La progressiva estensione del concetto di profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente

Andrea Perini, La progressiva estensione del concetto di profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente, in Giur. It., 2009, 8-9

                 La progressiva estensione del concetto di profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente

Sommario: 1. Il “profitto del reato” come criterio di commisurazione della confisca-sanzione. – 2. Il quantum sottoponibile a confisca per equivalente. – 3. La distinzione tra “reati contratto” e “reati in contratto”. – 4. La confisca nei “reati contratto”. – 5. La confisca nei “reati in contratto”. – 6. “Profitto lordo” e “profitto netto” nei “reati in contratto”. – 6.1. Indicazioni provenienti dall’art. 15, comma 4, D.Lgs. n. 231/2001. – 6.2. Conferme provenienti dall’art. 644 c.p. e dall’applicazione dell’art. 323 ter c.p. ai reati tributari. – 6.3. Rilievi in merito all’art. 187 T.U.F. – 6.4. L’obiezione legata al “rischio economico del reato”. – 7. Rilievi conclusivi.

1.Il “profitto del reato” come criterio di commisurazione della confisca-sanzione.

Affrontando lo studio della confisca e, in particolare, degli sviluppi che tale istituto ha subito nel corso degli ultimi anni, si comprende immediatamente come tale forma di intervento risulti sempre più imperniata attorno alla puntuale determinazione del “profitto” destinato ad essere oggetto di confisca [Fondaroli, (2); Mangione; Maugeri, (1); Maugeri, (2)].

Com’è noto, la generale ipotesi di confisca di cui all’art. 240 c.p. ricorre a tre distinte categorie per individuare l’oggetto dell’intervento ablativo: il profitto derivante dal reato, infatti, è affiancato dal prodotto del reato e dai beni utilizzati per la commissione del reato stesso. Sennonché, mentre il prodotto del reato ed i beni ad esso strumentali non paiono dotati di una particolare vis expansiva, la nozione di “profitto” del reato si è rivelata capace di ergersi a fondamento di quell’autentica rivitalizzazione subita da tale istituto nel corso — grosso modo — di quest’ultimo decennio [Alessandri, (2), 2124 e segg.]. Ed infatti, con l’introduzione della confisca di valore o, se si preferisce, per equivalente, la determinazione del profitto suscettibile di confisca ha trasfigurato i propri connotati per divenire l’unità di misura volta a determinare il quantum di utilità derivante da reato e, in quanto tale, destinata ad essere sottratta al reo [ad esempio, Maugeri, (1), 540 e segg.].

È chiaro che, in un tale scenario, la confisca si allontana sempre più dalla sua primigenia natura di misura di sicurezza per divenire un autentico strumento sanzionatorio: più che privare il reo delle cose che costituirono “l’occasione” per delinquere, infatti, si tende a colpire il patrimonio del reo al fine di privarlo di qualsiasi utilità economica derivante dal reato stesso. Svapora così, progressivamente, il vincolo di pertinenzialità che dovrebbe avvincere — in una prospettiva di pericolosità criminale — la res ed il delitto, mentre a sopravvivere è solamente più un problema di quantificazione dell’intervento ablativo.

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D’altro canto, l’ormai riconosciuta natura sanzionatoria della confisca di valore [Corte costituzionale, 2 aprile 2009, n. 97] reca in sé una questione neppure troppo implicita: la necessità di commisurare l’entità di codesta peculiare ipotesi di “sanzione”. Dunque, alla base della confisca di valore si pone un cruciale problema di determinazione dell’entità del sacrificio patrimoniale da imporre al reo, problema che trova soluzione proprio nell’individuazione del “profitto” derivante dal reato stesso.

Per la verità, talora il legislatore ha ritenuto persino di poter prescindere da un qualsiasi criterio delimitativo del quantum confiscabile, aggredendo così l’intero patrimonio del reo. È quanto accade, ad esempio, in seno all’art. 12-sexies della legge n. 306/1992, laddove la condanna per taluni reati, abbinata all’incapacità di giustificare la provenienza del patrimonio del reo, comporta la confisca dell’intero patrimonio ingiustificato, indipendentemente dal periodo di sua formazione (ante o post delitto) ed indipendentemente, altresì, dall’entità del profitto derivante dal reato commesso.

Sembra quasi, in un tale contesto, che la confisca abbia perso la sua funzione di aggredire i beni che diedero luogo all’occasione per delinquere, per fare del delitto stesso l’occasione per colpire il patrimonio del reo. Il rischio è quello di abbandonare il diritto penale del fatto per entrare a piè pari nel «diritto penale del tipo d’autore», come la dottrina non ha mancato di segnalare. Ma, al di là di queste forme davvero particolari di confisca, non pare fuori luogo affermare che il problema della commisurazione della “confisca-sanzione” trovi soluzione proprio nella determinazione del “profitto” derivante dal reato, siccome nozione in grado di misurare l’entità di quel vantaggio economico scaturente dall’illecito penale e, in quanto tale, meritevole di apprensione.

È questo, in primo luogo, il precipitato di un condivisibile indirizzo di politica criminale volto a contrastare qualsiasi forma di “redditività” dell’illecito penale: dietro allo slogan «il crimine non deve pagare» hanno così preso forma sempre più numerose ipotesi di confisca per equivalente, fino a rendere codesto istituto teoricamente applicabile a qualsiasi illecito penale. Si consideri, infatti, che accanto alle ipotesi di confisca di valore espressamente previste per alcune tipologie di reati (basti pensare, a mero titolo esemplificativo, agli artt. 323 ter c.p., 644, ultimo comma, c.p., 2641 c.c., 187 T.U.F. ecc.), esiste, poi, un’ipotesi di confisca avente certamente natura penalistica e suscettibile di trovare applicazione nei confronti di qualsivoglia illecito penale, purché caratterizzato da quei connotati di “transnazionalità” di cui all’art. 3 della L. 16 marzo 2006, n. 146: si tratta, com’è noto, della confisca di cui all’art. 11 della stessa normativa in materia di criminalità transnazionale.

