e di soccombenza teorica, riesce in linea di massima a sceverare i casi in cui occorre l’appello incidentale da quelli in cui basta la riproposizione mera. Si tratta, d’altronde, di insegnamento risalente, che trova origine nella storia remota e recente dell’effetto devolutivo e nella ratio dell’art. 346 c.p.c., norma sconosciuta ad altri ordinamenti come quello francese e tedesco, nei quali l’appello incidentale, proponibile sino alla chiusura della trattazione, serve non solo a fini impugnatori, ma anche per riproporre domande ed eccezioni (che noi diremmo) assorbite(204). Il sommo Chiovenda osservava non era necessario l’appello incidentale per riproporre le varie deduzioni fatte dall’appellato in prima istanza, quando taluna fu respinta ma altra fu accolta, raggiungendo il risultato pratico a cui tendevano tutte; mentre l’appello incidentale occorreva in quei soli casi in cui l’appellato avrebbe avuto interesse a dolersi della sentenza in via principale(205): pensiero che era conforme a quello della dottrina formatasi sul codice del 1865 (206) e che ancora è stato ribadito sotto il codice del 1940(207)L’orientamento giurisprudenziale va adeguato alle odierne acquisizioni dottrinali in tema di interesse a impugnare e al mutato regime delle preclusioni introdotto con legge n. 353 del 1990. Così, la riproposizione mera delle domande e delle eccezioni non accolte basterà solo allorché tenda alla conservazione del risultato utilitaristico conseguito in prime cure, senza recare alla controparte alcun pregiudizio ulteriore rispetto a quello da essa subito per effetto della sentenza(208); tale riproposizione dovrà avvenire nella prima udienza di comparizione, essendo caduta la possibilità di compiere nuove allegazioni sino all’udienza di precisazione delle conclusioni (v. supra al par. 6). Ovviamente — è persino superfluo ricordarlo — qualora l’appellato produca un gravame incidentale allorché sarebbe stata sufficiente la riproposizione mera ex art. 346, avendo egli fatto più di quanto normativamente richiesto, la riproposizione delle domande o delle eccezioni non accolte ha da intendersi per compiuta(209)..

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(1) V. già Chiarloni, L’impugnazione incidentale. Oggetto e limiti, Milano, 1969, 137; Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1974, 1346; da ultimo Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 133 e segg.; Bianchi, I limiti aggettivi dell’appello civile, Padova, 2000, 189 e segg.

(2) Così Mortara, Commentario delle leggi e del codice di procedura civile, IV, Milano, 1918, 396, che però riteneva che l’effetto devolutivo non operasse automaticamente (v. infra nel testo); sulla devoluzione automatica delle questioni risolte a sfavore dell’appellato vittorioso v. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1927, 993 e seg.; Mattirolo, Trattato del diritto giudiziario civile italiano, IV, Torino, 1904, 612 e segg. Sulla disciplina del c. p. c. del 1865 v. ampiamente Rascio, op. cit., 12 e segg. e, in particolare, 38 e segg.

(3) Non è inopportuno riportare il testo della Lex Ampliorem: «Sancimus itaque, si appellator semel in iudicium venerit et causas appellationis suae proposuerit, habere licentiam et adversarium eius, si quid iudicatis opponere maluerit, sipraesto fuerit, hoefacere et iudiciale mereripraesidium: sin autem absens fuerit, nihilominus iudicem per suum vigorem eius partes adimplere» (Cost. 39 § 1, De appellationibus et consultationihus, VII, 62). Sulla Lex Ampliorem v. già Mortara, voce «Appello civile», estratto dal Digesto It., Torino, 1898, 959, ed ora Pergami, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano, 2000, 228 e seg.; Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano, 1965, 180 e segg.

(4) V. Bonsignori, Premesse allo studio dell’effetto devolutivo dell’appello, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1971, 731; Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, II, Milano, 1967, 225 e seg.: in ambedue le opere possono rinvenirsi ampi richiami alle fonti medievali, tra cui si possono ricordare Bartoli a Saxoferrato, Secunda super digesto novo, Lugduni, MDXXXIII, tit. de appell, lex appellanti, n. 1, che evidenzia la regola «appellavi determinate ab uno capitulo: tunc appellano non porrigit ad alia capitula, nisi sunt connexa»; Durantis, Speculum iuris, Venetiis, MDLXXVI, II, tit. de appell, 3, § 1, n. 13; Azonis, Summa super codicem, Lugduni, MDLXXXIII, de appell, LXII, foglio 170, n. 18; Baldi, Commentaria in VII, VIII, IX, X e XI libros codicis, Venetiis, MDCXV, tit. de appell., lex XXXV, nn. 3 e 4, foglio 101.

(5) Cfr. Mortara, Commentario, cit., 336; Id., Appello, cit., 957, 959 e 964; Chiovenda, Principii, cit., 993 e seg.

(6) Sul punto v. amplius infra al § 5 e, sin d’ora, gli Autori citati nella nota precedente, al quali adde Ricci, Commento al codice di procedura civile italiano, II, Firenze, 1895, 541.

(7) Mortara, Appello, cit., 969 e segg.; Chiovenda, Principii, cit., 994.

(8) Mortara, Appello, cit., 965 e seg.; Id., Commentario, cit., 396.

(9) Mortara, Appello, cit., 970; Id., Commentario, cit., IV, 395 e segg.

(10) Mortara, Commentario, cit., 397 e segg., che tuttavia era voce isolata.

(11) La proposta di disciplinare anche l’ipotesi dell’appellato contumace era stata di Satta, in Osservazioni e proposte sul progetto di c. p. c., II, Roma, 1938, 700, e rievoca la Lex Ampliorem, là dove consentiva al giudice di far le veci del contumace («…sin autem absens fuerit, nihilominus iudicem per suum vigorem eius partes adimplere» (v. supra in nt. 3).

(12) Lo osserva Chiarloni, voce «Appello (dir. proc. civ.)», in Enc. Giur. Treccani, Agg. IV, Roma, 1995, 13; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 137; v. anche Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1346. Per un tentativo esegetico recente v. Rasoio, op. cit., 133 e segg.

(13) Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, 1, 1934, Napoli, 248 e seg.

(14) Su questo significato dell’espressione «domande» non esistono dubbi in dottrina: v. Attardi, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. It., 1961, IV, 145; Bonsignori, op. ult. cit., 1326; Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 143; Andrioli, Commento al c. p. c., II, Napoli, 1957, 460; Cerino Canova, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 298; Salvaneschi, L’interesse ad impugnare, Milano, 1990, 74. V. però criticamente Rasoio, op. cit., 247 e segg. Le incertezze emergono quando si vuole ravvisare in questo l’unico significato riconducibile al termine «domande», con la conseguenza di escludere le domande in senso tecnico dal disposto dell’art. 346 c.p.c.: in tal senso v. Attardi, op. loc. cit.; Salvaneschi, op. loc. cit.; Chiarloni, op. loc. ult. cit., che però sembra porre l’equivalenza tra domande e ragioni o motivi delle domande su un piano metodologico e non perché il senso dell’art. 346 c. p. c. possa effettivamente essere ristretto alle sole «ragioni della domanda»: difatti, lo stesso Autore, nella successiva voce «Appello», cit., 14, fa rientrare nel disposto dell’art. 346 anche le domande in senso tecnico assorbite dall’accoglimento della domanda principale; e di quest’opinione sono anche Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 307; Bonsignori, op. ult. cit., 1350; Vellani, voce «Appello (dir. proc. civ.)», in Enc. Dir., II, Milano, 1958, 731.

(15) Cfr. soprattutto Chiarloni, voce cit., 14; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 146 e segg.; Bonsignori, op. ult. cit., 1354; contra Andrioli, Commento, cit., II, 459; Vellani, op. loc. cit.; Giudiceandrea, Le impugnazioni civili, I, Milano, 1952, 121. La giurisprudenza ritiene che il richiamo alle istanze istruttorie inerenti al capo di sentenza impugnato o riproposto avvenga automaticamente e, quindi, esclude i mezzi di prova dall’ambito dell’art. 346 c.p.c.: cfr. Cass., 5 luglio 1996, n. 6170, in Foro It., 1997, I, 2262, con nota critica di Rascio; Id., 19 giugno 1993, n. 6843; Id., 8 maggio 1993, n. 5320; Id., 19 maggio 1986, n. 3285. Però, l’interpretazione giurisprudenziale è in contrasto con l’altro consolidato orientamento che reputa abbandonate le istanze istruttorie non riproposte esplicitamente in sede di precisazione delle conclusioni nel primo grado di giudizio, precludendone in tale evenienza anche la riproposizione in appello: cfr. Cass., 22 maggio 1995, n. 5618;Id., 19 ottobre 1988, n. 5682, la quale impone, a pena di decadenza, di precisare le conclusioni anche sulle eventuali eccezioni di inammissibilità dei mezzi di prova assunti; v. però Cass., 7 giugno 1982, n. 3439, in Foro It., 1982, I, 1865, nel senso che l’istanza istruttoria, su cui il giudice non si è pronunciato, può essere riproposta in appello anche quando non sia stata ripresentata in sede di precisazione delle conclusioni. Rasoio, op. cit., 294 e segg., pur negando l’applicabilità dell’art. 346 c. p. c. alle istanze istruttorie disattese in primo grado, ritiene che la riproposizione di esse sia comunque imposta alle parti dalla natura strumentale dei mezzi di prova rispetto alle domande o alle eccezioni introdotte in giudizio ed estende tale conclusione anche alle contestazioni concernenti l’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova già assunti. Sui termini e sulle modalità della riproposizione delle istanze istruttorie sia consentito il rinvio a Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 148 e segg., ove ulteriori riferimenti.

(16) Cfr. Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 151; Bianchi, op. cit., 200 e segg.

(17) Le questioni rilevabili d’ufficio su cui il giudice si è espressamente pronunciato, infatti, nel passaggio da un grado all’altro della controversia perdono questa loro caratteristica, perché la disciplina della rilevabilità d’ufficio va coordinata con quella delle impugnazioni e, per le questioni processuali, con la regola dell’assorbimento dei vizi di nullità dettata nell’art. 161, 1° comma, c. p. c.: v. Chiarloni, op. ult. cit., 152 e segg.; Luiso, voce «Appello», in Digesto Civ., I, Torino, 1987, 368; in giurisprudenza Cass., 26 marzo 1997, n. 2678;Id., 12 settembre 1995, n. 9645; Id., Sez. un., 25 febbraio 1994, n. 1887; Id., 12 maggio 1993, n. 5394; Id., 13 giugno 1991, n. 6657. Contra Attardi, op. cit., 153; Cerino Canova, op. cit., 300, nt. 62; Bianchi, op. cit., 204. Rascio, op. cit., 269 richiede sempre l’appello incidentale per riproporre le questioni rilevabili d’ufficio che siano state decise dal primo giudice. Sul tema v. anche infra al par. 16.

(18) V. Chiarloni, op. ult. cit., 140; Rascio, op. cit., 143 e segg.

(19) Cfr. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, Padova, 1985, 756 e segg,; Liebman, op. loc. ult. cit.; v. anche Luiso, op. loc. ult. cit.

(20) V. esposte in Rasoio, op. cit., 134 e segg., e Bianchi, op. cit., 189 e segg. le varie tesi sull’ambito applicativo dell’art. 346.

(21) V. Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 140. Sui rapporti tra art. 329 cpv. e art. 346 v. al § 8.

(22) Così Chiarloni, op. ult. cit., 142. Sul problema della discrezionalità del giudice e del cosiddetto diritto alla prova v., da ultimo, DitTRiCH, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, 2000, 36 e segg.

(23) La tradizione del diritto comune, scaturita ab antiquo dalla Lex Ampliorem di Giustiniano del 530 d.C, riconosceva efficacia «reale» all’appello promosso da una delle due parti e consentiva che il giudice riformasse la pronuncia di primo grado anche in senso favorevole all’appellato contumace, a prescindere da ogni iniziativa impugnatoria (cfr. Rebuffe, Commentarium in constitutiones seu ordinationes regias, Lugduni, 1581, Tractatus de appellationihus, praefatio n. 26, secondo cui «licet de iure appellatus possit se iuvare appellatione appellantis»). Solo nei sistemi d’oltralpe (francese e tedesco) andò affermandosi il principio della «personalità» dell’appello e si diffuse la regola secondo cui «est opus utramquepartem appellare, alioquin appellatio nihil proderit ei qui non appellavit, nec sententia quoad eum reformabitur» (cosí Rebuffe, op. cit., praefatio n. 25).

(24) Mortara, Appello, cit., 970, ricordato anche supra alle note 9 e 10.

(25) Cosí Mortara, Commentario, cit., IV, 396; Chiovenda, Principii, cit., 993 e seg.

