Alfredo Montagna, voce Paesaggio, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. aggiornamento XVI, 2008.
PAESAGGIO
PAESAGGIO
Sommario
1 La nozione di paesaggio
2 Evoluzione storica della disciplina sul paesaggio
a) la legge 29 giugno 1939 n. 1497
b) il d.p.r. 616/1977
c) la legge 431/1985
d) Il d. lgs 112 del 1998
e) Il d. lgs 490 del 1999
f) il d. lgs 42 del 2004
g) la legge delega ambientale
h) la Convenzione Europea del paesaggio
i) il d. lgs 157 del 2006
3 Il sistema di tutela ambientale
3.1 L’originario approccio formale
3.2 e la individuazione dell’interesse protetto
4. La disciplina sul paesaggio
4.1 Tutela e valorizzazione
4.2 L’individuazione dei beni paesaggistici
5. Il sistema autorizzatorio
6. Il regime sanzionatorio
a) le previsioni penali
b) le sanzioni amministrative
b1) la rimessione in pristino
b2) la violazione in materia di affissione
c) i rapporti fra sanzioni amministrative e penali
7. L’accertamento di compatibilità paesaggistica
1. La nozione di paesaggio
Affrontare le molteplici questioni che attengono alla disciplina sul paesaggio presuppone una nozione di paesaggio assente per lungo tempo nella normativa di settore, e richiede una, sia pur breve, esposizione del percorso culturale che ha portato all’attuale definizione contenuta nell’art. 131 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (cd Codice Urbani), e per il quale per paesaggio si intendono parti del territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni (testo così modificato dall’art. 3 del d. lgs 24 marzo 2006 n. 147 – la formula originariamente introdotta dal codice Urbani era “per paesaggio si intende una parte omogenea del territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”).
In precedenza la nozione di paesaggio era stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, costituzionale ed amministrativa ((Sandulli, A.M., 39, 69), con una concezione estetica che faceva riferimento in qualche modo alla legge 29 giugno 1939 n. 1497, che identificava il paesaggio con le bellezze naturali. Si trattava di una visione statica del paesaggio nella quale la tutela veniva accordata “ai valori paesistici sotto il profilo dei quadri naturali che realizzano”, e non alla natura in genere, quasi una “pietrificazione” della nozione che, in quanto imposta dall’alto, non era in grado di seguire il comune sentire delle popolazioni. Soltanto con le fondamentali riflessioni che introducevano una visione dinamica della nozione di paesaggio definito quale “forma del Paese plasmata dall’azione della comunità che vi è insediata” (Predieri, A, 35), si apriva la nozione di paesaggio alla interazione fra uomo ed natura.
Oggi l’accostamento, anche normativo, del paesaggio ai beni culturali è un dato che facilita la sua collocazione anche nel rapporto con l’altra difficile nozione in materia, ovvero quella di ambiente. Infatti l’art. 1 dello stesso codice Urbani, afferma che la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in attuazione dell’art. 9 della Costituzione, ed il successivo articolo individua i beni culturali ed i beni paesaggistici quali componenti del patrimonio culturale; beni paesaggistici dei quali in questa sede rileva sottolineare la qualità di espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio. Un paesaggio che concorre a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e che, utilizzando l’espressione di un noto studioso è “l’immagine dell’ambiente in cui l’uomo vive”.
[thrive_lead_lock id=’4487′]Accanto alla definizione “nazionale” di paesaggio, il panorama legislativo ne offre altre, come quella contenuta nella Convenzione Europea del paesaggio (firmata a Firenze il 20 ottobre 2000), resa esecutiva con legge 9 gennaio 2006 n. 14, che definendo il paesaggio come “una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, si riferisce oltre che al paesaggio terrestre anche alle acque interne e marine, e non si limita ai territori di grande qualità o alle zone considerate eccezionali, ma vi ricomprende sia le everyday areas (zone della vita quotidiana) che i territori degradati; una definizione che riconosce il ruolo che il paesaggio svolge sul piano culturale e sociale, e non solo su quello ecologico ambientale, lì dove si afferma che il paesaggio concorre all’elaborazione delle culture locali, così rappresentando una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, e concorrendo al consolidamento dell’identità europea.
Sul punto va ulteriormente valorizzato, in adesione alla svolta culturale impressa da Predieri, il riferimento alla storia umana e alle reciproche interrelazioni contenuto nel citato art. 131, ripreso da uno degli obiettivi della Convenzione, che tende a riconoscere il paesaggio quale componente del contesto di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità; così come quello ai valori che il paesaggio esprime quali manifestazioni identitarie percepibili, un paesaggio come forma del territorio, ma ove si passa da una concezione estetica ad una concezione nella quale il paesaggio si identifica con quei valori naturali ed umani percepiti dalle comunità.
Tornando al contenuto del citato art. 9 Cost., che al primo comma prevede che la Repubblica promuova lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, e che nel comma secondo la impegna alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, è evidente come per il paesaggio il legislatore costituzionale non si limiti a prevederne la tutela, come potrebbe sembrare ad una lettura frettolosa, ma ne imponga la valorizzazione nell’ambito dello sviluppo della cultura alla quale indubbiamente concorre, non potendosi non operare una lettura congiunta dell’intero articolo 9. Lettura che anche il giudice delle leggi ha in più occasioni effettuato accomunando la tutela del paesaggio con quella del patrimonio storico ed artistico (sentenza 239/1982, in Foro it., 1983, I, 2), ed erigendo il valore estetico-culturale a valore primario dell’ordinamento (sentenza 359/1985).
Il tutto deve oggi avvenire in coerenza con le attribuzioni di cui all’art. 117 Cost., ove, nel quadro della ripartizione delle competenze, manca il riferimento al paesaggio, che non può non ricondursi alla nozione di ambiente di cui alla lett. s) che prevede la legislazione esclusiva dello Stato per la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, settori dei quali è facilmente comprensibile la valenza unitaria, restando nella legislazione concorrente il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Infatti una moderna nozione di ambiente non può non ricomprendere, oltre ai classici elementi (suolo, acqua, atmosfera) anche il paesaggio ed i beni culturali ed artistici, come peraltro affermato sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte Costituzionale (come con la sentenza 10 febbraio 2006 n. 51 nella quale si afferma come nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, vada compresa tanto la tutela del paesaggio quanto la tutela dei beni ambientali o culturali), ovvero tutto quanto concorre a creare le condizioni sociali, culturali e morali nel quale l’individuo si forma e si sviluppa, perché è anche, e soprattutto, attraverso i nostri occhi che alimentiamo la nostra conoscenza. E’ infatti interesse della collettività che tutto quanto ci circonda conservi la sua integrità ambientale, un bene unitario che può risultare compromesso anche da interventi minori, e che va pertanto salvaguardato nella sua interezza, in quanto il vincolo che lo Stato ha posto su talune parti del proprio territorio ha una funzione prodomica al governo stesso del territorio.
Un secondo aspetto che è interessante sottolineare è la riferibilità del termine Repubblica a tutte le possibili articolazioni della repubblica, così come già in precedenza ritenuto dalla dottrina e reso esplicito oggi dalla nuova formulazione dell’art. 114 Cost., con il suo riferimento ai Comuni, alle Province alle Citta metropolitane ed alle Regioni, oltre che allo Stato.