2.Il quantum sottoponibile a confisca per equivalente.

Dunque, al centro della confisca per equivalente si pone il problema della determinazione del profitto del reato in quanto grandezza capace di esprimere l’entità dell’intervento ablativo che dovrà sopportare il patrimonio del reo. Come si è accennato, quindi, in un tale contesto oggetto di confisca non è più il bene direttamente proveniente da reato, quanto una somma di denaro o beni a questo corrispondente.

È chiara l’accentuazione che viene così a subire la dimensione economica della confisca, sempre più lontana dal legame diretto con il reato per porre l’accento sul beneficio economico che, in ultima analisi, proviene dal reato stesso. Beneficio che non stempera la sua carica di pericolosità neppure se viene frammisto ad altri fondi, anche se, per confusione, perde la sua individuabilità ma non per questo diviene meno gravido di utilità economica [e, in questa direzione, v. Cass., Sez. un., 27 ottobre 2007, n. 10280].

Ma, allora, è proprio questa “utilità economica equivalente”, nella quale si condensa la dimensione patrimoniale del reato e, quindi, il suo “rendimento”, ad essere colpita da una confisca che, in sostanza, è destinata a ricondurre “a somma zero” la vicenda criminale.

Al riguardo, si deve subito rilevare come il ricorso sempre più massiccio a tale forma di confisca e, in particolare, ai sequestri finalizzati alla successiva applicazione dell’istituto, abbia più volte portato all’attenzione della Cassazione il tema relativo alla determinazione del “profitto” che, siccome proveniente da reato, sarebbe sottoponibile a confisca. Il tema, in particolare, è stato quello di verificare quali possano essere i confini di codesto “profitto” e, quindi, se e fino a che punto tenere conto dei “costi” sostenuti da colui che ha commesso il fatto di reato [per tutti, Alessandri, (1), 2103; Fondaroli, (2), 58 e segg.; Maugeri, (2), 564 e segg.].

Vale la pena osservare come l’affacciarsi della dicotomia “profitto lordo”-“profitto netto” sia il portato, probabilmente, non solo della maggiore frequenza statistica dei casi giunti all’attenzione della magistratura [Pistorelli, (2), 4567], ma anche della crescente diffusione proprio della forma “per equivalente” della confisca, con il conseguente attenuarsi del vincolo di pertinenzialità che riconnette il bene confiscabile al reato presupposto. In altri termini, allorquando oggetto della confisca non è più il “profitto” del reato, ma una somma di denaro (o beni) di valore equivalente a tale profitto, è chiaro che il vincolo di pertinenzialità non funge più da criterio di individuazione del bene suscettibile di confisca, ma degrada a parametro di quantificazione del sacrificio patrimoniale che dovrà sopportare il reo. Ed allora, è pressoché automatico che, nella ricerca di un tale criterio di commisurazione, venga ad affiorare il tema relativo al confronto tra “costi” e “ricavi” provenienti dal crimine che, in tempi recenti, ha aperto forse più di uno spiraglio all’ingresso di metodologie aziendalistiche nella applicazione della confisca per equivalente. Di qui il fiorire del dibattito attorno alla possibilità o meno di tenere conto del solo “profitto netto” scaturente dal reato, così da ridurre il quantum confiscabile in funzione degli oneri cui il reo ha dovuto far fronte nella commissione del reato stesso.

La questione, com’è intuibile, è tutt’altro che priva di ricadute applicative laddove si consideri che, ormai, il terreno privilegiato di utilizzo della confisca per equivalente sembra spaziare — empiricamente — dagli appalti ottenuti e condotti con modalità irregolari (dal ricorso a condotte corruttive allo sfruttamento della capacità di intimidazione propria delle organizzazioni di cui all’art. 416 bis c.p.) fino alle operazioni di insider trading o di manipolazione del mercato avvenute con ingenti (ed onerosi!) impieghi di denaro ottenuto in prestito dai soggetti agenti.

Dunque, ben si comprende come confiscare gli interi ricavi derivanti da un contratto di appalto o dalla cessione di un pacchetto di titoli sia cosa assai differente dall’aggredire il solo plusvalore scaturente da tali operazioni.

Non è possibile, in questa sede, ripercorrere compiutamente tutto il percorso attraverso il quale si è dipanato il dibattito attorno al tema in questione. Tuttavia, vale davvero la pena dar conto — quantomeno — di quello che, al momento, sembra essere il punto di approdo più solido — almeno nella giurisprudenza — al quale tale dibattito è pervenuto, rappresentato da una pronuncia a Sezioni unite della Cassazione del luglio 2008 [Cass., Sez. un., 27 marzo 2008-2 luglio 2008, n. 26654].

3.La distinzione tra “reati contratto” e “reati in contratto”.

Occorre subito avvertire che tale pronuncia ha per oggetto quella particolare confisca di natura “pseudo-amministrativa” prevista dal D.Lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità degli enti. Nondimeno, l’autorevolezza dell’organo e il grado di approfondimento della sentenza fanno sì che questa abbia senza dubbio tracciato una importante linea di confine tra il profitto confiscabile, siccome connesso ad attività illecite, e, invece, le ulteriori utilità economiche in qualche modo orbitanti attorno all’illecito ma non avvinte a questo da un legame di derivazione diretta, l’unico in grado di autorizzare il ricorso alla confisca. Per fare ciò, la Corte distingue i cosiddetti “reati contratto” dalle altre fattispecie di “reati in contratto”, riprendendo una distinzione elaborata in dottrina fin, quantomeno, dal 1966. Il riferimento è agli scritti di Ferrando Mantovani [Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, 37 e 377; Id., Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, 53 e segg.] il quale qualificò i “reati-contratto” come fattispecie «consistenti nella conclusione di un contratto e mediante i quali si incrimina la stessa stipulazione del contratto»; tali reati vengono contrapposti ai “reati in contratto”, nei quali la fattispecie viene ad inserirsi «nella conclusione di un contratto e mediante i quali viene incriminata non la conclusione del contratto, ma il comportamento tenuto durante la stipulazione del medesimo» [così Mantovani, Concorso e conflitto di norme, cit., 377].