(26) V. anche Coniglio, in Osservazioni e proposte, cit., II, 700; Chiarloni, Appello, cit., 13, ove si sottolinea che la norma assume «un suo pregnante rilievo con riguardo all’appellato»; Luiso, op. cit., 368; nonché, almeno implicitamente, Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 439.

(27) Chiarloni, op. loc. ult. cit.; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 137; Vellani, op. cit., 731 e seg.; Andrioli, Commento, cit., II, 458.

(28) Cfr. Nigro, op. loc. ult. cit., secondo cui «l’esatta comprensione del disposto dell’art. 346 c.p.c. non può prescindere dalla collocazione di esso in rapporto con l’effetto devolutivo, con la sua storia e con la sua evoluzione».

(29) Liebman, Manuale, cit., II, 265; e già Mortara, Appello, cit., 964; e Chiovenda, op. loc. ult. cit.

(30) Mortara, op. loc. ult. cit.; Vellani, op. cit., 722; D’Onofrio, voce «Appello», in Noviss. Dig. lt., I, Torino, 1957, 729.

(31) V. ampiamente Salvaneschi, op. cit., 159 e segg., che dimostra come il concetto di soccombenza formale sia ellittico, poiché non tiene conto di talune situazioni in cui, pur essendo la parte totalmente vittoriosa rispetto alle conclusioni assunte in giudizio, l’interesse ad un riesame della controversia potrebbe essere egualmente ravvisato (ad es. nei casi di adesione del convenuto alla domanda dell’attore, di sentenza inesistente o di sentenza dichiarativa dell’estinzione, nonché nell’ipotesi di impugnazione delle sentenze di divorzio su domanda congiunta ex art. 5, 5° comma, legge n. 898 del 1970, modificato con legge n. 74 del 1987).
La dottrina tedesca distingue tra 
formelle Beschwer materielle Beschwer: la prima è, grosso modo, assimilabile al nostro concetto di soccombenza formale, mentre la seconda è legata agli effetti pregiudizievoli della decisione per un soggetto la cui posizione giuridica riesce aggravata: v. Jauernig, Zivilprozeßrecht, München, 1998, 269 e seg.; Betterman, Die Beschwer als Rechtsmittelvoraussetzung im deutschen Zivilprozeß, in ZZP, 1969, n. 82, 24 e segg.

(32) V. Salvaneschi, op. cit., 385 e, soprattutto, Ohndorf, Die Beschwer und die Geltendmachung der Beschwer als Rechtsmittelvoraussetzungen im deutschen Zivilprozeßrecht, Berlin, 1972, 60 e segg., che espressamente parla della Geltendmachung der Beschwer come presupposto soggettivo del gravame, distinto dalla cosiddetta Rechtsmittelbedürfnis, cioè dal bisogno di tutela attraverso lo strumento impugnatorio con cui la parte aspira a rimuovere il pregiudizio patito per effetto della sentenza. Non sempre, però, alla soccombenza corrisponde un onere di impugnazione (che Betterman, op. cit., denomina Rechtsmittelschutzbedürfnis), né la Beschwer o la Geltendmachung der Beschwer possono essere ridotte a questo (Ohndorf, op. cit., 73 e segg.).

(33) V. Salvaneschi, op. cit., 386 e seg.

(34) Si tratta di quella che i tedeschi chiamano «Geltendmachung der Beschwer», cioè l’affermazione della propria soccombenza che è richiesta a pena di inammissibilità del gravame: v. Salvaneschi, op. cit., 263 e 265 e seg.

(35) Per la necessità di adottare una nozione non rigida di interesse a impugnare si pronunciano Salvaneschi, op. cit., 412, e Grasso, Le impugnazioni in generale, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1988, 1342, sí da lasciare al giudice la possibilità di valutare caso per caso l’esistenza di un’utilità concretamente conseguibile dall’impugnante.

(36) V. Salvaneschi, op. cit., 402 e segg. La giurisprudenza della Suprema Corte è ancorata al tradizionale criterio della soccombenza formale (v. Cass., 4 aprile 1986, n. 2361;Id., 5 dicembre 1985, n. 6380, in Giust. Civ.,1985, I, 2810, con nota di Menchini; Id., 19 agosto 1985, n. 5156; Id., 3 agosto 1984, n. 4616), anche se talvolta il concetto di soccombenza materiale sembra penetrare in alcune decisioni, che si riferiscono al «pregiudizio sostanziale» o «concreto» sofferto dalla parte che impugna e al «vantaggio» o all’«utilità» conseguibili attraverso la riforma (cfr. Cass., 18 marzo 1999, n. 2494, in Giur. lt., 2000, 1407, secondo cui, «ai fini della sussistenza dell’interesse ad impugnare una sentenza rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, che faccia riferimento non già alla divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, ma agli effetti pregiudizievoli che dalla medesima derivino nei confronti della parte»; Id., 25 febbraio 1994, n. 1925, in Giur. lt., 1995, I, 1, 668, con nota di Lombardi; Id., 24 marzo 1987, n. 2847; Id., 11 novembre 1986, n. 6592; Id., 8 marzo 1986, n. 1558, in Foro lt., 1986, I, 1240, con nota di Orsenigo, e in Giur. lt., 1987, I, 1, 2074, con nota di Attardi, ivi, 1987, IV, 481, ove si ammette l’impugnazione del convenuto che ha riconosciuto il diritto dell’attore; Id., 31 gennaio 1986, n. 617; Id., 24 gennaio 1986, n. 457; nonché soprattutto Id., 30 ottobre 1984, n. 5538, in Giust. Civ., 1985, I, 345, che ha ammesso il coniuge convenuto, il quale si sia in primo grado associato alle conclusioni dell’attore, ad impugnare la sentenza che quelle conclusioni abbia accolto, deducendo che, in effetti, al momento della proposizione della domanda di divorzio non era ancora decorso il termine di separazione; nonché Id., 25 maggio 1983, n. 3616).

(37) Si scrive, infatti, che «un gravame presentato in via incidentale a norma dell’art. 333 c.p.c. … in sostanza è un gravame principale»: cosí Vellani, op. cit., 724. Si aggiunge che l’art. 333 ha la funzione oggettiva di conservare l’unità del giudizio di impugnazione contro una sentenza (Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 18; Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 12; Andrioli, Commento, cit., II, 404 e seg.; Liebman, Manuale, cit., II, 301), secondo un’esigenza già sottolineata da autorevolissima dottrina (Chiovenda, Principii, cit., 992; Mortara, Appello, cit., § 1528 e seg.) nel vigore del codice del 1865, che al contrario lasciava libera la parte di inserire il proprio appello nel processo instaurato o di proporre un gravame separato. Funzione oggettiva perseguita anche attraverso l’art. 335 c.p.c., che impone la riunione delle impugnazioni separatamente proposte contro la medesima sentenza.

(38) V. già Pescatore, Filosofia e dottrine giuridiche, Torino, 1874, 328 e seg.: «quando i due contendenti in parte vincono e in parte soccombono nelle rispettive domande, avverrà soventi volte che uno almeno di essi sia disposto ad accettare per intiero la decisione purché il suo avversario vi si acquieti ugualmente: in questa buona disposizione sopraggiunge la legge per rassicurarlo e gli dice: “non farti provocatore per misura di semplice precauzione: non temere che nell’ultimo giorno del termine il tuo avversario ti faccia intimare un suo appello contro la parte della sentenza che ti è favorevole: se ciò avverrà, io sin d’ora ti restituisco in tempo e ti permetto di appellare dal tuo canto, da quella parte della sentenza che tu accetteresti soltanto per modo di transazione”. Ed ecco l’origine razionale dell’appello incidentale che la giurisprudenza introdusse e la legge positiva confermava di poi; esso è un provvedimento di ragione e di giustizia, non meno che di evidente opportunità giudiziaria. Imperocché, tolta la guarentigia dell’appello incidentale, sorge per entrambe le parti la necessità di premunirsi, e le spinge, diffidente l’una dell’altra, a farsi a vicenda provocatrici, instaurando un giudizio d’appello, quando, rassicurate, forse entrambe eleggerebbero di astenersi da un nuovo esperimento». V., poi, Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 18 e segg.; Chiarloni, op. ult. cit., 19.

(39) Così Grasso, op. ult. cit., 39. Sulla soccombenza reciproca quale normale presupposto dell’impugnazione incidentale v. Liebman, op. cit., II, 281.

(40) Cfr. Grasso, op. ult. cit., 40 e seg.

(41) V. Grasso, op. loc. ult. cit.

(42) Grasso, op. loc. ult. cit.

(43) Parlano di «riemersione» o di «rinascita» dell’interesse a impugnare in seguito all’appello principale Liebman, Manuale, cit., II, 282 e 301; Giudiceandrea, Le impugnazioni civili, I, Milano, 1952, 239; per la dottrina più antica v. Grasso, op. ult. cit., 24, nt. 14 anche al richiamo; nonché Pescatore, op. loc. cit. In alcune pronunce della Suprema Corte si trova traccia di un fenomeno di riemersione dell’interesse a impugnare per effetto dell’appello principale: Cass., 5 ottobre 1998, n. 9862, nota che una rinascita dell’interesse ad appellare è rinvenibile nel 2° comma dell’art. 343; Id., 11 gennaio 1989, n. 77; Id., 28 settembre 1988, n. 5268; Id., 10 settembre 1986, n. 5528; Id., 7 febbraio 1983, n. 1017; Id., 21 gennaio 1981, n. 487; Id., 22 gennaio 1979, n. 492; Id., 28 agosto 1978, n. 4005; Id., Sez. un., 9 luglio 1976, n. 2591, in Giust. Civ., 1976, I, 1604; Id., Sez. un., 8 febbraio 1958, n. 406, in Giust. Civ., 1958, I, 871. Siffatto legame eziologico tra interesse a impugnare per incidens e gravame principale non può valere, tuttavia, a restringere l’impugnazione incidentale tardiva agli stessi capi o ai capi connessi a quelli impugnati in via principale: per il definitivo superamento di questo tradizionale (e censurabile) indirizzo della giurisprudenza v. Cass., Sez. un., 7 novembre 1989, n. 4640, in Foro It., 1989, I, 3405; nonché la ben motivata pronuncia di Id., 24 novembre 1988, n. 6311, in Giur. It., 1989, I, 1, 1136 e segg., con nota adesiva di Chizzini e in Foro It., 1988, I, 1142 e segg., con nota adesiva di Proto Pisani.

(44) V. infatti Cass., 25 luglio 1994, n. 6903, la cui chiara massima merita di essere trascritta: «l’interesse ad impugnare sussiste solo in presenza della soccombenza, intesa come situazione di fatto nella quale la sentenza di primo grado abbia tolto o negato alla parte un bene della vita accordandolo all’avversario, ed abbia quindi concretamente determinato per la stessa una condizione di sfavore, a vantaggio della controparte. Una situazione di soccombenza in primo grado che sia invece soltanto teorica — ravvisabile quando la parte, pur vittoriosa, abbia però visto respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi, od anche abbia visto accolte le sue conclusioni per ragioni diverse da quelle prospettate — non fa sorgere l’interesse ad appellare, e non legittima un’impugnazione, né principale, né incidentale, ma impone alla parte, vittoriosa nel merito, soltanto l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre le domande e le eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel giudizio di primo grado, onde superare la presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza di cui all’art. 346 c. p. c. ».

(45) Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 88 e 92. V., anche se con argomentazioni assai meno limpide, Barbieri, L’appello incidentale e l’art. 346 c. p. c., in Nuovo Dir., 1946, 338.

(46) In questo senso v. anche Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1362.

(47) Perviene a identica conclusione Rasoio, op. cit., 141 e seg.

(48) Nel giudizio di cassazione il problema si pone in modo differente, perché il giudice di legittimità, dato il carattere limitato di questo mezzo di impugnazione, può conoscere soltanto delle questioni che siano state espressamente impugnate dalle parti. Anche il resistente vittorioso nel grado anteriore, se vuole che le questioni risolte sfavorevolmente dal giudice a quo siano riesaminate dalla Suprema Corte, ha l’onere di proporre ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale. Il tema è troppo vasto per essere qui trattato con il dovuto approfondimento e si collega anche al problema della preclusione dinanzi al giudice di rinvio delle questioni non impugnate per cassazione. Sono perciò opportuni alcuni brevi richiami bibliografici, da cui potranno trarsi ulteriori riferimenti: Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 74 e segg.; Garbagnati, Questioni preliminari di merito e parti della sentenza, in Riv. dir. proc, 1977, 415 e segg.; Liebman, Manuale, cit., II, 336 e segg.; Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2000, 469 e segg. Per il riconoscimento che il problema concernente l’onere dell’impugnazione incidentale si pone in modo diverso per l’appello e per il ricorso per cassazione, data la diversità strutturale dei due mezzi impugnatori v. Satta, Commentario, cit., II, 2, 80.

