Legge Pinto e termine di prescrizione

Domenico Chindemi, Legge Pinto e termine di prescrizione (Commento a Cass. 24.2.2010, n. 4524), in Responsabilità civile e Previdenza, 2010, 1298

DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE NEL GIUDIZIO DI EQUA RIPARAZIONE (LEGGE PINTO)

Cass. civ., 24 febbraio 2010, n. 4524 – Sez. I – Pres. Vittoria – Rel. Ceccherini

Prescrizione – Decorrenza – Processo equo – Termine ragionevole – Equa riparazione – Proponibilità dell’azione in pendenza del processo – Riferimento alla scadenza del termine di decadenza ex art. 4 della legge n. 89/2001 – Esclusione – Conseguenze.

(l. 24 marzo 2001, n. 89; c.c. art. 2947)

Il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.

[In senso contrario Cass. civ., 26 febbraio 2010, n. 4760; Cass. civ., 24 febbraio 2010, n. 4526; Cass. civ., 22 febbraio 2010, n. 4091]


FATTO.- Con decreto 1° giugno 2007, la Corte d’Appello di Roma, decidendo sulla domanda proposta dal signor G.T., condannò il Ministero della giustizia a pagare, a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata di un processo, protrattosi per dodici anni oltre il termine ragionevole, la somma di euro 3.500,00 per un ritardo di sette anni, dichiarando prescritto il diritto alla riparazione del danno anteriore al quinquennio. Per la cassazione del decreto, che dichiara non essere stato notificato, ricorre il signor G.T. con atto notificato in data 17 luglio 2008, con due mezzi d’impugnazione.

L’amministrazione resiste con ricorso notificato il 10 ottobre 2008.


DIRITTO.- Con il primo motivo si censura il criterio di determinazione dell’equa riparazione commisurato al periodo di ritardo, invece che all’intera durata del giudizio.

Il mezzo è infondato, essendo giurisprudenza consolidata di questa corte che la precettività, per il giudice nazionale, dell’indirizzo della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di liquidazione dell’indennità per l’irragionevole durata del processo non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore della base annuale di calcolo, perché, mentre per la CEDU l’importo in questione quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il comma 3, lett. a), dell’art. 2 della legge n. 89/2001, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata legge n. 89/2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111, comma 2, Cost., nel testo fissato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) (Cass., 13 aprile 2006, n. 8714; Cass., 23 aprile 2005, n. 8568).

Il secondo motivo censura per falsa applicazione di norme di diritto sulla prescrizione in materia di equo indennizzo ex lege n. 89/2001 l’applicazione, nell’impugnato decreto, del termine quinquennale di prescrizione ai danni verificatisi prima del triennio dalla domanda.

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Le questione della prescrizione del diritto all’equa riparazione del danno derivato dall’irragionevole durata del processo deve essere qui esaminata nei limiti posti dal ricorso, nel quale la censura mossa all’impugnata sentenza verte esclusivamente sulla durata del termine. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ha carattere indennitario e non risarcitorio, non richiedendo l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., e non presupponendo la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente. Esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento “ex se” lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, configurandosi l’obbligazione, avente ad oggetto l’equa riparazione, non già come obbligazione “ex delicto”, ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (Cass. civ., 13 aprile 2006, n. 8712). Ne consegue, in tale prospettiva, che il diritto medesimo è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.

Il motivo di ricorso in esame deve pertanto essere accolto, e il decreto impugnato deve essere cassato in base al principio di diritto seguente:

il diritto di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1, della Convenzione, ad una equa riparazione, secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, ha natura indennitaria e non risarcitoria, e ad esso non è applicabile il termine di prescrizione breve previsto dall’art. 2947 c.c.

La causa, inoltre, può essere decisa anche nel merito, non richiedendosi a tal fine ulteriori indagini in fatto. Non essendo emerso alcun motivo per derogare, in ragione della particolarità della fattispecie, agli ordinari criteri di liquidazione del danno, correnti nella giurisprudenza della CEDU, l’amministrazione deve essere condannata al pagamento dell’equa riparazione liquidata, per dieci anni di eccessiva durata del processo presupposto oltre il termine ragionevole, come richiesto, in euro 10.000,00, con gli interessi dalla domanda.

