Il maleficio del filtro in appello

Alberto Tedoldi, Il maleficio del filtro in appello, in Riv. Dir. Proc., 2015, 3, 751

Il maleficio del filtro in appello

V’era da attenderselo ed era stato ampiamente previsto da tutti i commentatori: il cosiddetto filtro in appello, cioè l’intricato e inutile congegno introdotto nel 2012 con gli artt. 348 bis e ter c.p.c. mediante decretazione d’urgenza (d.l. n. 83/2012, conv. con modif. nella l. n. 134/2012), miete copiose vittime sull’altare di un’efficienza tanto malintesa quanto grave, se solo per un istante si voglia scrutarne al fondo portata e significato effettivi. Di questo esito le quattro ordinanze nn. 8940 ss./2014 della Cassazione costituiscono estremo frutto dell’albero avvelenato: esse infatti, negando in qualsiasi ipotesi l’impugnabilità dell’ordinanza-filtro in appello, anche quando sia stata adottata al di fuori dei limiti applicativi segnati dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. ovvero incorrendo in gravi violazioni procedurali, lesive del diritto di difesa, legittimano il giudice d’appello a disapplicare e violare le regole dettate dal conditor e, in ultima analisi, cancellano il secondo grado di giudizio, che sarà anche sprovvisto di copertura costituzionale, ma che il legislatore ordinario ha ritenuto di mantenere e conservare negli artt. 339 ss. c.p.c., sia pure restringendolo a dismisura e ulteriormente accingendosi a ridurlo a un nonnulla per terminare l’opera demolitiva. Questa è la grave conseguenza che si ha negando ogni forma di censura dell’ordinanza-filtro in appello, anche quando sia stata emessa al di fuori dei presupposti applicativi o commettendo violazioni procedurali lesive del diritto di difesa: si dice al giudice di appello di decidere come gli pare e piace, onde «smaltire» con rapido tratto l’immane quantità di fascicoli, dacché il suo operato, quantomeno in sede di impugnazione (salvo appendici con azioni disciplinari o di responsabilità civile, per lo più vane e tardive, ove mai esercitate e realmente istruite), andrà esente da qualunque forma di controllo e di sanzione in via di annullamento, essendoci già il ricorso per saltum avverso la sentenza di primo grado. Il maleficio è così compiuto e il filtro magico, archetipo d’ogni mito o favola che si rispetti, ha compiuto la sua opera e prodotto i suoi effetti: cancellare e condannare all’oblio qualsiasi regola, per colmare la distanza che separa il desiderio e la pulsione soggettiva dalla realtà fenomenica.

Sommario: 1. In memoria del processo civile. – 2. Filtri su filtri e, dopo i filtri, il nulla. – 3. Fruits of the poisoned tree: superamento e inutilità delle regole processuali. – 4. Fallacia semantica e logica in talune letture giurisprudenziali. – 5. L’autonoma impugnabilità del capo di condanna alle spese, quando si denuncino violazioni proprie di questo. – 6. Qualche istruzione per l’uso (si possibile est). – 7.Nonsense e “non ragionevole probabilità di accoglimento”. – 8. La scomparsa della ricostruzione del fatto. – 9. “Doppia conforme” e “fascino discreto dell’insindacabilità”. – 10. Philtrum delendum est.

1. – V’era da attenderselo ed era stato ampiamente previsto da tutti i commentatori: il cosiddetto filtro in appello, cioè l’intricato e inutile congegno introdotto nel 2012 con gli artt. 348 bis e ter c.p.c. mediante decretazione d’urgenza (d.l. n. 83/2012, conv. con modif. nella l. n. 134/2012), miete copiose vittime sull’altare di un’efficienza tanto malintesa quanto grave, se solo per un istante si voglia scrutarne al fondo portata e significato effettivi(1).

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Vittima sacrificale e capro espiatorio non è soltanto la certezza delle regole processuali, ma l’essenza stessa del patto sociale tra comunità dei concives e apparato dello Stato: la quale comunità, accantonata da tempo ogni fiducia nel legislatore e nella pubblica amministrazione, ancora tentava di trovare riparo sotto il tetto della giurisdizione e del “giusto processo” regolato dalla legge, dinanzi a giudice terzo e imparziale e alla sola legge soggetto, attraverso l’inalienabile diritto alla tutela giurisdizionale delle situazioni sostanziali, il cui motivato esercizio va sempre soggetto a controllo in sede di legittimità, come recitano ancor oggi ben note norme costituzionali, invocate e declamate in misura inversamente proporzionale alla loro applicazione effettiva nel vissuto quotidiano d’ogni concreta e singola controversia, cui il sistema giudiziario dovrebbe fornire tempestiva e accurata risposta, se non si voglia far regredire la società al metodo della ragion fattasi.

Sennonché, rivolgere oggi agli organi statuali domanda di giustizia e, ancor più, valersi dei mezzi di impugnazione per riparare a errori giudiziarii è peccato mortale e oltraggio alle corti, che va frenato ab ovo(con aumento o raddoppio dei contributi unificati e anticipi di imposte di registro, ai sensi del T.U. sulle spese di giustizia, d.P.R. n. 115/2002) e severamente punito con sanzioni processuali di inammissibilità, proprie o improprie poco importa (quali sono l’infondatezza ictu oculi dell’appello o del ricorso per cassazione, a mente dei rispettivi filtri ex artt. 348 bis e 360 bis c.p.c.), improcedibilità per effetto di sovrabbondanti trappole e formalismi procedurali e, last but not least, sanzioni pecuniarie comminate in varia, sempre discrezionale, misura quando l’impugnazione o anche soltanto l’inibitoria vengano dichiarate inammissibili o rigettate (artt. 283, u.c., e 96, c. 3, c.p.c. ed ex art. 13, c. 1 quater, T.U. spese di giustizia, d.P.R. n. 115/2002).

Così facendo, però, non si radono al suolo soltanto le macerie che ormai restano del processo civile dopo l’insistito, incessante e recidivo “vandalismo” dei conditores(2), ma si negano definitivamente i diritti sostanziali ai quali il processo dovrebbe servire, facendo parlare di sé il meno possibile grazie a forme semplici, rapide e poco costose, che fissano con discrezione e riservatezza l’ordo quaestionum ac probationum, onde fornire il più possibile pronta e appropriata risposta ai bisogni di tutela.

Dum Romae consulitur Saguntum expugnatum est: è stato ormai scavato un fossato, anzi un abisso incolmabile, attorno ai sacri palazzi della giustizia, che insuperabilmente separa gli assai gravi problemi che affliggono la convivenza civile nel nostro tempo postmoderno dai ministri del diritto, che pure tali problemi sono chiamati, per quanto possibile, a risolvere con il loro quotidiano servizio. Come nella celebre parabola kafkiana sul guardiano della Legge(3), la porta del giudizio d’appello si schiude appena per chi ad essa abbia l’ardire di bussare e subito si richiude quando l’impugnazione non abbia “una ragionevole probabilità di essere accolta”, a una semplice lettura dei secondi giudici, i potenti guardiani della seconda porta (ammesso e non concesso che la prima sia stata realmente varcata, ché troppo spesso il giudizio di prime cure non si è mai realmente né tempestivamente svolto: infatti, l’uomo nel racconto kafkiano invecchia e muore senza neppure aver varcato la prima delle porte della Legge)(4).

Si è stabilita, oggidì, una contrapposizione netta tra comunità e Stato-apparato, in tutte le sue manifestazioni esteriori (legislativa, esecutiva e giudiziaria), secondo la dicotomia amico-nemico di schmittiana memoria(5). È un gioco a somma zero, in cui tutti sono destinati a perdere (lose-lose situation la chiamano i teorici degli ADR): i litiganti che si vedono denegare giustizia; lo Stato che perde per sempre l’elemento essenziale sul quale si regge, il kat-echon (per dirla sempre con Carl Schmitt) che lo giustifica e ne costituisce la pietra angolare(6): la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, in grazia dell’auctoritasche dovrebbe connotarle e che non può risolversi in mero esercizio di un potere, di un imperium distante dai bisogni della communitas e rinchiuso entro una turris eburnea di incomprensibili norme e insondabili vaticinii.

2. – Recuperare oggi il tempo perduto pare impresa impossibile, se non facendo tabula rasa di quanto è avvenuto nell’ultimo torno di tempo, con riforme tutte univocamente protese a rendere difficile, se non addirittura a impedire la tutela giurisdizionale dei diritti, attraverso inutili formalismi, che hanno favorito viepiù il diffondersi di una deleteria cultura delle preclusioni e delle decadenze(7).

Una pedagogia contagiosa, che non cessa di allignare anche negli ulteriori interventi programmati da inesausto conditor per il processo civile, mediante lo “schema di disegno di legge delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, presentato nei primi mesi del 2015, la cui insistita impostazione nel segno di sempre nuove restrizioni di accesso alle tutele e alle impugnazioni s’accompagna e fa il paio con la vaghezza di molti dei principii ai quali dovrebbe attenersi il legislatore delegato, cioè il Governo medesimo, nel riscrivere per l’ennesima volta molte regole procedurali, specialmente in materia di impugnazioni.

Pare, tuttavia, che al filtro in appello venga data “illacrimata sepoltura” in breve volger di tempo, mercé “riaffermazione, in sede di appello, dei principi del giusto processo e di leale collaborazione tra i soggetti processuali, anche attraverso la soppressione della previsione di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento” (art. 1, c. 2, n. 2.d, d.d.l. delega cit.): come a dire, con dichiarazione che s’appalesa alfine pienamente confessoria, che il filtro in appello di cui agli artt. 348 bis e ter c.p.c. è in contrasto con i sommi principii del “giusto processo”, tanto da doversene prevedere l’immediata abrogazione, così come avvenne per i quesiti in Cassazione di cui all’abrogato art. 366 bis c.p.c., che ebbe vigore per un solo triennio, tra il 2006 e il 2009, e che “lutti infiniti” addusse ai ricorsi, grazie a interpretazioni della Suprema Corte oltremodo formalistiche(8).

Se questo, dunque, sarà a breve il destino del filtro in appello, è probabile che le Sezioni unite siano chiamate a comporre un contrasto che, per nichilistica tendenza giuridica (e non solo) del nostro tempo onde le norme dal nulla provengono e nel nulla sempre più rapidamente ritornano(9), non avrà più neppure ragion d’essere.

Per paradosso il contrasto nasce da contrapposte ordinanze di due sottosezioni della c.d. sezione filtro della Suprema Corte, la VI civile, nata e pensata per accelerare lo scrutinio dei ricorsi per cassazione attraverso sommarie disamine di manifesta infondatezza o anche, ma assai raramente, di manifesta fondatezza, in applicazione del filtro di cui all’art. 360 bis c.p.c. e con procedura semplificata camerale (che poi tanto semplificata non è, a leggere l’art. 380 bis c.p.c.), in luogo della discussione in pubblica udienza, ormai peraltro ridottasi a vuoto simulacro per debordante numero di ricorsi trattati in ognuna di tali udienze.