2. Evoluzione storica della disciplina sul paesaggio
a) la legge 29 giugno 1939 n. 1497
La prima legge di tutela ambientale in senso lato risale al 1939 (i precedenti e settoriali interventi dei primi del novecento, quali la legge 4111 del 1905 e quella 788 del 1922, risultano a maggior ragione improntati dal criterio estetizzante), allorché, contemporaneamente alla legge 1089 sulla tutela delle cose d’interesse artistico o storico, veniva emanata la legge 29 giugno 1939 n. 1497, Protezione delle bellezze naturali (cd leggi Bottai), che accordava tutela alle bellezze naturali intese quasi come quadri naturali; peraltro anche considerando le bellezze naturali nella loro accezione più lata non si riesce a ricavare in questa occasione una vera e propria nozione di paesaggio. La legge sottoponeva a tutela, in ragione del loro notevole interesse pubblico, una serie di beni distinti in due categorie: le bellezze individue (n. 1 e 2 dell’art. 1) e le bellezze d’insieme (n. 3 e 4 dell’art. 1) da includere in appositi elenchi, così che, dopo i previsti periodi di pubblicità, le eventuali notificazioni (per le bellezze individue) e le possibili impugnative, si attivava la tutela prevista in merito.
b) il d.p.r. 616/1977
Nell’ambito di un sia pur breve percorso storico sulla disciplina del paesaggio non può non ricordarsi il D.p.r. 24 luglio 1977 n. 616 (attuativo della delega di cui alla legge 382/1975), nel quale si rinviene per la prima volta la categoria dei “beni ambientali”, anche se con riferimento alle bellezze naturali della legge Bottai, e che esprime una concezione “panurbanistica” del territorio allorché definisce, con l’art. 80, l’urbanistica come la disciplina dell’uso del territorio, ivi comprese le attività di salvaguardia e trasformazione, nonché la protezione dell’ambiente.
c) la legge 431/1985
Una coerente e sistematica tutela del paesaggio viene introdotta nel nostro paese soltanto con il d. m. 21 settembre 1984 (c.d. decreto Galasso), che individuava una vasta area del territorio nazionale dichiarata di interesse pubblico, così come la ulteriore possibilità della individuazione, ad opera delle sovrintendenze, e con i c.d. decreti galassini, di zone di interesse paesistico, ove sarebbero state vietate modificazioni.
L’annullamento del decreto Galasso portò alla emanazione del decreto legge 27 giugno 1985 n. 312, “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”, convertito con l. 8 agosto 1985 n. 431, che diviene così la prima fondamentale disposizione per la tutela paesaggistica del nostro paese. La l. 431 (nota anche come legge Galasso) tutelava, infatti, il territorio individuato per categoria morfologica nel suo duplice aspetto di bellezza paesaggistica e di ambiente naturale, ponendo accanto alle “bellezze naturali” una serie di ecosistemi individuati dalla legge, omettendo la fase della individuazione amministrativa del bene protetto tipica della l. 1497, così rendendo tutelabile il paesaggio con riferimento a “tratti determinanti dell’identità del territorio nazionale”, e passando dalla visione episodica della legge del 1939 alla pianificazione paesaggistica delle aree con presenza di beni protetti.
Più in particolare la legge prevedeva vincoli di inedificabilità assoluti sino alla approvazione del piano paesistico regionale (c.d. misure di salvaguardia), con lo scopo di impedire che, durante il tempo necessario per l’adozione del piano, quelle aree subissero un pregiudizio, e vincoli relativi superabili dal nulla osta paesistico; così che per ogni intervento si rendeva necessario il rilascio di un nulla osta, o autorizzazione, preventivo e, in caso di modificazioni urbanistico-edilizie, pregiudiziale rispetto alla successiva concessione edilizia
d) Il d. lgs 31 marzo 1998 n. 112
Con il d. lgs n. 112, che regolava il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, viene fornita all’interprete una definizione normativa di “beni ambientali” come quelli “individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell’ambiente nei suoi valori naturali o culturali”, una definizione nella quale si riflette una concezione del paesaggio come aspetto visibile dell’ambiente. Si tratta di uno dei tre significati di ambiente forniti in dottrina negli anni 70, che accanto all’ambiente quale paesaggio, inteso come forma visibile del territorio, poneva l’ambiente biosfera, quale insieme di suolo, acqua e aria fondamentale per la vita e la salute dell’individuo, da distinguere dall’urbanistica, come governo e pianificazione del territorio. Un distinzione che facilità altresì il riferimento costituzionale, che va individuato nell’art. 9, comma 2, nel primo caso, e nell’art. 32 nel secondo; altresì utile per la lettura del riparto di competenze introdotto dalla riforma costituzionale del 2001.
Un testo con il quale viene operata una non pienamente condivisibile ripartizione tra tutela e valorizzazione, ove per tutela si intende “ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali”, e per valorizzazione una serie di attività, indicate nell’art. 152, che si sostanziano nel miglioramento della conservazione, della integrità e valore dei beni, così come nel miglioramento dell’accesso alla fruizione da parte del pubblico dei beni stessi. Una ripartizione che sarà poi ripresa dal Codice Urbani
e)Il d. lgs 490 del 1999
In attuazione della previsione di cui alla legge 8 ottobre 1997 n. 352 il legislatore ha proceduto verso la fine degli anni novanta alla riunione ed al coordinamento di tutte le disposizioni vigenti in materia di beni culturali ed ambientali, confluite in un testo organico, il decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 490 (cd decreto Melandri), che si pone in linea di sostanziale continuità con la precedente disposizione del 1985, escludendo, come affermato dal giudice di legittimità, problemi in tema di successione di leggi. Indubbiamente in modo positivo va letta l’unificazione in un unico testo delle disposizioni in materia culturale ed ambientale, in una nuova logica che accomuna il paesaggio, e quanto dalla sua fruizione si può ricavare, con i beni più propriamente culturali, così dimostrando che anche il legislatore aveva compreso come tutto quanto ci circonda, e sia sotto la nostra diretta percezione visiva, contribuisce alla crescita dell’individuo e della collettività, così da dovere necessariamente essere tutelato globalmente. Pur tuttavia il T. U., a natura meramente compilativa, non conteneva riferimenti espliciti al paesaggio, atteso che sia nella sua intitolazione che nel Titolo II si parla di beni ambientali; peraltro riprendendo le scelte normative precedenti, individuava ed elencava una serie di beni tutelati per legge, in considerazione del loro interesse paesaggistico, ovvero i territori costieri compresi in una fascia di profondità di 300 metri dalla linea di battigia (anche per i tratti di costiera a picco sul mare), così come analogamente per lo stesso tratto circostante i laghi; i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua in genere vengono protetti anche per una fascia di 150 metri dagli argini, mentre si ribadisce la tutela dell’intero patrimonio montano oltre la quota di 1600 metri per l’arco alpino (con conseguente inclusione dei ghiacciai e dei circhi glaciali) e di 1200 metri per l’appennino; così per i territori coperti da bosco, anche se attaccati dal fuoco, i parchi e le riserve nazionali o regionali, le zone umide individuate nelle convenzioni internazionali, quale quella di Ramsar, le zone di interesse archeologico ed i vulcani. La efficacia della tutela veniva assicurata mediante la predisposizione di piani territoriali paesistici da parte delle Regioni, che, oltre ad avere la finalità di regolamentare l’uso dei territori in essi inclusi, avevano anche l’obiettivo della valorizzazione ambientale del territorio, con una attività di supplenza da parte degli Organi nazionali in caso di inerzia delle amministrazioni regionali.
Come è facilmente evidenziabile da questo sia pur breve excursus fino agli anni 2000 la legislazione non mostra di avere recepito la doppia strada che le si offre per una integrale e sistematica tutela ambientale latu sensu intesa, ove accanto alla disciplina sul paesaggio e sui beni culturali si accompagni una tutela dell’ecosistema; e sarà soltanto dopo la riforma costituzionale del 2001 e le nuove disposizioni introdotte nel nuovo millennio (con il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 e le Norme in materia ambientale del 2006) che questa impostazione culturale mostrerà i primi effetti.
f) l d. lgs 42 del 2004
A seguito della legge delega 6 luglio 2002 n. 137 viene emanato il Codice del 2004, di cui in seguito, con il quale viene superata la vecchia distinzione tra beni culturali e beni ambientali e si parla di beni culturali e di paesaggio, e viene offerta all’operatore una definizione di paesaggio quale “parti del territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”, i cui valori, in linea culturale con quanto contenuto nella Convenzione sul paesaggio, sono intesi quali manifestazioni identitarie percepibili.
Come si evidenzierà in prosieguo il Codice, che si giova di una delega che consentiva innovazioni alla pregressa disciplina, supera la precedente impostazione di una tutela connotata da finalità conservatrici per scegliere la strada di una tutela e valorizzazione in ragione delle trasformazioni del paesaggio, onde consentirne la fruizione pur nel rispetto del principio di sviluppo sostenibile; da qui il ruolo decisivo della pianificazione prevista dall’art. 135, pur mantenendo la triplice ripartizione dei beni paesaggistici, ovvero gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico individuate secondo una specifica procedura, le aree tutelate per legge, e gli immobili e le aree individuati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici.
g) la legge delega ambientale
A poca distanza dal complesso intervento di inizio anno si è purtroppo dovuto assistere ad una ulteriore manifestazione di quella che è la nuova e pericolosa emergenza del nostro paese, il diluvio di provvedimenti legislativi che vanno a toccare i più disparati settori, adottati con formule equivoche e con procedure che mortificano lo stesso potere legislativo (spogliato del proprio compito di elaborazione e mediazione degli interessi sociali rappresentati in parlamento e con affidamento dello stesso all’esecutivo), alla quale certamente l’ambiente non poteva restarne immune. Si è trattato in questo caso della legge delega 15 dicembre 2004 n. 308, per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale, che, approvata con un doppio voto di fiducia che ha impedito il confronto parlamentare, e finalizzata alla riscrittura di interi settori dell’ambiente (la delega ha portato alla emanazione del Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia ambientale), ha suscitato più motivi di preoccupazione per la parte relativa alle misure di diretta applicazione che la legge n. 308 individua, quasi un contenitore buono per tutte le occasioni, un treno sul quale imbarcare passeggeri scomodi.