(49) È questa la tesi maggioritaria sia in dottrina che in giurisprudenza: v. Satta, op. ult. cit., 147; Andrioli, Commento, cit., II, 453; Vellani, voce cit., 732 ; Chiarloni, voce « Appello », cit., 11; Liebman, Manuale, cit., II, 307; Allorio, Gravame incidentale della parte totalmente vittoriosa?, in Giur. It., 1956, I, 1, 542; Cerino Canova, op. cit.,298. In giurisprudenza v. Cass., 24 novembre 1998, n. 11929; Id., 14 aprile 1998, n. 3778; Id., 2 aprile 1998, n. 3392; Id., 20 febbraio 1998, n. 1788.

(50) Questo è l’orientamento prevalente: v. Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 185; Id., voce «Appello», cit., 11; Vellani, voce cit., 732; Andrioli, Commento, cit., II, 460; in giurisprudenza v. Cass., 24 ottobre 1998, n. 10580;Id., 11 aprile 1998, n. 3755; Id., Sez. un., 9 luglio 1997, n. 6229; Id., 30 maggio 1996, n. 5028; Id., 24 marzo 1995, n. 3447. Propendono invece per la sufficienza di un’indicazione generica Attardi, Note, cit., 166; D’Onofrio, voce «Appello», cit., 741; in giurisprudenza Cass., 1° dicembre 1998, n. 12194 (che addirittura sembra esonerare l’appellato anche dall’onere della riproposizione: ma la massima è ingannevole e la lettura della sentenza chiarisce che non si trattava affatto di eccezioni non accolte); Id., 17 giugno 1982, n. 3699, in Foro It., 1982, I, 2165, e in Giust. Civ., 1982, I, 2578 (che però si riferisce alle mere difese).

(51) Cass., 10 aprile 1998, n. 3730;Id., 8 luglio 1997, n. 6147; Id., 6 aprile 1995, n. 4024. In dottrina v. Andrioli, Commento, cit., II, 460; Liebman, Manuale, cit., II, 307; Chiarloni, Le impugnazioni incidentali, cit., 223; Bove, Breve riflessione sui motivi specifici dell’appello e sull’art. 346 c. p. c., in Gius. Civ., 1988, I, 477; Cerino Canova, op. cit., 589; Luiso, voce «Appello», cit., 368.

(52) Cass., Sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro It., 1987, I, 3037, con nota di Balena, e in Giur. It., 1988, I, 1819, con nota di Monteleone; Id., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16/SU, in Foro It., 2000, I, 1606, con note di Balena, Barone, Proto Pisani.

(53) Cass., 18 gennaio 1993, n. 578;Id., 11 aprile 1981, n. 2164.

(54) Cosí Chiarloni, op. ult. cit., 228; Bonsignori, op. loc. ult. cit.; Bove, op. loc. cit.

(55) Vellani, voce cit., 732; Giudiceandrea, op. cit., II, 122; Attardi, Note, cit., 165, al richiamo di nota 45 bis; Besso, Note in tema di specificità dei motivi di appello, in Riv. dir. proc, 624, al richiamo di nota 29 e nella nota stessa; Chiarloni, voce «Appello», cit., 14, il quale mostra di aver mutato opinione rispetto all’opera ricordata nella nota che precede. In giurisprudenza si rinvengono pronunce ormai risalenti: Cass., 13 gennaio 1981, n. 291;Id., 5 gennaio 1981, n. 24.

(56) V. Tedoldi, L’istruzione probatoria, cit., 152 e segg.; per il riconoscimento che tempi e modi della riproposizione devono trovare la propria disciplina nelle norme che regolano la proposizione di domande, motivi ed eccezioni nel procedimento di primo grado in quanto compatibili v. Rasoio, op. cit., 142.

(57) Modifichiamo in parte l’opinione espressa nello scritto ricordato alla nota che precede: lí avevamo sostenuto una tendenziale coincidenza tra le barriere preclusive in primo grado e in grado di appello con identica scansione delle udienze e dei termini, sia per la formazione del thema decidendum sia per le deduzioni istruttorie. Qui, re melius perpensa, pur tenendo ferma l’idea che le preclusioni istruttorie in grado di appello maturino solo con i termini appositamente assegnati dal secondo giudice per memorie istruttorie o, in mancanza, con la precisazione delle conclusioni, ci pare che la formazione del materiale cognitorio in secondo grado debba avvenire in limine litis, cioè sin dall’udienza di prima comparizione nella quale, tra l’altro, il giudice di appello ex art. 350, ult. comma, c. p. c. tenta la conciliazione delle lite (che presuppone la conoscenza dell’intera materia del contendere). Sembra, invero, incompatibile con il giudizio di appello e con l’ambito della riproposizione mera il termine previsto dall’ult. comma dell’art. 180 c.p.c. per sollevare le eccezioni non rilevabili d’ufficio, termine che concerne, ex littera, solo le eccezioni e non le domande che pure rientrano nel disposto normativo dell’art. 346 c.p.c.
Sul piano storico si può ricordare che il cosiddetto Progetto Liebman (in 
Riv. Dir. Proc, 1977, 455 e segg.) all’art. 278 prevedeva che il giudice non potesse pronunciarsi sulle domande e sulle eccezioni non riproposte nell’atto di appello o «nella comparsa di risposta».
Naturalmente, chi immagina un procedimento di appello oltremodo concentrato (Attardi, 
Le nuove disposizioni, cit., 160 e seg.) o chi ritiene del tutto incompatibile la struttura processuale del primo grado con il giudizio di gravame (v., nel vecchio rito, Costantino, Le nuove eccezioni nel giudizio di secondo grado, in Foro It., 1978, I, 1472; seguito da Chiarloni, voce «Appello», cit., 14) non può che fissare le preclusioni in coincidenza con gli atti introduttivi: conclusione senz’altro condivisibile per il processo del lavoro (visto il chiaro dettato degli artt. 434 e 436 c. p. c., che richiamano gli artt. 414 e 416 c.p.c. e, in tal modo, sostanzialmente avvicinano la struttura del secondo grado a quella del primo, già di per sé concentratissima), ma non trasferibile nel rito ordinario, nel quale figura solo un generico richiamo alle norme del processo dinanzi al tribunale in quanto compatibili (art. 359 c.p.c.). Crediamo che tale compatibilità debba essere verificata caso per caso, ma non possa essere esclusa in via generale ed astratta.
Anche Montesano-Arieta, 
Diritto processuale civile, II, Torino, 1999, 396 suggeriscono la possibilità che la riproposizione sia consentita sino alla prima udienza. Propende decisamente per la riproposizione entro il termine di venti giorni prima dell’udienza Bianchi, op. cit., 218 (anche in nota), secondo cui occorre tutelare le esigenze difensive dell’appellante ed evitare inutili rinvii: sul che va osservato che la riproposizione non implica la prospettazione di nuove difese sconosciute all’appellante e, comunque, il procedimento di appello non esclude la possibilità per l’appellante di esercitare compiutamente le sue facoltà difensive, ad es. chiedendo termine per una replica ex artt. 180-170 c. p. c.; mentre l’eventualità di un rinvio desta preoccupazione solo in chi attribuisce all’appello una struttura oltremodo concentrata, secondo un’opzione personale che non trova sicuri appigli nel dato normativo.

(58) V., però, Cass., 4 ottobre 1996, n. 8707, in Giust. Civ., 1996, I, 3165, che consente di rimediare a una notificazione anche completamente omessa; sul punto v. le giuste critiche di Guarnieri, in Riv. Dir. Proc., 1997, 253 e segg.

(59) Così si è espressa di recente la Suprema Corte in caso di mancanza dei motivi specifici di appello, sebbene residuino perplessità sulla sanzione dell’inammissibilità del gravame anziché, tout-court, della nullità dell’atto: v. Cass., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16/SU cit.

(60) Sul punto v. già Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 827; Chiarloni, voce «Appello», cit., 12.

(61) Sulla necessità di notificare la comparsa di risposta con appello incidentale alla parte non costituita, nonché di adempiere alle notificazioni ex artt. 331 e 332 c.p.c. v., da ultimo, Cass., 2 luglio 1999, n. 6802, in Giur. It., 2000, 918, secondo cui il mero deposito in cancelleria della comparsa è idoneo a instaurare il contraddittorio con l’appellante principale e con le altre parti costituite, mentre nei confronti delle parti non costituite è sempre indispensabile la notificazione. V. anche ;Cass., 23 marzo 1998, n. 3078 Id., 15 novembre 1995, n. 11827. L’omessa notificazione dell’impugnazione incidentale in cause scindibili ex art. 332 c.p.c. resta però priva di sanzione, giacché la sentenza resa in grado di appello può essere cassata solo se al momento della decisione della Suprema Corte non siano ancora decorsi per la parte pretermessa i termini per l’appello (il che è piuttosto improbabile): sul punto v. sempre Cass., 2 luglio 1999, n. 6802, cit.; Id., 23 dicembre 1988, n. 7045; Id., 23 febbraio 1988, n. 1920. È il caso di aggiungere, però, che la notificazione alla parte contumace in grado di appello è, a nostro avviso, necessaria anche per la riproposizione mera di domande assorbite in primo grado, per evidenti ragioni di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa. Si pensi al caso della riproposizione in appello della domanda di garanzia per evizione, assorbita dal rigetto della domanda principale proposta dal terzo: l’appello del terzo che rivendica la proprietà della cosa compravenduta genera l’interesse dell’appellato a riproporre la domanda di garanzia per evizione nei confronti del venditore al quale, se contumace in appello, la comparsa di risposta deve essere notificata ex art. 292 c.p.c.

(62) Almeno da quando Carnelutti, nello scritto Sulla «reformatio in peius», in Riv. Dir. Proc. Civ., 1927, I, 183, pose l’accento sulla necessità di precisare «cosa sia capo di sentenza».

(63) Per un’esposizione di esse v. Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 32 e segg.; Salvaneschi, op. cit., 58 e segg.; E. F. Ricci, Il giudizio di rinvio, Milano, 1967, 107 e segg.; Cerino Canova, op. cit., 124 e segg.; Bonsignori, L’effetto devolutivo nell’ambito dei capi connessi (effetto esterno), in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1976, 945 e segg.; Allorio, Gravame incidentale della parte totalmente vittoriosa?, in Giur. It., 1956, I, 1, 542 e segg.; Bove, op. cit., 475 e seg.; Besso, op. cit., 607 e seg., nt. 8; Rasoio, op. cit., 108 e segg.; Bianchi, op. cit., 130 e segg.

(64) V. Chiovenda, Principii, cit., 988 e 1136. Nel medesimo senso Calamandrei, Appunti sulla «reformatio in peius», in Riv. Dir. Proc. Civ., 1929, I, 299 e seg.; Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. Dir. Proc, 1964, 47 e segg.; Id., Manuale, cit., II, 231 e seg.; Attardi, Note, cit., 153 e segg.; E. F. Ricci, op. cit., 109 e seg.; Chiarloni, op. loc. ult. cit. ; Bove, op. loc. ult. cit.

(65) Sostengono questa tesi Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1933, I, 117 e segg.; Giudiceandrea, op. cit., II, 119; Micheli, Corso di dir. proc. civ., Milano, 1960, II, 254 e seg.; e, sia pure con alcune peculiarità, Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 90 e segg.

(66) Sono fautori di questa tesi relativistica Costa, Contributo al concetto di «capo» di sentenza nel processo civile, in Studi sassaresi, 1932, 54 e segg.; Allorio, op. loc. ult. cit.; Nigro, L’appello nel processo amministrativo, Milano, 1960, 426 e segg.; Garbagnati, Questioni preliminari di merito, cit., 412 e segg.; Cerino Canova, op. cit., 87 e seg. e 124 e segg.

(67) V. Liebman, «Parte» o «capo», cit., 54 e seg.; Id., Manuale, loc. ult. cit. Sono di questo parere anche E. F. Ricci, op. cit., 111 e seg.; Bove, op. loc. ult. cit.

(68) Liebman, loc. ult. cit.

(69) Per la distinzione tra «piano orizzontale» (contenuto imperativo) e «piano verticale» (processo di formazione logica) in cui è scomponibile una sentenza v. Liebman, «Parte» o «capo», cit., 49.

(70) Garbagnati, op. cit., 408.

(71) Garbagnati, op. cit., 411 e seg.

(72) Garbagnati, op. cit., 405; Cerino Canova, op. cit., 125, nt. 6; Bonsignori, L’effetto devolutivo nell’ambito dei capi connessi, cit., 954.

(73) Rascio, op. cit., 108 e segg.; v. anche Califano, L’impugnazione della sentenza non definitiva, Napoli, 1996, 47 e segg. Per una critica v. Bianchi, op. cit., 141 e segg.

(74) Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, III ed., 1983, 434. Sull’equivocità della nozione di «parte di sentenza» v. anche Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1999, 494.