Nel solco di tale ricostruzione, la Cassazione ha così voluto prendere in qualche misura le distanze dalla dicotomia “profitto netto”-“profitto lordo” per privilegiare, invece, una distinzione fondata sulla natura lecita o illecita dell’attività svolta dall’ente.

In altri termini, se è vero che sarebbe suscettibile di confisca il “profitto lordo” scaturente dal reato, è altrettanto innegabile che un tale profitto affiori, spesso, dall’intreccio tra atti d’impresa leciti ed atti che, invece, risultano contaminati da profili di illiceità. Di qui la Corte trae lo spunto per coltivare la distinzione tra “reati contratto” e “reati in contratto”: «Più nel dettaglio, nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta dalla medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca.

Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente».

Come si è rilevato, codesta traiettoria ermeneutica muove da un’analisi risalente del Mantovani ed è finalizzata a scandagliare i rapporti esistenti, in tali contesti, tra diritto penale e diritto civile e, più in particolare, a confrontare le forme di reazione del diritto privato al cospetto di fatti di reato a contenuto lato sensu “negoziale”. Tale distinzione, tuttavia, viene “recuperata” dalla Cassazione al fine di verificare, in contesti connotati da prestazioni reciproche, se attribuire o meno rilevanza alla prestazione resa dal soggetto — in questo caso un ente — cui viene ascritto un fatto di reato.

4. La confisca nei “reati contratto”.

In questa costruzione, la Cassazione perviene ad un primo, importante risultato: porre in luce che l’istituto della confisca è destinato ad assumere un vero e proprio “assetto variabile” in funzione del reato cui viene applicato [Pistorelli, (2), 4575]. A fronte di “reati contratto”, infatti, esattamente si potrà osservare che mai si è posto il problema se, ad esempio, confiscare allo spacciatore la sola sostanza stupefacente che eccede il costo della dose acquistata per poi essere spacciata; così come mai si è ritenuto di confiscare il profitto di una rapina “depurandolo” dai costi delle armi utilizzate e degli indumenti impiegati per travisare gli autori del fatto [in tale direzione, ad esempio, Trib. Milano, Sez. riesame, 22 ottobre 2007, in Corr. del Merito, 2008, 85). In tali situazioni, una prassi consolidata, ispirata ad un solido buonsenso ancor prima che all’approfondita esegesi del dato normativo, ha certamente guidato con ragionevolezza l’applicazione pratica di codesto istituto nel corso dei decenni.

E ben si comprendono, in simili casi, le preoccupazioni espresse da una parte della dottrina [per una esaustiva panoramica, cfr. Maugeri, (2), 569 e segg.] avversa all’idea di sottoporre a confisca il solo “profitto netto” in quanto, così facendo, l’agente verrebbe sollevato dal «rischio economico del reato»: a fronte di reati “in perdita”, infatti, la confisca non potrebbe trovare applicazione mentre, con il criterio del “lordo”, l’intervento ablativo sarebbe comunque garantito ed interverrebbe in modo integrale sui beni oggetto del reato. In sostanza, quindi, anche la cocaina ceduta “sotto costo” sarebbe suscettibile di confisca.

In siffatte situazioni, nelle quali i profili di illiceità abbracciano l’intero scambio, la confisca del “profitto lordo” garantisce quel ritorno allo status quo ante, che coincide con l’elisione di tutti i profili di antigiuridicità derivanti dal reato. Reato che, proprio in quanto “reato contratto”, permea di antigiuridicità l’intero trasferimento di beni da un soggetto all’altro [e v., in tale direzione, le osservazioni recentemente sviluppate da Cass., 22 gennaio-23 aprile 2009, n. 17229, in Guida Dir., 21, 2009, 80, seppure nel diverso contesto relativo all’applicazione delle misure di prevenzione]. Di qui, quindi, anche quella «compensazione dell’ordine economico violato» cui fa riferimento un’attenta dottrina [Maugeri, (2), 517], “compensazione” possibile solo attraverso la privazione del reo di tutti i beni che derivano dal reato. Ed anche di fronte al venir meno di tale vincolo di pertinenzialità diretta e, quindi, al ricorso alla confisca di valore, la determinazione del “valore” suscettibile di confisca non dovrà tener conto di alcun “costo”, siccome l’applicabilità della confisca a tutti i beni oggetto dello scambio illecito si ripercuote sulla determinazione “dell’equivalente” confiscabile. Nei “reati contratto”, dunque, così com’è suscettibile di confisca l’intero ammontare dei beni oggetto del conflitto risolto dalla norma penale, del pari il “valore equivalente” confiscabile dovrà essere determinato avendo ad oggetto la complessiva dimensione economica della vicenda illecita.

5. La confisca nei “reati in contratto”.

Il punto probabilmente di maggior pregio dell’esame condotto dalla Cassazione attiene all’inquadramento della confisca in seno ai “reati in contratto” e, quindi, all’utilizzo di tale categoria per assicurare una adeguata connessione tra l’applicazione della misura e la reale dimensione lesiva del fatto. Infatti, sottoporre a confisca l’interezza dei beni rivenienti da un rapporto sinallagmatico solo in parte viziato dall’illecito penale rappresenterebbe un risultato certamente non raggiungibile attraverso l’applicazione della confisca “ordinaria”, assodato che il vincolo di pertinenzialità al reato che deve connotare l’oggetto della confisca fungerebbe da baluardo ad una tale, pervasiva, applicazione dell’istituto.