Le spese del giudizio sono a carico dell’amministrazione soccombente, e sono liquidate, per il grado svoltosi davanti alla corte territoriale, in euro 50,00 per esborsi, euro 1.000,00 per onorari ed euro 440,00 per diritti, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge, da distrarsi a favore dei procuratori antistatari, avvocati S.D.N. e C.C., come già disposto nel decreto impugnato.

Sono inoltre a carico dell’amministrazione soccombente le spese del grado di legittimità, liquidate come in dispositivo e distratte a favore dell’avvocato C.C., dichiaratosi antistatario. (Omissis).

 

LEGGE PINTO E TERMINE DI PRESCRIZIONE

di Domenico Chindemi – Consigliere della Corte di Cassazione

La pronuncia afferma l’applicazione del termine decennale di prescrizione al fine di far valere il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, senza, tuttavia specificare che tale termine non decorre prima della scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo art. 4 per la proposizione della domanda.

Una visione sistematica della giurisprudenza della Cassazione consente di ritenere isolata tale pronuncia.


Sommario 1. Termine di prescrizione e di decadenza nella legge Pinto.


1. Termine di prescrizione e di decadenza nella legge Pinto

La sentenza in rassegna potrebbe ingenerare confusione in ordine alla applicazione del termine di prescrizione ai fini della azionabilità del ricorso in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, in quanto, dopo avere ribadito il carattere indennitario e non risarcitorio della relativa azione non richiedendo l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., e non presupponendo la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ne afferma l’assoggettabilità all’ordinaria prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.

Il diritto all’indennità di che trattasi non è, infatti, soggetto alla prescrizione breve di cui all’art. 2947 c.c., non essendo riconducibile a quello avente ad oggetto il risarcimento del danno da fatto illecito, né essendo assimilabile ad alcuna delle categorie per le quali l’art. 2948 dello stesso codice contempla pur sempre una prescrizione quinquennale.

Ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il diritto ad un’equa non richiede infatti l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c. né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole.

Secondo la Corte, l’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali costituisce un evento “ex se” lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, configurandosi l’obbligazione, avente ad oggetto l’equa riparazione, non già come obbligazione “ex delicto”, ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.

Ad una prima lettura la sentenza potrebbe ingenerare la falsa convinzione che sia applicabile, in termini generali, alla legge Pinto l’ordinario termine di prescrizione decennale, ritenendo estinto il diritto all’indennizzo per il danno riferibile al segmento temporale collocato oltre dieci anni prima della notifica del ricorso introduttivo, con conseguente irrisarcibilità, oltre il decimo anno a ritroso, del termine di durata ragionevole, sia pure successivo al termine di durata ragionevole del ricorso, avendo la Corte nella medesima pronuncia, ribadito l’orientamento consolidato della Suprema Corte che evidenzia che mentre per la CEDU l’importo per ciascun anno di ritardo va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il comma 3, lett. a), dell’art. 2 della legge n. 89/2001, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, ribadendo che detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata legge n. 89/2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana.

Potrebbe ulteriormente rafforzare tale convinzione la circostanza che la Corte abbia condannato l’Amministrazione al pagamento dell’equa riparazione liquidata, per dieci anni di eccessiva durata del processo presupposto oltre il termine ragionevole.

Anche un orientamento della giurisprudenza di merito ritiene applicabile all’equa riparazione – in mancanza di diversa specifica previsione derogatrice il generale principio secondo cui, ex art. 2934, comma 1, c.c., “ogni diritto si estingue per prescrizione ” e, quindi, il diritto del ricorrente deve ritenersi soggetto a tale causa estintiva, qualora trascorrano più di dieci anni senza che il cittadino avanzi alcuna pretesa al riguardo.1

Si è rilevare che il termine decennale prescrizionale è indicato in via generale dall’art. 2946 c.c. e non vi sono ragioni valide che possano giustificare alcuna deroga al principio generale della prescrizione del diritto per il decorso del tempo.

A favore di tale orientamento si è sostenuto da una parte della giurisprudenza di merito che non si vede anzitutto per qual ragione il diritto all’equa riparazione possa ritenersi inesigibile prima della valutazione giudiziale (definirlo “inesigibile prima della proposizione della domanda” appare poi quasi un ossimoro).