(75) Nigro, op. loc. ult. cit. (il corsivo è nostro). Un concetto piuttosto ampio di capo di sentenza è adottato anche da Bonsignori, op. loc. ult. cit., che lo ravvisa in «ogni statuizione giudiziale autonoma, non importa se per ragioni di sostanza o di forma».

(76) Ben rare sono le occasioni in cui la giurisprudenza fornisce una definizione di «capo» o «parte» di sentenza. Essa, quando viene data, è così generica da non specificare nulla (v., per es., Cass., 28 maggio 1981, n. 3510, la quale ritiene che la nozione di «capo della decisione» non possa essere ristretta ad un punto, ad una questione o ad un elemento della fattispecie controversa che, nell’ambito della pronuncia, non abbiano assunto rilevanza ed efficacia autonome, tali da poter dar luogo, in ordine ad essi, alla soccombenza, ma deve essere necessariamente riferita ad un’espressa pronuncia che, in sé, sia tale da soddisfare un preciso interesse, anche se meramente processuale) e le pronunce sono spesso discordanti (per un esame di esse v. Cerino Canova, op. cit., 128, nt. 12). Ciò che conferma, invero, la relatività del concetto di capo di sentenza e la mutevolezza di esso a seconda delle fattispecie concrete.

(77) V., per tutti, Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 140; Salvaneschi, op. cit., 74; Bianchi, op. cit., 137.

(78) Cfr. Salvaneschi, op. loc. cit.; Attardi, op. cit., 157; Cerino Canova, op. cit., 298; Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, cit., 59.

(79) In questo senso v. Salvaneschi, op. cit., 66, che pure ammette la possibilità di ulteriori partizioni all’interno di un capo di sentenza e rileva come ciò non «tolga consistenza alla tematica delle impugnazioni eventualmente proponibili dalla parte vittoriosa nel merito che abbia visto risolta in modo a sé sfavorevole una questione»; cfr. anche Attardi, op. cit., 146, nt. 10; Cerino Canova, op. cit., 129. L’ampliamento del possibile oggetto di una sentenza non definitiva e la coincidenza tra il concetto di «parte di sentenza» e tale oggetto propugnati da Rascio, op. cit., 108 e segg. (su cui abbiamo riferito supra al richiamo di nota 73) conducono coerentemente l’Autore ad applicare l’art. 329 cpv. a tutte le questioni che possono costituire «parte della sentenza».

(80) V. Salvaneschi, op. cit., 74; Attardi, op. cit., 167; Cerino Canova, op. cit., 298; Andrioli, Commento, cit., II, 460. A torto viene annoverato tra i sostenitori di questa tesi Chiarloni, il quale ne L’impugnazione incidentale, cit., 143, attribuisce a «domande non accolte» il significato di ragioni della domanda per motivi metodologici e non strettamente esegetici. Infatti, da un lato egli ammette che il termine «domande» viene utilizzato nell’art. 346 in un senso ampio e atecnico; dall’altro, nella voce «Appello», cit., 14, non esita a far rientrare nella norma in parola le domande in senso tecnico. Anche Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1350, comprende nel disposto dell’art. 346 tanto le ragioni della domanda contenute nello stesso capo, quanto i capi connessi.

(81) A questa conclusione perviene anche Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 55 e segg., che, richiamando gli artt. 112, 43, 1° comma, e 276, 1° comma, c. p. c., nonché proprio l’art. 346, evidenzia come all’interno del «capo» o «parte» di sentenza di cui parla il legislatore siano rinvenibili ulteriori partizioni, si che «per uscire daïï’impasse di una polemica ormai irrigidita su posizioni contrapposte ed inconciliabili bisogna prima di tutto ammettere che la determinazione del significato di “parte di sentenza” è utile solo ai fini dell’interpretazione delle norme ove l’espressione compare, senza che vi sia alcun collegamento tra la relativa problematica e le problematiche concernenti il divieto della reformatio in peius da un lato e la posizione della parte vittoriosa rispetto alla soluzione sfavorevole di questioni dall’altro»; v. anche E. F. Ricci, op. cit., 112 e seg.; Bianchi, op. cit., 138.

(82) V. Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 90 e segg., secondo cui gli elementi oggettivi della domanda (o dell’eccezione) sono costituiti da una serie di quesiti rivolti al giudice: 1) sull’esistenza di un fatto; 2) sull’esistenza di una norma idonea a sussumerlo; 3) sugli effetti che la legge ricollega alla realizzazione della fattispecie normativa. A tali quesiti il giudice deve fornire altrettante risposte, ciascuna delle quali costituisce una «parte della sentenza». Quest’originale teoria pare riconducibile nell’ambito della corrente di pensiero che identifica il capo di sentenza con la soluzione di questione. Sulla base di tali assunti Grasso, op. cit., 92, conclude nel senso che per la riproposizione ex art. 346 è sempre necessario l’appello incidentale, in quanto chi ripropone in appello una domanda o un’eccezione decisa sfavorevolmente attacca una parte della sentenza, quale decisione su un quesito da lui posto come attore o come convenuto. Per puntuali critiche a questa tesi v. Cerino Canova, op. cit.,298 e seg., nt. 58. Anche Costa, Sull’appello incidentale dell’appellato, in Riv. Dir. Proc., 1964, 162 e seg., esige l’impugnazione incidentale per la riproposizione mera, facendo coincidere il «capo della lite» con la «questione»; mentre Rascio, op. cit., 139 e segg., mercé la nozione di «parte di sentenza» che abbiamo più volte ricordato e che coincide con il possibile oggetto di una sentenza non definitiva, amplia le ipotesi di appello incidentale, concludendo che «nella lettura prospettata l’art. 346 serve al legislatore per disciplinare, senza sovrapposizioni, l’area lasciata scoperta dall’art., 329, comma 2°. Quest’ultima disposizione considera infatti le domande in senso tecnico e le singole fattispecie cost., imp., mod., est., su cui il primo giudice si è pronunciato, prevedendo, come alternativa, l’impugnazione delle corrispondenti parti della sentenza ovvero la formazione del giudicato. Invece, dall’art. 346 si ricava la disciplina delle domande in senso tecnico e delle singole fattispecie cost., imp., mod., est., rimaste prive di una corrispondente statuizione nella sentenza impugnata: per esse occorre semplicemente rinnovare al giudice superiore la richiesta di pronuncia e in mancanza non si forma il giudicato, ma viene meno esclusivamente il potere-dovere di decisione sancito dall’art. 112». Il che equivale a desumere l’area applicativa dell’art. 346 dall’art. 329, cpv., e, in sostanza, dal plurivoco concetto di «parte di sentenza».

(83) Il concetto di «capo o parte di sentenza» non è un Ordnungsbegrifffecondo a fini di sistemazione teorica, ma un semplice Gebotsbegriff risultante dall’interpretazione delle norme di diritto positivo: cfr. Chiarloni, op. ult. cit., 55 e seg.

(84) Sugli effetti puramente endoprocessuali della decadenza ex art. 346 c.p.c. cfr. Luiso, voce cit., 368; Andrioli, Commento, cit., II, 453; Vellani, voce cit., 732; Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1359; Giudiceandrea, op. cit., II, 120. In giurisprudenza cfr. Cass, 10 marzo 1988, n. 2384; Id, 6 gennaio 1983, n. 74.

(85) Cfr. Vellani, voce loc. ult. cit.; Andrioli, op. loc. ult. cit.; Bonsignori, op. loc. ult. cit.

(86) Proprio per evitare la formazione del giudicato nelle ipotesi di esplicito rigetto di domande alternative pur di fronte all’accoglimento di una di esse, anche gli Autori che affermano l’operatività dell’art. 346 tra capi connessi esigono l’appello incidentale, eventualmente condizionato alla ritenuta fondatezza dell’impugnazione principale: v. Bonsignori, L’effetto devolutivo nell’ambito dei capi connessi, cit., 970; Consolo, Il cumulo condizionale, cit., 801 e seg., nt. 200. Questi Autori adottano una nozione di assorbimento circoscritta ai soli casi di mancato esame da parte del giudice, per avere egli già accolto altra domanda proposta in via alternativa. Se invece si accetta il concetto di assorbimento (basato sull’indifferenza utilitaristica, per la parte vittoriosa, del rigetto o del mancato esame di una domanda o di un’eccezione) che si è preferito delineare nel par. 2, l’onere di appello incidentale per le domande alternative lato sensu assorbite va negato. Soluzione alla quale, del resto, anche Consolo, op. cit., 775 e seg. perviene per i casi di rigetto delle domande subordinate, allorché sia accolta la domanda principale. Conforme all’opinione qui sostenuta è Costa, Contributo al concetto di «capo» di sentenza, cit., 64 e seg., che nelle ipotesi di concorso di domande, allorché l’accoglimento di una di queste toglie il petitum alle altre, consente all’attore di riproporre le proprie domande, costituenti capi di sentenza diversi, senza appello incidentale, «perché vi sarebbe fra tali capi un nesso molto stretto, avendo in comune soggetti e oggetto e differendo soltanto per la causa petendi». Sul tema v. comunque infra al par. 11.

(87) La problematica dell’accertamento incidentale è troppo ampia e complessa per occuparsene in questa sede: basti il rinvio a Bianchi, op. cit., 165 e segg., ove ulteriori riferimenti bibliografici.

(88) Cfr. Andrioli, Dir. proc. civ., cit., 829; ;Cass., 28 maggio 1988, n. 3658 Id., 7 aprile 1986, n. 2393; Id., 4 maggio 1981, n. 2718.

(89) Questa pare essere, invece, l’impostazione seguita da Bianchi, op. cit., 130 e segg.; e alla stessa conclusione accede, in definitiva, anche Rascio, op. cit., 145, attraverso il più volte ricordato concetto di «parte di sentenza».

(90) Su cui v. ancora Bianchi, op. cit., 123, il quale rammenta che, attraverso il giudicato interno, singole questioni vengono decise ed eliminate durante il processo, senza però che espandano la loro efficacia all’esterno producendo un giudicato sostanziale (su quest’ultimo aspetto e sulla necessaria distinzione tra il fenomeno del giudicato interno e i limiti oggettivi della res iudicata v. Menchini, voce «Regiudicata civile», in Digesto Civ., XVI, Torino, 1997, 419; Proto Pisani, Lezioni, cit., 85 e segg., ove si introduce anche la figura del giudicato ad efficacia «panprocessuale»).

(91) Anche Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 90, sostiene che la differenza tra l’art. 329 e l’art. 346 consiste nel diverso punto di vista in cui si è posto il legislatore: «quello della pronuncia sfavorevole in un caso; quello della domanda (o dell’eccezione) non accolta nell’altro». Ma poi, attraverso la concezione di «parte» di sentenza che si è esposta nella nt. 82, assimila le due norme quanto alla necessità dell’appello incidentale.

(92) V. supra al par. 1.

(93) V. Liebman, Manuale, cit., II, 300.

(94) Bonsignori, op. ult. cit., 729 e segg.

(95) Cfr. Bonsignori, op. ult. cit., 736.

(96) Cfr. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 439.

(97) V. l’art. 550, alinea 1, del Nouveau Code de procédure civile: «L’appell incident ou l’appel provoqué peut être formé en tout état de cause, alors même que celui qui l’interjetterait serait forclos pour agir à titre principal»; nonché l’art. 548, secondo cui: «l’appel peut être incidemment relevé par l’intimé tant contre I’appellant que contre les autres intimés». Vincent-Guinchard, Procédure civile, Paris, 1999, 960, quanto alla forma, chiariscono che « il se fait par acte d’avoué à avoué ou verbalement à avoué (art. 551 nouv. G): l’article précise que l’appel incident ou l’appel provoqué est formé de la même manière que les demandes incidentes, c’est-à-dire par voie de conclusions». Libertà di termine e di forme che contrasta, invero, con il principio di personalità dell’impugnazione e con l’ideologia egualitaria lontana ispiratrice dell’istituto, mentre debole riparo è dato dalla possibilità per il giudice, ex art. 550, al. 2, nouv. C, di «condamner à des dommages-intérêts ceux qui se seraient abstenus, dans une intention dilatoire, de former suffisamment tôt leur appel incident ou provoqué».