Tralasciando gli altri settori ambientali colpiti dalla foga innovativa del legislatore va sottolineata l’introduzione, con il comma 1 bis dell’art. 181, di una ipotesi di reato con natura giuridica del tutto diversa dall’intero impianto sia dello stesso codice Urbani che della materia ambientale in genere, prevedendosi un delitto a fronte dello schema tipico del reato ambientale quale reato contravvenzionale, con implicazioni sul regime della prova in sede di accertamento della responsabilità, in rapporto alla sino ad ora affermata natura di questo tipo di reati come di pericolo presunto, come sui tempi di prescrizione, e facendo discendere la natura del reato, delitto o contravvenzione, in presenza di una condotta identica, dal tipo di immobile o area nella quale l’illecito viene commesso. L’altro momento di vulnus al sistema è stato introdotto con l’inserimento dei commi 1 ter, 1 quater ed 1 quinquies nell’art. 181, in tema di compatibilità paesaggistica, di rimessione in pristino e condonabilità, di cui in seguito
h) la Convenzione Europea del paesaggio
Un rilevante momento a livello internazionale è rappresentato dalla Convenzione Europea del paesaggio, aperta alla firma a Firenze il 20 ottobre 2000, ed entrata in vigore il 1 marzo 2004, resa esecutiva nel nostro Paese con legge 9 gennaio 2006 n. 14, alla cui stesura si è giunti a seguito degli imput giunti dal Rapporto di Dobris (si tratta del Europe’s Environment; the Dobris Assessment del 1995) e dal Documento Parchi per la Vita (Parks for Life: action for protected areas of Europe, 1995), e sulla base della Carta del Paesaggio mediterraneo (la Carta di Siviglia del paesaggio mediterraneo riguardava Andalusia,, Languedoc-Roussillon e Toscana).
Di particolare interesse, come è di abitudine nei testi internazionali, sono le affermazioni contenute nel Preambolo della Convenzione, in quanto si riconosce il ruolo che il paesaggio svolge sul piano culturale e sociale, e non solo su quello ecologico ambientale, lì dove si afferma che il paesaggio concorre all’elaborazione delle culture locali, così rappresentando una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, e concorrendo al consolidamento dell’identità europea. Come sottolineato in precedenza la Convenzione fornisce una definizione di paesaggio che ne accentua sia le componenti naturali che quelle umane, così come le loro interrelazioni, eliminando ogni riferimento (originariamente previsto) a liste di paesaggi di interesse europeo, così che tutto il territorio è paesaggio, sia il paesaggio eccezionale che quelli della vita quotidiana; così come uno specifico passaggio è dedicato ai paesaggi transfrontalieri per i quali è prevista una cooperazione a livello locale e regionale, con la redazione di programmi comuni di valorizzazione nella logica della assistenza reciproca e dello scambio di informazioni che ispira gli articoli dedicati alla cooperazione europea
Poiche l’evoluzione delle tecniche di produzione agricola, forestale e industriale, così come delle prassi in materia di pianificazione territoriale, l’inevitabile sviluppo dei trasporti, e più in generale l’evoluzione economica mondiale, hanno imposto una forte accelerazione nella trasformazione del paesaggio, che certamente non va impedita ma gestita, la Convenzione individua la necessità di formulare degli obiettivi di qualità paesaggistica con riferimento alle aspettative delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del contesto della loro vita futura (il testo in lingua originale recita infatti “formulation of the aspirations of the public with regard to the landscape features of their surroundings”); ma questo altro non significa che coinvolgimento delle popolazioni locali nei processi decisionali che portano al mutamento del paesaggio, considerazione per le loro aspettative, ovvero gestione del paesaggio garantendo la armonizzazione delle sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociale, economico ed ambientale in una prospettiva di sviluppo sostenibile.
Più in particolare la Convenzione si ripromette di accrescere la sensibilizzazione della società civile, delle organizzazioni private e delle autorità pubbliche al valore dei paesaggi, promovendo altresì la formazione di specialisti nel settore e l’educazione sia nella scuola di base che a livello universitario; su questa base sarà poi possibile procedere alla identificazione e valutazione dei propri paesaggi da parte dei singoli Stati firmatari, per stabilirne successivamente gli obiettivi di qualità nel rispetto della partecipazione pubblica alle procedure (specificamente regolata in materia ambientale a livello comunitario nella sua dinamica di diritto all’informazione, accesso e diritto di interloquire).
Una dichiarazione di intenti, come tutti gli accordi a livello internazionale, ma che appare contenere in sé una serie di indicazioni di possibile immediata portata precettiva, se è vero che il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano immediati diritti, ma anche responsabilità per ciascun cittadino europeo, al fine di rendere attuale il diritto a fruire di paesaggi qualitativamente corrispondenti alle proprie aspirazioni
i) Con il decreto legislativo 24 marzo 2006 n. 157, emanato contestualmente al decreto sui beni culturali, il legislatore ha introdotto una serie di disposizioni correttive ed integrative al Codice Urbani relativamente alla disciplina del paesaggio, che in realtà procede ad un generale rifacimento della disciplina della parte terza del d. lgs n. 42, pur in presenza del parere negativo da parte della Conferenza unificata (la Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome ha espresso il proprio parere con il documento del 26 gennaio 2006, lamentando un rafforzamento della partecipazione dello Stato nell’esercizio delle funzioni amministrative delle Regioni ed il venir meno di molti degli aspetti innovativi nel rapporto Stato- Regioni introdotti dal Codice Urbani; la conseguenza è stata una raffica di ricorsi alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni). Le modifiche più significative hanno riguardato le disposizioni generali sulla titolarità delle funzioni (artt. 5 e 6) con un più presente intervento statuale, la pianificazione paesaggistica (art. 135, 143-145) ed il procedimento di individuazione dei beni paesaggistici (artt. 136-142), il controllo e la gestione dei beni (artt. 146-152), così come la remissione in pristino (art. 167) unitamente ad altri marginali interventi.
3. L’approccio formale alla tutela ambientale
Il vizio di tutela effettiva del quale anche il paesaggio ha sofferto è in parte dipeso dalla circostanza che la tutela dell’ambiente dalle varie forme di inquinamento è stata storicamente impostata con la previsione di ipotesi contravvenzionali di natura formale, nelle quali il necessario “alleggerimento” dall’indagine sull’elemento soggettivo del reato ha trovato come bilanciamento negativo la brevità dei termini prescrizionali. Inoltre si tratta di ipotesi di reato costruite sulla lesione del potere di controllo preventivo della pubblica amministrazione esercitato con lo strumento della autorizzazione, così che l’intervento penale si è posto come essenzialmente sussidiario rispetto a quello affidato alla struttura amministrativa (la riflessione sulla natura del reato ambientale si trova, tra le altre, in BELTRAME, S., 7, 9 s.; PARODI, C., 34,, 70 s; FIMIANI, P., 17, 6 s; G. HAGER, G., 23, 581 s).
Inoltre l’intervento degli organi di polizia giudiziaria, e successivamente della stessa autorità giudiziaria, è stato svincolato dalla valutazione di un effettiva, e concreta, lesione del bene (ambiente) protetto, essendosi spesso limitati a prendere atto di un comportamento in contrasto con la procedura amministrativa che regolava quello specifico settore della tutela ambientale, presupponendosi in tali casi la messa in pericolo del bene protetto o la sua stessa lesione.