Vero è che si tratta di credito illiquido – richiedendosi una valutazione in termini pecuniari del danno e, dunque, una sua liquidazione – ma ciò non significa certo che il danno non preesista alla liquidazione e con esso il diritto all’equa riparazione, né che questo non sia esigibile.

L’esigibilità corrisponde, per comune insegnamento, alla possibilità di far valere giudizialmente il diritto attraverso una domanda di condanna attuale al pagamento (cfr. Cass. 20 maggio 1969, n. 1769; 13 settembre 1974, n. 2489), la quale certamente sussiste per il diritto all’equa riparazione e, ovviamente, preesiste alla liquidazione del danno.

Quanto poi alla illiquidità del credito, essa non ha mai costituito ostacolo al decorso della prescrizione: basti considerare che, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi imprescrittibile il diritto al risarcimento del danno, quale che ne sia il fatto generatore e il fondamento giuridico, essendo anch’esso ancora illiquido al momento della proposizione della relativa domanda giudiziale (il che evidentemente non può sostenersi).

è vero piuttosto che, per pacifico insegnamento, applicabile – mutatis mutandis – anche alla fattispecie in esame, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal momento in cui il danno stesso si è verificato e non da quello, eventualmente diverso, in cui è stato posto in essere l’atto illecito (v. Sez. Un. civ., 6 ottobre 1975, n. 3161; Cass. civ., 15 marzo 1989, n. 1306; Cass. civ., 8 febbraio 1990, n. 875; Cass. civ., 10 giugno 1999, n. 5701; Cass. civ., 12 gennaio 2000, n. 246).2

Non può sfuggire all’interprete, tuttavia, che la Corte, nella fattispecie in rassegna, ha avuto cura di specificare che la questione della prescrizione del diritto all’equa riparazione del danno derivato dall’irragionevole durata del processo è stata esaminata nei limiti posti dal ricorso, nel quale la censura mossa all’impugnata sentenza verte esclusivamente sulla durata del termine.

La Corte, tuttavia, ben avrebbe potuto specificare, anziché specificare la sola durata del termine di prescrizione,anche, ribadire il “dies a quo” di decorrenza di detto termine, in quanto, anche se vi è la facoltà di agire per l’indennizzo in pendenza del processo presupposto, tuttavia non è consentito di far decorrere il relativo termine di prescrizione prima della scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre all’incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l’operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo.3

Il presupposto – si ritiene non corretto – da cui muovere per invocare la decorrenza del termine di prescrizione anche durante la vigenza del processo presupposto muove dalla considerazione che la l. n. 89/2001 ha mera natura processuale, e quindi non innovativa della disciplina sostanziale in tema di cause di estinzione del diritto per inerzia del titolare: inerzia, rilevante ai fini prescrittivi, dal momento stesso in cui si manifesta la violazione del termine ragionevole del processo presupposto, e dunque, anche prima della sua definizione, cui verrebbe ad essere correlato il dies a quo del periodo di prescrizione, coevo al primo verificarsi del ritardo processuale, in base al principio generale di cui all’art. 2935 c.c.4.

la prescrizione decennale, ben potrebbe cominciare a decorrere anche durante la pendenza del processo dal momento in cui è stato superato il termine ragionevole di durata prospettabile.5

La giurisprudenza di legittimità ha, al riguardo, rilevato come l’art. 4, l. 24 marzo 2001, n. 89, si pone come norma speciale ed autosufficiente sia per la sua collocazione toponomastica, ma sia per la sua rubrica “Termini e condizioni di proponibilità”, di portata letterale onnicomprensiva nel delineare i tempi dell’edictio actionis.