Filtri su filtri, filtri al quadrato insomma: su ordinanze-filtro emesse dalle corti territoriali ex art. 348 ter c.p.c. la Cassazione pronuncia a propria volta ordinanze-filtro ex art. 380 bis c.p.c., rigettando per manifesta infondatezza (così la tetralogia di ordinanze nn. 8940 ss./2014) o accogliendo per manifesta fondatezza (così l’ordinanza n. 7273/2014) i ricorsi, a ulteriore dimostrazione della costante tendenza, acceleratasi viepiù negli ultimi anni, al sopravvento di forme processuali sempre più rapide e snelle, con aumento esponenziale e incontrollato della discrezionalità del giudice anche sul modus procedendi, sebbene poi la lunghezza delle pronunce della Cassazione, che assumono dimensioni monografiche se non di autentici trattati, anche attraverso l’uso frequente di obiter dicta, contrasti con la prescritta sommarietà della cognitio, a riprova di come questa, legata com’è all’attitudine intrinseca d’ogni singolo giudicante, ben poco possa essere condizionata ab extra dalle forme procedurali adottate, più o meno liofilizzate che siano(10).

Soltanto un vigile e sorvegliato utilizzo di strumenti impugnatorii, che consentano di controllare la logica del giudice caso per caso nel suo concreto e specifico esercizio, può fungere da freno all’arbitrio: un tal freno il legislatore ha inteso abolire del tutto, riscrivendo, ma in realtà cancellando (non solo in ipotesi di “doppia conforme”, ai sensi degli ultimi commi dell’art. 348 ter c.p.c.), il controllo sulla motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.: e ben poco ha impiegato la Suprema Corte a rendere praticamente impossibile un tale controllo, favorendo così, nel segno di Epimeteo(11), il più completo arbitrium iudicis nella ricostruzione dei fatti(12).

Tanto varrebbe abolire del tutto le impugnazioni civili e, perché no, le norme processuali, lasciando il giudice libero di fare quel che meglio ritiene, con il solo obbligo di osservare i declamati principii del giusto processo, che ognuno intende a proprio modo: ed infatti, in tale direzione par muoversi l’art. 360 bis, n. 2, c.p.c., con l’annesso criterio della “nullità innocua” di cui la Suprema Corte fa uso sempre più diffuso, non foss’altro che per evitare annullamenti a distanza di decenni dall’inizio del processo e dal prodursi della violazione procedurale, questa essendo l’ascosa ragione della ossimorica formula della “nullità innocua”(13).

3. – Di questo esito le quattro ordinanze nn. 8940 ss./2014 della Cassazione costituiscono estremo frutto dell’albero avvelenato: esse infatti, negando in qualsiasi ipotesi l’impugnabilità dell’ordinanza-filtro in appello, anche quando sia stata adottata al di fuori dei limiti applicativi segnati dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. ovvero incorrendo in gravi violazioni procedurali, lesive del diritto di difesa, legittimano il giudice d’appello a disapplicare e violare le regole dettate dal conditor (che saranno anche mal scritte e illogiche, ma che hanno pur sempre forza di legge, finché non vengano abolite o la Consulta non le dichiari costituzionalmente illegittime) e, in ultima analisi, cancellano il secondo grado di giudizio, che sarà anche sprovvisto di copertura costituzionale(14), ma che il legislatore ordinario ha ritenuto di mantenere e conservare negli artt. 339 ss. c.p.c., sia pure restringendolo a dismisura(15) e ulteriormente accingendosi a ridurlo a un nonnulla per terminare l’opera demolitiva(16).

Questa è la grave conseguenza che si ha negando ogni forma di censura dell’ordinanza-filtro in appello, anche quando sia stata emessa al di fuori dei presupposti applicativi o commettendo violazioni procedurali lesive del diritto di difesa: si dice al giudice di appello di decidere come gli pare e piace, onde “smaltire” con rapido tratto l’immane quantità di fascicoli, dacché il suo operato, quantomeno in sede di impugnazione (salvo appendici con azioni disciplinari o di responsabilità civile, per lo più vane e tardive, ove mai esercitate e realmente istruite), andrà esente da qualunque forma di controllo e di sanzione in via di annullamento, essendoci già il ricorso per saltum avverso la sentenza di primo grado (o, a questa stregua, anche avverso l’ordinanza sommaria impugnata ex art. 702 quater c.p.c., visto che, exempli gratia, la violazione della regola di esclusione dettata nella lett. b dell’art. 348 bis, comma 2°, c.p.c., che esenta l’ordinanza sommaria dalla ghigliottina del filtro, non sarebbe autonomamente denunciabile in Cassazione né ivi sanzionabile). Si pensi al caso, non certo di scuola, dell’ordinanza-filtro che dichiari “inammissibile” l’appello perché contrario a precedenti arrêts della stessa corte territoriale, neppure indicati(17); o alla motivazione apodittica (“l’appello è inammissibile ex art. 348 bis c.p.c. perché non ha una ragionevole probabilità di accoglimento”; oppure – è accaduto anche questo – “l’appello è inammissibile ex art. 348 bis c.p.c. per le ragioni di cui al dispositivo”).

Il maleficio è così compiuto e il filtro magico, archetipo d’ogni mito o favola che si rispetti(18), ha compiuto la sua opera e prodotto i suoi effetti: cancellare e condannare all’oblio qualsiasi regola, per colmare la distanza che separa il desiderio e la pulsione soggettiva dalla realtà fenomenica(19). Si pensa con il filtro di risolvere taumaturgicamente i problemi della giustizia e delle corti d’appello fingendo di non avvedersi che questi dipendono, anzitutto, da insufficienti risorse e dalla endemica disorganizzazione degli uffici giudiziarii, di qualunque livello essi siano e in qualunque campo essi operino, dove operosità e buona volontà di moltissimi singoli nulla possono per modificare un sistema elefantiaco e tetragono a ogni cambiamento, che aspiri realmente a venire incontro ai bisogni dei cittadini, rendendo loro i servigi per i quali l’apparato giudiziario esiste e dovrebbe prestare la sua opera.

4. – Le ordinanze nn. 8940 ss./2014, nel tentativo di ampliare il più possibile la portata applicativa del filtro in appello, da usare come possente ventilabro per separare con un sol gesto il grano dal loglio, forzano palesemente l’incipit dell’art. 348 bis c.p.c.(20), riferendolo non già alle ipotesi (proprie) di inammissibilità e improcedibilità, da dichiarare sempre con sentenza, bensì all’evenienza in cui il giudice d’appello, erroneamente omettendo l’applicazione del filtro sin dall’introibo della prima udienza, abbia dato corso alla trattazione e alla fase decisoria, seguendo il consueto schema procedurale che si chiude con sentenza a seguito di trattazione scritta o mista ex art. 352 c.p.c. o di discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c. (una discussione più apparente che reale, per diffusa prassi avallata dalla Suprema Corte(21)).

In via di stretta esegesi è agevole obiettare a tale lettura che il legislatore, se avesse inteso esentare dall’applicazione del filtro tutte le ipotesi di prosecuzione del giudizio di appello in via ordinaria per error in procedendo commesso dal giudice di seconde cure nel disapplicare il filtro in prima udienza, avrebbe semplicemente scritto “fuori dei casi in cui il giudice abbia proseguito il giudizio per emettere sentenza”, anziché scrivere a chiare lettere “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello”, evidentemente e intrinsecamente diverse dall’inammissibilità spuria di cui all’art. 348 bis c.p.c., che integra un caso di manifesta infondatezza, al pari dell’inammissibilità sancita dall’art. 360 bis c.p.c. per il filtro in Cassazione, come la Suprema Corte a sezioni unite ebbe modo di sancire illico et immediate(22).

Ed è parimenti agevole svelare il fallace utilizzo del principio fissato da Cass., Sez. un., n. 11026/2003 sul quale le suddette ordinanze nn. 8940 ss./2014 basano gran parte del proprio ragionamento, cadendo in un evidente paralogismo, quando sostengono che “ciò che è definito dall’ordinanza-filtro è solo il diritto processuale, cioè la modalità di svolgimento dell’azione in giudizio, quanto ai presupposti della pronuncia ai sensi dell’art. 348 ter. Viceversa, la definitività richiesta per il ricorso straordinario [per cassazione] è quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, per cui, se essa è ridiscutibile e lo è tramite il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, non si tratta di definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario”.

La premessa maggiore del ragionamento doveva essere diametralmente opposta, dacché Cass., Sez. un., n. 11026/2003 si è limitata a escludere il ricorso straordinario per cassazione avverso provvedimenti di volontaria giurisdizione, anche quando si lamenti la violazione di fondamentali diritti processuali delle parti, esclusivamente in ragione del regime di libera modificabilità e revocabilità di tali provvedimenti, a prescindere dalla natura dell’error iuris denunciato: un regime che ne esclude a priori il carattere decisorio e definitivo e che non può subire metamorfosi neppure quando il ricorrente denunci di aver patito una lesione del diritto processuale di azione o di difesa, costituzionalmente tutelato(23).

Nelle ordinanze nn. 8940 ss./2014 si fa dire invece alle Sezioni unite che la violazione delle norme processuali non è mai denunciabile mediante ricorso straordinario, non importando il quomodo della tutela, ma solo il suo contenuto decisorio sulla situazione soggettiva, con palese inversione concettuale: se il provvedimento è qualificabile come sentenza in senso sostanziale, secondo consolidata interpretazione che le Sezioni unite danno all’art. 111, 7° comma, Cost. sin dal 1953, perché pregiudica i diritti e non è altrimenti impugnabile né modificabile né revocabile, la violazione di legge denunciabile in Cassazione può essere processuale non meno che sostanziale, risultando altrimenti svuotata una parte fondamentale del contenuto della norma costituzionale, che vuol sottoposta a sindacato in sede di legittimità qualsiasi violazione di legge, tanto più grave quando sia stata commessa nell’esercizio del potere statuale di ius dicere, che “si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.

Perciò, l’ordinanza-filtro in appello ha attitudine decisoria e definitiva sul diritto sostanziale controverso, proprio perché è idonea a pregiudicarlo ed è dichiarata dall’art. 348 ter c.p.c. non impugnabile, dacché le doglianze vanno rivolte contro la sentenza di primo grado entro sessanta giorni dalla comunicazione telematica dell’ordinanza, pena la formazione del giudicato(24): quando l’ordinanza-filtro sia errata nel contenuto, il regime di impugnabilità in Cassazione per saltum della sentenza di primo grado soddisfa appieno le esigenze di tutela della parte soccombente; quando sia affetta da vizii proprii per violazione di norme sui presupposti applicativi o sul quomodo procedendi adottato dal giudice di seconde cure, la nullità del provvedimento per error in procedendo potrà essere autonomamente ed ex se denunciata in Cassazione ex art. 360, n. 4, c.p.c., esattamente come ha ritenuto Cass. n. 7273/2014, che invece le successive ordinanze nn. 8940 ss./2014 hanno inteso contraddire, per sottrarre l’ordinanza-filtro ex art. 348ter c.p.c. a ogni sorta di censura per difetti processuali. Come si legge in Cass. n.7273/2014(25), l’ordinanza-filtro ha carattere decisorio e, dunque, possiede uno dei requisiti di accesso al ricorso straordinario, “non perché incide sul diritto processuale all’impugnazione, ma perché è emessa in un giudizio, quello di appello, che verte, al pari di quello di primo grado, su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità”.