Questo ha però fatto sì che gli operatori giuridici del settore non sentissero la necessità di una verifica anche in questa direzione, operando quasi una presa d’atto della violazione e rimanendo spesso sottratto al giudice quella che in molti altri campi è una sua precipua potestà, ovvero la possibilità di una valutazione-comparazione tra condotta (presunta illecita) e norma sotto il profilo della c.d. offensività (idoneità alla lesione del bene protetto), tenendo pur tuttavia presente la necessità del bilanciamento tra principio di offensività e principio di legalità, che può trovare il proprio punto di equilibrio in un’ermeneusi ancorata al dato normativo, dal quale trarre il bene giuridico tutelato così da rispettare la costituzionalizzazione del principio stesso ex artt. 25, 2° e 3° co., 27 e 13 Cost.
Carenza che pur generale all’intero sistema ambiente, mostra le proprie maggiori discrasie in quello specifico settore della tutela ambientale che è la tutela del paesaggio e delle aree protette, ove al contrario, la presenza nel proprio patrimonio mnemonico, in particolare visivo, e quindi diretto, del paesaggio consente di apprezzare il rapporto di incompatibilità tra l’intervento che si presume illecito ed il contesto paesaggistico; consente cioè di “sentire” la lesione in una dimensione storicizzata della evoluzione del territorio, e non come mero contrasto con la procedura autorizzatoria; di conseguenza è in questo settore che la riflessione dottrinaria, e le prime pronunce, anche di legittimità, risultano avere messo in crisi l’accettazione integrale delle conseguenze di tipo “automatico” discendenti dalla qualificazione quale reato di pericolo della violazione ambientale .
3.1 e la individuazione dell’interesse protetto
Più di recente all’interno della dottrina e della giurisprudenza si è fatta strada la riflessione per la quale nel caso in cui la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico tutelato viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in minimo grado nella singola condotta dell’agente; con la clausola di chiusura che questo difetto di lesione sostanziale sia accertabile ictu oculi al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ciò è stato possibile in quanto da tempo si è approfondito il tema della individuazione dell’interesse protetto, riconoscendosi la inadeguatezza della originaria impostazione contravvenzionale del reato ambientale ed apparendo riduttiva la visione per la quale la presunzione di legittimità dell’operato della pubblica amministrazione sottrarrebbe il beneficiario del provvedimento autorizzativo da responsabilità penale per quelle violazioni di legge che non siano grossolane o macroscopiche. La chiave di lettura per addivenire ad una soluzione rispettosa sia della ratio legis, ma al contempo del dettato normativo, sta nella puntualizzazione che allorché si pone in essere un intervento sulla base di un provvedimento amministrativo illegittimo non viene coinvolto il potere disapplicativo di un atto amministrativo, bensì il potere di accertamento che compete al giudice penale relativo all’integrazione o meno della fattispecie criminosa in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela.
Infatti è fondato oggi parlare dell’esistenza di un ulteriore interesse, accanto a quello originario individuato nella possibilità di consentire alla pubblica amministrazione il controllo preventivo delle iniziative che vanno ad ingerirsi nell’ambiente, e che consiste nella tutela del bene finale. Può così fondatamente affermarsi che in ipotesi di interventi in zone sottoposte a vincolo l’esame del giudice penale non riguarda l’esistenza ontologica del provvedimento bensì l’integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva. E’ noto, infatti, che non infrequentemente l’amministrazione, malgrado la preventiva assistenza degli organi tecnici, rilasci ai richiedenti provvedimenti in qualche modo viziati da violazione di legge; in tale ipotesi mentre il richiamato principio di legalità escluderebbe la disapplicazione del provvedimento così da renderlo tamquam non esset, in quanto in tal caso si farebbe derivare la responsabilità del beneficiario dalla soluzione del persistente dibattito sulla autonomia o complementarietà dell’art. 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo rispetto al precedente art. 4, la applicazione dei dicta giurisprudenziali, anche a sezioni unite, in tema di interesse protetto, consente di recuperare la seconda finalità della legislazione ambientale, ovvero che gli interventi siano comunque eseguiti in aderenza alla normativa (mentre la prima, come ricordato ab initio è quella che la trasformazione del territorio avvenga previo controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione). Né può risultare ostativa a tale interpretazione l’assenza di un espresso riferimento all’ipotesi di attività effettuata sulla base di provvedimento illegittimo, soccorrendo sul punto il richiamo alle disposizioni generali in tema di paesaggio contenute nel Capo I del Titolo I della parte terza del Codice Urbani, così come agli artt. 136-145 sulla individuazione dei beni paesaggistici.
La individuazione del bene giuridico e dell’interesse protetto in materia ambientale vede così accanto all’originario interesse della P.A. un nuovo e principale interesse, un percorso che aveva trovato una prima sintesi, sia pure in materia urbanistica, nella pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 12 novembre 1993, dep. 1 dicembre 1993 n. 17, Borgia ed altri, in Ced Cass. n.195358,195359) che aveva affermato che se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vivente; una posizione resa più esplicita successivamente dalla giurisprudenza di legittimità che affermava come l’interesse protetto dall’art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 non fosse soltanto quello formale del rispetto delle prerogative della pubblica amministrazione nel controllo dell’attività edilizia (e dunque della regolarità della procedura di concessione), ma anche quello sostanziale della protezione del territorio, e trasferita in campo paesaggistico, nella vigenza del decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 490, con la affermazione che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 163 era volta a tutelare sia l’ambiente sia, strumentalmente e mediatamente, l’interesse a che la P.A. preposta al controllo venga posta in condizioni di esercitare efficacemente e tempestivamente detta funzione, così che la salvaguardia del bene ambiente viene anticipata mediante la previsione di adempimenti formali finalizzati alla protezione finale del bene sostanziale”.
4. La disciplina sul paesaggio
4.1 Tutela e valorizzazione
Già con il d. lgs 31 marzo 1998 n. 112 erano state fornite, con l’art. 148, le definizioni di tutela e valorizzazione, e nella prima veniva fatta rientrare ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali, mentre per valorizzazione si intendeva ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione; accanto a queste due definizioni il decreto prevedeva poi la diversa attività di gestione, intesa come ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione. Con il Codice Urbani, che non ripropone la nozione di gestione, viene fornita la nozione di tutela quale “esercizio delle funzioni e della disciplina delle attività dirette, sulla base di una adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”; mentre la valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale ed assicurare le miglior condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Più in particolare, per quanto attiene ai beni paesaggistici, l’art. 2 del d. lgs. 157 del 2006 ha previsto che la valorizzazione comprenda “la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati”.
La richiamata collocazione dei beni paesaggistici nell’ambito del patrimonio culturale consente di fare risalire allo Stato la relativa tutela, come confermato dall’art. 4, ed alla legislazione concorrente la valorizzazione, come ribadito dal successivo art. 7, nel pieno rispetto del nuovo dettato costituzionale. Accanto alle disposizioni generali del d. lgs n. 42 vanno poi ricordate le operazioni previste dalla Convenzione sul paesaggio, ove si parla di salvaguardia, gestione e pianificazione, nell’ambito delle politiche sul paesaggio, in quanto le attività di tutela e valorizzazione devono conformarsi agli obblighi ed ai principi di cooperazione tra Stati derivanti dalla Convenzioni internazionali, come ribadito dall’art. 133, in ossequio all’art. 11 Cost. e 10 del Trattato UE.