Sennonché, come si accennava in precedenza, il passaggio dalla confisca “classica” alla confisca di valore comporta il rischio di perdere di vista un vincolo di derivazione diretta che, da strumento di identificazione del bene confiscabile, degrada a parametro di determinazione del quantum confiscabile [Fondaroli, (2), 20 e seg.]. Di qui l’origine del dibattito attorno alla nozione “lorda” o “netta” del profitto confiscabile, teso ad evitare che un tale allentamento del vincolo di pertinenzialità si risolva nel dissolvimento di qualsiasi argine all’applicazione della misura. Ma, se la dottrina ha cercato di erigere questo argine alla confisca valorizzando la categoria del “profitto netto”, si è detto di come la Cassazione abbia preferito fare ricorso alla categoria dei “reati in contratto” per discernere — in primo luogo — l’ambito delle fattispecie penali nelle quali avrebbe senso affrontare un tale dibattito. In secondo luogo, nell’ambito di tale categoria, meritevole di individuazione sarebbe non tanto la differenza tra “costi e ricavi” del reato, quanto quel nucleo del rapporto sinallagmatico rimasto incontaminato dal reato stesso e, in quanto tale, meritevole di riconoscimento giuridico. Emblematico il tema della rilevanza da attribuire ai costi sostenuti dall’ente che, pur attraverso modalità illecite, si sia aggiudicato un appalto: in un tale contesto (“reato in contratto”), la confisca del profitto viene limitata alla parte patologica del contratto di appalto e non ai “ricavi” complessivamente generati (nel caso oggetto di esame da parte delle Sezioni unite, in particolare, è stata ritenuta non condivisibile la confisca genericamente estesa ai ricavi provenienti dall’incasso della tariffa di smaltimento dei rifiuti).

In estrema sintesi, quindi, la contrapposizione non sarebbe più tra “profitto lordo” e “profitto netto”, quanto tra profitto scaturente dal reato e profitto scaturente dalla parte di rapporto di scambio non contaminata dal reato stesso. In tal guisa, anche la confisca per equivalente sarebbe mantenuta nei confini genetici dell’istituto e normativamente riconosciuti — in primis — sia dall’art. 240 c.p. che dall’art. 19 del D.Lgs. n. 231/2001: ossia inciderebbe sul profitto del (solo!) reato.

6. “Profitto lordo” e “profitto netto” nei “reati in contratto”.

Una volta apprezzata, come doveroso, l’indagine condotta dalla Cassazione, viene però da chiedersi se queste due metodologie di approccio, che apparentemente contrappongono la giurisprudenza più autorevole ed una rilevante parte della dottrina, rappresentino davvero due differenti soluzioni del problema o se, piuttosto, non siano altro che due modi differenti per esprimere concetti largamente sovrapponibili. Per rispondere ad un tale quesito occorre, in primo luogo, convenire sul fatto che la contrapposizione tra “lordo” e “netto” — se ha un senso — lo conserva esclusivamente in seno ai “reati in contratto”. Nei reati, quindi, nei quali ha senso discernere il grano dalla crusca e, quindi, individuare un nucleo di rapporto intersoggettivo non interamente travolto dall’illiceità del fatto di reato. Vi è da domandarsi, al riguardo, se la parte “da salvare” del “reato in contratto” non finisca con il coincidere proprio con i costi sostenuti per la commissione del reato, cosicché sarebbe il “profitto netto” ad identificarsi con quel «vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato» che la Cassazione individua come oggetto della confisca.

6.1 Indicazioni provenienti dall’art. 15, comma 4, D.Lgs. n. 231/2001.

Per percorrere un tale spunto interpretativo vale la pena prendere le mosse da una norma alquanto controversa: l’art. 15, comma 4, D.Lgs. n. 231/2001. Tale fattispecie si inserisce in un contesto nel quale l’applicazione delle disposizioni generali in materia di responsabilità amministrativa degli enti dovrebbe condurre all’applicazione di una sanzione interdittiva. Sennonché, laddove l’ente svolga un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può cagionare un grave pregiudizio alla collettività o, ancora, laddove l’interruzione dell’attività si rivelasse foriera di «rilevanti ripercussioni sull’occupazione», l’art. 15 prevede — in sostanza — il “commissariamento” dell’ente. In questo contesto, l’attività dell’ente prosegue e, ai sensi del comma 4, «il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato». L’art. 79, comma 2, prevede, poi, che il commissario «rende conto della gestione, indicando altresì l’entità del profitto da sottoporre a confisca».

Tale fattispecie rappresenta uno dei pilastri più solidi sui quali viene fatta poggiare la tesi incline a riconoscere la confiscabilità del solo “profitto netto”: evidentemente, nel rendiconto del commissario si scorge un espresso riconoscimento normativo di quell’approccio — per così dire — “aziendalistico” che si vorrebbe estendere a tutti i casi di confisca. Le Sezioni unite, tuttavia, hanno criticato la portata sistematica di una tale previsione obiettando, non senza una qualche ragione, che essa è strumentale a determinare il profitto derivante dalla prosecuzione della gestione commissariale e non dal reato. Tuttavia, la ratio della previsione sembra chiara e, forse, non così distante dal ragionamento svolto dalla Cassazione nell’affrontare il tema dei “reati in contratto”. Nel caso disciplinato dall’art. 15, infatti, vi è una gestione che sgorga da un nucleo di illiceità marcata, tanto da giustificare il ricorso a misure interdittive. Nondimeno, a tale genesi contaminata si affianca una prosecuzione della gestione la cui genuinità viene assicurata dalla presenza del commissario. Di qui l’esigenza di salvaguardare, per un verso, la parte di gestione condotta nell’ambito della liceità, riconoscendo piena valenza giuridica ai costi ed ai ricavi che si sono manifestati nella gestione commissariale. Per altro verso, affiora la necessità — intuibile sotto il profilo della politica criminale — che tale prosecuzione della gestione non possa tornare a beneficio dell’ente nei cui confronti avrebbe dovuto trovare applicazione la misura interdittiva. Di qui la scelta, del tutto ragionevole, di fare oggetto della confisca il solo “profitto netto” di una tale gestione commissariale.