Se poi all’ordinanza-filtro in appello possa attribuirsi sostanza di sentenza, quando sia emessa al di fuori del proprio ambito applicativo, è questione che pare essenzialmente classificatoria(26): in tal caso si dovrebbe, infatti, concludere per l’ammissibilità del ricorso ordinario, anziché straordinario, in Cassazione(27): gli è che l’area di operatività di quest’ultimo è ormai equiparata a quella del ricorso ordinario grazie al 4° comma dell’art. 360 c.p.c., che rende applicabili anche al ricorso straordinario tutti i motivi di cui al 1° comma nella loro interezza (oggi, peraltro, privato del vizio logico di motivazione, in conseguenza della riscrittura del n. 5, ridotto a un nonnulla nell’interpretazione ultrarestrittiva immediatamente offerta dalle Sezioni unite(28)).

5. – Anche il capo di condanna alle spese contenuto nell’ordinanza-filtro non può passare indenne da censure che siano rivolte esclusivamente e direttamente contro di esso, ad esempio perché si lamenti la violazione delle regole e dei parametri stabiliti in materia di compensi per attività giudiziale civile (attualmente disciplinati dal d.m. 55/2014). Il carattere decisorio e definitivo di tale capo di condanna è fuori discussione, donde l’impugnabilità dello stesso, quando sia afflitto da violazioni di legge sue proprie, mediante ricorso straordinario per cassazione ex artt. 111, 7° comma, Cost. e 360, 4° comma, c.p.c.

Sennonché le ordinanze nn. 8940 ss./2014, perseverando nel trasparente intento deflattivo di ridurre il più possibile le ipotesi di accesso a oberatissima Suprema Corte, virano decisamente nel senso di qualificare l’ordinanza-filtro come provvedimento sommario e “paracautelare”, il cui capo di condanna alle spese rimarrebbe liberamente contestabile in ogni tempo mediante opposizione all’esecuzione exart. 615 c.p.c., come stabilito dalla stessa Suprema Corte in altro arrêt(29).

Anche in tal caso, però, si assiste a un paralogismo, che prende le mosse da una premessa fallace e che parifica quoad effectum un titolo esecutivo giudiziale suscettibile di giudicato, qual è la condanna alle spese contenuta nell’ordinanza-filtro, a un titolo esecutivo costituito da ordinanza di rigetto di istanza cautelare, non suscettibile di trascorrere in rem iudicatam. Il paralogismo si traduce in finzione, che accosta istituti ben diversi e distinti tra loro: la Suprema Corte, nel precedente invocato dalle ordinanze nn. 8940 ss./2014 (Cass. n. 11370/2011), si era limitata a dichiarare inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso provvedimento cautelare anticipatorio emesso ante causam, proprio in ragione della natura cautelare del provvedimento e della possibilità per il soccombente di contestare le statuizioni in esso contenute (ivi inclusa la pronuncia sulle spese per difetti proprii di questa) nel successivo ed eventuale giudizio di merito, proponibile anche nelle forme dell’opposizione all’esecuzione exart. 615 c.p.c., stante il regime di provvisorietà attenuata anche del provvedimento cautelare anticipatorio e la sua inidoneità al giudicato, quali sancite dagli ultimi commi dell’art. 669 octies c.p.c.(30).

Nell’ordinanza-filtro ex artt. 348 bis s. c.p.c. l’attitudine del provvedimento a determinare la formazione del giudicato qualora non venga interposto tempestivo ricorso per cassazione impedisce di annoverarlo tra i provvedimenti cautelari e, ancor meno, di ridurre gli effetti della pronuncia sulle spese a quelli di un titolo esecutivo liberamente contestabile mediante opposizione all’esecuzione: o si impugna tempestivamente la statuizione sulle spese mediante ricorso (straordinario) per cassazione o il susseguente giudicato impedisce in apicibus di rimetterla in discussione mediante opposizione all’esecuzione.

6. – Riassumendo(31): l’art. 348 bis c.p.c. esclude che possa farsi applicazione dell’ordinanza-filtro quando il giudice di seconde cure debba dichiarare l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello con sentenza per difetti genetici dell’impugnazione o per inosservanze procedurali.

In base all’ordine logico delle questioni, il secondo giudice dovrà esaminare:

la validità dell’atto di appello, sotto il profilo dei requisiti intrinseci della citazione (o del ricorso), del rispetto del termine a difesa e della regolarità della notificazione;

l’ammissibilità dell’appello sotto il profilo della sua tempestività (o dell’eventuale acquiescenza dell’appellante), dei presupposti dell’appello (legittimazione e interesse a impugnare), dell’osservanza dell’onere di specifica motivazione quale prescritta dal novellato art. 342 c.p.c. (o dall’art. 434 c.p.c. per il rito del lavoro), e via dicendo: di tutto ciò, insomma, che condiziona geneticamente il venire in essere di un appello esaminabile;

l’integrità del contraddittorio in cause inscindibili o tra loro dipendenti ex art. 331 c.p.c., dovendo in mancanza emettere ordine di integrazione, il cui tempestivo adempimento condiziona l’ammissibilità dell’appello(32);

l’improcedibilità dell’appello per tardiva costituzione dell’appellante o per mancata comparizione in prima e in seconda udienza ex art. 348 c.p.c., per mancato deposito del fascicolo di parte o di copia della sentenza impugnata ex art. 347 c.p.c.: questa, anzi, è verifica da compiere prima di ogni altra, attenendo tout court a profili schiettamente procedurali dell’impugnazione e, così, assai più “liquidi” degli altri;

l’intervenuta proposizione di appelli incidentali, vagliandone la tempestività ex art. 343 (o 436) c.p.c., l’osservanza dei requisiti di forma e contenuto ex art. 342 (o 434) c.p.c., la natura tardiva o meno ex art. 334 c.p.c.

Non costituisce, invece, condizione pregiudiziale di applicazione del filtro l’omessa notifica dell’appello ai litisconsorti in cause scindibili ex art. 332 c.p.c.(33); qui, infatti, non vi sono ragioni di inammissibilità o d’improcedibilità del gravame: pertanto, quando l’appello appaia manifestamente infondato, non occorre disporre l’appellationis denuntiatio ex art. 332 c.p.c. alle parti in cause scindibili, nei cui confronti non siasi ancora formato il giudicato. Queste, se vorranno impugnare la sentenza, potranno farlo autonomamente con separato appello, senza che ciò sia d’ostacolo all’emissione dell’ordinanza-filtro(34).

L’inammissibilità dell’appello per difetti genetici o che comunque ne impediscano la delibazione anche soltanto sommaria ovvero l’improcedibilità vanno dichiarate con sentenza, non con l’ordinanza-filtro. Così anche l’inammissibilità per difetto di specifica motivazione ex art. 342 c.p.c.(35): assai labile è, tuttavia, il confine che separa un appello non bastevolmente motivato a norma del nuovo art. 342 c.p.c. da un appello privo di “una ragionevole probabilità di accoglimento”, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., con il rischio che il giudice di appello viri discrezionalmente verso un’ordinanza-filtro, innescando il solo ricorso per saltum ex art. 348 ter c.p.c.

Viceversa, se il giudice di appello ritiene che l’atto di appello non risponda alle prescrizioni di forma-contenuto imposte dall’art. 342 c.p.c. (o, per il rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c.):

deve dichiarare l’inammissibilità con sentenza, non con l’ordinanza-filtro ex art. 348 ter c.p.c.;

la sentenza d’inammissibilità dell’appello per difetto di specifici motivi sarà impugnabile con ricorso per cassazione, denunciando un error in iudicando de iure procedendi, segnatamente la violazione dell’art. 342 c.p.c.; la Cassazione sarà qui, come prima, giudice anche del fatto processuale, potrà cioè esaminare direttamente l’atto d’appello ritenuto non rispondente alle prescrizioni di forma-contenuto di cui al nuovo art. 342 c.p.c. e, come tale, non delibabile nel merito, neppure sul piano della “ragionevole probabilità” di cui discorre il nuovo art. 348 bis c.p.c.;

in caso di cassazione della sentenza (od anche dell’ordinanza-filtro, erroneamente emessa in luogo della sentenza(36)), ove non siano necessarii ulteriori accertamenti di fatto, la Suprema Corte potrà anche emettere direttamente una pronuncia sostitutiva di merito ex art. 384, 2° comma, c.p.c.: ciò che, invece, non dovrebbe poter avvenire nel caso di ricorso per saltum a seguito di ordinanza-filtro, visto che l’art. 383 u.c., qual novellato nel 2012, pare imporre sempre il rinvio(37), sempre che l’ordinanza-filtro sia stata applicata entro i limiti e in base ai presupposti suoi proprii.

7. – È il tenore stesso dell’art. 348 bis c.p.c. a confutare sé stesso, e la rubrica a un tempo, cadendo nella più classica “contradizion che nol consente”: nella prima frase si eccettuano dall’ambito di applicazione dell’ordinanza-filtro i casi di inammissibilità da pronunciare con sentenza e subito appresso, nel seguito sintattico della norma, si definisce lessicalmente inammissibile l’impugnazione (come nella rubrica si parla di “inammissibilità dell’appello”), quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta(38).

Un conto, però, sono i vizii genetici o che comunque condizionano la decidibilità dell’appello nel merito per una delle quaestiones appellationis ingressum impedientes ricordate, ad exempla, nel precedente paragrafo; altro conto è la valutazione, sommaria e delibatoria o prima facie finché si vuole, ma che pur sempre attinge al contenuto, sull’assenza d’una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello (hopeless, direbbero gli inglesi o, se si preferisce attingere alla terminologia medica, a “prognosi infausta”(39)).

La definizione semantica del sintagma “una ragionevole probabilità” risulta impossibile e, probabilmente, non sensical. Non vi sono criterii razionali (né di logica formale né, tantomeno, quantitativa) per definire un concetto intrinsecamente contraddittorio, che accosta impropriamente due termini che logica ed epistemologia hanno cura di tenere ben distinti: il ragionevole o (il che, entro la quaestio facti, semanticamente è lo stesso) il verosimile non ha statuto di verità, consistendo nella mera plausibilità ipotetica di una proposizione descrittiva di un fatto, che la parte assume come accaduto e che intende provare in giudizio; probabile è la corretta declinazione epistemologica del vero, nel senso di ciò che risulta dimostrato dalle prove acquisite in istruttoria, secondo canoni probabilistici e un grado di convincimento difficilmente quantificabile e razionalizzabile a priori(40).

Né miglior partito si trae da formule stereotipe, come quella americaneggiante dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio” (beyond any reasonable doubt) – che s’usa nella ricostruzione del nesso eziologico in sede penale – o, ancor meno, quella civilistica del “più probabile che non”(41): sono formule vaghe e prive di contenuto, che servono soltanto a conferire un’etichetta postuma ai ragionamenti inferenziali proprii del giudizio di fatto, inevitabilmente affidati al prudente apprezzamento giudiciale, che deve razionalmente giustificare le conclusioni cui perviene alla stregua dell’intero materiale istruttorio acquisito.