Va, anzitutto rilevato come il dato letterale non offre elementi per il recupero, in forma di richiamo esplicito, della disciplina propria della prescrizione da escludersi anche in forza di richiami sistematici.6

Non si ritiene possibile che il diritto all’equa riparazione possa estinguersi, in tutto o in parte prima del decorso del termine decadenziale di sei mesi per la proposizione della domanda, decorrente dal momento in cui è divenuta esecutiva la decisione, che conclude il procedimento, con l’unico limite del termine iniziale rilevante ai fini del calcolo della durata ragionevole del processo decorre dal 1° agosto 1973. data a partire dalla quale è riconosciuta la facoltà del ricorso individuale prima alla Commissione e poi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, 7

Infatti la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, prevede che la presentazione del ricorso individuale sia condizionata al riconoscimento delle competenze in materia da parte dell’Alta parte contraente chiamata in causa e tale dichiarazione è stata resa il 31 luglio 1973 e, quindi solo i fatti successivi a tale data possono essere contestati allo Stato Italiano.8

Non avrebbe avuto, infatti, senso fare tale specificazione ove fosse applicabile, a ritroso, il termine decennale di prescrizione che non avrebbe potuto, comunque, comportare l’indennizzo per fatti anteriori di oltre dieci anni all’entrata in vigore della legge.

È, invece, possibile applicazione del due istituti temporalmente sfalsata: ma solo nel senso che la prescrizione maturi una volta impedita la decadenza, e non viceversa (art. 2967 c.c.). in quanto la proponibilità dell’azione entro un termine di decadenza esclude la maturazione della prescrizione prima del prescritto dies ad quem9.

Tuttavia, con riferimento alla legge Pinto, la questione della prescrizione non ha, sotto il profilo pratico, alcuna possibilità di essere invocata.

Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89/2001 la domanda di equa riparazione deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Prima del decorso del termine semestrale di cui all’art. 4 il termine di prescrizione non inizia ancora a decorrere e, dopo il decorso del semestre di cui all’art. 4 l. cit., opererà la decadenza, senza che, in concreto, possa mai farsi valere la prescrizione decennale, quindi il termine di ” prescrizione “, non deve ritenersi avente rilevanza “processuale”, non incidendo sulla proposizione dell’azione o comunque sul diritto di agire in giudizio, essendo, al riguardo, previsto un termine di decadenza.

Ritenere diversamente significherebbe onerare la parte interessata dal proporre la domanda entro il termine decennale di irragionevole ritardo,anche se il processo non è ancora concluso con un moltiplicarsi dei ricorsi.

Si ritiene di condividere tale orientamento in quanto, comunque, il termine di prescrizione non potrebbe cominciare a decorrere se non dal momento della cessazione del processo della cui irragionevole durata si tratta e, dunque, del passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, trattandosi di condotta, anche se non illecita, comunque connotata da illegittimità, comunque, “permanente” il cui conseguente pregiudizio persiste nel tempo fin quando la relativa condotta non è cessata.

Si è anche ritenuto,al riguardo che il diritto all’equo indennizzo … pur sussistendo anche a prescindere dal suo riconoscimento con la l. n. 89/2001, non matura affatto giorno per giorno, ma va verificato in relazione al concreto andamento del singolo processo in rapporto alle caratteristiche di ogni fattispecie: sicché esso non è né liquido, né esigibile prima della valutazione giudiziale e prima della proposizione della domanda o, se anteriore, della cessazione del processo medesimo.10 Altro orientamento, ritiene che la fattispecie integrerebbe un illecito permanente il cui conseguente danno persiste nel tempo fin quando la relativa condotta non è cessata e ciò si verifica solo con il passaggio in giudicato della sentenza resa nel procedimento nel cui ambito assume essersi verificata la violazione11.

La stessa Suprema Corte ha rilevato come appare visibilmente contrario alla ratio legis imporre l’onere di un’azione immediata, al primo maturarsi del ritardo irragionevole. Innanzitutto, per la difficoltà pratica di accertarne subito la datazione, tenuto conto che i termini ordinari (tre anni per il primo grado, due per l’appello, uno per il ricorso per cassazione, secondo i consolidati parametri giurisprudenziali) possono subire variazioni in rapporto alla specifica materia del contendere, alla complessità del caso o al comportamento delle parti: variabili tutte, meno agevolmente valutabili in uno stadio interinale, fuori di una visione d’insieme ex post. Per di più, l’incipiente ritardo potrebbe financo essere riassorbito, in prosieguo, per la necessità sopravvenuta di un ulteriore attività istruttoria che muti la valutazione in fieri, rendendo non più lesivo del principio di ragionevole durata l’effettivo iter processuale12.