4.2 L’individuazione dei beni paesaggistici
I beni paesaggistici oggetto di tutela e valorizzazione si riconducono a tre categorie: quella degli immobili e delle aree di notevole interesse pubblico, le aree individuate per legge e gli immobili e le aree sottoposti a tutela dai piani paesaggistici; le disposizioni concernenti la loro individuazione sono contenute nel Capo II del Titolo I della Parte terza, agli articoli 136-142 del Codice, in sostanziale continuità con quanto previsto dal previgente decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, mentre la pianificazione paesaggistica e contenuta nel successivo Capo III (agli artt. 143-145):
a) la prima categoria, immobili ed aree in luogo della precedente di beni e località (di cui al d. lgs n. 490/1999), individua le categorie di beni già presenti nell’art. 1 della legge 1497, si basa sul pregio estetico del bene individuato da una apposita dichiarazione di interesse pubblico, e distingue anch’essa le “bellezze individue”, quali immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale, ville, giardini e parchi, dalle “bellezze d’insieme”, ovvero complessi immobiliari con valore estetico, zone di interesse archeologico e bellezze panoramiche, ponendosi così nel solco della impostazione tipica della legge 1497 del 1939, che faceva riferimento al pregio estetico del bene e sulla natura dichiarativa del vincolo. Le novità attengono alla fase procedimentale che porta alla individuazione del bene, che muove dalla proposta della Commissione regionale (resa nota secondo specifiche disposizioni) che, dopo la scadenza dei termini per le osservazioni, porta alla emanazione della dichiarazione di notevole interesse pubblico paesaggistico. Un regime vincolistico che si determina sin dalla pubblicazione nell’albo pretorio della proposta di dichiarazione e che trova nella dichiarazione una specifica disciplina della tutela (a seguito della modifica dell’art. 140 ad opera del dl. Lgs 42/2006); si tratta, come è stato confermato anche dalla corte costituzionale, di un provvedimento a natura dichiarativa di un interesse pubblico che era del bene sin dalla sua origine.
b) nella seconda categoria rientrano quelle parti del territorio che sono comunque di interesse paesaggistico, ovvero le aree tutelate per legge, individuate dall’art. 142 con una elencazione che riprende quella precedente (se non per i boschi e le zone di interesse archeologico); infatti il legislatore recupera l’impostazione introdotta dalla legge n. 431 del 1985, individuando i beni per categorie tipologiche o criteri geografici generali ed astratti, ed esplicitando la concezione territoriale dell’oggetto della tutela. Il vincolo, così come fin dal 1985, opera automaticamente senza la necessità di un provvedimento, in quanto, essendosi la norma riferita a tipologie paesistiche ubicazionali e morfologiche, ne è possibile la loro individuazione (ciò è confermato anche dopo le modifiche del 2006 in quanto il d. lgs. 157 prevede soltanto che il piano paesaggistico provveda alla puntuale individuazione delle aree, facilitando ciò anche il superamento di incertezze e contestazioni sugli esatti confini delle aree stesse).
Si tratta dei territori costieri compresi nella fascia di 300 metri dalla linea del mare e dei laghi, anche se elevati (lett. a e b), dei fiumi, torrenti e corsi d’acqua e delle relative sponde per 150 metri (lett. c, qui con riferimento alla loro individuazione come tali), delle montagne oltre una certa altezza e dei ghiacciai (lett. d ed e), dei parchi, delle riserve, e delle zone di protezione esterna (lett. f), dei territori coperti da boschi e foreste, come definiti dal d. lgs 18 maggio 2001 n. 277, anche se danneggiati dal fuoco (lett. g), delle aree assegnate alle università agrarie o gravate di usi civici (lett. h), delle zone umide incluse nell’elenco previsto dalla Convenzione di Ramsar e dei vulcani (lett. i e l), delle zone di interesse archeologico individuate (lett. m), con la sola esclusione delle aree che al momento dell’entrata in vigore della legge Galasso erano delimitate come zone A e B, o anche diversamente a condizione che fossero ricompresse in piani attuativi le cui previsioni siano state realizzate.
Sulla previsione di tutela dei boschi la disposizione, riprendendo le definizioni di cui all’art. 2 del d. lgs. 227, fornisce una definizione di bosco che supera le oscillazioni giurisprudenziali e si pone quale riferimento in attesa delle legislazioni regionali cui compete la definitiva individuazione dei parametri dimensionali e tipologici; sul punto l’omesso richiamo da parte dell’art. 142 al comma terzo del citato art. 2 deve ritenersi una mera svista in quanto in esso sono indicati i criteri di assimilazione che non possono non essere richiamati nelle more della emanazione della disciplina regionale. L’altro punto sul quale vanno svolte alcune considerazioni riguarda le zone archeologiche (indicate dall’art. 142 lett. m, ma altresì dall’art. 136, comma 1, lett. c, così ponendo alcuni problemi di coordinamento tra i due sistemi di individuazione dei beni paesaggistici), che devono ora essere “individuate”, non rilevando se con uno specifico atto o nell’ambito di un procedimento, sulla base della semplice presenza di valori archeologici non essendo necessario, stante l’autonomia della tutela paesaggistica da quella archeologica, che sia stato accertato lo specifico interesse archeologico, e essere tali alla data di entrata in vigore del codice.
Più in generale sul regime delle aree tutelate per legge va sottolineato come il testo originario prevedesse l’operatività del vincolo “fino all’approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell’art. 156”, con carattere provvisorio, mentre, dopo l’intervento correttivo del 2006, l’art. 142 si apre con l’affermazione che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo” la serie di beni di cui sopra, così dando il senso di una validità assoluta e non temporanea del vincolo, pur rinviando al piano paesaggistico per la puntuale individuazione delle aree (art. 143, comma 1, lett. b).
c) la terza categoria ricomprende gli immobili e le aree sottoposte a tutela dai piani paesaggistici (e non paesistici), ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (una distinzione con i piani urbanistico-territoriali introdotta già dal d.l. n. 312/1985), caratterizzati dalla loro riferibilità non a beni paesaggistici singoli, d’insieme, o geograficamente determinati, ma estesi all’intero territorio regionale, realizzati attraverso la cooperazione tra Stato e Regioni (ribadita dalla nuova versione dell’art. 135). Nel piano vanno definite le previsioni intese: a) al mantenimento della morfologia dei beni tutelati, b) alla individuazione delle linee di sviluppo compatibili con il principio del minore consumo del territorio, c) al recupero e riqualificazione delle aree degradate, d) alla individuazione di ogni altro intervento di valorizzazione del paesaggio in applicazione del principio dello sviluppo sostenibile.
La procedura è oggi disciplinata dal nuovo testo dell’art. 143, ed all’interno di questa si segnalano la possibilità di accordi Stato Regioni per l’elaborazione congiunta del piano, che comporta in questo caso la emanazione di un parere non vincolante da parte del soprintendente, così come la possibilità, cui si è accennato in precedenza, di modificare gli effetti del vincolo assoluto nelle aree tutelate per legge; infatti anche se la riscrittura del Codice ad opera del d. lgs. 157 supera i dubbi sulla operatività temporale del vincolo, al piano paesaggistico compete la esatta individuazione delle aree genericamente individuate ex art. 142 nonché la determinazione della disciplina per la loro tutela e valorizzazione (elementi di riferimento per il successivo rilascio dell’autorizzazione). Ciò ovviamente non è possibile per i vincoli stabiliti con la dichiarazione di notevole interesse pubblico. Infine sembra doversi ritenere che, a differenza di quanto osservato sulle dichiarazione di interesse pubblico, la natura del piano, proprio per la peculiarità della procedura, non sia qualificabile come meramente ricognitivo di un interesse preesistente.
5. Il sistema autorizzatorio
Sui beni paesaggistici, come individuati ai sensi del Capo II del d. lgs n. 42, sono vietate tutte quelle modificazioni che possono recare pregiudizio ai valori paesaggistici, ed ogni intervento deve essere preceduto dall’autorizzazione rilasciata dalla Regione, o dall’Ente locale delegato (art. 146), a meno che non si tratti di interventi consistenti nella manutenzione ordinaria e straordinaria, di consolidamento statico o di restauro conservativo, e sempre che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici, nonché di interventi inerenti l’attività agro-silvo-pastorale con analoghe limitazioni, o infine, di tagli colturali, forestazione, riforestazione, opere di bonifica, antincendio e di conservazione purchè previsti dalla normativa in materia (art. 149).
La domanda di autorizzazione deve essere vagliata dalla competente autorità con riferimento alla Relazione paesaggistica che il proprietario, il possessore o il detentore del bene devono allegare ai sensi del comma 2, e per la quale il legislatore ha provveduto a definire criteri di redazione e contenuti con il D.p.c.m. 12 dicembre 2005 (in Gaz. Uff. 31 gennaio 2006 n. 25), emanato in attuazione della previsione di cui al comma quattro (ex tre) dello stesso articolo 146.
Il provvedimento autorizzatorio è rilasciato dalla Regione, con possibilità di delega alle Province ed ai Comuni, ma in questa seconda ipotesi è necessario che vi sia stata l’approvazione del piano paesaggistico e l’adeguamento a questo degli strumenti urbanistici locali, onde evitare commistioni tra tutela del paesaggio e competenze urbanistiche, e con l’ulteriore garanzia della natura vincolante del parere della soprintendenza.