Se proprio si deve far aggio su una di queste formule nel campo del filtro in appello, quella penalistica pare assai più affine e meno inappropriata di quella civilistica, priva (a ben guardare) di senso compiuto: l’assenza d’una ragionevole probabilità di accoglimento significa, letteralmente, che ad una semplice lettura della sentenza impugnata e dell’atto d’appello – debitamente strutturato secondo i canoni di cui al nuovo art. 342 c.p.c. e, dunque, completo di precisa e chirurgica pars destruens dei passaggi logici e giuridici della sentenza impugnata e della pars construens con cui l’appellante proponga al giudice di appello una diversa pronuncia in fatto o in diritto, con puntuale indicazione delle fonti di prova poste a base della reformatio richiesta al secondo giudice e finanche, secondo criticabile indirizzo basato su una “doppia conforme” delle Sezioni Unite, con l’onere di provare la fondatezza dei motivi di censura, anche se in primo grado l’onus probandi non gravava sull’appellante secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c.(42) – questo appaia manifestamente (cioè ictu oculi) infondato, senza neppure la necessità di esaminare il fascicolo di causa(43).

Allorché vi sia anche un solo ragionevole dubbio che le specifiche doglianze dell’appellante abbiano un qualche fondamento e quando, proprio per questo, il giudice d’appello ravvisi la necessità di approfondire, anche solo un poco, i motivi addotti con l’atto di appello, esaminando il fascicolo e rivalutando le prove acquisite o, a maggior ragione, rinnovandole o assumendone (eccezionalmente) altre, l’ordinanza-filtro non potrà essere emessa, ma si dovrà dar corso alla trattazione, per approdare quanto meno a una sentenza contestuale ex art. 281 sexies c.p.c. o, nei casi più complessi, alla sentenza secondo lo schema decisorio scritto (o, su istanza di parte, misto) di cui all’art. 352 c.p.c.(44).

Queste e solo queste paiono essere la funzione del filtro e la cognizione prima facie e meramente delibativa che gli artt. 348 bis ter c.p.c. richiedono, se si vuole differenziare un minimo l’ordinanza di manifesta infondatezza dalla sentenza contestuale ex art. 281 sexies che gli artt. 351, u.c., e 352, u.c., c.p.c. pur consentono in appello, secondo un modello più elastico e, nondimeno, più fedele all’efficacia normalmente sostitutiva del gravame, che resta di gran lunga preferibile rispetto all’“ircocervo” dell’ordinanza-filtro, dove si sancisce un’inammissibilità che tale intrinsecamente non è, declinandosi in termini di manifesta infondatezza, al pari del filtro in Cassazione di cui al n. 1 dell’art. 360 bis c.p.c., ben presto semanticamente e concettualmente corretto dalle Sezioni Unite in manifesta infondatezza, in luogo dell’inammissibilità anche in quel caso incongruamente dettata dal conditor(45).

Il parallelismo va interamente prodotto ad consequentias: come il filtro in Cassazione di cui al n. 1 dell’art. 360 bis c.p.c. costituisce ipotesi di manifesta infondatezza del ricorso, cioè di ricorso per cassazione che, ad una semplice lettura, non riesca minimamente a scalfire la sentenza impugnata, così il filtro in appello di cui all’art. 348 bis c.p.c. integra una fattispecie di manifesta infondatezza del gravame che, ad una semplice lettura dell’atto, raffrontato alla sentenza impugnata, non meriti il benché minimo approfondimento(46).

Non pare utile né produttivo discorrere di cognizione sommaria del giudice d’appello: qui, bene o male, un grado di giudizio s’è svolto e il giudice di appello dispone dell’intero materiale istruttorio acquisito in prime cure (beninteso, ove istruttoria vi sia stata, ché troppo spesso i giudici di prime cure, assillati dalla durata ragionevole del processo o da altra “sindrome della scrivania sgombra”, non esperiscono istruttoria veruna, pur protraendosi il giudizio per i canonici tre anni di cui ai parametri europei, fatti proprii dalla legge Pinto n. 89 del 2001 sul risarcimento del danno prodotto da un processo irragionevolmente lungo); i suoi compiti saranno anche solo di mera revisio prioris instantiae, cioè di semplice controllo sulla sussistenza o meno degli errori denunziati dall’appellante, ma resta vero che, sia pure attraverso questo circoscritto monocolo, il secondo giudice ha a disposizione l’intero materiale di causa o può comunque dar corso all’istruttoria omessa in primo grado, secondo i canoni della cognizione piena, ammesso e non concesso che questa possa ancora distinguersi dalla summaria cognitio(47).

Sicché, indugiare in simili distinzioni a nulla giova per la chiarezza delle idee e per la determinazione del quid faciendum in grado di appello, come dimostrano i varii arrêts in subiecta materia(48), che insistono nel qualificare come sommaria, perché superficiale, la cognizione del secondo giudice in sede di filtro appellatorio, ma subito dopo discorrono di cognizione prima facie e, nei fatti, gettano lo sguardo sul merito, risolvendosi per la manifesta infondatezza dell’appello in esito al suo esame delibativo, senza che sia dato comprendere fino a qual segno, qualitativamente parlando, si spinga la cognitio iudicis esercitata in concreto.

Pare dunque preferibile limitare il vaglio del secondo giudice, in sede di applicazione del filtro, alla lettura della sentenza impugnata e dell’atto di appello, da cui risulti possibile evincere ictu oculi che l’appello è completamente infondato, al di là anche di un solo ragionevole dubbio(49). Negli altri casi occorrerà dar corso alla trattazione e, all’esito, adottare il modulo decisorio della sentenza, abbreviata e contestuale, previa discussione orale nei casi semplici (art. 281 sexies c.p.c.), con scambio di conclusionali e repliche e discussione orale su duplice richiesta della parte nei casi complessi (art. 352 c.p.c.).

8. – Certo è che, in luogo di espedienti assai dubbii per concezione non meno che faticosi per costruzione normativa e sovranamente discrezionali per pratica applicazione, nonché di utilità scarsa se non nulla in presenza di moduli decisorii come la sentenza contestuale ex art. 281 sexies c.p.c., plasticamente adattabile a risolvere appelli ictu oculi infondati od anche manifestamente fondati, meglio avrebbe fatto e farebbe il legislatore a ripensare l’intera struttura del processo civile e dell’ordinamento giudiziario (a partire dal metodo di reclutamento dei giudici(50)), per restituire centralità istruttoria al primo grado, che oggi troppo spesso si chiude – per eccessivo carico di lavoro, insufficienza di dotazioni e strutture, mancanza di tempo o individuale pressapochismo – con ricostruzioni in fatto approssimative, se non addirittura posticce o appena abbozzate o finanche del tutto omesse, mai approfondite né chiarite, con una generale tendenza alla mera burocratizzazione del mestiere del giudice e alla sommarizzazione dellacognitio causae che del termine ha assunto, nella prassi applicativa, il senso deteriore di frettolosità e superficialità, contrarie non solo e non tanto alla plena cognitio, che dovrebbe costituire la cifra del “giusto processo regolato dalla legge” ex art. 111 Cost., ma alla pura e semplice necessità di dare concreta e tempestiva risposta ai bisogni di tutela, cercando davvero di comprendere come siano andate le cose, ché “la ricostruzione attenta e precisa del fatto è essenziale ed è molto più impervia e difficile della risoluzione delle questioni di diritto”(51).

Già altrove e a lungo abbiamo stigmatizzato la cultura delle preclusioni e l’ansia di malinteso “efficientismo preclusivo” che connota la giustizia (in)civile, cartacea, burocratica e disumana del nostro tempo(52), dove il processo si riduce a vuoto simulacro fine a sé stesso, in luogo di porsi al servizio delle situazioni giuridiche sostanziali che dovrebbe tutelare e proteggere in forme semplici, rapide e poco costose, giusta i principii chiovendiani (e, prima ancora, kleiniani(53)), ai quali ogni disciplina processuale dovrebbe informarsi.

Una ricostruzione attenta e fedele dei fatti deve essere al centro del processo, ch’è theatrum veritatis et iustitiae, non potendosi dar la seconda senza la (ricerca della) prima, né potendosi predicare una corretta applicazione delle norme giuridiche senza lo sforzo di comprendere appieno la fattispecie, in tutte le sue sfumature e al servizio di un’autentica giustizia del caso concreto, senza malintese ambizioni nomopoietiche o palingenetiche che al giudice della singola controversia non pertengono affatto né vengono punto richieste.

Conferire centralità al primo grado significa dare alle parti e al giudice, nel rispetto delle rispettive posizioni istituzionali e degli inerenti oneri, poteri e doveri, la possibilità di aspirare e di tendere a una ricostruzione completa e approfondita dei fatti controversi, semmai utilizzando quei poteri di direzione sostanziale del processo (la materielle Prozessleitung), che consentono al giudice tedesco di indicare apertamente alle parti le questioni da affrontare e da chiarire, stabilendo in un dialogo aperto con i difensori i modi e i tempi di gestione del processo, perché questo possa giungere al suo esito naturale: una pronuncia sul merito della situazione sostanziale controversa, dopo una trattazione e un’istruzione attenta su tutte le questioni rilevanti, di fatto non meno che di diritto(54). E significa, soprattutto, esigere che il primo giudice si occupi essenzialmente della fattispecie controversa, concentrando su questa i proprii sforzi, sine strepitu ac figura iudicii e nel costante dialogo con le parti, quale imposto dal principio di doverosa collaborazione nel processo (artt. 183, 4° comma, e 101, 2° comma, c.p.c.), per giungere alla decisione dopo un’istruzione accurata, rimosse (per quanto possibile) tutte le difficoltà, le invalidità, le incertezze e gli eventuali ostacoli, senza reticenze che riescono oggi null’altro che obsoleto frutto di un “giudice sfingeo”, geloso custode e depositario di un sapere esoterico, da svelare soltanto in sentenza, la quale suona alla fine, dopo innumerevoli anni, come soluzione di un enigma ferale, mai risolutivo del problema e del contrasto d’interessi(55).

Solo in tal modo e a queste condizioni, che passano necessariamente attraverso una riorganizzazione completa degli uffici giudiziarii con piglio manageriale, un ridimensionamento del carico di lavoro dei giudici e l’introduzione di adeguati ADR, sarebbe stato possibile e legittimo ripensare al sistema delle impugnazioni, riducendo a ipotesi eccezionali e di gravi errori le possibilità di revisione del giudizio di fatto in sede impugnatoria, quale sgorga da frettolose riforme di appello e ricorso per cassazione in un contesto totalmente inadatto ad accogliere limiti così severi e riduttivi, proprio perché il primo grado non è affatto, sul piano esperienziale, strumento di vera giustizia attraverso l’attenta e accurata ricostruzione dei fatti bensì, troppo spesso, di sbrigativa e burocratica gestione del fascicolo cartaceo (ed ora telematico), relegando il vissuto delle parti alla più totale e indifferente insignificanza.

