Onere della produzione del contratto di conto corrente nelle cause di accertamento dell’indebito bancario

Antonio Tanza ed Emanuela Mollona, Onere della produzione del contratto di conto corrente nelle cause di accertamento dell’indebito bancario, nota a sentenza n. 63/2016 del 27 gennaio 2016 della Corte di Appello di Salerno

Onere della produzione del contratto di conto corrente nelle cause di accertamento dell’indebito bancario

Con la sentenza n. 63/2016 in commento, emessa il 20 gennaio 2016 e pubblicata il 27 gennaio 206, la Corte di Appello di Salerno, Sezione Civile, riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei Sigg.ri Magistrati Dott.ssa Marina Ferrante – Presidente, Dott.ssa Maria Balletti – Consigliere, Dott. Vito Colucci – Consigliere Relatore, ha confermato la sentenza non definitiva n. 20/11 e quella definitiva n. 11/12 (edite in www.studiotanza.it) pronunciate dal Tribunale di Sala Consilina, Sezione distaccata di Sapri, nella persona della Dott.ssa Anna Maria Diana, che avevano condannato un istituto di credito a pagare al correntista l’importo di Euro 457.093,65, oltre interessi dalla data della domanda e sino al soddisfo e spese di giudizio, per aver accertato l’illegittimità dell’operato dell’istituto di credito nella parte in cui ha applicato ai rapporti di conto corrente oggetto di giudizio tassi di interesse ultralegali, capitalizzazione trimestrale degli interessi, spese di tenuta conto, commissioni di massimo scoperto e valute non pattuite e determinate.

La sentenza della Corte di Appello è molto interessante in quanto nelle sue 24 pagine di fitta e stringente motivazione riporta i vari indirizzi filobancari che si sono potuti rilevare nella recente giurisprudenza 2015-2016 nell’interpretazione nomofilattica della giurisprudenza di legittimità. In verità, in quest’ultimo  [thrive_lead_lock id=’4487′] periodo la politica del “salva banche”, ora anche sponsorizzata come necessitata in favore dei consumatori esposti al pericolo del bail-in, ha prodotto dei filoni di pensiero giurisprudenziali che soffocano, al di là di ogni opportunità, il diritto del cliente della banca a vedere applicati i principi normativi secondo le indicazioni statuite dalla Corte di legittimità. La Corte Salernitana applicando le norme e seguendo l’insegnamento della Cassazione ha prodotto una sentenza di grande pregio giuridico e logico: la lettura della sentenza serve a chiarire molti punti in cui la filobancaria ha pressato per stravolgere i principi che tanto faticosamente negli ultimi venti anni avevano portato “il diritto delle banche” ad assurgere a “diritto bancario” (cfr. in argomento il bellissimo lavoro di Aldo Maisano, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie: la difficile transizione dal diritto della banca al diritto bancario, Giuffrè, 1993).

Ciò posto, tra le varie ragioni di rigetto del gravame vi è anche l’implicita circostanza che l’istituto di credito non ha prodotto il contratto di conto corrente comprovante l’espressa pattuizione e, dunque, la validità delle condizioni economiche contestate puntualmente dal correntista ed attestate attraverso la produzione degli estratti conto e della perizia di parte.

La pronuncia offre, infatti, lo spunto per affrontare un tema alquanto delicato: se l’onere probatorio di produzione del contratto originario del rapporto bancario incomba sul correntista, che agisca in giudizio per la ripetizione di somme versate a titolo di interessi ultralegali, anatocistici, o di commissioni di massimo scoperto, o invece sulla banca.

La fattispecie posta al vaglio della Corte aveva ad oggetto un rapporto di apercredito sorto nel 1981, dunque prima dell’entrata in vigore della legge n. 154/1992, che prevede all’art. 3 l’obbligo della forma scritta per i contratti relativi alle operazioni e ai servizi devono essere redatti per iscritto, nonché la consegna di un loro esemplare ai clienti. In atti non era presente il contratto di conto corrente che aveva dato origine al rapporto oggetto di gravame ma, visto il periodo in cui era stato creato, poteva essere anche verbale.