Si osservi, per inciso, come solo un esame superficiale potrebbe far ritenere sostanzialmente equivalente un tale intervento ablativo rispetto all’applicazione della sanzione interdittiva, valutando come “a somma zero” ambedue le misure sanzionatorie. È infatti evidente che la prosecuzione della gestione, ancorché sotto la direzione di un commissario, assicura la continuità dell’impresa e, quindi, sotto il profilo dell’avviamento, della conservazione delle quote di mercato, dell’immagine di fronte alla clientela, della tutela del valore dei marchi, ecc., si tratta di fenomeni profondamente differenti. Al riguardo, come si rilevava, è certo fondata l’obiezione secondo la quale l’art. 15, comma 4, non ha la funzione di determinare la nozione di profitto del reato; nondimeno, pare difficile negare che gli artt. 15, comma 4, e 79, comma 2, forniscano comunque una qualche indicazione nella determinazione della nozione, sic et simpliciter, di “profitto”. Quanto, poi, alla sua derivazione “da reato”, non vi è dubbio che l’interprete debba far leva su altre indicazioni normative.

6.2 Conferme provenienti dall’art. 644 c.p. e dall’applicazione dell’art. 323 ter c.p. ai reati tributari.

Ecco allora che, sotto il profilo sistematico, un’indicazione alquanto preziosa pare provenire proprio da quella che fu la prima ipotesi (prescindendo dal D.L. 19 settembre 1992, n. 385, infine decaduto, e dall’art. 735 bis c.p.p., introdotto con la L. 9 agosto 1993, n. 328) di confisca di valore, introdotta nel nostro sistema penale nel 1996 e racchiusa nell’ultimo comma dell’art. 644 c.p.

Com’è noto, in tema di usura è prevista una forma di confisca per equivalente espressamente commisurata ad «un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari». Si noti, quindi, come ci si trovi in un tipico contesto di “reato in contratto” nel quale il legislatore — singolarmente — non si limita a fare rinvio al “profitto” del reato, ma si impegna a determinare expressis verbis tale grandezza, identificandola con l’incremento netto patrimoniale ricavato dal soggetto attivo. E vale la pena sottolineare che oggetto di confisca non sono le somme restituite dal soggetto usurato, le quali fanno ritorno al patrimonio dell’usuraio senza essere oggetto di una confisca che, invece, risulta commisurata agli “interessi” e agli “altri vantaggi o compensi usurari”. Dunque, è il quid pluris netto scaturente dal reato ad essere oggetto di ablazione in quella che pare essere l’unica ipotesi di confisca di valore nella quale è il legislatore stesso ad indicare gli addendi della somma che conduce alla determinazione dell’oggetto della confisca.

In un tale contesto, la confisca interviene sull’intero “valore aggiunto” scaturente dal reato: si noti, infatti, che oggetto di ablazione non è il solo differenziale tra gli interessi usurari e gli interessi che sarebbero stati consentiti, ma l’intera remunerazione del fatto di reato.

Il punto merita un approfondimento.

Non di rado, la distorsione del contratto indotta dal fatto di reato comporta una remunerazione dello stesso superiore a quella — per così dire — fisiologica. Basti pensare ad un contratto di appalto viziato non nelle sue modalità di esecuzione e rendicontazione, ma “soltanto” rispetto all’individuazione del soggetto aggiudicatario, in ipotesi diverso dal “miglior offerente”: è il caso “classico” dell’appalto vinto in forza di una dazione corruttiva o di una turbativa d’asta, ma poi condotto con modalità inappuntabili. Ora, è chiaro che — in un tale scenario — l’idea di colpire solamente la “quota di illiceità” di un tale contratto avrebbe come conseguenza quella di non incidere sull’utile d’impresa derivante dall’appalto stesso, specie laddove un tale utile fosse sostanzialmente allineato alla redditività che — secondo l’id quod plerumque accidit — connota appalti analoghi a quello in questione.

Al di là delle difficoltà di accertamento che comporrebbe il raffronto tra gli utili derivanti dall’esecuzione di un appalto vinto attraverso una turbativa d’asta con gli utili che avrebbe conseguito una seconda, ipotetica, impresa che si fosse aggiudicata “genuinamente” il medesimo appalto, occorre domandarsi se davvero sia questa la soluzione affiorante dal tessuto normativo [cfr. Trib. Milano, 11 dicembre 2006, della quale dà notizia Montesano, 174]. E, probabilmente, l’ultimo comma dell’art. 644 c.p. contribuisce a fornire una forte indicazione sistematica di quella che, in siffatte situazioni, pare essere la soluzione anche più ragionevole, ossia la confisca di tutti gli utili netti, ma soltanto di quelli provenienti da un appalto viziato nella sua genesi, ma non nella sua conduzione.

Anche l’estensione della confisca di valore ai reati tributari, a ben vedere, sembra allinearsi a questa indicazione sistematica: la Finanziaria 2008 ha introdotto la confisca per equivalente anche in seno a tale categoria di reati [cfr. art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244], pur ricorrendo ad un rinvio all’art. 322 ter c.p. certamente poco felice. Ciò sia per la formulazione della norma codicistica che per la sua attinenza a fattispecie indubbiamente di “reati contratto” [sull’applicazione della confisca di valore alle ipotesi di corruzione, cfr. Maugeri, (2), 594-595], mentre il tema dell’evasione fiscale sembra più facilmente iscrivibile nell’ambito dei “reati in contratto”.