Di qui l’irragionevolezza di scelte legislative e giurisprudenziali tutte improntate a far piazza pulita degli attuali strumenti impugnatorii, accentuando oneri e adempimenti formali a carico delle parti, azzerando ogni novum probatorio in appello, riducendo a dismisura i poteri cognitivi del secondo giudice e ampliandone la discrezionalità, ed anzi quasi blandendolo nel subconscio con il “fascino discreto dell’insindacabilità”(56) grazie alla “doppia conforme” sulla quaestio facti, ché il suo giudizio in fatto non potrà più essere censurato, come si legge negli ultimi due commi dell’art. 348 ter c.p.c., escludendo anche quel (poco o nulla) che resta del controllo in sede di legittimità, ai sensi del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che del pregresso vizio logico di motivazione denunciabile in Cassazione è versione totalmente ellittica e annichilente ogni possibilità di revisione indiretta di giudizii di fatto sommarii, superficiali, inesistenti o, talvolta, mai realmente esperiti e finanche infedeli negli esiti rispetto alle prove acquisite al processo.

Sarebbe bastato, semmai, riprodurre “mutatis mutandis” le lett. d) ed e) dell’art. 606 c.p.p., che espressamente consentono di impugnare in Cassazione una sentenza per “mancata assunzione di una prova decisiva” richiesta dalla parte o per vizio logico di motivazione, risultante dal testo della sentenza o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente.

9. – Gli ultimi due commi dell’art. 348 ter c.p.c. rendono impraticabile il motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., o quel poco che ne resta (“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”), quando l’ordinanza di “inammissibilità” ex art. 348 bis c.p.c. (od anche la sentenza sostitutiva in appello) siano fondate “sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”: talché il ricorso in Cassazione potrà proporsi soltanto per i motivi di cui ai numeri da 1 a 4 dell’art. 360 c.p.c. L’esclusione vale sia per l’ordinanza-filtro sia per la sentenza d’appello.

Vanno indenni da codesta tagliola della “doppia conforme” sulla quaestio facti (errare humanum est…), di vaga ispirazione canonistica(57), soltanto le cause nelle quali sia obbligatorio l’intervento del P.M. exart. 70, 1° co., non quelle d’appello contro ordinanze sommarie ex art. 702 quater c.p.c., pur esonerate dal filtro ex art. 348 bis, 2° comma n. 2, c.p.c. e, dunque, da decidere sempre con sentenza sostitutiva: sicché, ove la sentenza d’appello confermi in fatto, e per le stesse ragioni, l’ordinanza “sommaria” di prime cure (richiesta ab origine dall’attore ex art. 702 bis c.p.c. ovvero frutto di conversione ex officio a norma dell’art. 183 bis c.p.c.), il ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado sarà limitato ai motivi di cui ai nn. da 1 a 4 dell’art. 360 c.p.c.

A ben guardare, perdere la possibilità di ricorrere in Cassazione con quel poco che resta del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. è poca cosa, al cospetto di una riscrittura praticamente abrogans di tale ultima norma, nelle interpretazioni che hanno subito attecchito e messo radici presso la Suprema Corte, nell’attuale contesto processuale e ordinamentale che vede l’organo (sulla carta e in teoria) nomofilattico letteralmente sommerso di ricorsi ai quali non riesce a fornire tempestiva né esauriente risposta (onde “il salvagente della forma” continuerà a offrirle provvisorio e malsicuro riparo)(58).

Nondimeno, la coppia dei due ultimi commi dell’art. 348 ter c.p.c. costituisce il suggello di un istituto e di meccanismi assolutamente improvvisati e contraddittorii, oltre che lontani dal modello tedesco di riferimento. V’è, intanto, un’incongruenza testuale, genitrice d’un dilemma che non è agevole sciogliere: se il 4° co. dell’art. 348 ter c.p.c. richiede che l’ordinanza di “inammissibilità” sia “fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”, il 5° comma per la sentenza sostitutiva emessa in appello pare contentarsi della mera conferma della decisione impugnata. Non sembra, tuttavia, che la differenza testuale debba essere tenuta in gran conto, ché l’ultimo comma non fa che rinviare, in buona sostanza, al precedente e, dunque, ai medesimi requisiti di “doppia conformità” della soluzione sulla quaestio facti, cioè l’identità delle ragioni e non soltanto della conclusiva ricostruzione in fatto. A precludere il ricorso in Cassazione ex art. 360, n. 5, c.p.c. non dovrebbe bastare, insomma, la valorizzazione di prove diverse da quelle poste dal primo giudice a base della decisione in fatto, quand’anche conducano, anche in seconde cure, alle medesime conclusioni.

Per certi versi codesto regime di esclusione di tale motivo di ricorso in sede di legittimità getta luce sul significato proprio dello stesso n. 5 dell’art. 360 c.p.c., quale riscritto nel 2012, riconducendolo bensì e quasi del tutto (salvo insignificanti dettagli) all’originaria versione del codice del 1940(59): “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (così lo sgrammaticato nuovo n. 5 dell’art. 360 vigente dall’11 settembre 2012) significa esattamente che un fatto decisivo, appartenente al nucleo essenziale della quaestio facti controversa e risultante da prove, anche indiziarie, acquisite al giudizio ma, ciò nonostante, obliterato dal giudice del merito, potrà di regola essere denunciato alla Suprema Corte, salvo che l’omessa considerazione sia duplice, in primo grado e in appello, dacché ciò dimostrerebbe ex se la non decisività del fatto trascurato da ambedue i giudici del merito, nonostante le doglianze specificamente avanzate dall’appellante secondo i crismi di cui al novellato art. 342, n. 1, c.p.c. e, così, non più denunciabile in Cassazione. Se invece le prove utilizzate dai giudici nei due gradi divergano, pur a conclusione invariata, ben potrebbe esservi stato da parte del secondo giudice l’omesso esame di un fatto decisivo, non colmabile tout court con i rilievi e le motivazioni addotte dal primo giudice, che il giudice di appello non abbia approvato e fatto proprie neppure per relationem, come l’art. 348 ter, 1° comma, c.p.c. suggerisce espressamente di fare per la succinta motivazione dell’ordinanza-filtro.

Due esami del fatto sono, insomma, più che bastevoli per il conditor 2012 “falcidiante” le impugnazioni su italico suolo. A nulla conta che il secondo giudice possa essere pigramente o inconsapevolmente indotto a confermare il giudizio di fatto del primo giudice, subendo il “fascino discreto dell’insindacabilità”(60), riproducendone pedissequamente le ragioni senza autentica disamina, neppure delibativa, magari a fronte di prime cure contratte e ridotte ai minimi termini, senza istruttoria veruna perché il primo giudice deve osservare il triennio di ragionevole durata a norma della l. Pinto (n. 89 del 2001): la pronuncia del giudice d’appello sulla ricostruzione dei fatti, ove conforme alle ragioni addotte dal primo giudice, non sarà più sindacabile da chicchessia. Il che certo accresce, per chi abbia vera cultura della giurisdizione, la responsabilità dei secondi giudici, quali (potenzialmente e in corpore vili) ultimi giudici del fatto, non più rivedibile neppure sul piano logico (recte, ormai, della completezza degli accertamenti) con quel poco che resta del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., quand’essi ritengano di poter pigramente aderire de plano, senza alcuna revisione critica, alle conclusioni del primo giudice.

Va pur detto, però, che codesto sistema della “doppia conforme” mal si attaglia al filtro appellatorio: se questo deve consistere in una disamina puramente delibativa e a prima lettura dell’atto di appello rispetto alla sentenza impugnata, senza attingere propriamente al fascicolo e alle prove in esso contenute, tanto da chiudersi con ordinanza (sia pure impropriamente detta) di “inammissibilità”, che rende impugnabile con ricorso per cassazione omisso medio la sentenza di prime cure, non si comprende davvero come possa discorrersi di un secondo giudizio di fatto, non importa se conforme o difforme dal primo. Si contraddice in tal modo la ratio del filtro, che dovrebbe basarsi unicamente sulla manifesta infondatezza del gravame, resa evidente da una semplice lettura della sentenza e dell’atto di appello: ed invece, il sistema della “doppia conforme” di cui andiamo discorrendo presupporrebbe per sua natura una rivisitazione dei fatti accertati in causa, per verificare se le ragioni addotte dal primo giudice possano o meno essere confermate. Talché pare del tutto arbitrario e irragionevole porre sul medesimo piano e assoggettare a identico regime impugnatorio, mercé esclusione del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., la delibazione prima facie insita nel filtro ex art. 348 bis c.p.c. per gli appelli che non abbiano “una ragionevole probabilità di accoglimento” e le sentenze che, con disamina del fatto, confermino in via sostitutiva la pronuncia di prime cure per le stesse ragioni addotte nella sentenza impugnata.

Le situazioni disciplinate negli ultimi due commi dell’art. 348 ter c.p.c. sono diverse, atteso che la cognizione per l’ordinanza-filtro è strutturalmente e per esplicita norma (l’art. 348 bis c.p.c.) diversa da un’autentica cognizione sul merito della causa(61). Pertanto, l’identità nel trattamento delle due distinte fattispecie di cui agli ultimi commi dell’art. 348 ter c.p.c. non si giustifica e il 4° comma appare incostituzionale per contrarietà all’art. 3 Cost. Parificazione che riesce ancor più incomprensibile e irrazionale, ove sol si consideri la “neutralità” dell’ordinanza-filtro, che rende impugnabile con ricorso per cassazione direttamente la prima pronuncia, con un giudizio in appello che tamquam non esset.

La Suprema Corte ha, però, escluso che l’art. 348 ter, penultimo comma, c.p.c., sia in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111, commi 6° e 7°, Cost., nella parte in cui non prevede l’impugnabilità in Cassazione, ai sensi del nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., quando l’inammissibilità sia fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata: questo perché un secondo grado di giudizio di merito non è oggetto di garanzia costituzionale davanti al giudice ordinario e poi perché, dinanzi alle crescenti criticità da cui è affetto il secondo grado di giudizio, è coerente con un tentativo di recupero di funzionalità del sistema la semplificazione del relativo processo e il mantenimento di un livello di garanzia, mediante il ricorso per cassazione diretto contro la sola pronuncia di primo grado, ancorato alla limitazione delle caratteristiche estrinseche della motivazione del provvedimento conclusivo di quel grado, non idoneo a impedire, sia pure a prezzo di un modesto maggiore impegno dell’interessato, l’esercizio del diritto di difesa(62).

Quanto poco c’entrino le ragioni addotte con la disparità di trattamento e l’irragionevolezza della “doppia conforme” nell’ordinanza-filtro di cui si diceva poc’anzi ognuno scorge da sé.

10. – Come ben vedesi, il filtro in appello è unicamente fucina di problemi e questioni: non soltanto quelli discussi nelle sovra estese pagine, ma anche altri, assai gravi e numerosi, ad esempio in tema di appelli contro sentenze non definitive o di revocazione per errore di fatto(63).