L’autorizzazione, pur in presenza di una discrezionalità tecnica dell’organo emanante, deve contenere adeguata motivazione sulla compatibilità dell’intervento rispetto ai valori paesaggistici riconosciuti dal vincolo ed alle finalità perseguite, e va rilasciata a seguito prima di parere della Commissione locale per il paesaggio, e poi del parere della soprintendenza a natura vincolante solo fino alla approvazione del piano paesaggistico ed ai conseguenti adeguamenti degli strumenti comunali.
Il procedimento disegnato dall’art. 146, come modificato nel 2006, sollecita alcuni immediati rilievi critici: nella vigenza del testo originario la dottrina aveva ritenuto che, in assenza di specificazioni al riguardo, il parere della Commissione per il paesaggio non potesse che essere considerato vincolante, ma a ciò ha immediatamente risposto la novella del 2006, inserendo nell’originario comma 12 (oggi comma 14) la previsione che nell’elenco delle autorizzazioni rilasciate, che deve essere tenuto presso ogni amministrazione, sia specificato se l’autorizzazione sia stata rilasciata in difformità del parere della Commissione, così affermandone la natura non vincolante (in precedenza tale previsione riguardava il solo parere della soprintendenza, allorché previsto come non vincolante). Una seconda osservazione si basa sulla previsione che la mancata comunicazione del parere da parte del soprintendente entro 60 giorni dalla data di ricezione della proposta di autorizzazione, legittima l’amministrazione al rilascio del provvedimento; anche qui è facilmente intuibile come la pur legittima volontà di accelerare il procedimento possa risolversi nel venir meno di una autorevole fonte di controllo.
Infine manca un potere di annullamento ministeriale che più in generale viene sostituito con un ampio ricorso al momento giurisdizionale da parte di più soggetti (infatti accanto alle associazioni ambientaliste maggiormente rappresentative è previsto il diritto a ricorrere da parte di qualsiasi soggetto non solo pubblico ma anche privato), e con caratteri anche peculiari come l’obbligo di decidere anche in caso di rinuncia al ricorso. Una impostazione che lascia perplessi per la scelta di demandare ad un momento successivo al procedimento quale il giudizio amministrativo, quelle verifiche che sarebbe più logico prevedere prima dell’emanazione dell’atto.
Una specifica riflessione va svolta sul termine di durata dell’autorizzazione, originariamente fissato dall’art. 16 del R. D. 3 giugno 1940 n. 1357, Regolamento di esecuzione della legge 29 giugno 1939 n. 1497, in cinque anni, e che deve ritenersi tuttora operante. Infatti se pure è vero che l’art. 166 del T.U. n. 490 del 1999 aveva indicato la legge n. 1497 fra le disposizioni abrogate, il precedente art. 161 prevedeva che sino alla emanazione del Regolamento per l’attuazione delle disposizioni del T.U. del 1999 “restano in vigore le pregresse disposizioni del Regolamento del 1940, ove compatibili”; né sul punto può incidere la successiva abrogazione del T.U. del 1999 ad opera dell’art. 184 del Codice Urbani, in quanto il R.D. n. 1357 era già stato fatto salvo in precedenza. Si tratta a questo punto di verificare se la previsione di un termine di validità dell’autorizzazione risponda o meno a criteri logici, ma non vi è dubbio che una decadenza dell’autorizzazione risponde all’esigenza di una rivalutazione degli effetti dell’intervento in quanto il decorso di un congruo lasso di tempo può avere ragionevolmente mutato le condizioni originarie che avevano indotto l’amministrazione al rilascio del provvedimento (sul punto va ulteriormente precisato, per quanto attiene al momento iniziale del termine, che anche nella vigenza del d. lgs n. 490/1999 il termine non poteva che decorrere dal rilascio dell’autorizzazione, non assumendo rilievo il diverso e successivo momento nel quale la Soprintendenza esercitava il proprio controllo di legittimità; dubbio ora risolto dalla previsione, ex art. 146 del d. lgs 42/2004, di un parere preventivo).
6. Il regime sanzionatorio
a) le previsioni penali
L’esecuzione, senza la prescritta autorizzazione o in difformità da questa, di lavori di qualsiasi genere sui beni paesaggistici, come sopra delineati, comporta l’applicazione di una pena individuata dal legislatore con rinvio a quanto previsto nell’art. 20 della legge 28 febbraio 1985; un rinvio che sarebbe stato più corretto effettuare all’art. 44 del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380, che ha sostituito la citata legge n. 47, pur se identiche rimangono le conseguenze sanzionatorie.
L’analisi della disposizione comporta due distinte riflessioni; la prima relativa alla utilizzazione dell’espressione “lavori di qualsiasi genere”, con la quale deve ritenersi che il legislatore si sia riferito, pur in modo non brillante, ad un ampio ventaglio di attività, che vanno al di là dei lavori edilizi, e che ricomprendono ogni tipo di intervento di modifica paesaggistica; la seconda riguarda lo specifico regime sanzionatorio da applicare. Infatti sin dalla vigenza della legge 431 del 1985, con riferimento all’art. 1 sexies, così come del d. lgs. n. 490 del 1999, questa volta con riguardo all’art. 163, si era posto il problema della corretta individuazione della pena applicabile in caso di violazioni paesaggistiche, atteso che sia l’art. 20 della legge n. 47 che l’art. 44 del d.p.r. n. 380 contengono tre distinte ipotesi sanzionatorie. Pur tuttavia è assolutamente non controverso in giurisprudenza che l’unica sanzione applicabile alle violazioni paesaggistiche (ora art. 181, comma 1) sia quella contenuta nella lettera c) delle disposizioni edilizie, in quanto la differente sostanza e valenza del paesaggio rispetto all’urbanistica rende impossibile una trasposizione negli illeciti in tema di paesaggio degli istituti tipici degli interventi urbanistico-edilizi (pur in presenza di qualche voce dissonante, la giurisprudenza di legittimità può dirsi consolidata in tal senso sin da Cass. Sez. III 9 marzo 1995 n. 2351, p.m. in proc. Ceresa; conf. Cass. 22 novembre 2002 n. 4263/2003, Ferrari), anche in considerazione del rilievo che ogni intervento effettuato in carenza del provvedimento abilitativo pone in pericolo il bene tutelato, così da giustificare un unico regime sanzionatorio.
Come accennato in precedenza con il comma 36 dell’articolo unico della legge 308 del 2004 è stato introdotto il comma 1 bis all’art. 181, che prevede una “atipica” figura di reato, in quanto prevede quale “delitto” il compimento delle stesse attività di cui al primo comma qualora queste ricadano o su immobili o aree che per le loro caratteristiche paesaggistiche siano state dichiarati di notevole interesse pubblico con provvedimento antecedente alla realizzazione dei lavori (una formula che lascia aperta la discussione sulla possibilità o meno che il provvedimento intervenga dopo l’inizio dei lavori, ma prima della loro integrale realizzazione – Ramacci, L., 37,), o su immobili o aree tutelate per legge ex art. 142, in questo secondo caso a condizione che vi sia stato un aumento volumetrico superiore al 30%, o un aumento superiore a mc. 750, o ancora una nuova costruzione con volume superiore a mc. 1000. Sulla natura di questa nuova ipotesi di reato si è aperta in dottrina una interessante riflessione, atteso che a fronte della iniziale valutazione del comma 1 bis quale ipotesi autonoma di reato se ne è sostenuta (Potetti, D., 31, 1221) la qualità di fattispecie aggravata dell’ipotesi prevista nel comma 1, regolata ex art. 63, comma 3, c.p., con la conseguente applicabilità del giudizio di comparazione (l’approfondimento sul punto si giova delle argomentazioni contenute in Cass. Sez. Un. 26 giugno 2002 n. 19, Fedi, in Dir. pen. e proc, 2003, 295 svolte sul rapporto tra il delitto di truffa e quello di cui all’art. 640 bis commesso per il conseguimento di erogazioni pubbliche ).