Ebbene, di recente, certi minoritari Tribunali hanno reso delle pronunce “salva banche” che rigettano la domanda del correntista per carenza probatoria, stante la mancata produzione del contratto di apertura del conto corrente. Per fortuna trattasi solo di alcune sporadiche ed abnormi sentenze.

E’ infatti, inconcepibile che il correntista possa perdere il diritto alla ripetizione di quanto indebitamente appostato dall’istituto bancario sol perché il contratto è stato verbale o di fatto e, dunque, non è nella condizione di produrre alcunché.

La Corte salernitana è, invece, ineccepibile sulla questione.

Dalla lettura dell’intera pronuncia si evince che, a seguito dell’accertata circostanza della mancanza in atti del contratto di conto corrente, la Corte rigetta il gravame proposto dalla banca confermando le precedenti sentenze, in quanto l’appellante non ha dato prova che: l’interesse ultralegale sia stato espressamente pattuito; la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi sia stata concordata tra le parti e che i c.d. giorni valuta, le spese e le commissioni di massimo scoperto trimestrali siano state applicati in modo determinato o determinabile e non siano privi di causa.

Ma non basta: la produzione tardiva da parte della banca del contratto non sana il suo onere probatorio.

“Con riguardo al tema della eventuale tardività della produzione documentale, va osservato quanto segue. La banca ha depositato una scrittura dalla quale si evince la indicazione, in particolare, della misura di tassi di interesse e della misura di commissioni di massimo scoperto, datata 29/8/2003. Questo documento è stato prodotto in primo grado soltanto all’udienza del 13/1/2012, ben oltre lo scadere dei termini di cui all’art. 183, sesto comma. c.p.c., concessi all’udienza del 13/10/2006. La opportunità della produzione del documento in questione (nell’interesse della banca), peraltro, era evidente sin dall’inizio del processo, date le domande, eccezioni e deduzioni delle parti. La tardività della produzione del documento è, quindi, del tutto ingiustificata. Il documento in questione, inoltre, non rientra fra i documenti che il c.t.u. può esaminare ai sensi dell’art. 198 c.p.c., trattandosi di documento teso a provare fatti posti a base di domande ed eccezioni della banca, la quale aveva l’onere di provare tali fatti e, quindi, di produrre i relativi elementi probatori entro i termini di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c.- La cassazione ha, infatti, affermato che il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultanti da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti [cfr. Cass. civ., sez. III, sentenza n. 12921 del 23/6/2015. Cfr, in argomento, anche Cass. civ., sez. sentenza n. 24549 del 2/12/2010, la quale ha affermato che, in tema di preclusione relative a produzioni documentali, nel corso di una consulenza contabile, si deve escludere l’ammissibilità della produzione tardiva di prove documentali concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni di merito, essendo, al riguardo irrilevante il consenso della controparte atteso che, ai sensi dell’art. 198 c.p.c., tale consenso può essere espresso solo con riferimento all’esame di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice (Nella fattispecie la pronuncia di secondo grado, con valutazione condivisa in sede di legittimità, aveva dichiarato l’inammissibilità della produzione di contabili bancarie in corso di c.t.u. relativa a revocatoria fallimentare di rimesse)]. Va, peraltro, evidenziato che non risulta che gli attori in primo grado, ora appellati, abbiamo consentito alla utilizzazione del documento in questione. Sotto il profilo della disciplina di cui all’art. 345 c.p.c., poi, la cassazione ha affermato che nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessita di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario, con la conseguenza che, se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova perché funzionale alle sue ragioni, deve escludersi che la prova sia indispensabile, se la decisione si è formata prescindendone, essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova [cfr. Cass. civ., sez. III, sentenza n, 7441 del 31/3/2001. Cfr. anche, in argomento, Cass. civ., sez. sentenza n. 26020 del 5/12/2011, la quale ha precisato che l’art. 345, terzo comma. c.p.c.. come modificato dalla legge 26 novembre 1990, n. 35, nell’escludere l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, consente al giudice di ammettere, oltre alle nuove prove che le parti non abbiano potuto produrre prima per causa ad esse non imputabile, anche quelle da lui ritenute, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, indispensabili, perché dotate di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove rilevanti hanno sulla decisione finale della controversia, indispensabilità da apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario]. Come più sopra rilevato, la banca aveva senz’altro la possibilità di percepire la eventuale utilità, a sostegno delle sue tesi, della produzione del documento in questione entro i termini di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c.- Non avendo la banca prodotto tempestivamente il documento, correttamente il tribunale non ne ha tenuto conto nella decisione, la quale è stata assunta nel rispetto delle norme concernenti i termini di preclusione previsti dalla disciplina processuale applicabile al caso in esame. Ne consegue che, avendo correttamente il tribunale deciso la controversia senza tener conto del documento in questione, prodotto in maniera inammissibile in quanto tardivo (senza che ciò sia imputabile a impossibilitò della parte di produrre il documento stesso tempestivamente), tale documento non è indispensabile ai fini della decisione del grado di appello.