Non può che auspicarsi la pronta abolizione – come pare s’intenda fare, stando allo schema di d.d.l. delega approvato dal Governo nel febbraio 2015 accanto, ça va sans dire, a principii che ulteriormente mirano a restringere l’accesso alle impugnazioni – ovvero la dichiarazione d’incostituzionalità non solo degli artt. 348 bis s. c.p.c., ma dell’intero plesso di norme sulle impugnazioni introdotte dal d.l. 83/2012, conv. dalla l. 134/2012, per manifesto difetto dei requisiti straordinarii di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost.(64). Un decreto che detta norme destinate a entrare in vigore trenta giorni dopo la legge di conversione nega ipso facto i requisiti straordinarii di necessità e urgenza e non merita d’esser lasciato sopravvivere un istante di più(65).

In ogni caso, si crei l’antidoto e si cancelli il filtro… al più presto.


(1) Il presente scritto è occasionato e prende le mosse dal contrasto sorto in seno alla Corte di cassazione in seguito a divergenti ordinanze della c.d. sezione filtro (sez. VI, sottosezioni 2 e 3), già pubblicate in extenso su molte riviste, con altrettante note, per lo più severamente critiche nei confronti dei principii formulati da Cass.n. 8940/2014 et sequentia, che esplicitamente contraddicono quanto stabilito da Cass. 7273/2014.
Riuniamo in questa nota i necessarii riferimenti e le varie massime:
Cass., sez. VI-2, ord. 27 marzo 2014, n. 7273, Rel. Giusti, in questa Rivista 2014, 1581 ss., con nota di Ciccarè, Sull’impugnazione dell’ordinanza ex art. 348 bis ter c.p.c., nonché nelle riviste infra indicate (unitamente a Cass. n. 8940/2014): “È ammissibile il ricorso per cassazione contro l’ordinanza dichiarativa della mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello pronunciata fuori dei casi previsti dalla legge”; “Deve essere cassata l’ordinanza dichiarativa della mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello pronunciata per dichiarare inammissibile l’appello privo di motivi specifici”.
Cass., sez. VI-3, ord. 17 aprile 2014, n. 8940 (nonché nn. 8941, 8942 e 8943, di identico tenore), Rel. Frasca, pubblicata unitamente a Cass. n. 7273/2014, in Foro it. 2014, I, 1413, con note critiche di Costantino, La riforma dell’appello tra nomofilachia e “hybris”; e di Scarselli, Brevi osservazioni sul ricorso per cassazione avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c.; in Giur. it. 2014, 1109, con nota critica di Carratta, Ordinanza sul “filtro” in appello e ricorso per cassazione; in Guida dir. 2014, fasc. 25, 12, con nota critica di G. Finocchiaro, Sull’attuazione della riforma delle impugnazioni civili dalla Cassazione pochi punti fermi e tante incognite; in Nuova giur. civ. 2014, I, 921, con nota critica di Rota, Filtro in appello: sull’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. è subito contrasto in Cassazione; in Corriere giur. 2015, 243 ss., con nota critica di Piazza, Contrastanti decisioni della Suprema Corte in merito al nuovo filtro in appello: il problema della ricorribilità per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità, le cui massime sono le seguenti: “Con un unico ricorso per cassazione possono essere impugnate l’ordinanza dichiarativa della mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello e la sentenza di primo grado”; “Il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non è mai esperibile avverso l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c., e ciò a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita l’adozione, ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all’esperibilità del ricorso ordinario, la lettera dell’art. 348 ter, 3° comma, c.p.c. (che definisce impugnabile unicamente la sentenza di primo grado), mentre, quanto al ricorso straordinario, la non definitività dell’ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, della quale si chiede tutela, e non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l’appello sia deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti, nonché al rispetto delle regole processuali fissate dall’art. 348 ter c.p.c.”; “In caso di declaratoria di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c., la Corte di cassazione – investita, ai sensi del 3° comma di detto articolo, dell’impugnazione della sentenza di primo grado – non può esaminare la ritualità della decisione del giudice di seconde cure per ragioni inerenti la tecnica e lo svolgimento del giudizio di appello, ma può rilevare che, in ragione della tardività dell’appello o dell’erronea proposizione dello stesso in luogo di altro mezzo di impugnazione, la sentenza di primo grado risultava passata in giudicato, a prescindere dal fatto che la declaratoria di inammissibilità dell’appello sia avvenuta per una di tali ragioni”.
La soluzione del contrasto (sul quale v. anche, viepiù criticamente, Monteleone, 
L’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis ter c.p.c. Orientamenti e disorientamenti della giurisprudenza, in Giusto processo civ. 2014, 675 ss.; nonché, tentando un contemperamento, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino 2014, 519 s.) è stata rimessa alle Sezioni unite con ordinanza interlocutoria di Cass.,sez. II, ord. 12 gennaio 2015, n. 223, Rel. Giusti: “In merito all’impugnabilità dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello, proposta ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., sussiste un contrasto giurisprudenziale; secondo un primo orientamento tale ordinanza, se emanata per manifesta infondatezza nel merito del gravame, non è ricorribile per cassazione, non avendo carattere definitivo, consentendo, il comma 3° della norma, di impugnare per cassazione il provvedimento di prime cure. Viceversa, avverso tale ordinanza si ritiene ammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui dichiari l’inammissibilità dell’appello per ragioni processuali, avendo essa carattere definitivo e valore di sentenza, non potendo, la declaratoria di inammissibilità dell’appello per questioni di rito, essere impugnata con provvedimento di primo grado. Secondo un altro orientamento il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non è mai esperibile avverso l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. e ciò a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita l’adozione, ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all’esperibilità del ricorso ordinario, la lettera dell’art. 348-ter, 3° comma, c.p.c. e, quanto al ricorso straordinario, la non definitività della stessa”. 

(2) L’espressione è di Costantino, op. loc. ult. cit.

(3) Su cui v. Capponi, Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non-processo di Franz Kafka, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2013, 561 ss.; nonché Cavallone, Il processo come contagio, in questa Rivista 2002, 581 ss. 

(4) Risuona ancora la sibillina frase con cui, nel capitolo 9 de “Il processo”, il sacerdote si congeda nel Duomo da Josef K.: “Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai”. 

(5) Schmitt, Le categorie del politico, trad. it. Bologna 1972, 108 s.: “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione amico (Freund) e nemico (Feind). […] Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui… Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio”. 

(6) Sulla nozione di kat-echon nel pensiero di Schmitt, che lo trae da San Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi, II, 6-7 (Schmitt, Il nomos della terra, trad. it. Milano 1991, 42 ss.), v. Scalone, “Katechon” e scienza del diritto in Carl Schmitt, in Filosofia politica 1998, 283 ss.; Cavallo, Il Katéchon nella teologia politica di Carl Schmitt: forza che frena o forza che trasforma?, in Democrazia e diritto 2008, 203 ss.; nonché, con riflessioni di “teologia politica” di ampio respiro, Cacciari, Il potere che frena, Milano 2013, passim e spec. 117 ss., dove si ravvisa nella nostra epoca post kat-echon “l’età di Epimeteo” (fratello di Prometeo), colui “che pensa dopo”: “Il dissolversi della forma catecontica si origina dal suo stesso interno, ‘viene da noi’. Inizia con la critica dell’idea di impero, prosegue con quella di ogni ‘dio mortale’, corrode, infine, logicamente-filosoficamente la realtà dello Stato, lo de-sostanzializza, lo spoglia di ogni auctoritas, ne denuncia la natura di finzione ideologica, dimostra l’impossibilità di superare il piano assolutamente orizzontale della rete dei conflitti e degli interessi”. 

(7) Sia consentito rinviare a Tedoldi, Cultura delle preclusioni, giusto processo e accordi procedurali (Forme processuali collaborative per un rinnovato “umanesimo forense”), in Studi in onore di Maurizio Pedrazza Gorlero, I, Napoli 2014, 799 ss. e in corso di pubblicazione in Giusto processo civ. 2015. 

(8) Sui quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c. v. E.F. Ricci, Il quesito di diritto nel ricorso per cassazione: istruzioni per l’uso, in questa Rivista 2009, 551 ss.; Marinelli, Una breve chiosa sull’esasperato formalismo della sezione tributaria della Suprema Corte in tema di quesito di diritto, in Riv. giur. trib. 2009, 695 ss.; Caponi, Formulazione del quesito di diritto e indicazione del fatto controverso nel ricorso per cassazione (art. 366 bis c.p.c.): aggiornamenti giurisprudenziali, in Foro it. 2008, I, 522 ss.; Briguglio, Precisazioni e disorientamenti (veri o presunti) sui “quesiti” ex art. 366 bis c.p.c., in Giur. it. 2008, 2537 ss. 

(9) Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari 2005. 

(10) L’abuso degli obiter dicta e l’esigenza di una motivazione sintetica, che dia conto della effettiva ratio decidendi, vengono sottolineati nella lettera 17 giugno 2013 del primo presidente della Corte di cassazione al Consiglio nazionale forense, in Foro it. 2013, fasc. 11, Anticipazioni e novità, 339, e nel decreto del primo presidente della Cassazione 22 marzo 2011, n. 27, ivi 2011, V, 183. V. Capponi, La motivazione “laica, funzionalista, “disincantata””, in Giusto processo civ. 2015, 121 ss. (nota a Cass., Sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642). 

(11) V. Cacciari, Il potere che frena, cit., 117 ss. 

(12) V. Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, in questa Rivista 2014, 1594, con nota di Porcelli, Sul vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo”; e in Foro it. 2015, I, 209, con nota di Quero. V., inoltre e in luogo di molti, Sassani, La logica del giudice e la sua scomparsa in Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2013, 639 ss.; Bove, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c., in Giusto processo civ. 2012, 677 ss.; Id., Ancora sul controllo della motivazione in cassazioneivi 2013, 431 ss. 

(13) V. l’iterativa massima per cui “i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360, 1° comma, n. 4, c.p.c., non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subìto dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con conseguente onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale, sicché quando il ricorrente non chiarisce quale pregiudizio sia derivato alla sua difesa l’impugnazione è inammissibile” (così, ex plurimis, Cass. sez. VI, 9 luglio 2014, n. 15676). Sul n. 2 dell’art. 360 bis c.p.c. v. C.C. (Claudio Consolo), Ragionevole durata, giusto processo e nuovo “sperimentale” art. 360 bis, n. 2, c.p.c., in questa Rivista 2010, 978 ss.; De Cristofaro, sub art. 360 bis, in Consolo (diretto da), C.p.c. commentato, II, Milano 2013, 882 ss. 

(14) Come profitta per ricordare Cass., sez. VI, 11dicembre 2014, n. 26097, ritenendo “manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, 7° comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 348 ter, 1° e penultimo comma, c.p.c., nella parte in cui prevedono, rispettivamente, la succinta motivazione dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. e l’esclusione della ricorribilità in cassazione, ex art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., del provvedimento di primo grado allorché l’inammissibilità sia fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, atteso che, un secondo grado di giudizio di merito dinanzi al giudice ordinario non è oggetto di garanzia costituzionale e, quanto alla prima questione, la definizione semplificata del giudizio di appello e la limitazione del controllo di legittimità, in caso di “doppia conforme” in fatto, non solo non impediscono, né limitano l’esercizio del diritto di difesa, ma contribuiscono a garantirne l’effettività”. 