Permangono in merito alcune perplessità sulle nuove difficoltà che, pure in presenza di un dolo generico, si presentano sul piano dell’accertamento di responsabilità in ipotesi nelle quali l’elemento soggettivo sembra più facilmente potersi atteggiare nell’ipotesi colposa, ovviamente bilanciate dal segnale di sempre maggiore attenzione alla tutela del paesaggio che la previsione delittuosa porta in sé.
b) le sanzioni amministrative
Purtroppo l’esperienza giudiziaria del nostro paese ha dimostrato che le sanzioni penali previste, e che vengono ribadite nella nuova previsione legislativa, non sono idonee a scoraggiare i deturpatori del paesaggio, in ragione dei rilevanti interessi economici che spesso sono sottesi a tali tipi di intervento; di maggiore efficacia pratica si sono infatti dimostrate disposizioni di tipo diverso, e che incidono sulle conseguenze della condotta illecita, fra queste la rimessione in pristino, la cui prima ipotesi era originariamente disciplinata dall’art. 15 della legge 1497 del 1939, successivamente dall’art. 164 del d. lgs n. 490 del 1999, ed attualmente dal nuovo testo dell’art. 167, che prevede, tra l’altro, il pagamento, previa perizia di stima, della maggior somma tra il danno arrecato ed il profitto conseguito in caso di accertamento di compatibilità paesaggistica (vedi paragr. successivo).
b1) la rimessione in pristino
Infatti la prima sanzione prevista dal Capo II del Titolo I della Parte IV del Decreto n.42, dedicato alle sanzioni non penali è quella della rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato (da disporre con la sentenza di condanna da parte del giudice), o anche (ove il provvedimento provenga dall’autorità amministrativa) il pagamento di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato con l’intervento illecito ed il profitto conseguito dal trasgressore grazie al proprio comportamento. Le somme così recuperate dalle Regioni confluiscono poi in un fondo per la salvaguardia dei beni ambientali o la riqualificazione delle aree degradate. Ed infatti con la sentenza di condanna per la esecuzione di opere su beni paesaggistici in assenza di autorizzazione o in difformità da questa il giudice deve disporre la “rimessione in pristino” dello stato dei luoghi a spese del condannato (art. 181, comma 2), con provvedimento che non ha natura di pena accessoria, nè tantomeno di misura di sicurezza patrimoniale, bensì di sanzione amministrativa di tipo ablatorio caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell’organo chiamato ad irrogarla e dalla sua accessività alla sentenza di condanna, o a quella emessa all’esito del patteggiamento (così da non potere essere emesso in caso di semplice accertamento dell’abuso e da dovere essere rimosso, se già disposto, in caso di dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione). Un obbligo per il giudice che la Corte Costituzionale (Corte Cost. 20 luglio 1994 n. 318) ha giustificato in quanto imposto per la effettiva tutela del valore ambientale presidiato dalla norma che lo prevede, e che si pone su un piano diverso ed autonomo da quello dei poteri della P.A. e delle sue valutazioni, configurandosi quale conseguenza necessaria sia dell’esigenza di recuperare l’integrità dell’interesse tutelato, sia del giudizio di disvalore che il legislatore ha assegnato agli interventi modificativi del territorio in zone di particolare interesse ambientale. Caratteri che consentono altresì di distinguere il ripristino dalla demolizione, in quanto la sanzione del ripristino presenta un carattere di maggiore completezza ed effettività rispetto alla demolizione prevista in materia urbanistica, ove non si realizza una reintegrazione totale del bene nella zona interessata all’intervento
A seguito delle integrazioni all’art 181 introdotte dal comma 36 della legge n. 308, la rimessione in pristino delle aree o degli immobili operata dal trasgressore prima che questa venga disposta dall’autorità amministrativa o dal giudice con la sentenza di condanna, diviene causa di estinzione dell’ipotesi contravvenzionale di cui al comma 1 (una causa di estinzione che non si rinviene in campo urbanistico). La formula utilizzata dal legislatore del 2004 induce a qualche ulteriore breve considerazione, da una lato che il beneficio non possa estendersi ai soggetti che non abbiano partecipato alla rimessione stessa, così come che il “trasgressore” non possa giovarsi della rimessione operata da altri; dall’altro che possa intervenire sino alla definitività della condanna, non potendosi escludere l’intervento di una causa di estinzione sino al passaggio in giudicato; infine che il beneficio debba essere considerato anche nell’ipotesi nella quale in corso di esecuzione del ripristino venga emesso il provvedimento amministrativo che lo disponga, in quanto ritenere diversamente penalizzerebbe un comportamento che ha già manifestato il proprio ravvedimento (diversamente non è possibile una sospensione del procedimento penale per consentire anche il semplice completamento del ripristino in quanto non prevista).
Anche se l’orientamento largamente maggioritario in dottrina (Beltrame, S., 5, 714) ritiene che la causa di estinzione introdotta con il comma 1 quinquies dell’art. 181 si applichi esclusivamente alla contravvenzione di cui al comma 1 e non anche al delitto introdotto dal comma 1 bis, una diversa interpretazione risulta proposta dai sostenitori della natura di fattispecie aggravata di questa seconda ipotesi di reato (Potetti, D., 31, 12221). Peraltro pienamente condivisibile è la critica che vede nella nuova ipotesi di estinzione del reato un vulnus nel sistema di tutela ambientale; infatti la consapevolezza che in caso di accertamento del reato sarà possibile sottrarsi alla sanzione penale con la rimessione in pristino muta l’approccio ideologico con il quale guardare a tale rimedio postumo, passato da manifestazione di consapevolezza della lesione prodotta e di volontà riparatoria a strumento di elusione della sanzione, eventualmente già “posto nel conto” nella fase di ideazione dell’illecito, un illecito apparso ora a taluno (Bisori, V., 8, 3193) come costruito non tanto sull’abuso, quanto sull’omesso ripristino.
La disposizione è stata altresì valutata dalla Corte Costituzionale (con ordinanza 18 aprile 2007 n. 144), che ha opportunamente dichiarato la manifesta infondatezza della questione con la quale si lamentava la mancata previsione della contemporanea estinzione del reato edilizio in tale ipotesi, sottolineando che i reati paesaggistici ed ambientali tutelano dei beni immateriali come il paesaggio e l’ambiente, mentre i reati edilizi tutelano il rispetto della disciplina amministrativa nell’uso del territorio, così che la diversità degli oggetti finali della tutela giustifica discipline sanzionatorie e fattispecie estintive differenziate; inoltre il riconoscimento del valore premiale del ripristino del bene paesaggistico si colloca nell’alveo di una politica legislativa che, come nel caso della subordinazione della sospensione condizionale della pena alla riduzione in pristino, rivela l’importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali.
b2) la violazione in materia di affissione
Una seconda ipotesi riguarda la collocazione dei cartelli per la gestione degli spazi pubblicitari, per i quali, fermo restando la loro possibile sottoposizione al preventivo rilascio del titolo autorizzatorio edilizio (ed in questo senso si è espressa Cass. sez. III 23 settembre 2005, P.M. in proc. G, in Riv giur. ambiente, 2006, 1, 85), viene nel nuovo testo, ribadita la non sanzionabilità penale che era stata introdotta con il d. lgs. n. 490 del 1999, e che prevedeva la applicazione delle sanzioni previste dall’art. 23 del d. lgs n. 285 del 1992 (nuovo codice della strada). Sul punto non può non rilevarsi come in precedenza l’art. 1 sexies punisse penalmente anche tale condotta, e come la legge n. 352 del 1997, di delega per l’emanazione del T.U. del 1999 non consentisse la modifica alla normazione precedente, se non per il necessario coordinamento formale, e tale non può certo essere considerata la depenalizzazione di una precedente fattispecie di reato, con consistenti dubbi di costituzionalità in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost.
c) i rapporti fra sanzioni amministrative e penali
Il tema della possibile applicabilità congiunta delle sanzioni previste dal reato paesaggistico e quelle affidate alla pubblica amministrazione si è posto sin dalla vigenza dell’originario art. 15 della legge 1497, poi confluito nell’art. 164 del testo del 1999, ed oggi nella versione dell’art. 167, come sostituito nel 2006. La questione si era riproposta con maggiori argomentazioni dopo il 1999, in quanto nella formula dell’art. 164 non risultava che il pagamento della maggior somma tra danno arrecato e profitto conseguito fosse dovuto “indipendentemente dalle sanzioni comminate dal codice penale”, parole prima contenute nel citato art. 15 del 1939; la conseguenza dedotta era l’applicazione del principio di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1989, che regola il rapporto fra sanzioni amministrative e penali secondo il principio di specialità (e con esclusione della sanzione amministrativa). La risposta della giurisprudenza (e fra queste Cass. Sez. III 22 ottobre 2007 n. 38939, P.M. in proc. B) ad una serie di tentativi che invero sostenevano un diverso rapporto di specialità, ed a favore della sanzione amministrativa, per sottrarre l’intervento all’area della sanzionabilità penale, è stata di segno negativo, e ciò osservando come il legislatore del 1985 avesse previsto una sanzionabilità penale “fermo restando le sanzioni di cui alla legge 1497 del 1939”, con una conseguente applicabilità congiunta delle due sanzioni, come fosse stata affermata la sostanziale continuità del d. lgs n. 490 del 1999 con la precedente disposizione del 1985, anche per la sua già ricordata natura; argomenti ai quali se ne possono aggiungere di decisivi alla luce del nuovo articolato degli artt. 167 e 181. La previsione per la quale, in caso di accertata compatibilità paesaggistica, la previsione sanzionatoria penale, di cui al comma 1 dell’art. 181, non si applichi, mentre rimane l’obbligo della sanzione pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, rende intuibile che a maggior ragione permarrà la sottoposizione alla sanzionabilità amministrativa in quei casi in cui la procedura di compatibilità non sia esperibile.