Inoltre si determinerebbe un aggravio di lavoro per le Corti di Appello che si sta tentando di arginare con una diversa ripartizione della competenza territoriale in quanto il giudizio va instaurato di fronte alla Corte d’Appello del distretto competente ex art. 11. c.p.p., rispetto al quale è iniziata la causa di merito “durata troppo a lungo”, favorendo la diffusione del contenzioso sull’intero sistema delle corti di appello, anziché una sua elevata concentrazione su quella di Roma13.

Occorre, quindi, individuare la sede del giudice di merito distribuito sul territorio, sia esso ordinario o speciale, davanti al quale il giudizio è iniziato; ed al luogo così individuato si attribuisce la funzione di attivare il criterio di collegamento della competenza e di individuazione del giudice competente sulla domanda di equa riparazione, che è stabilito dall’art. 11 c.p.p., ed è richiamato nell’art. 3, comma 1, della legge.

È, pertanto, superata la precedente competenza territoriale che stabiliva che con riferimento a procedimenti svoltisi dinanzi a giudici diversi da quello ordinario e quindi non articolati su base distrettuale non valeva lo spostamento di competenza ex art.11 c.p.p., estendendo tale principio anche ai ricorsi relativi a giudizi svoltisi dinanzi alla Corte di cassazione, in quanto avente competenza nazionale14.

Oggi la competenza territoriale si radica dinanzi alla Corte di Appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo 11 c.p.p., con riferimento al Tribunale o organo giurisdizionale davanti al quale è iniziato il giudizio e non più dove si è concluso.

È anche superato l’orientamento che,ai sensi dell’art. 20 c.p.c., riteneva competente a giudicare, a discrezione dell’attore, la Corte d’Appello del luogo in cui è sorta o dev’essere eseguita l’obbligazione, e quindi la Corte d’Appello di Roma, nel cui distretto ha sede la Corte di cassazione, ovvero quella nel cui distretto è posta la residenza dell’attore, ed ha sede la tesoreria provinciale dello Stato, deputata al pagamento di quanto sarà ritenuto dovuto dal giudice competente15.

E’ vero – osserva la S.C. – che nel consentire la possibilità di agire prima che sia sopravvenuta la decisione definitiva nel giudizio presupposto l’ordinamento italiano, ha ampliato il diritto di azione del soggetto leso dal ritardo irragionevole – anticipandone il possibile esercizio ad una fase intermedia del processo presupposto – e non certo aggravato l’obbligo di diligenza: come rivelato dall’inequivoca congiunzione disgiuntiva “ovvero” contenuta nell’art. 4 cit., lessicalmente sintomatica di una scelta potestativa tra due opzioni, senza reciproco condizionamento.16

Tale ricostruzione sistematica è stata ritenuta conforme alla disciplina della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 35 (Condizioni di ricevibilità), comma 1, contempla unicamente l’identico termine semestrale di decadenza per la proposizione dell’azione (“La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qua è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”)17.

Altro orientamento della giurisprudenza di merito aveva, in precedenza, ritenuto che la responsabilità dello Stato non potesse esser fatta valere per fatti anteriori all’entrata in vigore della c.d. “Legge Pinto”, potendo essere azionata nel momento in cui il fatto generatore di esso si è perfezionato, con l’effetto per cui solo i fatti generatori di responsabilità consumatisi dopo l’entrata in vigore delle legge stessa sono indennizzabili, posto che prima di allora la fattispecie neppure esisteva nel nostro ordinamento18.

Si è sostenuto che prima della data di entrata in vigore della legge n. 89/2001, nessuno poteva pretendere dal giudice italiano di essere indennizzato per tali danni, non essendo stato ancora riconosciuto dall’ordinamento nazionale il relativo diritto e mancava, dunque, la possibilità legale di esercizio dello stesso richiesta, ai sensi dell’art. 2935 c.c., per il decorso della prescrizione19.

Secondo tale tesi il relativo diritto nasce solo per effetto della legge Pinto che per la prima volta ha introdotto tale strumento di tutela.

In senso contrario può rilevarsi che il diritto trova il suo fondamento nella violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU ed ha contenuto e natura esattamente identici a quello già riconosciuto dall’art. 41 della Convenzione medesima; se come tale esso ben può essere maturato, in tutto o in parte, anteriormente all’entrata in vigore della c.d. legge Pinto20.