In particolare, il crisma dell’illiceità connota, in tale contesto, non certo la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione. Nulla quaestio, dunque, in merito alla liceità dei negozi giuridici forieri degli utili (o del valore aggiunto) da sottoporre a tassazione, ma applicazione della confisca per equivalente a beni di valore coincidente con il quantum di imposte evase. Ciò in un contesto nel quale, per la determinazione delle imposte dovute, per un verso assumono rilevanza anche i costi sostenuti dal reo ancorché non contabilizzati (i cosiddetti “costi neri”), ma — invece — non vengono considerati i costi derivanti da attività di per sé costituenti reato [art. 2 della L. 27 dicembre 2002, n. 289; cfr. Cass., 28 maggio 2008, in Riv. Pen., 2009, 3777].

Dunque, mentre l’evasione fiscale dell’impresa edilizia verrà determinata riconoscendo rilevanza anche alle ore di straordinario pagate “in nero” ai carpentieri, il contrabbandiere verrà invece tassato sui ricavi derivanti dalla sua attività illecita, senza tener conto dei costi che egli ha comunque dovuto sopportare. Riecheggia, in questo contesto, la nozione dell’impresa illecita, ma, soprattutto, pare trovare conferma quel paradigma evocato dalle Sezioni unite della Cassazione e, forse, ancora meritevole di ulteriore riflessione: a fronte di attività del tutto illecite, i “costi” sostenuti dal soggetto agente non trovano alcuna considerazione, alcun riconoscimento normativo. E qui, l’applicazione della confisca per equivalente su un’evasione fiscale calcolata su tutti i ricavi (non gli utili, si badi) derivanti da attività delittuose, pare davvero andare a completare il modello che vede la confisca intervenire in misura integrale sui beni oggetto di “reati contratto” o, forse più in generale, di fatti interamente connotati da illiceità penale. Laddove, invece, i profili di antigiuridicità penale siano affiancati da negozi leciti e, quindi, meritevoli di riconoscimento, allora l’intervento ablativo non sembra poter interessare tutti i beni oggetto di scambio, ma solamente l’eventuale accrescimento patrimoniale che ne è derivato.E, come si è visto, sembrano più d’una le conferme sistematiche di una tale linea interpretativa, probabilmente destinata non tanto a rettificare quanto a completare l’orientamento espresso dalla giurisprudenza delle Sezioni unite.

6.3 Rilievi in merito all’art. 187 T.U.F.

Un interessante banco di prova per le osservazioni fin qui sviluppate sembra offerto dall’art. 187 del D.Lgs. n. 58/1998 (di seguito indicato come T.U.F.), a norma del quale la confisca, anche nella sua forma “per equivalente”, è disposta in conseguenza della commissione di fatti di abuso di informazioni privilegiate (art. 184 T.U.F.) o di manipolazione del mercato (art. 185 T.U.F.). In un tale scenario i temi che si affacciano sono alquanto delicati, in quanto le fattispecie incriminatrici vanno a colpire contratti viziati da asimmetrie informative ritenute penalmente rilevanti. Nell’ambito di contratti connotati da un “nucleo di liceità”, quindi, vi sono disparità di informazione che incidono sulle conseguenze economiche derivanti da tali contratti, assicurando — in particolare — livelli di redditività frutto di distorsioni del mercato.

Nessun dubbio che, in tali contesti, oggetto di confisca debba essere il profitto che deriva da tali negozi, inteso come l’accrescimento patrimoniale e, quindi, la plusvalenza che deriva da tali operazioni borsistiche. Nessun dubbio neppure che, anche alla luce di quanto si osservava in precedenza, oggetto di confisca debba essere l’intera plusvalenza e non soltanto il quid pluris di plusvalenza che emergerebbe dal confronto tra la redditività dell’operazione borsistica viziata e la redditività “normale” di un’analoga operazione depurata dai profili di illiceità.

Esemplificando, sarà oggetto di confisca l’intera plusvalenza derivante da un’operazione di insider trading e non soltanto la quota di maggior plusvalenza direttamente derivante dall’utilizzo dell’informazione privilegiata, ammesso che — in concreto — siano scindibili tali due componenti della quotazione. Ma il punto davvero critico, a tale riguardo, attiene alla determinazione di codesta plusvalenza, atteso che su di essa vengono ad incidere — di regola — almeno due componenti: le imposte pagate sulla plusvalenza e gli oneri finanziari sostenuti per ottenere i fondi dal cui investimento è scaturita la plusvalenza stessa.

Il tema è stato oggetto di analisi sia da parte del Tribunale di Milano, in sede di riesame [Trib. Milano, Sez. riesame, 22 ottobre 2007, in Corr. del Merito, 2008, 84, con nota di Lunghini, 88 e segg.], che della Cassazione [Cass., 25 novembre 2008, n. 44032], peraltro intervenuta successivamente alla citata pronuncia delle Sezioni unite. Tali pronunce hanno preso in esame proprio lo scenario dianzi tratteggiato, decidendo di tracciare una linea di demarcazione, tutto sommato inattesa, tra i costi relativi alle imposte pagate sulla plusvalenza e, invece, i costi connessi agli oneri finanziari.