(98) Sull’ordinamento tedesco v. i §§ 521 e segg. ZPO e, in dottrina, Rosenberg-Schwab-Gottwald, Zivilprozeßrecht, München, 1993, 830 e segg.; Schumann, Die Berufung in Zivilsachen, München, 1997, 139 e segg. Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 237 e seg. giustamente osserva che, «mentre i legislatori tedesco e francese, mantenendosi nel solco della tradizione (nascente dalla Lex Ampliorem di Giustiniano, interpretata nel senso che, a differenza di ciò che accadeva in epoca classica, l’appellato poteva chiedere una riforma in peggio ai danni dell’appellante senza bisogno di instaurare un autonomo procedimento di impugnazione), si sono limitati a codificare e a dare il nome ad una prassi secolare, il legislatore italiano, in ossequio ad esigenze di concentrazione del procedimento, ha voluto stabilire un termine ad hoc per la proposizione dell’impugnazione incidentale…». Invero, la ZPO non distingue tra appello incidentale e riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte, richiedendo in ogni caso l’Anschlußberufung che, secondo l’opinione maggioritaria, prescinde dalla Beschwer (cfr. Gilles, Anschließung, Beschwer, Verbot der reformatio in peius und Parteidispositionen über die Sache in höherer Instanz, in ZZP, n. 91, 1978, 128; Id., Grundprobleme des zivilprozessualen Anschließungsrechts, inZZP, n. 92, 1979, 159 e segg.; Rosenberg-Schwab-Gottwald, op. cit., 833; Klamaris, Das Rechtsmittel der Anschlußberufung, 1975, 235 e segg. V., però, le osservazioni critiche di Grunsky, in SteinJonas, Zivilprozeßordnung, V, I, Tübingen, 1994, 163 e seg.) e, per alcuni, non possiede neppure i caratteri del mezzo di impugnazione (Baumbach-Lauterbach-Albers-Hartmann, Zivilprozeßordnung, München, 2000, § 521, n. 3; v., però, Rosenberg-Schwab-Gottwald, op. cit., 831, che invece ravvisano nellAnschlußberufung un Rechtsmittelcharakter).

(99) V. Mortara, voce «Appello», cit., 436; Bonsignori, op. ult. at., 131.

(100) V. Mortara, voce cit., 970, che, come ricordavamo nel paragrafo 1, costituiva voce autorevole ma isolata.

(101) V., infatti, Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1933, I, 124; Id., Sistema di diritto processuale civile, II, Padova, 1938, 585 e segg.; Id., Diritto e processo, Napoli, 1958, 237, che parla di «restrizione progressiva dell’area della lite» e di «lenta erosione, per cui, quando il processo si svolge attraverso impugnazioni successive, pare che la lite si consumi, anziché spegnersi ad un tratto».

(102) V. Progetto preliminare e Relazione, Roma, 1937, XXXIII; nonché la Relazione Grandi al c. p. c. (n. 30), riportata in Lugo-Berri, Cod. proc. civ. illustrato con i lavori preparatori, Milano, 1942, 269.

(103) Così la Relazione al Progetto preliminare Solmi, loc. cit.

(104) La cosa fu già palese ai primi osservatori: v. Coniglio e (almeno implicitamente) Rocco e Lipari, in Osservazioni e proposte, cit., 700 e seg. Più vicina alla tesi che si vedrà e criticherà nel testo è l’idea, espressa da Carnelutti, ibidem, di un’inversione dell’effetto devolutivo più che di una sua caduta, facendo leva sull’enunciazione letterale dell’art. 344 del Progetto preliminare Solmi che, al pari dell’odierno art. 346 c.p.c., conteneva un riferimento alla voluntas partium.

(105) V. Attardi, Note, cit., 164; Id., L’art. 346 e l’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. lt., 1963, I, 1, 1037; Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1358 e seg.

(106) Attardi, Note, cit., 165, seguito da Cerino Canova, op. cit., 299; cfr. pure Bonsignori, op. ult. cit., 1359; Bianchi, op. cit., 190 e seg.

(107) È questa l’opinione dominante in giurisprudenza: cfr. Cass., 26 giugno 1992, n. 7999;Id., 20 giugno 1983, n. 4231; Id., 15 febbraio 1979, n. 996. In dottrina v. Attardi, op. loc. ult. cit.; Id., L’art. 346, cit., 1035; Bonsignori, op. ult. cit., 1360.

(108) Cfr. Bonsignori, op. ult. cit., 1358 e seg., che rileva come la singolare formula dell’art. 346 sulla rinuncia presunta può essere spiegata «proprio in relazione alla necessità di capovolgere la situazione normativa rispetto al processo comune, per cui non parve fosse sufficiente scrivere, come pur sarebbe stato possibile fare, che “il giudice di appello non può tenere conto delle domande ed eccezioni non espressamente riproposte”, ma si reputò opportuno, per dissipare ogni equivoco, aggiungere che ogni mancata riproposizione equivaleva a rinuncia».

(109) V. Andrioli, Commento, cit., II, 459, per il quale «il legislatore avrebbe potuto far vantaggiosamente a meno di utilizzare il domma della volontà». Che l’uso fatto dal legislatore del concetto di rinuncia nell’art. 346 sia frutto di una finzione viene rilevato anche da Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 222.

(110) V. Chiarloni, op. ult. cit., 152.

(111) Cosí Chiarloni, voce «Appello», cit., 11; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 183 e seg.; v. anche Andrioli, op. loc. ult. cit.; Vellani, voce cit., 740. In giurisprudenza Cass., 6 settembre 1990, n. 9197, in Foro It., 1991, I, 102, con note di Brilli e Proto Pisani; Id., 20 febbraio 1982, n. 1073.

(112) Cfr. anche Salvaneschi, op. cit., 84, nt. 134. Negano l’effetto devolutivo dell’appello, inteso come passaggio del materiale alla piena cognizione del giudice superiore indipendentemente dall’iniziativa delle partiChiarloni, voce cit., 4 e seg.; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 181; Vellani, voce cit., 729; Andrioli, Commento, cit., II, 458; Monteleone, La funzione dei motivi, cit., 1821; Rascio, op. cit., 75 e seg.
Nel processo penale, l’esclusione dell’effetto devolutivo in appello è sancita nell’art. 597, 1° comma, c. p. c., che ha riprodotto l’art. 515, 1° comma, del codice Rocco: «l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti».

(113) In questo senso v. Bonsignori, La «reformatio in peius» nel processo civile ed il suo divieto, in Riv. Trim. Dir. eProc. Civ., 1983, 1378 e segg.; conf. Mandrioli, op. cit., II, 414. Negano che al divieto in discorso possa essere data qualsiasi giustificazione dogmatica, sostenendo che esso, in definitiva, dipende da scelte politico-legislative, Chiarloni, voce cit., 5; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 248 e segg.; Rascio, op. cit.,368 e segg.; Bianchi, op. cit., 152 e seg., anche in nota. Altri principi o altre ricostruzioni sono state evocate: Chiovenda, Istituzioni, cit., II, 539, e Carnelutti, Capo di sentenza, loc. cit., richiamano i brocardi nemo iudex sine actore ne procedat iudex ex officio; Calamandrei, Appunti sulla «reformatio in peius», cit., 301, combina questi brocardi con il principio della soccombenza; Liebman, «Parte» o «capo» dì sentenza, cit., 53, e Attardi, Limiti di applicazione del gravame incidentale tardivo, cit., 173, scompongono in due capi, uno di accoglimento, l’altro di rigetto, la sentenza che accoglie parzialmente un’unica domanda. Per una puntuale critica a queste prospettazioni teoriche v. Chiarloni, voce loc. ult. cit.; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 233 e segg. Sul divieto di reformatio in peius con particolare riguardo alle domande di quantità v. Rascio, op. cit., 30 e segg.

(114) Cosí Chiarloni, voce loc. ult. cit.; Id., L’impugnazione incidentale, cit., 264 e segg., il quale cita, a spiegazione della seconda ipotesi, l’esempio della domanda rigettata in primo grado «zur zeit», perché non è ancora scaduto il termine o non si è ancora avverata la condizione: ben può accadere che, su appello del solo attore, il giudice ad quem ritenga scaduto il termine o avverata la condizione, ma, esaminato il merito, reputi infondata la domanda. Non paiono cogliere nel segno le critiche mosse da Bonsignori, op. ult. cit., 1389: del resto, anch’egli fa rientrare questi casi nella nozione di reformatio in peius cosiddetta impropria.

(115) Sulla distinzione tra effetto reale ed effetto personale dell’appello v. Liebman, Manuale, cit., II, 299: si ha effetto reale quando il gravame di una sola parte è sufficiente a riproporre davanti al giudice ad quem l’intera materia del contendere, si da rendere possibile la riforma in danno dell’appellante; si ha invece effetto personale quando l’impugnazione giova solo a chi l’ha proposta. V., infatti, Rebuffe, Tractatus de appellationibus, Lugduni, 1581, praefatio n. 26, il quale sottolineava che, grazie all’effetto reale, «licet de iure appellatus possit se iuvare appellatione appellantis», mentre con il principio di personalità dell’appello «est opus utramque partem appellare alioquin appellatio nihilproderit ei qui non appellavit, nec sententia quoad eum reformabitur» (praefatio n. 25). Cfr. anche Mortara, voce «Appello», cit., 953 in nota.

(116) V. Mortara, Commentario, cit., IV, 384; Fiorelli, voce «Appello (dir. intermedio)», in Enc. Dir., II, Milano, 1958, 714, che ricorda come i sistemi francese e tedesco, nei quali si affermò il carattere personale dell’appello, erano improntati ad una più spiccata ideologia individualista. In altri luoghi sottoposti all’influenza congiunta del sistema tradizionale dello ius commune di derivazione giustinianea e di quello transalpino, si adottò la distinzione per cui l’effetto devolutivo dell’appello si estendeva all’appellato solamente rispetto ai capi impugnati dall’appellante e non rispetto ai capi diversi: Mortara, voce «Appello», cit., 960, tramanda che «se la sentenza conteneva più capi e l’appello era interposto generaliter et indistincte, la giurisprudenza del Senato piemontese aveva stabilito che potesse giovarsene anche l’appellato, nec appellationem suam separatim introducere et prosequi cogitur; invece, se l’appello era dichiaratamente proposto contro alcun capo della sentenza, doveva l’appellato, per gravarsi degli altri capi, appellare expressim. In generale, poi, l’appellato era tenuto a produrre il suo appello, o l’adesione all’appello dell’avversario (come pure si chiamava e considerava) entro dieci giorni dalla notificazione della sentenza, ossia infra legitima tempora: e quindi non aveva neppure il benefizio d’una maggiore dilazione», caratteristica propria dell’appello incidentale tardivo, successivamente introdotto con il Code Napoléon.

(117) Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 260 e seg.; Id., voce «Appello», cit., 5; Vellani, voce cit., 733; Andrioli, Commento, cit., II, 460; contra, a quanto sembra, Bonsignori, La «reformatio in peius», cit., 1410.

(118) Contra, implicitamente, Bonsignori, op. ult. cit., 1403, dove sostiene, con riguardo alla riproposizione mera ex art. 346 c.p.c., che la tardività di essa «non urta contro il diritto di difesa della controparte», adducendo la poco convincente ragione che «non si tratta altro che di elementi difensivi già dibattuti in primo grado». L’Autore parla esplicitamente di un onere di proporre appello incidentale per ottenere la riforma in peggio di una sentenza, ovvero di far valere tale istanza nella comparsa di risposta», argomentando dal sistema processuale francese, in cui vigono per l’appello incidentale libertà di forme e di termini sconosciute al nostro codice di rito (v. supra in nt. 97).

(119) V., infatti, Grunsky, in Stein-Jonas, op. cit., 162 e 164, che ritiene particolarmente infelice la disciplina della ZPO sull‘Anschlußberufung, perché viola il principio di parità delle armi tra le parti (Grundsatz der Waffengleichheit der Parteien).

(120) V. Cass., 1° aprile 1999, n. 3102;Id., 7 aprile 1997, n. 2990 e Id., 6 dicembre 1996, n. 10888, che hanno cura di distinguere il giudizio di cassazione (nella cui disciplina non esiste una norma analoga all’art. 346) dall’appello; Cass., 20 gennaio 1995, n. 649;Id., 29 luglio 1994, n. 7101; Id., 6 settembre 1990, n. 9197, in Foro lt., 1991, I, 102, con nota di Brilli e Proto Pisani; Id., 28 novembre 1987, n. 8864; Id., 19 febbraio 1987, n. 1805; Id., 6 febbraio 1987, n. 1172; Id., 27 gennaio 1987, n. 756. V., in particolare, la persipuca massima di Id., 25 luglio 1994, n. 6903 (già riportata supra in nt. 44): «l’interesse ad impugnare sussiste solo in presenza della soccombenza, intesa come situazione di fatto nella quale la sentenza di primo grado abbia tolto o negato alla parte un bene della vita accordandolo all’avversario, ed abbia quindi concretamente determinato per la stessa una condizione di sfavore, a vantaggio della controparte. Una situazione di soccombenza in primo grado che sia invece soltanto teorica — ravvisabile quando la parte, pur vittoriosa, abbia però visto respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi, od anche abbia visto accolte le sue conclusioni per ragioni diverse da quelle prospettate — non fa sorgere l’interesse ad appellare, e non legittima un’impugnazione, né principale, né incidentale, ma impone alla parte, vittoriosa nel merito, soltanto l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre le domande e le eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel giudizio di primo grado, onde superare la presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza di cui all’art. 346 c. p. c.».
Giunge a conclusioni non diverse quella dottrina che rileva come l’appello (principale o incidentale) deve tendere alla riforma della sentenza di primo grado e non ad una sostanziale conferma di essa, sia pure per motivi diversi: Allorio, 
Gravame incidentale, cit., 542; Musetto, Soccombenza teorica su questioni pregiudiziali e appello incidentali della parte vittoriosa nel merito, in Giur. It., 1959, I, 2, 542; Vellani, voce cit., 732 e seg,

(121) Supra, nel par. 5, si vide come un mutamento soggettivo possa talora aversi in seguito alla proposizione di un gravame altrui, che rende più urgente l’interesse ad appellare per incidens; e si rilevò come questa situazione subiettiva costituisca la ratio dell’art. 334 c.p.c.