(15) Mercé riscrittura degli artt. 342 e 345 c.p.c. rispettivamente sulla “motivazione dell’appello” e sulle nuove prove in appello, sulle quali v., si vis, Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella “iconoclastica” del 2012, in questa Rivista 2013, 145 ss. 

(16) Ancorché riesca difficile capire come si possa restringere ulteriormente un appello ridottosi ormai a una larva e a una mera parvenza. Eppure, nel già ricordato Schema di d.d.l. delega del 2015, all’art. 1, c. 2, n. 2, si legge:
“Il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti il riassetto formale e sostanziale del codice di procedura civile e della correlata legislazione speciale, mediante novella del codice di procedura civile e delle leggi processuali speciali, in funzione degli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

2) quanto al giudizio di appello:
2.
a) potenziamento del carattere impugnatorio dello stesso, anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali e la tipizzazione dei motivi di gravame;
2.
b) introduzione di criteri di maggior rigore in relazione all’onere dell’appellante di indicare i capi della sentenza che vengono impugnati e di illustrare le modificazioni richieste, anche attraverso la razionalizzazione della disciplina della forma dell’atto introduttivo;
2.
c) rafforzamento del divieto di nuove allegazioni nel giudizio di appello anche attraverso l’introduzione di limiti alle deduzioni difensive;
2.
d) riaffermazione, in sede di appello, dei principi del giusto processo e di leale collaborazione tra i soggetti processuali, anche attraverso la soppressione della previsione di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento;
2.
e) introduzione di criteri di maggior rigore nella disciplina dell’eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito”. 

(17) App. Palermo, sez. lav., 15 aprile 2013 (ined.). 

(18) Secondo le funzioni individuate da Propp, Morfologia della fiaba, trad. it. Torino 1966, rist. 2000. 

(19) Si pensi, solo per attingere a un ambito a noi caro, al proverbiale filtro della regina Isotta, che trasforma l’odio in amore e conduce gli amanti ad annullarsi l’uno nell’altro, sprofondando con la morte nell’infinità dell’essere (Isoldes Liebestod); al filtro e al suo antidoto che Hagen, perverso figlio bastardo del nibelungo Alberich, somministra all’eroe Siegfried, provocandone dapprima l’oblio e poi la rimembranza, che lo condanna per spergiuro, avendo Siegfried inconsciamente violato, prima ancora che la fedeltà verso la sua sposa Brunnhilde, il giuramento di purificazione (Reinigungseid) pronunciato, in forma solenne ed erga omnes, sulla punta della lancia maliziosamente offertagli da Hagen per respingere l’accusatio rivolta da Brunnhilde all’inconsapevole eroe; o, ancora, alla gustosissima parodia del filtro della regina Isotta di Dulcamara ne L’elisir d’amore, convincendo Nemorino delle infallibili doti del liquore da lui offerto al pubblico, che produce nell’ingenuo e rustico acquirente, oltre all’ebbrezza alcolica (“È bordò, non elisir”, dice tra sé Dulcamara), l’intima convinzione d’essere amato da tutte le fanciulle del villaggio in grazia del portentoso “elisire”, non già per aver ereditato in modo imprevisto, e a lui ancora ignoto, le fortune di un ricco zio. 

(20) Dando avallo giurisprudenziale a una tesi avanzata dallo stesso relatore delle ordinanze nn. 8940 ss./2014 in un saggio pubblicato nel 2013 in www.judicium.it: Frasca, Spigolature sulla riforma di cui ald.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134 del 2012

(21) Cass. 21 maggio 2014, n. 11259, in Foro it. 2014, I, 3521; Cass. 14 maggio 2014, n. 10453; Cass. 3 gennaio2014, n. 39;Cass. 1 marzo 2007, n. 4883;Cass. 23 giugno 2008, n. 17028, in Giur. it. 2009, 677, con nota di Saletti. In dottrina v. Damiani, Riflessioni in tema di decisione a seguito di trattazione orale, in Giusto processo civ. 2014, 1139 ss. 

(22) Cass., Sez. un., ord. 6 settembre 2010, n. 19051, in Giusto processo civ. 2010, 1131, con nota di Luiso, La prima pronuncia della cassazione sul c.d. filtro (art. 360 bis c.p.c.); in Foro it. 2010, I, 3333, con nota di Scarselli, Circa il (supposto) potere della Cassazione di enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge; in Giur. it. 2011, 885 (m), con nota di Carratta, L’art. 360 bis c.p.c. e la nomofilachia “creativa” dei giudici di cassazione

(23) Cass., Sez. un., 15 luglio 2003, n. 11026, in Corriere giur. 2004, 1212, con nota di Tiscini, Le sezioni unite restringono la decisorietà ex art. 111 cost. alle statuizioni di consistenza sostanziale; inFamiglia e dir. 2004, 165, con nota di Donzelli, La tutela dei diritti processuali violati nei procedimenti ablativi e limitativi della potestà parentale: “Quando il provvedimento impugnato sia privo dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale (come nel caso dei provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell’art. 317 bis c.c., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli art. 330 e 332 c.c., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 c.c., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, 2° comma, l. 4 maggio 1983 n. 184), il ricorso straordinario per cassazione di cui all’art. 111, 7° comma, Cost. non è ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, ed in particolare del diritto al riesame da parte di un giudice diverso, in quanto la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito”. Cfr. anche Scarselli, op. loc. cit.: “Nella logica delle sezioni unite n. 11026 del 2003 il discorso è questo: se tu, con riferimento alla tutela sostanziale dedotta nel processo, non hai diritto al ricorso straordinario per cassazione, come avviene per i provvedimenti cautelari e di giurisdizione volontaria, tu, per quella stessa vicenda sostanziale, non puoi avere diritto al ricorso per cassazione nemmeno per le questioni processuali a monte di quella decisione. Ma se questa è la logica delle sezioni unite n. 11026 del 2003, allora (a mio parere) la conseguenza che deve darsi è proprio inversa rispetto al decisum di Cass. 8940/14. Il sillogismo aristotelico va infatti rovesciato in questo modo: il ricorso per cassazione è ammesso per questioni processuali quando è ammesso per la tutela sostanziale; nel caso dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c., la tutela sostanziale è ammessa con l’impugnazione in Cassazione della sentenza di primo grado; dunque, il ricorso per cassazione deve esser concesso anche per questioni processuali… Un conto sono infatti i provvedimenti cautelari e di giurisdizione volontaria, sempre revocabili e modificabili, altro conto è un’ordinanza che chiude un processo di impugnazione, né revocabile né modificabile”. 

(24) L’ineffabile coppia di norme sul filtro, come d’altronde i nuovi artt. 342 e 434 sulla motivazione dell’atto d’appello (e di quelli più ancora), trae ispirazione e linfa, più che dal sistema inglese del leave od ora, dopo le Civil Procedure Rules del 1999, della permission to appeal, tipico delle corti di common law e troppo distante dalla tradizione continentale, dalla ZPO tedesca, segnatamente dal § 522, che di seguito trascriviamo, aggiornandolo con le modifiche intervenute nell’ottobre del 2011, di cui la traduzione italiana – curata da Merlin in Patti (a cura di), Codice di procedura civile tedesco, Milano 2010 – non poté ratione temporis tener conto:
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Verifica di ammissibilità; ordinanza di rigetto:
(1) Il tribunale dell’impugnazione deve verificare d’ufficio se l’appello è di per sé ammissibile e se è stato proposto e motivato secondo le forme e i termini previsti dalla legge. In mancanza di uno di tali requisiti l’appello deve essere respinto per inammissibilità. La decisione può essere emanata con ordinanza. Contro l’ordinanza è ammesso reclamo per motivi di diritto.
(2) Il tribunale dell’impugnazione rigetta senza indugio l’appello con decisione presa all’unanimità se è convinto che:
(1) l’appello non ha manifestamente alcuna prospettiva di successo;
(2) la causa non ha importanza fondamentale,
(3) la decisione del tribunale dell’impugnazione non è necessaria ai fini dell’evoluzione del diritto o della garanzia di uniformità della giurisprudenza e
(4) non è necessaria una trattazione orale.
Il tribunale dell’impugnazione o il presidente deve preventivamente comunicare alle parti l’intenzione di rigettare l’appello e i motivi del rigetto, assegnando all’appellante un termine per prendere posizione. La decisione ai sensi del primo periodo deve essere motivata se i motivi del rigetto non siano già contenuti nella comunicazione di cui al secondo periodo. Nella motivazione l’ordinanza deve altresì contenere un rinvio agli accertamenti di fatto di cui all’impugnata sentenza con l’esposizione di eventuali modifiche o integrazioni.
(3) [L’ordinanza emanata ai sensi del comma 2, periodo 1, non è impugnabile (abrogato, 
ndr)]. Contro l’ordinanza di cui al comma 2, primo periodo, l’appellante ha la possibilità di proporre lo stesso mezzo d’impugnazione che sarebbe ammissibile in caso di decisione con sentenza”.
Ognuno scorge come nella norma tedesca:
(
i) si parli propriamente di rigetto per manifesta infondatezza dell’appello, laddove l’inammissibilità è riservata all’appello sprovvisto dei presupposti processuali o dei requisiti intrinseci per poter essere esaminato, anche solo sommariamente, nel merito (ad es., perché tardivo o insufficientemente motivato o privo d’interesse a impugnare, o per difetto d’integrità del contraddittorio in cause inscindibili, ecc.);
(
ii) si esiga l’unanimità dell’organo collegiale;
(
iii) non occorra una trattazione orale, per sciogliere eventuali dubbii o incertezze o per svolgere attività istruttorie;
(
iv) la causa non abbia un’importanza fondamentale né la decisione del giudice d’appello non possa contribuire all’evoluzione del diritto o all’uniformità della giurisprudenza;
(
v) sia necessaria la previa comunicazione scritta alle parti dell’intenzione di rigettare l’appello con ordinanza e dell’indicazione dei motivi del rigetto immediato, assegnando all’appellante un termine per prendere posizione, per confutare le ragioni addotte dal giudice d’appello (è modalità questa che molto somiglia alla nostra procedura camerale in Cassazione, di cui all’art. 380 bis c.p.c., per i casi di manifesta infondatezza o fondatezza del ricorso): ove il giudice d’appello ritenga di confermare le ragioni contenute nella relazione, non occorre motivare altrimenti l’ordinanza definitiva di rigetto;
(
vi) l’ordinanza sia direttamente impugnabile mediante Revision

(25) Proprio poggiandosi su Cass., Sez. un., 11026/2003 cit. (nonché su Cass., Sez. un., 3 marzo 2003, n. 3073, in Foro it. 2003, I, 2090, secondo cui, “quando il provvedimento impugnato sia privo dei caratteri della decisorietà in senso sostanziale, il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. non è ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, ed in particolare del diritto al riesame da parte di un giudice diverso, atteso che la pronuncia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi ed i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato, e non può pertanto avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, se di tale carattere detto atto sia privo, stante la strumentalità della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione nel merito”). 