In particolare, secondo la Corte, il profitto del reato di manipolazione del mercato dovrebbe essere considerato pari alla plusvalenza scaturente dall’operazione censurata al netto delle imposte, ma al lordo degli interessi passivi. In realtà, un’applicazione integrale del principio affermato dalle Sezioni unite avrebbe dovuto condurre — ci pare — a riconoscere la confiscabilità della sola plusvalenza netta, riconoscendo l’incidenza non dei soli oneri fiscali ma, altresì, degli oneri finanziari. Eventualmente, in caso di concorso nel reato anche del soggetto finanziatore, gli interessi corrisposti a fronte del finanziamento sarebbero potuti essere oggetto di confisca in capo al finanziatore stesso, così da evitare di trattare in modo distinto due componenti di costo (tassazione ed interessi) che, sotto il profilo economico, appaiono del tutto assimilabili: il primo, infatti, scaturisce da uno specifico obbligo normativo, mentre il secondo proviene da un contratto di finanziamento che — di per sé — potrebbe benissimo non essere inficiato da profili di illiceità.

Al più, in caso di concorso nel reato del soggetto finanziatore, gli interessi potrebbero divenire oggetto di confisca in capo al soggetto finanziato solo laddove si dovesse condividere il cosiddetto “principio solidaristico” che, secondo la giurisprudenza, informerebbe la confisca, consentendo di confiscare in capo anche ad uno solo dei concorrenti l’intero profitto scaturente dal reato [e le stesse Sezioni unite sembrerebbero condividere un tale orientamento: cfr. Pistorelli, (2), 4576; Compagna, 1646. Per l’opposto orientamento, cfr. Romanelli, 865 e segg. e le pronunce ivi riprodotte]. Ma si tratta di una soluzione la cui percorribilità è tutta da verificare nel caso concreto, mentre sembra doveroso iscrivere anche l’art. 187 T.U.F. nell’ambito delle ipotesi di confisca destinate ad intervenire in “reati in contratto” e, in quanto tali, necessariamente mirate a colpire il vantaggio economico netto scaturente dal reato stesso.

6.4 L’obiezione legata al “rischio economico del reato”.

Alla luce di queste considerazioni, diviene ora possibile ritornare su quella che si è vista essere l’obiezione più ricorrente mossa contro l’idea che solamente il “profitto netto” possa essere oggetto di confisca [per tutti, Maugeri, (2), 569 e segg.]. Si è detto, infatti, di come l’eventuale confisca del “solo” profitto netto finirebbe con il tenere l’autore del reato indenne dal rischio di perdita economica, perché comunque potrebbero essere recuperati i valori patrimoniali investiti nell’attività illecita. Quindi, solo attività illecite foriere di utili potrebbero essere colpite da una confisca destinata, appunto, ad incidere esclusivamente su codesti utili netti. Certamente una tale obiezione risulta decisiva al cospetto di attività connotate integralmente da illiceità penale e, quindi, per quelle fattispecie che possono essere iscritte nell’ambito di quelli che la Cassazione ha individuato come “reati contratto”. Peraltro, a tali fattispecie potrebbero essere affiancate tutte quelle ipotesi di reato che esulano tout court dallo schema contrattuale, sebbene inteso in senso lato. Basti pensare al riciclaggio, tanto per fare un esempio, anche se, una volta abbandonato lo schema contrattuale, probabilmente è destinato a venire meno anche il problema della “deducibilità” dei costi del reato.

Ma il tema del “reato senza utile netto” diviene interessante nell’ambito dei “reati in contratto” o, perlomeno, delle molte fattispecie nelle quali oggetto di incriminazione è proprio la distorsione dell’equilibrio contrattuale, destinata a tradursi nella locupletazione di un vantaggio patrimoniale altrimenti non raggiungibile.In tali fattispecie, la profittevolezza dell’operazione finisce quasi sempre con il divenire un elemento costitutivo — più o meno esplicito — della fattispecie penale, mancando la quale la condotta sarebbe destinata ad essere inoffensiva. Si pensi, ad esempio, alla sfera applicativa dell’art. 187 T.U.F.: è certamente vero che l’insider trading è fattispecie di pericolo che sussiste anche in assenza di profitto, ma la nozione stessa di informazione privilegiata ed il nesso che deve avvincere la negoziazione del titolo e l’utilizzo dell’informazione stessa valgono a rendere l’art. 184 T.U.F. un reato tendenzialmente a “profitto necessario”, sotto pena — altrimenti — di svuotare di offensività la fattispecie. In ogni caso, l’eventuale inapplicabilità della confisca ad ipotesi di insider trading rivelatesi comunque dannose per il reo non pare aprire una breccia particolarmente preoccupante, sia sotto il profilo della politica criminale sia per la complessiva tenuta del livello di deterrenza della fattispecie.

Riguardo, poi, l’ipotesi di manipolazione del mercato, l’elemento costitutivo della sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari vale a garantire, anche in questo caso, l’affiorare — almeno tendenziale — di un vantaggio economico che, scaturente da una tale oscillazione, è destinato a tornare a beneficio del reo.

Analoghe considerazioni possono essere fatte con riferimento alla sfera applicativa dell’art. 2641 c.c.: basti pensare che, nelle ipotesi di false comunicazioni sociali, il fine di profitto è elemento che deve orientare l’agire del reo, assurgendo ad oggetto del dolo specifico della fattispecie. E non dissimili sono le conclusioni con riferimento all’infedeltà patrimoniale, nella quale il danno della società corrisponde — di regola — al vantaggio tratto dal reo, vista la situazione di conflitto di interessi che ambienta la fattispecie e la finalità di ingiusto profitto che deve animare il soggetto agente.

E ancora, nell’ipotesi di truffa dalla quale muovono le Sezioni unite, la sussistenza del profitto è elemento costitutivo della fattispecie, ad assicurare l’atipicità di eventuali “truffe in perdita”.

Lo spunto meriterebbe un approfondimento, impossibile in questa sede, volto a verificare compiutamente, per ogni fattispecie nella quale abbia senso parlare di confisca del “profitto netto”, la possibilità che sussistano condotte contemporaneamente inidonee a generare un concreto vantaggio patrimoniale per il reo ma, nondimeno, ugualmente connotate da significativi tassi di offensività.