(122) Fondamentale è stato in quest’ambito il contributo recato dall’opera di Salvaneschi, L’interesse ad impugnare, Milano, 1990, più volte citata.

(123) A quanto riferito supra nel par. 1, adde Mortara, voce «Appello civ.», cit., 967 e 969, il quale sottolinea che l’appellato, in caso di piena vittoria conseguita in primo grado, non ha alcun interesse ad appellare in via incidentale: «se l’appellato non è in stato di soccombenza parziale, egli non deve reclamare dalla sentenza, perché manca a ciò di interesse».

(124) V. Satta, Commentario, cit., II, 121; Andrioli, Commento, cit., II, 460; Liebman, Manuale, cit., II, 301; Carnelutti, Capo dì sentenza, cit., 125, le cui chiare parole meritano di essere trascritte: «il presupposto dell’appello, tanto principale quanto incidentale, è la soccombenza: ora la soccombenza è lesione di un interesse…»; Allorio, Gravame incidentale, cit., 544.

(125) V Consolo, Il cumulo condizionale, cit., 1, nt. 1, che richiama anche la dottrina tedesca, la quale distingue solamente tra cumulo eventuale (comprensivo del cumulo condizionale in senso stretto e del cumulo subordinato) e cumulo alternativo.

(126) Cosí Chiovenda, Principii, cit., 1129, che reca gli esempi di un’azione per la restituzione della cosa alienata cumulata con l’azione di rescissione (oggi diremmo di risoluzione) dell’alienazione e di un’azione per l’annullamento di un testamento cumulata con la haereditatis petitio ab intestato.

(127) V. Salvaneschi, op. cit., 92.

(128) In questo senso Salvaneschi, op. loc. cit.; Bonsignori, L’ effetto devolutivo nell’ambito dei capi connessi, cit., 956 e seg. Puntuali e condivisibili sono le critiche che Salvaneschi, op. cit., 93, muove alla tesi di Consolo, op. cit., 791 e segg., il quale (nella fattispecie delineata nel testo) sostiene la possibilità di un «effetto devolutivo allargato» per il caso di rigetto della domanda consequenziale per ragioni di merito, perché ammettere che questa venga portata alla cognizione del giudice ad quem semplicemente attraverso l’appello del convenuto contro il capo condizionante significherebbe consentire una reformatio in peius senza alcun appello incidentale di colui che era attore in primo grado, non solo allorché la decisione sulla domanda condizionante sia riformata, ma anche quando venga confermata. Il convenuto-appellante diverrebbe in tal modo soccombente totale da soccombente parziale che era al termine del primo grado di giudizio. Né potrebbe dirsi che codesto effetto devolutivo «allargato» funzioni a senso unico, cioè nel solo caso in cui l’impugnazione principale venga accolta e non in quello in cui venga respinta, perché l’operare dell’effetto devolutivo verrebbe collegato all‘eventum litis e sarebbe, in definitiva, negato.

(129) Che la pronuncia di assorbimento sia una pronuncia in rito ad efficacia endoprocessuale è posto in luce da Consolo, op. cit., 442 e seg.

(130) V. Salvaneschi, op. cit., 97 e 100, ove si sottolinea il diritto di ogni parte ad ottenere una decisione sul merito e il conseguente pregiudizio recato da una pronuncia in mero rito.

(131) V. in tal senso Consolo, op. cit., 788, 792 e segg. e 802 e seg.; Bonsignori, op. ult. cit., 959 e seg., parla invece di effetto devolutivo allargato per cui la domanda condizionata è automaticamente devoluta per effetto della impugnazione contro il capo di rigetto della domanda principale.

(132) V. Chiovenda, Principii, cit., 992 e seg., il quale specifica che le due azioni possono avere in tutto o in parte lo stesso fondamento, come nel caso di azione per la prestazione e azione subordinata per l’equivalente; oppure due fondamenti diversi, ma compatibili tra loro, come nell’ipotesi di azione cambiaria e azione subordinata nascente dal rapporto causale; o, infine, due fondamenti incompatibili, come nel caso di azione principale dell’erede legittimo per nullità del testamento e subordinata per la prestazione del legato.

(133) In questo senso Consolo, op. cit., 792 e seg.; Liebman, Manuale, cit., II, 307; Satta, Commentario, cit., II, 122; Vellani, voce cit., 731, nt. 92; Bonsignori, op. ult. cit., 964 (dubitativamente però nel caso di domanda subordinata il cui fondamento sia incompatibile con quello posto a base della domanda principale, la soluzione dipendendo dalla teoria che si accolga sul mancato esame della subordinata, se cioè questo mancato esame venga interpretato come assorbimento in senso stretto o come implicito rigetto). Nel vigore del codice abrogato v. Mortara, voce «Appello civ.», cit., 969. In giurisprudenza Cass., 1° febbraio 1993, n. 1192;Id., 29 agosto 1991, n. 9231; Id., 26 maggio 1989, n. 2552; Id., 17 febbraio 1986, n. 940; Id, 3 aprile 1985, n. 2274. Esigono invece l’appello incidentale condizionato all’accoglimento del gravame principale Attardi, Note, cit., 159;Salvaneschi, op. cit., 84.

(134) V. Bonsignori, op. ult. cit., 964 e seg.; Salvaneschi, op. cit., 87. Ma v. già Chiovenda, Principii, cit., 934.

(135) V. Satta, op. loc. ult. cit.; Bonsignori, op. ult. cit., 965 e seg.; Salvaneschi, op. cit., 89; Consolo, op. cit., 800 e segg. Il consenso è unanime.

(136) V. Salvaneschi, op. loc. ult. cit., che giustamente critica l’opposta opinione di Consolo, op. cit., 799 e seg, il quale ritiene che, in caso di appello dell’attore avverso la statuizione sulla domanda principale, operi a favore del convenuto-appellato un effetto devolutivo allargato che lo esime dall’interporre appello incidentale contro la domanda subordinata accolta dal primo giudice. V. inoltre Bonsignori, op. loc. ult. cit.

(137) V. Tarzia, Appunti sulle domande alternative, in Riv. Dir. Proc, 1964, 256 e 261.

(138) V. Tarzia, op. loc. ult. cit.; Salvaneschi, op. cit., 103 e seg.; Rascio, op. cit., 176 e seg. Dalle figure indicate nel testo va ulteriormente distinta la domanda diretta a provocare un provvedimento alternativo nell’oggetto o nella motivazione. Una sentenza cosiffatta andrebbe considerata inesistente e sarebbe inidonea al giudicato (v. Tarzia, op. ult. cit., 263 e segg.; Salvaneschi, op. cit., 106 e seg.).

(139) V. Salvaneschi, op. cit., 104, la quale sottolinea che per il creditore ottenere l’una o l’altra prestazione quando la scelta è rimessa al debitore è, per definizione, indifferente.

(140) V. Salvaneschi, op. loc. ult. cit.

(141) V. Tarzia, op. cit., 284, che porta l’esempio del cumulo alternativo tra richiesta di adempimento del contratto e domanda di restituzione di quanto prestato per nullità dello stesso, in cui la questione della validità del contratto è in grado di orientare il giudice nell’una piuttosto che nell’altra direzione; v. anche Salvaneschi, op. cit., 110.

(142) Cfr. Salvaneschi, op. cit., 111. Parla invece di soccombenza potenziale in ipotesi di gravame dell’avversario Consolo, op. cit., 801, nt. 200.

(143) Tarzia, op. ult. cit., 302; Consolo, op. loc. ult. cit.; Salvaneschi, op. cit., 113 e seg.

(144) Mortara, voce «Appello civ.», cit., 971, negava all’attore l’interesse ad appellare in via incidentale, considerato che egli riceve piena soddisfazione con l’accoglimento dell’una o dell’altra pretesa. Anche Salvaneschi,op. cit., 112, ammette che «una nuova decisione sarebbe inidonea a far conseguire qualsiasi miglioramento all’attore-appellante, giacché la sentenza resa in grado di appello potrebbe al massimo ribaltare la situazione ottenuta in primo grado con l’accoglimento della domanda respinta, ma, inevitabilmente, il rigetto di quella accolta, conseguendosi così un risultato definito dall’attore stesso in prime cure come equivalente».

(145) Cfr., sia pure in termini ampi, Liebman, Manuale, cit., II, 307 e v. Cass., 28 maggio 1988, n. 3658, per un’azione di manutenzione proposta in alternativa a quella di spoglio, nonché Id., 14 febbraio 1981, n. 916, per un’azione revocatoria alternativa ad un’azione di simulazione assoluta del contratto.

(146) V. Tarzia, op. ult. cit., 291, il quale pone in rilievo come tale figura sia ammissibile nel nostro ordinamento, in quanto, essendo uno solo il diritto azionato, l’incertezza sul thema decidendum è circoscritta all’ordine da seguire nell’istruzione e nella decisione delle pretese concorrenti. Conforme Salvaneschi, op. cit., 114. Per la fattispecie indicata nel testo v. Cass., 23 ottobre 1989, n. 4303.

(147) V. Costa, Contributo al concetto di «capo» di sentenza, cit., 64 e seg.; Mortara, voce «Appello civ.», cit., 1536; in giurisprudenza Cass., 23 ottobre 1989, n. 4303;Id., 30 novembre 1988, n. 6497; Id., 28 maggio 1988, n. 3658; Id., 22 giugno 1985, n. 3757. Bonsignori, op. ult. cit., 971, e Consolo, op. cit., 801, in nt. 200, ritengono sufficiente la riproposizione mera in caso di assorbimento in senso stretto, mentre richiedono l’appello incidentale condizionato in caso di rigetto. Esigono in qualunque caso il gravame incidentale condizionato Attardi, Note, cit., 150 e 158; Salvaneschi, op. cit., 115; in giurisprudenza Cass., 28 novembre 1987, n. 8864.

(148) V. Salvaneschi, op. loc. ult. cit. Sull’impugnazione incidentale in caso di litisconsorzio alternativo passivo v. Allorio, Litisconsorzio alternativo passivo e impugnazione incidentale, in Giur. It., 1947, IV, 73 e segg.

(149) Cfr. Mortara, voce «Appello civ.», cit., 971.

(150) In questo senso Allorio op. ult. cit., 75 e seg.; Attardi, Limiti di applicazione al gravame incidentale tardivo, in Riv. Dir. Proc., \1965, 180, che parla di gravame incidentale condizionato; Salvaneschi, op. cit., 118.

(151) V. Consolo, op. cit., 814 e seg. e 823; Cass., 17 novembre 1982, n. 6159.

(152) Per identica conclusione, anche se con argomenti diversi, v. Salvaneschi, op. loc. ult. cit.

(153) V. però, in motivazione, Cass., 28 febbraio 2000, in Foro It., 2000, I, 1830 e seg., che, cassando la pronuncia impugnata, ha ritenuto superfluo l’appello incidentale (condizionato) dell’attrice appellata nei confronti di un altro convenuto per investire il secondo giudice della questione attinente alla legitimatio ad processum: l’impugnante principale aveva invero già riproposto tale questione (distinta da quella concernente la legitimatio ad causam) al giudice di appello e l’attrice, vittoriosa nei confronti di uno dei convenuti e indifferente rispetto all’accoglimento della domanda contro l’uno piuttosto che l’altro di essi, poteva giovarsi dell’impugnazione interposta dall’appellante principale.

(154) Il che è pacifico, sol che si ammetta che l’accertamento giudiziale non ha un rilievo limitato all’esclusione dell’ammissibilità della chiamata in garanzia, ma è idoneo ad acquisire forza di giudicato: cfr. Attardi, op. loc. ult. cit., in nt. 20.

(155) V. Attardi, op. loc. ult. cit.; Cass., 15 marzo 1995, n. 2992, in Giust. Civ., 1996, I, 1111, con nota di Scarlatelli; Id., 1° giugno 1989, n. 2671; Id., 21 luglio 1987, n. 6633.

(156) Attardi, op. loc. ult. cit.; Cass., 21 luglio 1987, n. 6633, cit.