In senso contrario si è rilevato che la legge 24 marzo 2001, n. 89, si è limitata ad introdurre nel nostro ordinamento, sia pure con alcune specifiche peculiarità lo strumento processuale di tutela di un diritto soggettivo comunque già preesistente, ossia quello alla durata ragionevole del processo e all’indennizzo della sua lesione, già comunque riconosciuto nel nostro ordinamento per effetto della ratifica della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo21.

La stessa Corte di Cassazione, che al riguardo ha ritenuto che l ‘art. 2, l. 24 marzo 2001, n. 89, che prevede il diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, contempla, senza limitazioni di sorta, le violazioni dell’art. 6, paragrafo 1, convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, quindi, riguarda le inosservanze del canone della ragionevole durata del processo verificatesi dopo la ratifica di detta convenzione da parte dell’Italia (avvenuta con l. 4 agosto 1955 n. 848), anche se prima dell’entrata in vigore della medesima legge n. 89/2001. Tale ambito applicativo non incide, però, sull’efficacia “ex nunc” della disposizione – in quanto costitutiva del diritto a riparazione in dipendenza di quelle circostanze – in assenza di un’espressa previsione di retroattività, con la conseguenza che la morte della vittima di tempi irragionevoli del processo, se intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 89/2001, osta alla nascita del diritto in questione e, quindi, alla sua trasmissione agli eredi.22

1_ App. Reggio Calabria, 11 maggio 2009.

2_ App. Reggio Calabria, 11 maggio 2009.

3_ Cass. civ., 30 dicembre 2009, n. 27719.

4_ Cass. civ., 12 febbraio 2010, n. 3325; Cass. civ., 11 febbraio 2010, n. 3180; Cass. civ., 10 febbraio 2010, n. 3042; Cass. civ., 29 gennaio 2010, n. 2134.

5_ App. Napoli, decr. 4 luglio 2008.

6_ Per i richiami sistematici si rinvia a Cass. civ., 26 febbraio 2010, n. 4760, ove si precisa che la disciplina della decadenza – che è una novità del codice del 1942 – postula, al pari della prescrizione, una combinazione dell’inerzia soggettiva con l’elemento oggettivo del tempo; anche se, secondo un’autorevole dottrina (di cui si rinviene qualche eco in giurisprudenza: Cass. civ., 6 novembre 1976, n. 4043), sanziona l’inadempimento di un onere, piuttosto che di un obbligo, per l’esercizio di un diritto (di regola, potestativo), in base al principio di autoresponsabilità cfr. anche Cass. civ., 24 febbraio 2010, n. 4526; Cass. civ., 22 febbraio 2010, n. 4091.Il termine decadenziale, in tesi generale, consiste in un punctum temporis da rispettare: fino a che non sia trascorso, neppure si può parlare d’inerzia soggettiva, perché il tempo, che nella prescrizione viene in considerazione come durata, nella decadenza vale, invece, come distanza: diversità ontologica, rispecchiata dalla disciplina alternativa in materia di interruzione e sospensione (artt. 2941, 2945 e 2964 c.c.), che vede ammissibile solo l’impedimento della decadenza una volta per sempre (art. 2966 c.c.). L’utilità euristica della distinzione si rivela altresì nel corollario logico che non è ipotizzabile – per la contraddizione che noi consente – che il soggetto sia, nel contempo, inerte e no, fino alla scadenza del termine di preclusione di cui alla l. n. 89/2001, art. 4. Tanto più la coesistenza appare eccentrica al sistema, in quanto la previsione di un termine come causa di decadenza o di prescrizione rientra, come generalmente riconosciuto in dottrina, in un scelta discrezionale del legislatore, immune da condizionamenti di logica giuridica (non senza ingenerare, talvolta, dubbi esegetici; cfr. art. 2393, comma 4, c.c.); e, mentre la prescrizione costituisce causa generale di estinzione, in virtù dell’art. 2934 c.c., la decadenza è prevista in norme complementari all’interno di singole fattispecie, insuscettibili di interpretazione analogica (art. 14 preleggi). Pertanto, anche dalla verifica della coerenza sistematica e concettuale si evince, in ultima analisi, l’inammissibilità del concorso simultaneo di termini di decadenza e di prescrizione correlati alla medesima attività richiesta.