In ogni caso, per scongiurare alla radice eventuali vuoti di tutela, basti osservare che anche in situazioni-limite di inapplicabilità della confisca ad un “profitto netto” rivelatosi inesistente, rimarrebbe comunque applicabile la “tradizionale” sanzione penale o, nell’ambito del D.Lgs. n. 231/2001, la sanzione pecuniaria e/o interdittiva [salvo in caso di osservanza dei modelli organizzativi: cfr. art. 6, comma 5, D.Lgs. n. 231/2001].

In un contesto in cui «il crimine non ha comunque pagato» e nel quale le venature di illiceità del fatto attengono ad aspetti solo parziali dello spostamento patrimoniale, si tratterebbe di un risultato forse neppure da esecrare sotto il profilo della politica criminale.

7. Rilievi conclusivi.

Alla luce di quanto si è osservato, quindi, sembra possibile ritenere che il “profitto” suscettibile di determinare l’entità della “somma di denaro o beni” appartenenti al reo e suscettibili di confisca debba essere identificato con quello che in giurisprudenza è stato definito «beneficio aggiunto di tipo patrimoniale» [cfr. Cass., 22 novembre 2005, in Riv. Pen., 2006, 37; Id., 24 maggio 2004, ivi, 2004, 3097], laddove tale beneficio, per aggiungersi allo status quo ante, deve essere considerato — di necessità — limitatamente alla sua dimensione additiva, ossia al netto dei costi sostenuti per conseguirlo. Ciò, beninteso, esclusivamente laddove si versi in presenza di “reati in contratto”, rivalutando così una categoria autorevolmente ripresa dalle Sezioni unite della Cassazione: in un tale contesto, infatti, sembra continuare ad assumere significato una discriminazione tra “profitto netto” e “profitto lordo” che, lungi dall’essere artificiosa, sembra rappresentare un’ipotesi interpretativa ricavabile in via sistematica e capace di dare concretezza ad un istituto i cui confini rischiano altrimenti di divenire davvero proteiformi.

Dunque, se in presenza di “reati contratto” il quantum suscettibile di confisca abbraccerà l’intero “spostamento patrimoniale” innescato dal reato, in presenza di “reati in contratto” dovrebbe essere il “profitto netto” scaturente dal reato, così come dianzi definito, a fungere da parametro applicativo della confisca di valore. Di qui, solo per tentare una qualche esemplificazione, la sottoponibilità a confisca delle plusvalenze nette (al netto di tasse e di interessi) in presenza di operazioni borsistiche viziate da utilizzo di informazioni riservate o da manipolazioni del mercato, degli utili d’impresa (e non dei ricavi) derivanti da appalti ottenuti illecitamente, degli interessi rinvenenti da un contratto di finanziamento usurario, delle imposte evase relative a ricavi non sottoposti a tassazione, ecc. E si noti che, a ragionare diversamente, occorrerebbe giungere alla conclusione di sottoporre a confisca obbligatoria già ex art. 240 c.p. — ad esempio — tutte le azioni oggetto di un’operazione di insider trading, siccome «cose […] l’alienazione delle quali costituisce reato». Sennonché è chiaro come, in siffatte situazioni, non sia l’alienazione delle azioni a costituire reato, ma il conseguimento di una plusvalenza frutto dell’asimmetria informativa della quale beneficia l’insider.

In base al medesimo principio e, quindi, all’applicabilità della dicotomia “lordo”-“netto” esclusivamente con riferimento ai “reati in contratto”, saranno invece oggetto di confisca tutte le somme oggetto di riciclaggio o di impiego ex art. 648 ter c.p., atteso che tali fattispecie colpiscono proprio la sostituzione, il trasferimento o comunque l’impiego dei beni in questione, dando luogo ad ipotesi di “reato contratto”. È questo un accettabile punto di equilibrio che, soprattutto, rinserra l’istituto della confisca attorno al perno che ne deve continuare a guidare l’applicazione ed al quale opportunamente la giurisprudenza ha ridato importanza centrale: il vincolo di derivazione del profitto dal reato [in questa direzione, v. già le Sezioni unite nella sentenza del 9 luglio 2004, n. 29951]. Un vincolo, questo, destinato a dispiegare la sua funzione orientativa anche laddove ad essere applicata sia la confisca per equivalente, atteso che il valore di tale “equivalente” dovrà comunque essere pari a “quel” profitto derivante dal reato.

Professore associato di Diritto penale nell'Università di Torino, Dottore commercialista. È docente di diritto penale commerciale e di diritto penale tributario nell’Università di Torino. Svolge attività di consulente tecnico nell'ambito di procedimenti penali in materia economica. È inoltre autore di monografie e di pubblicazioni su riviste specializzate in materia penale e tributaria, nonché relatore in seminari e convegni. Tra le sue pubblicazioni principali: Il delitto di false comunicazioni sociali", pubblicato nella "Collana di studi penalistici" editi dalla CEDAM, Padova, 1999; "Elementi di diritto penale tributario", III edizione riveduta ed ampliata, edito dalla Casa editrice Giappichelli, Torino, 1999; “La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale, “abuso del diritto” e norme penali”, in Rivista trimestrale di diritto penale dell'economia, 2012, n. 3, 731 e ss., (c.e. CEDAM, Padova); Voce "Reati tributari", in Digesto delle discipline penalistiche, VI volume di Aggiornamento, 2013, (c.e. UTET, Torino); “La società non necessaria come nuova frontiera dell’elusione fiscale penalmente rilevante?” (nota a Cass., sez. III pen., n. 19100/2013), in Rivista di diritto tributario, n. 4, 2013, parte III, pp. 68 e ss. (c.e. Giuffré, Milano).

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