(157) Anche nella garanzia (propria) per evizione l’azione del compratore verso il venditore non viene pregiudicata dall’omessa chiamata in causa di quest’ultimo o dalla mancata riproposizione della domanda di malleva in appello, giacché il diritto alla garanzia è perduto solo qualora il venditore provi che esistevano ragioni sufficienti per far respingere l’azione intentata dal terzo (art. 1485 c. c.).

(158) V. Cass., 10 marzo 1988, n. 2384, la cui massima merita di essere riportata: «per il caso di mancata riproposizione in appello di domanda non respinta dal giudice di primo grado, ma soltanto non esaminata (nella specie, trattandosi di domanda di garanzia impropria, per effetto del rigetto della pretesa principale), la rinuncia implicita, di cui all’art. 346 c. p. c., ha valore processuale, non sostanziale, e quindi non osta alla proponibilità della domanda stessa in altro giudizio»; Cass., 26 novembre 1988, n. 6375. Cfr. anche Satta, Commentario, cit., II, 2, 83.

(159) V. Liebman, «Parte» o «capo», cit., 52; Calvosa, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in Riv. Dir. Proc, 1950, 244; Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 13 e seg.; Rasoio, op. cit., 171. Ritengono invece che l’omissione di pronuncia costituisca capo di sentenza, equiparandola al rigetto della domanda Carnelutti, Effetti della cassazione per omessa pronuncia, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1938, II, 68 e seg.; Segni, Della tutela giurisdizionale in generale, in Comm. Scialoja-Branca, VI, Bologna-Roma, 1962, 342.

(160) Cfr. E. E Ricci, Il doppio grado, cit., 66, che sottolinea come la denuncia del vizio di omissione di pronuncia altro non sia che la possibilità di ripresentare in sede di impugnazione la domanda non decisa dal giudicea quo.

(161) Per l’onere di impugnazione si pronunciano Attardi, Note sull’effetto devolutivo, cit., 157 e seg.; Salvaneschi, op. cit., 71 e seg., nonché sostanzialmente Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 140 e seg.; Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, cit., 1349 e seg. In giurisprudenza v. Cass., 2 giugno 1992, n. 6653;Id., 3 febbraio 1989, n. 693; Id., 6 agosto 1984, n. 4631, in Giur. It., 1986, I, 1, 1541, con nota di Prosperi, e in Giust. Civ., 1984, I, 2983 (sia pure sull’erroneo presupposto della possibile formazione del giudicato sulla pronuncia omessa). Per la riproposizione ex art. 346 propende, invece, Rasoio, op. cit., 169 e segg., e v. anche Cass., 4 ottobre 1986, n. 5895.

(162) Rascio, op. cit., 173.

(163) V. Cass., 26 febbraio 1994, n. 1965, secondo cui «non sussiste nel vigente ordinamento un principio generale in virtù del quale il giudizio di merito debba svolgersi in doppio grado. Infatti, le norme di carattere eccezionale degli art. 353 e 354 c.p.c., prevedendo ipotesi tassative di remissione al primo giudice (ivi compresa l’ipotesi di sentenza affetta da giuridica inesistenza, da ricomprendersi tra i casi di nullità di cui al comma 2 dell’art. 161 stesso codice), escludono la necessità che siano esaminate da due distinti giudici di merito tutte le cause caratterizzate da omessa pronuncia od omesso esame in prime cure di punti o questioni decisivi»; v. anche Cass., 16 marzo 1984, n. 1814;Id., 17 febbraio 1981, n. 969. In dottrina v. E. E Ricci, Il doppio grado, cit., 66; Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 349. Ritengono invece che la causa debba essere rimessa in primo grado, parificando l’omissione di pronuncia ad una sentenza inesistente Consolo, op. cit., 116 e seg., nt. 170; Lorenzetto Peserico, Inesistenza della sentenza e rimessione al giudice di primo grado, in Riv. Dir. Proc, 1977, 522 e segg., nt. 33; Jannuzzi, Omissione di pronuncia, cosa giudicata e riproposizione della domanda, in Giust. Civ., 1960, I, 1129 e seg. e, in giurisprudenza, Cass., 24 novembre 1987, n. 8694, in Arch. Civ., 1988, 149, e in Giust. Civ., 1988, I, 2353: però, la violazione dell’art. 112 c.p.c. cagiona solo la nullità della sentenza, che si converte in motivo di impugnazione.

(164) Cfr. Salvaneschi, op. cit., 192.

(165) V. Cass., 25 gennaio 1997, n. 785, in Foro It., 1998, I, 190 e segg., con nota di Rascio; Id., 9 marzo 1995, n. 2768 e Id., 26 marzo 1994, n. 2970 (ambedue in tema di rivalutazione monetaria); Id., 20 gennaio 1994, n. 485; Id., 28 agosto 1986, n. 5273. Ritengono che il richiamo al divieto di reformatio in peius sia inappropriato Bianchi, op. cit., 150 e segg.; Rasoio, op. cit., 370 e seg., nt. 12.

(166) Sull’intera problematica e sulle diverse opinioni manifestate in dottrina v., da ultimo, Bianchi, op. cit., 149 e segg., ove ampi riferimenti bibliografici; Rascio, op. cit., 204 e segg.

(167) Sul tema non è possibile in questa sede soffermarsi: v., comunque, Cass., 6 agosto 1997, n. 7275, che esclude trattarsi di mutatio libelli in caso di successiva allegazione di nuove voci di danno, giacché esse «non integrano una pluralità e diversità strutturale di petitum, ma ne costituiscono soltanto delle articolazioni (o categorie interne) quanto alla sua specificazione quantitativa»; conf. Cass., 26 novembre 1991, n. 12638, in Giust. Civ., 1992, I, 354; Id., 12 agosto 1988, n. 4943. V. poi Rasoio, op. loc. cit., che (a pag. 207) riconosce come non sia corretto collegare il problema della progressiva restrizione dell’area della lite nelle fasi di impugnazione con l’ammissibilità della deduzione frazionata dei diritti di quantità.

(168) Cfr. Salvaneschi, op. cit., 145 e seg.; sulla libertà del giudice nell’ordine di esame delle questioni di merito v. Liebman, Manuale, cit., II, 220.

(169) L’esempio viene addotto da Attardi, Sentenze di rito e soccombenza del convenuto, in Giur. It., 1976, I, 1, 496.

(170) Cfr. Salvaneschi, op. cit., 144.

(171) Invero, anche se l’ordo procedendi imposto dal convenuto appesantisce il processo (incidendo sulla cosiddetta economia endoprocessuale), il vincolo creato dalla parte può evitare un successivo giudizio, facendo decidere definitivamente la controversia e apportando un beneficio dal punto di vista dell’economia esoprocessuale: cfr. Consolo, op. cit., 507 e seg., seguito da Salvaneschi, op. cit., 145 e seg.

(172) A prescindere da ogni discorso sulla natura di quest’eccezione, su cui v. Salvaneschi, op. cit., 150, nt. 308 bis, e ampiamente E. Merlin, Compensazione e processo, I, Milano, 1991, 1 e segg.

(173) Cfr. Consolo, op. cit., I, 539; Salvaneschi, op. loc. ult. cit.

(174) V. Salvaneschi, op. cit., 154 e seg.

(175) Sulla questione di giurisdizione v. Cass., 14 aprile 1998, n. 3778;Id., Sez. un., 27 gennaio 1993, n. 1005; Id., 6 settembre 1990, n. 9197, in Foro It., 1991, I, 102, con nota di Brilli e Proto Pisani; Id., 9 maggio 1984, n. 2827; Id., 6 dicembre 1982, n. 6652; Id., 9 marzo 1981, n. 1300, in Giur. It., 1981, I, 1, 1019, e in Giust. Civ., 1981, I, 1298. Sulla questione di competenza v. Cass., 23 marzo 1982, n. 1846. Contra Rascio, op. cit., 268 e segg., cui non pare giustificabile la distinzione tra appellante, costretto a riproporre l’eccezione rilevabile d’ufficio con l’atto di appello, e appellato, facoltizzato a proporla sino a precisazione delle conclusioni. Il diverso trattamento però ben si giustifica e va condivisa la decisione di Cass., 22 aprile 1977, n. 1484, in Foro It., 1977, I, 1919, secondo cui «è manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 342 e 345 c.p.c., in quanto importano che l’appellante, diversamente dall’appellato, può dedurre nuove eccezioni soltanto nell’atto di appello e non anche nell’ulteriore corso dell’impugnazione, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. », poiché diverse sono le posizioni processuali dell’appellante — che, richiedendo la riforma della pronuncia impugnata, ha l’onere di specificarne i motivi — e dell’appellato, che si limita a difendere la sentenza di primo grado dall’impugnazione avversaria. Sul punto v. anche Cass., Sez. un., 8 ottobre 1974, n. 2657, in Riv. Dir. Proc, 576 e segg.; Id., 20 giugno 1996, n. 5690, secondo cui «la proposizione, ad opera dell’appellante, di nuove eccezioni in senso proprio nel giudizio di secondo grado, costituendo esercizio del diritto di impugnazione e attuandosi attraverso la formulazione di motivi di gravame, incontra un limite invalicabile nell’art. 342 c.p.c., nel senso che, diversamente dall’appellato, l’appellante può dedurle soltanto nell’atto di appello e non anche nell’ulteriore corso del giudizio di impugnazione»; nonché Cass., 15 luglio 1996, n. 6398 e Tedoldi,L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 152 e segg.

(176) In dottrina v., da ultimo, Rascio, op. cit., 270 e segg. In giurisprudenza Cass., 26 marzo 1997, n. 2678;Id., 12 maggio 1993, n. 5394; Id., 6 settembre 1990, n. 9197 cit.

(177) V., per tutti, Mandrioli, op. cit., II, 398 e segg.; Chiarloni, voce «Appello», cit., 6; Vellani, voce cit., 722.

(178) Vellani, voce cit., 727; Masé Dari, Questioni in tema di riserva d’impugnazione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1955, 903 e seg. In giurisprudenza si rinvengono pronunce alquanto remote: Cass., 10 marzo 1966, n. 672, in Giur. It., 1967, I, 1, 829; Id., 20 ottobre 1955, n. 3329; Id., 19 giugno 1951, n. 1621. Più recente ma non così esplicita Id., 23 luglio 1987, n. 6430, in Giust. Civ., 1988, I, 2961; e inoltre Id., 25 giugno 1987, n. 5585, in Giust. Civ., 1988, I, 2961; nonché Trib. Sup. Acque, 1° dicembre 1992, n. 123, in Cons. Stato, 1992, II, 1961.

(179) Cfr. Vellani, voce cit., 726; Giudiceandrea, op. cit., II, 114 e segg.; Andrioli, Commento, cit., II, 437 e seg. In giurisprudenza v. Cass, 22 aprile 1992, n. 4841; Id., 22 dicembre 1990, n. 12160, in Giust. Civ., 1991, I, 1492; Id., 28 gennaio 1987, n. 779; Id., 12 novembre 1986, n. 6628; Id., 9 agosto 1983, n. 5313.

(180) V. Vellani, voce loc. ult. cit.; Attardi, Modo e termine dell’appello contro una sentenza non definitiva, in Giur. It., 1964, I, 1, 1617. In giurisprudenza v. Cass., 8 aprile 1983, n. 2498;Id., 3 novembre 1981, n.5783.

(181) V Andrioli, Dir. proc. civ., cit., 795; Attardi, op. ult. cit., 1417, il quale critica la soluzione data da Cass, 30 novembre 1963, n. 3069, secondo cui è necessario un autonomo atto d’impugnazione della sentenza non definitiva, quando sia proposto da altri appello contro la sentenza definitiva. In giurisprudenza, nel senso di cui nel testo v. Cass, 25 giugno 1987, n. 5587, in Foro It., 1988, I, 869; Id, 15 dicembre 1987, n. 9300; Id, 23 luglio 1987, n. 6430, cit.; Id, 28 gennaio 1987, n. 779, in Giur. Civ. Comm., 1987, I, 645, con nota di Nardin.

(182) Cfr. Cass, 7 marzo 1953, n. 573, in Foro It., 1953, I, 645; Id, 30 novembre 1963, n, 3069, in Giur. It., 1964, I, 1, 1416 e segg, con la nota critica di Attardi più volte richiamata; Id, 29 ottobre 1957, in Riv. Dir. Proc, 1959, 154 e segg, con nota contraria di Carnelutti, Appello incidentale da sentenza interlocutoria accettata, e in Foro It. ,1958, I, 404; Id, 25 ottobre 1969, n. 3511; Id, 10 gennaio 1975, n. 75, in Giur. It., 1975, I, 1, 855, con nota critica di Cerino Canova, Una specie in via dì estinzione: l’impugnazione incidentale tardiva; Id, 19 luglio 1979, n. 4281; Id, 9 aprile 1980, n. 2267; nonché, più recentemente, App. Perugia, 12 marzo 1991, in Arch. Civ., 1992, 704.