7_ Cass. civ., 20 giugno 2006, n. 14286.

8_ Cass. civ., 3 gennaio 2008, n. 9; in senso conforme anche Corte EDU, 19 dicembre 1991, Br. c. Italia; Corte EDU, 25 giugno 1987, Ba c. Italia.

9_ Cass. civ., 26 febbraio 2010, n. 4760; Cass. civ., 24 febbraio 2010, n. 4526; Cass. civ., 22 febbraio 2010, n. 4091; Cass. civ., 11 febbraio 2010, n. 3180.

10_ App. Salerno, decr. 14 ottobre 2008.

11_ App. Roma, decr. 9 luglio 2001, in Guida dir., 2001, 38, 30; cfr. anche App. Napoli, decr. 3 novembre 2008.

12_ Cass. civ., 26 febbraio 2010, n. 4760; la Corte rileva, al riguardo che postulare l’operatività della prescrizione in corso di causa presupposta imporrebbe, fatalmente, il frazionamento della pretesa indennitaria: destinata alla rinnovazione in ipotesi di un ritardo più che decennale. Tanto più, se si acceda al principio di cristallizzazione dell’an e del quantum al momento della domanda di equa riparazione; con conseguente esclusione, dall’indennizzo, dell’ulteriore danno maturato fino alla decisione… Siffatta inevitabile proliferazione di iniziative, per segmenti temporali, intesa non come facoltà rimessa alla discrezionalità potestativa della parte, bensì come onere in prevenzione della perdita del diritto, per prescrizione, oltre ad essere contraria al generale principio di economia processuale e, al limite, integrare perfino un abuso del processo (Sez. Un. civ., 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. civ., Sez. III; 11 giugno 2008, n. 15476) avrebbe l’ulteriore effetto paradossale di indurre la parte alla nimia diligentia di agire quando ancora il ritardo sia pressoché trascurabile; e dia quindi luogo, plausibilmente, ad un indennizzo nummo uno, se non addirittura al rigetto della domanda per l’estrema modestia del pregiudizio.

13_ Sez. Un. civ., 16 marzo 2010, n. 6306 (ord.).

14_ Cass. civ., 20 ottobre 2005, n. 20271 (ord.).

15_ Cass. civ., 20 ottobre 2005, n. 20271 (ord.).

16_ Cass. civ., 26 febbraio 2010, n. 4760. Anche la norma transitoria di cui alla l. n. 89/2001, art. 6 – osserva la Corte – nel consentire entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (prorogato poi al 18 aprile 2002 dal d.l. 12 ottobre 2001, n. 370) la prosecuzione dinanzi al giudice italiano del processi di equa riparazione promossi davanti alla Corte europea e non ancora dichiarati ricevibili, ha posto l’unico requisito temporale della tempestività del ricorsi originari (e cioè del rispetto del solo termine, di natura decadenziale, previsto dal citato art. 35 della Convenzione): in tal modo, implicitamente escludendo che la prescrizione, non prevista dalla normativa europea, potesse invece acquisire efficacia estintiva dopo la translatio iudicii. Esclusione, del resto consentanea con il carattere derivato, seppur non ancillare, della tutela introdotta con la cd. Legge Pinto, espressamente ancorata, ex art. 2, comma 1, ai presupposti della Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ed alla giurisprudenza interpretativa della Corte di Strasburgo).

17_ Cass. civ., 12 febbraio 2010, n. 3325.

18_ App. Torino, Sez. IV, decr. 17 maggio 2002.

19_ App. Brescia, decr. 4 marzo 2005

20_ Cass. civ., 9 novembre 2006, n. 23939.

21_ App. Torino, Sez. 1-bis, decr. 3 giugno 2009.

22_ Cass. civ., 11 dicembre 2002, n. 17650.

Consigliere della Corte di Cassazione. Docente incaricato di Diritto Privato, Università Bocconi di Milano. Presidente della Commissione tributaria regionale della Lombardia. Componente del Comitato Scientifico della Rivista “Diritto ed economia dell’assicurazione”. Componente di redazione della rivista “Responsabilità civile e previdenza.” Autore di numerose pubblicazioni in materia.

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