La sentenza in commento, com’è dato notare dalla copiosa giurisprudenza di legittimità richiamata, è in linea con l’orientamento da sempre affermato dalla Giurisprudenza di legittimità (che alcuni Tribunali cercano vanamente di scalfire, compiendo, peraltro, un illecito disciplinare: cfr. Tribunale di Taranto, Dott. Gianfranco Coccioli, Sent. n. 3164 del 30 ottobre 2014), secondo il quale se il contratto non è prodotto in atti, la banca non prova il suo diritto ad applicare gli interessi ultralegali in violazione alle prescrizioni di cui all’art. 1284 c.c. e il correntista dovrà pagare il solo interesse legale, dovuto per il contratto verbale o per un contratto nel quale la pattuizione dell’interesse ultralegale non sia avvenuta secondo le regole dell’art. 1284 c.c. (cfr. Corte di Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262 – Sagliocco c. BNL – Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 3-4. Cass. N. 4094 del 2005; Cassazione civile sez. I, sentenza n. 2316 del 03 febbraio 2014).

Detto principio risponde ad un criterio di razionalità logica: la mancanza del contratto non può comportare null’altro se non l’applicazione del tasso legale ex art. 1284 c.c. nella ricostruzione del rapporto, con esclusione delle c.m.s., valute e spese per mancata pattuizione.

Per fortuna (ed è spiacevole usare questo termine quando si affrontano questioni giuridiche), l’orientamento maggioritario tende ancora a sanzionare l’istituto bancario che addebita interessi ultralegali passivi capitalizzati trimestralmente, c.m.s. spese e competenze sul conto corrente pur in assenza di condizioni contrattuali scritte.

Parte opponente deduce la nullità per indeterminatezza della clausola con cui la misura degli interessi passivi fu pattuita mediante rinvio alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza. L’esistenza di una tale clausola non può desumersi – in assenza di contratto scritto (al quale invece sembra fare riferimento parte opponente citando l’art. 7 di tale documento contrattuale, sconosciuto a questo giudizio) – dall’applicazione data dalle parti al contratto nel corso del tempo e ciò in quanto è possibile solamente riscontrare il computo di interessi passivi in misura variabile e comunque superiore al tasso legale, ma non è possibile, dall’esame degli estratti conto, stabilire se dette variazioni fossero o meno parametrate a fluttuazioni delle condizioni praticate su piazza, condizioni che – per la stessa allegazione di parte opponente – non erano determinabili in maniera univoca. Possono tuttavia rilevarsi d’ufficio profili di nullità della medesima clausola per difetto della forma scritta, prescritta dall’art. 1284 c.c. Tribunale di Perugia, Dott.ssa Gaia Muscato, Sentenza n. 1630/2015 pubbl. il 04/11/2015

E’ onere della Banca provare la pattuizione scritta – ex art. 1284, comma 3, c.c. – degli interessi ultralegali: nel caso in cui la Banca non assolva a tale onere, pertanto, occorrerà ricalcolare gli interessi in misura legale. Il requisito della forma scritta pattizia non è sanato dalla comunicazione al correntista delle variazioni alle condizioni applicate ai rapporti e servizi bancari a mezzo dell’invio degli estratti conto, la cui mancata contestazione, per giurisprudenza più che consolidata, si limita a rendere inoppugnabili gli addebiti solo dal punto di vista contabile. Appello L’Aquila 15 giugno 2015 – Pres. Pace – Est. Silvia Rita Fabrizio.