(183) Seguono questo ragionamento Cass, 30 novembre 1963, n. 3069, cit.; Id, 21 dicembre 1971, n. 3736, in Foro It., 1972, I, 2550; Id, 31 luglio 1980, n. 4903; Id, 9 aprile 1980, n. 2267; Id, 19 marzo 1981, n. 1619, in Giust. Civ., 1981, I, 1620. Segni di abbandono di questa concezione, ma limitatamente alla proponibilità di un gravame incidentale tardivo nel giudizio instaurato dall’appello immediato di altra parte contro la medesima sentenza non definitiva riservata dall’impugnante incidentale, si leggono in Cass, 9 agosto 1983, n. 3313.

(184) Cass, Sez. un, 7 novembre 1989, n. 4640, in Giur. It., 1990, I, 1, 392, con nota di Chizzini, e in Foro It., 1989, I, 3405, preceduta dalla perspicua pronuncia di Id, 24 novembre 1988, n. 6311, in Giur. It., 1989, I, 1, 1136, con nota di Chizzini, in Foro It., 1989, I, 1142, e in Giust. Civ., 1989, I, 290.

(185) Cfr. Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 105 e segg.; Carnelutti, Appello incidentale da sentenza interlocutoria accettata, cit., 156, il quale parla di «formazione progressiva della decisione», nel senso che la sentenza non definitiva «fa corpo con la sentenza definitiva »; Attardi, op. ult. cit., 1416, si riferisce al fenomeno della «decisione continuata», intendendo per sentenza «l’atto col quale si è data risposta all’insieme delle questioni insorte nell’ambito dell’unico processo».

(186) E, ovviamente, di scadenza del termine per impugnare la sentenza definitiva (che vale anche per la sentenza non definitiva riservata, stante il disposto dell’art. 340, 2° comma): cfr. Attardi, op. ult. cit., 1418;Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 70; Andrioli, Dir. proc. civ., cit., 795; Cass, 22 dicembre 1990, n. 12160, in Giust. Civ., 1991, I, 1492.

(187) V. Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 74 e segg. e 106; Carnelutti, op. ult. cit., 155; Attardi, op. loc. ult. cit.; in giurisprudenza v. Cass., 23 luglio 1987, n. 6430, in Giust. Civ., 1988, I, 2961 (ma la massima è tutt’altro che perspicua). Contra Id., 16 luglio 1997, n. 6515, in Giust. Civ., 1998, I, 1134.

(188) Per una fattispecie in cui l’attore aveva impugnato la sentenza definitiva che gli aveva accordato un risarcimento ritenuto insufficiente, mentre il convenuto si gravava incidentalmente contro la condanna generica, v. Cass., 23 luglio 1987, n. 6430, cit.

(189) V. Attardi, op. loc. ult. cit.

(190) V. Andrioli, Commento, cit., II, 460; Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, cit., 59; Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 223 e 229; Cerino Canova, op. cit., 588 e seg.; Garbagnati, Questioni preliminari di merito, cit., 412; Luiso, voce «Appello», cit., 369. In giurisprudenza v. Cass., 1° aprile 1999, n. 3102; Id., 7 aprile 1997, n. 2990; Id., 6 dicembre 1996, n. 10888; Id., 17 giugno 1996, n. 5529; Id., 29 novembre 1993, n. 11808, solo per citare le più recenti pronunce in cui la Suprema Corte ha cura di precisare come l’inesistenza di norma analoga all’art. 346 c.p.c. per il giudizio di cassazione oneri la parte vittoriosa nel merito a interporre ricorso incidentale se vuole evitare che l’esame della questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito decisa in senso a lei sfavorevole resti precluso. Contra Rascio, op. cit., 268 e segg., su cui v. supra in nt. 175.

(191) Cfr. Garbagnati, op. ult. cit., 414; Attardi, Limiti all’applicazione del gravame incidentale tardivo, cit., 179; Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 106.

(192) V. Garbagnati, op. ult. cit., 404; Luiso, voce loc. ult. cit.; Cass., 16 aprile 1980, n. 2483.

(193) Parla di appello incidentale condizionato Attardi, op. loc. ult. cit. ; Grasso, op. ult. cit., 74, sottolinea che l’interesse ad impugnare una sentenza non definitiva su questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito risolta sfavorevolmente alla parte riuscita poi vittoriosa nella decisione definitiva è provocato dal gravame principale proposto dalla controparte contro quest’ultima pronuncia. Sul punto v. anche la (non recente ma sempre perspicua) motivazione di App. Torino, 29 ottobre 1951, in Toro lt., 1952, I, 771.

(194) È appena il caso di ricordare che, in critica alla teoria che identifica il capo di sentenza con il capo di domanda, si osserva che oggetto delle sentenze non definitive può essere una questione (pregiudiziale di rito o preliminare di merito) e la sentenza parziale può addirittura essere scomposta in più parti o capi allorché siano state risolte plurime questioni; sicché a una sentenza non definitiva di siffatto contenuto non potrebbe non essere applicato l’art. 329 cpv. in caso di impugnazione limitata ad alcune questioni: cfr. Garbagnati, op. ult. cit., 405; Cerino Canova, op. cit., 125, nt. 6 anche al richiamo. Sul tema v. diffusamente Bianchi, op. cit., 139 e segg., in critica all’opinione di Rascio, op. cit., 117 e segg., che — come più volte riferito (v. supra in nt. 175) — identifica la parte di sentenza con ogni possibile oggetto della sentenza non definitiva.

(195) La tematica dell’impugnazione incidentale condizionata viene per lo più affrontata con riguardo al giudizio di cassazione, in cui è necessaria la proposizione di un ricorso incidentale della parte, pur vittoriosa nel merito, che voglia evitare la preclusione delle questioni risolte in senso a lei sfavorevole, ma che non hanno determinato una soccombenza pratica: v. Liebman, Manuale, cit., II, 336 e segg.; Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 74 e seg. e 104 e seg.; Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 53; Andrioli, Dir. proc. civ., cit., 873; Garbagnati, op. cit., 431 e segg.; Chiarloni, Contro l’abrogazione per via giurisprudenziale del ricorso incidentale «condizionato» del resistente vittorioso, in Giur. It., 1994, I, 1, 453 e segg. La giurisprudenza della Suprema Corte, dopo aver negato per anni la possibilità per il ricorrente incidentale di condizionare l’ordine cognitorio delle questioni, considerando come non apposta la condizione (v. ancora di recente Cass., 28 marzo 1998, n. 3290), ha da ultimo mutato orientamento, ritenendo pienamente ammissibile il ricorso incidentale condizionato quando investe una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito espressamente rigettata dal giudice a quo: v. Cass., 28 gennaio 1999, n. 738 (ove si precisa che solo in caso di omessa pronuncia sulla questione rilevabile ex officio, questa può essere rilevata subito dal Supremo Collegio, a prescindere dalla condizione apposta al ricorso incidentale; e si aggiunge che tale principio trova un limite nella ipotesi in cui, ad un esame preliminare del ricorso principale, appaia ictu oculi evidente la fondatezza di uno o più dei motivi di doglianza in esso rappresentati, si che, in tal caso, atteso il carattere di unitarietà e contestualità della emananda decisione, risulta più rispondente ad un corretto iter logico l’esame prioritario del ricorso incidentale, palesandosi già apprezzabile l’interesse del soggetto proponente); Id., 21 maggio 1999, n. 4954; Id., 16 luglio 1998, n. 6988, in foro lt., 1998, I, 2772; Id, 29 maggio 1998, n. 5306, in Giur. lt., 1999, 1841; Id, 6 giugno 1997, n. 5050, in Foro lt., 1997, I, 2933, con nota di Sbaraglio, Un passo indietro dei nuovi orientamenti interpretativi in materia di ricorso incidentale «condizionato», ove ulteriori richiami giurisprudenziali), con qualche riserva ancora sulla questione di giurisdizione, che deve essere decisa dalle Sezioni unite (v. Id, Sez. un, 28 novembre 1997, n. 12042, in Giust. Civ., 1998, I, 1340; Id, 19 aprile 1997, n. 3382, in Foro lt., 1997, I, 2934, con nota critica di Sbaraglio cit.).

(196) Cfr. Chiarloni, op. ult. cit., 126, seppure con riguardo al ricorso incidentale condizionato per cassazione.

(197) V. Cass, 22 ottobre 1985, n. 5174, che sottolinea come, in subiecta materia, il potere dispositivo delle parti cede solamente di fronte alle questioni ancora rilevabili d’ufficio in sede di gravame; molto chiara sul punto è Id, 10 febbraio 1982, n. 832, in Foro lt., 1982, I, 379, con nota adesiva di Barone. Contra Luiso, voce «Appello», cit., 385 e seg, nonché, ma con affermazioni criticabili, Id, Sez. un, 11 dicembre 1990, n. 11795, in Foro It., 1991, I, 53, con nota contraria di Barone.

(198) Cfr. Grasso, op. ult. cit., 54 e seg, il quale parla di interesse attuale all’impugnazione incidentale condizionata in relazione a un pregiudizio virtuale nascente dal possibile accoglimento del gravame avversario; l’Autore evidenzia anche che la condizione è connaturata a un’impugnazione cosiffatta. V. anche Attardi, Limiti di applicazione, cit., 181, che pone esattamente in luce come non sia neppure necessario ricondurre la figura dell’impugnazione incidentale condizionata all’art. 334 c.p.c., in quanto il potere di appellare in via condizionata sorge (o risorge) soltanto allorché venga acclarata la fondatezza del gravame principale; conf. Salvaneschi, op. cit., 85, nt. 136.

(199) V. Cass., 3 giugno 1985, n. 3309, in Foro It., 1987, I, 916. Un accenno a quest’ipotesi si trova in Grasso, Le impugnazioni incidentali, cit., 123 e già in Mortara, Commentario, cit., II, 405.

(200) In questo senso v., invece, Attardi, Note sull’effetto devolutivo, cit., 159; Id., Limiti di applicazione, cit., 179; Salvaneschi, op. cit., 77 e 84; e, solo per l’ipotesi in cui alla base della domanda subordinata vi sia un diritto incompatibile con quello affermato nella domanda principale, Bonsignori, L’effetto devolutivo nell’ambito dei capi connessi, cit., 963. Viceversa, escludono un onere di appello incidentale condizionato Consolo, op. cit., 792 e segg. e, nel solo caso di cumulo subordinato tra domande fondate su un diritto compatibile, Bonsignori, op. loc. ult. cit.

(201) Contra Consolo, op. cit., 801 e seg., nt. 200; Salvaneschi, op. cit., 113 e seg.

(202) Cfr. Salvaneschi, op. cit., 153 e 387.

(203) Chiarloni, L’impugnazione incidentale, cit., 55 e seg.

(204) V. supra alle nt. 97 e 98, ove ulteriori richiami: si ricorderà che la dottrina tedesca tende ad escludere per l’Anschlußberufung il carattere di mezzo di impugnazione, osservando che tra i suoi presupposti non è richiesta la soccombenza (v., anche per alcune osservazioni critiche, Grunsky, in Stein-Jonas, op. cit., 163 e seg.).

(205) Chiovenda, Principii, cit., 993 e seg., che reca l’esempio delle plurime eccezioni proposte dal convenuto e del cumulo subordinato o alternativo di domande.

(206) Mortara, Commentario, cit., IV, 396, secondo cui «è solo per gli elementi idonei a determinare una diversa soccombenza dell’appellante (diversa in qualità o quantità) che l’effetto devolutivo dell’appello principale ha bisogno di essere integrato mediante la dichiarazione dell’appello incidentale; imperocché solo per tali elementi l’appellato può insorgere in nome della propria parziale soccombenza e in virtù dell’interesse che questa gli fornisce». V. anche Mattirolo, Trattato, cit., IV, 612 e segg., che, con riguardo alle ragioni, istanze od eccezioni non ammesse o rigettate in primo grado, distingue a seconda che esse tendano ad una sola conclusione o a conclusioni diverse, perseguendo un diverso obiettivo.

(207) Andrioli, Diritto processuale civile, cit., 829, secondo cui «è valida l’interpretazione dell’art. 346, in virtù della quale è tenuta ad osservare l’onere della riproposizione espressa quella parte, le cui domande o eccezioni (e la nozione di eccezione viene qui assunta in senso lato) non sono state esaminate perché “assorbite” o sono state respinte dal giudice senza ingenerare soccombenza pratica».

(208) Questa, se si vuole, è una versione aggiornata del divieto di reformatio in peius, che trova la propria ratio nell’esigenza di tutelare il diritto di difesa della parte contro cui la domanda di riforma viene avanzata.

(209) V. Cass., 17 giugno 1981, n. 3965, secondo cui «l’appello incidentale… se è inammissibile per difetto di interesse, vale tuttavia come riproposizione di un’eccezione (o domanda) non accolta dal giudice di primo grado, sulla quale il giudice dell’impugnazione è tenuto a portare il suo esame e a statuire in merito».

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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