7. L’accertamento di compatibilità paesaggistica
Il tema della “sanabilità” dell’illecito paesaggistico è stato da sempre oggetto di discussione, anche se originariamente sotto il profilo delle possibili ricadute di una sanatoria edilizia sul collegato reato ambientale; infatti la questione risulta essere stata proposta anche innanzi alla Corte costituzionale, che con ordinanza 21 luglio 2000 n. 327 riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità dell’allora art. 22, comma terzo, della legge n. 47 del 1985 (oggi sostituito dall’art. 46 del d.p.r. n. 380 del 2001), nella parte in cui non era previsto che il rilascio della concessione in sanatoria ex art. 13 della stessa legge n. 47, estinguesse, oltre alle violazioni di natura urbanistico-edilizia, anche il reato ambientale, e ciò anche se nelle more fosse stato rilasciato un provvedimento favorevole da parte dell’autorità proposta alla tutela del vincolo. Conseguentemente il quadro attuale in materia, come precisato anche dalla giurisprudenza amministrativa più recente, consente un accertamento di compatibilità, a fini edilizi, anche in caso di opere eseguite su aree soggette a vincolo, ovviamente a condizione che sia stata rilasciata anche l’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d. lgs. n. 42.
Diversamente in campo più strettamente ambientale, la previsione generale era quella contenuta nell’art. 146 del d. lgs n. 42, che al comma dieci affermava che “l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”. Inopinatamente il legislatore del 2004, in occasione della delega al governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale effettuata con legge 15 dicembre 2004 n. 308 (e che ha portato alla emanazione del d. lgs 3 aprile 2006 n. 152), introduceva con il comma 36 dell’articolo unico una compatibilità paesaggistica postuma: a) “per i lavori che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, b) “per l’impiego di materiali in difformità dell’autorizzazione paesaggistica”, c) “per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria”, e ciò con l’inserimento del comma 1 ter all’art. 181 del d. lgs. n. 42. In tali casi l’accertamento della compatibilità paesaggistica secondo la procedura dettata dal successivo comma 1 quater (introdotto anch’esso in tale occasione) comporta la non applicabilità delle sanzioni penali previste dal comma primo dell’art. 181, mantenendo ferme le sole sanzioni pecuniarie di cui all’art. 167. Inoltre l’originaria possibilità di applicazione della sanzione ripristinatoria è stata eliminata con l’art. 28 del d. lgs. n. 157, così che una volta accertata la compatibilità paesaggistica sarà possibile ottenere in sede esecutiva la revoca dell’ordine di ripristino disposto con la sentenza di condanna, permanendo i soli effetti penali della decisione (con la precisazione che il riferimento al solo comma 1 esclude dalla procedure di compatibilità le fattispecie costituenti delitto ai sensi del nuovo art. 181 comma 1 bis).
Il quadro normativo veniva nuovamente sottoposto a modifica con i citati d. lgs. del 24 marzo 2006, n. 156 e 157, con il secondo dei quali venivano riscritti gli artt. 146 e 167 del codice Urbani, così da integrare, con alcune ulteriori previsioni non rilevanti in questa sede, la disciplina a regime, che presenta così una compatibilità paesaggistica all’esito della quale l’autore dell’illecito è tenuto al pagamento del maggior importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito (in caso di rigetto della domanda il nuovo testo normativo prevede, con formulazione lessicale non corretta “l’applicazione della sanzione demolitoria di cui al comma 1”, scontando l’approssimazione redazionale e la confusione concettuale tra demolizione e ripristino, che va ovviamente intesa quale rimessione in pristino). L’ottenimento dell’attestazione di compatibilità paesaggistica produrrà, oltre all’effetto sul regime sanzionatorio, la esclusione dall’obbligo di rimessione in pristino a proprie spese previsto in via generale dal comma primo del nuovo testo dell’art. 167 (sostituito dal d. lgs. n. 157/2006), il cui combinato disposto con il successivo comma quarto appare maggiormente sistematico di quanto non fosse il più stringato testo dell’originario articolo come contenuto nel d. lgs n. 42.
Stante la natura di eccezione alla regola della compatibilità postuma appare condivisibile l’affermazione giurisprudenziale (Cass. Sez. III 23 gennaio 2007, dep. 13 aprile 2007, n. 15053) per la quale il rilascio postumo di un qualsiasi diverso provvedimento ottenuto senza la procedura disciplinata dall’art. 181, comma 1 quater, e 167, comma 5 (come modificato) non può produrre la non applicabilità dell’ipotesi sanzionatoria di cui al comma 1 del citato art. 181, ma può avere il solo limitato effetto di escludere l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
La stessa legge n. 308 ha poi introdotto, con il comma 37, il cd. minicondono ambientale all’esito dell’accertamento di compatibilità paesaggistica per i lavori compiuti su beni paesaggistici entro il 30 settembre 2004, purchè si sia trattato di tipologie edilizie assentite dagli strumenti di pianificazione paesaggistica comunque compatibili con il contesto paesaggistico, e successivamente al pagamento di determinate sanzioni pecuniarie. Si tratta di un condono con ambito applicativo più ampio di quanto previsto per l’accertamento di compatibilità postumo, in quanto il comma 37 si riferisce genericamente a “lavori compiuti su beni paesaggistici” senza escludere alcuna tipologia, ma sottoponendolo alle sole condizioni sopra indicate, e che peraltro non avrebbe avuto senso se, come sostenuto in dottrina in senso restrittivo, avesse avuto le stesse limitazioni che l’art. 181, comma 1 ter, introdotto dal precedente comma 36 della legge n. 308, impone per la cd. “sanatoria a regime”; inoltre anche l’effetto di tale condono è più ampio, comportando l’estinzione non solo del reato di cui all’art. 181, ma anche di ogni altro reato paesaggistico (restandone ovviamente escluso l’eventuale reato edilizio). Va da ultimo precisato come la attivazione della procedura di condono ambientale non possa comportare la sospensione del procedimento penale, mancando una disposizione analoga a quanto in campo edilizio era originariamente previsto nell’art. 38 della legge n. 47 del 1985, richiamata in sede di redazione dei successivi condoni edilizi (inoltre non è previsto un termine entro il quale l’autorità deve pronunciarsi sulla domanda di condono); una sospensione che ove erroneamente disposta non impedisce il decorso della prescrizione. In merito a questa specifica disposizione deve ulteriormente notarsi come la procedura sia stata delineata in modo particolarmente scarno, senza indicazione del contenuto della domanda, della documentazione da allegare, delle modalità e dei tempi di pagamento delle sanzioni, dei tempi del procedimento, sulla natura vincolante o meno del parere della soprintendenza (che in assenza di specificazioni potrebbe purtroppo essere considerato come non vincolante).
Sempre in tema di condono si deve condividere la esclusione dalla applicabilità del condono edilizio introdotto dal d. l. n. 269 del 2003, e convertito in legge n. 326 del 2003, alle opere realizzate nelle aree sottoposte a vincoli imposti a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesaggistici (a meno che non abbiano la natura di interventi minori, quali il restauro, il risanamento conservativo e la manutenzione straordinaria), affermata dalla giurisprudenza in più occasioni e confortata dalla Relazione governativa al d. l. n. 269, nella quale si indicano quali opere assolutamente insanabili quelle realizzate in assenza o difformità del titolo abilitativi nelle aree sottoposte a vincoli previsti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici, fatti salvi gli interventi minori previo parere favorevole dell’autorità proposta alla tutela del vincolo stesso.
Normativa
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ALFREDO MONTAGNA[/thrive_lead_lock]