Con il primo motivo di gravame, l’appellante deduce l’omessa pronuncia del Tribunale sulla eccezione di parte convenuta secondo cui gli attori non avevano prodotto il contratto, asseritamente contenente le clausole nulle, onde fornire la prova “del fatto negativo (quale, appunto, la inesistenza della causa debendi) che concorre ad integrare… la fattispecie costitutiva dell’azione di ripetizione di indebito oggettivo”. La censura è infondata. Invero, diversamente da quanto dedotto da parte appellante, il Tribunale aveva espressamente motivato sull’eccezione affermando che la soc. Sanpaolo Imi non aveva allegato, né entro il termine di cui all’art. 184 c.p.c. né nel corso dell’istruttoria alcun diverso documento che attestasse, al contrario, l’intervenuta previa pattuizione per iscritto del saggio di detti interessi ultralegali di fatto poi applicati ai c.c. Piuttosto, aveva sostenuto l’irripetibilità dei relativi importi per aver i clienti aderito spontaneamente alle corrispondenti annotazioni, nonché la legittimità di quella determinazione per rinvio agli usi su piazza su simili contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della L n. 154/92. In effetti, atteso che la norma dell’art. 1284, terzo comma, cod. civ. stabilisce che “Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura legale”, appare del tutto evidente che la prova di una siffatta pattuizione gravi sulla parte che chiede il pagamento del tasso ultralegale essendo gli interessi una componente del credito vantato (v. Cass. 23974/010). Cosicchè, non avendo la Banca assolto all’onere probatorio a lei incombente, gli interessi andavano applicati sulla base della misura legale come stabilito dalla legge; come statuito dal Tribunale il quale, del tutto correttamente, ha ritenuto che andava riscontrata e dichiarata l’insussistenza di valide pattuizioni degli interessi ultralegali, il richiamo all’uso piazza nei contratti anteriori alla normativa sulla trasparenza bancaria essendo nulla per sua assoluta indeterminatezza, stante la diversa tipologia di tassi ricorrenti sul mercato (Cass. n. 4490/02; 9465/00; 7871/98). Corte d’Appello di Roma, Sez. I. Cons. dott. Roberto CIMORELLI-BELFIORE, Sent. n. 7666 del 15 dicembre 2014

La nullità del contratto bancario amorfo opera a vantaggio del cliente. Perciò, il giudice non può rilevarla per applicare in danno del cliente un limite probatorio previsto per il solo caso dei contratti formali. La prova, da parte del cliente, dell’esistenza del contratto amorfo è libera, sì che lo stesso può utilmente giovarsi delle risultanze degli scalari (nella specie, la banca pretendeva di applicare a un rapporto di apertura di credito, nullo per mancato rispetto della forma scritta ma risultante dagli scalari, un tasso stabilito per lo scoperto di conto). Tribunale Torino 31 ottobre 2014 – Est. Astuni.

E’ certamente patologico ed oltremodo sospetto il ragionamento di alcuni Tribunali di primo grado che fanno ricadere sul correntista il mancato assolvimento dell’onere della prova per non aver lo stesso prodotto il contratto che ha dato origine al rapporto oggetto di lite, cosicché tutto ciò che è stato arbitrariamente appostato dalla banca nel conto corrente non è ripetibile in quanto non è stato dimostrato l’applicazione delle condizioni contrattuali lamentate dall’utente.

Purtroppo, sempre più, nel nostro paese, la giurisprudenza oltremodo ondivaga fa sì che al principio “la legge è uguale per tutti”, si sostituisca l’altro “paese che vai giurisprudenza che trovi”: è compito della Corte di Cassazione, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, e della sezione disciplinare del CSM, garantire l’uniformità dell’applicazione del diritto e della legge. [/thrive_lead_lock]

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