(26) Sul principio di prevalenza della sostanza sulla forma in caso di errore del giudice sulla forma del provvedimento v., in particolare, Cass., Sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16727 (richiamata nella motivazione dell’ordinanza n. 7273/2014 cit. in nota 1), in Foro it. 2013, I, 220, con nota di Lombardi, La soluzione delle sezioni unite sul rimedio impugnatorio esperibile avverso l’ordinanza che dichiara esecutivo il progetto di divisione nonostante la presenza di contestazioni, secondo cui, “in tema di scioglimento di comunioni, l’ordinanza con cui il giudice istruttore, ai sensi dell’art. 789, 3° comma, c.p.c., dichiara esecutivo il progetto di divisione, pur in presenza di contestazioni, ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l’appello; è tuttavia, ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso detto provvedimento, in quanto proposto dalla parte facendo ragionevole affidamento sul consolidato orientamento del giudice della nomofilachia all’epoca della sua formulazione”. 

(27) V. infatti, in tal senso, Carratta, Ordinanza sul “filtro” in appello, cit., 1113 ss. 

(28) Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 citt. 

(29) Anche questa tesi è avanzata dall’estensore delle ordinanze nn. 8940 ss./2014 in Frasca, op. loc. cit., che si richiama a Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, in Riv. esec. forzata 2011, 473, con note critiche di Delle Donne, La contestazione delle spese del reclamo è rimessa, in tema di cautele “anticipatorie”, al giudizio di merito o di opposizione all’esecuzione e non al ricorso ex art. 111, 7° comma, Cost.: un’inaccettabile conclusione della giurisprudenza di legittimità, e Sassani, Sulle spese del procedimento cautelare – Si dice nomofilachia ma non si sa dove il nomos sia, la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario in Cassazione avverso il capo sulle spese del provvedimento reso in sede di reclamo contro la pronuncia di rigetto ante causam dell’istanza cautelare “anticipatoria”, essendo tale pronuncia suscettibile di riesame all’esito del giudizio di merito o contestabile anche in sede di opposizione all’esecuzione. 

(30) Cfr. anche Scarselli, op. loc. cit., nelle more della divisata e auspicabile abrogazione. 

(31) La letteratura sul filtro in appello è già sterminata; così, senza pretesa di completezza e in ordine rigorosamente alfabetico, v.: Bove, La pronuncia di inammissibilità dell’appello ai sensi degli articoli 348 bis e 348 ter c.p.c., in questa Rivista 2013, 389 ss.; Briguglio, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in questa Rivista 2013, 573 ss.; Buffone, Il filtro di appello come “giudizio anticipatorio”, in www.ilcaso.it 2012; Campese, L’impugnabilità, o meno, con ricorso per cassazione, dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis ter c.p.c., in Nuova proc. civ. 2014, fasc. 1, 22; Caponi, Contro il nuovo filtro e per un filtro in cassazione nel processo civile, in Giur. cost. 2012, 1539 ss.; Id., La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in www.judicium.it 2012; Id., La riforma dei mezzi di impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2012, 1153 ss.; Id., La riforma dell’appello civile, in Foro it. 2013, V, 292 ss.; Id., Lavori in corso sull’appello nel processo civile all’insegna della incomunicabilità tra avvocatura e magistratura, in www.judicium.it 2012; Carratta, Il giudizio di cassazione nell’esperienza del “filtro” e nelle recenti riforme legislative, in Giur. it. 2013, 241 ss.; Comoglio, Requiem per il processo “giusto”, in www.judicium.it 2013; Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di “svaporamento”, in Corriere giur. 2012, 1133 ss.; Id., Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?, in www.judicium.it 2012; Id., Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni, Torino 2014, 516 ss.; Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, rinvenibile in www.treccani.it 2012, e destinato alla pubblicazione nel Libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2013; Id., La riforma dell’appello, in Giusto processo civ. 2013, 21 ss.; Dalfino, Premessa L’appello e il ricorso per cassazione nella riforma del 2012 (d.l. 83/12, convertito con modificazioni in l. 134/12), in Foro it. 2012, V, 281 ss.; De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it 2012; Didone, Note sull’appello inammissibile perché probabilmente infondato e il vizio di motivazione in Cassazione dopo il decreto legge c.d. “sviluppo” (con il commento anticipato di Calamandrei), in Giur. it. 2013, 229 ss.; Id., Appunti sull’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c., in Corriere giur., 2013, 1136 ss.; Galletto, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.judicium.it 2012; Grossi, Il diritto di difesa ed i poteri del giudice nella riforma delle impugnazioni, in www.judicium.it 2012; Impagnatiello,Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it 2012; Id., Pessime nuove in tema di appello e ricorso in cassazione, in Giusto processo civ. 2012, 735 ss.; Id., Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, in Foro it. 2013, V, 295 ss.; Ludovici, Prova d’appello: le ultime modifiche al codice di rito civile, in www.judicium.it 2012; Mocci, Il “filtro” in appello, fra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione, in Giur. merito 2012, 2013 ss.; Id., Il giudice alle prese col filtro in appello, in Giusto processo civ. 2012, 1243 ss.; Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it 2012; Id., Proposte concrete per salvare l’appello civile, in www.judicium.it 2013; Pagni, Gli spazi per le impugnazioni dopo la riforma estiva, inForo it. 2013, V, 299 ss.; Panzarola, Tra “filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a margine della l. n. 134 del 2012, in Giusto processo civ. 2013, 89 ss.; Id., Commento agli artt. 348bis, 436 bis, 447 bis, comma 1, 348 ter, 383, c.p.c., in Martino, Panzarola, Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, Torino 2013, 624 ss.; Risolo, Filtro in appello e nuovo quinto motivo di ricorso per cassazione, in Il Civilista 2012, fasc. 10, 5 ss.; Russo, Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending review, in www.judicium.it 2012; M. Russo,Le novità in tema di appello dopo la L. 7 agosto 2012, n. 134, in Giur. it. 2013, 232 ss.; Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it., 2013, V, 287 ss.; Id., Sulla incostituzionalità del nuovo art. 342 c.p.c., in Foro it. 2013, V, 160 ss.; Tedoldi, Aporie e problemi applicativi sul “filtro” in appello, in Aa.Vv., Il filtro dell’appello. Saggi, materiali e provvedimenti, Torino 2013, 43 ss.; Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2013, 507 ss.; Id., La riforma dell’appello civile: due anni dopo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2014, 971 ss. 

(32) Cfr. Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di “svaporamento”, in Corriere giur. 2012, 1136; contra Bove, La pronuncia di inammissibilità dell’appello ai sensi degli articoli 348 bis e 348 ter c.p.c., in questa Rivista 2013, 402 s. 

(33) Contra Bove, cit., 402. 

(34) Contra Consolo, op. cit., § 9. 

(35) V. Cass. 27 marzo 2014, n. 7273, cit. 

(36) Cass. ord. n. 7273/2014 cit. si limita, invece ad annullare con rinvio l’ordinanza-filtro che abbia dichiarato l’inammissibilità dell’appello per difetto di motivazione ex art. 342 c.p.c. Contra, anche sul punto, Cass. ordd.n. 8940 ss./2014 citt. 

(37) Contra Costantino, op. cit., 37; Bove, op. cit., 406; Panzarola, Tra “filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a margine della l. n. 134 del 2012, in Giusto processo civ. 2013, 123. 

(38) Nel senso del testo v. Cass. 27 marzo 2014, n. 7273 cit.; contra Cass. 17 aprile 2014, nn. 8940, 8941, 8942 e 8943 citt. 

(39) Secondo Verde, La riforma dell’appello civile, cit., 989 ss., “il nostro sistema finisce con l’essere più vicino a quello inglese che conosce l’istituto del leave o permission to appeal (concesso se ‘the Court considers that the appeal should have a real prospect of success’). In quel sistema, tuttavia, non è riconosciuto un diritto (processuale) all’appello. Di conseguenza, il ‘permesso’ ad appellare può ben essere configurato come una condizione di ammissibilità, perché il soggetto, prima del permesso, ha una mera aspettativa a che la decisione a lui sfavorevole sia controllata dal giudice superiore”. 

(40) Per queste definizioni v. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari 2009, 88 ss. 

(41) Cfr. Cass. 26 luglio 2012, n. 13214

(42) Cass., Sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it. 2006, I, 1433, con nota critica di Balena, Oriani, Proto Pisani, Rascio, in Corriere giur. 2006, 1083, con nota di Parisi, in questa Rivista 2006, 1397, con nota di Poli; Cass., Sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033, in Foro it. 2013, I, 819. 

(43) V. App. Roma, 23 gennaio 2013, in Corriere giur. 2013, 976, con nota di Di Francesco; in Giur. it. 2013, 1629, con nota di Didone; in Giur. it. 2013, 2619, con nota di Vanz; in questa Rivista 2013, 711, con nota di Panzarola secondo cui “il giudizio di ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello a norma dell’art. 348-bis c.p.c. non si risolve né in una valutazione sommaria assimilabile a quella identificata col fumus boni iuris che è condizione del rilascio dei provvedimenti cautelari (c.d. cognizione superficiale), né in una valutazione a cognizione parziale, come quella che si riscontra nel caso dei procedimenti a contraddittorio eventuale e, segnatamente, nel procedimento per ingiunzione. L’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che siano destinate ad esso energie del servizio giustizia, che non sono illimitate; l’ordinanza di cui all’art. 348-bis c.p.c. si inserisce, quindi, in un ampio intervento legislativo volto a sanzionare l’abuso del processo, abuso in cui si risolve l’esercizio del diritto di interporre appello in un quadro di plateale infondatezza”. V., però, un sia pur lieve temperamento di tale indirizzo rigorista, quale operato da Cass. 5 febbraio2015, n. 2143

(44) V. App. Milano (ord.), 6 marzo 2013, in Foro it. 2013, I, 2629, secondo cui “la sentenza di rigetto emessa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. si differenzia dall’ordinanza di inammissibilità di cui all’art. 348-bis c.p.c. in quanto è basata su una valutazione più approfondita, ancorché identica nelle conclusioni, sia della mancanza di una seria ricostruzione alternativa del fatto, sia della carente prospettazione di questioni di diritto risolte dalla giurisprudenza in modo uniformemente diverso rispetto alla sentenza impugnata”. 

(45) Cass., Sez. un., 6 settembre 2010, n. 19051, in Foro it. 2010, I, 3333, con nota critica Scarselli, in Giur. it. 2011, 885 (m), con nota di Carratta, in Giusto processo civ. 2010, 1131 (m), con nota di Luiso, in Nuova giur. civ. 2011, I, 167, con nota di Carnevale. 

(46) Cfr. App. Roma 11 gennaio 2013, 23 gennaio 2013 e 30 gennaio 2013, tutte in questa Rivista 2013, 711, con nota di Panzarola, cit.; App. Roma 1° febbraio 2013; App. Milano 7 febbraio 2013; App. Milano 12 febbraio 2013; App. Milano 19 febbraio 2013; App. Bari 13 febbraio 2013. 

(47) Cfr., si vis, Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna 2013, 118 ss. 

(48) App. Bari 18 febbraio 2013, App. Roma 30 gennaio 2013; App. Roma. 23 gennaio 2013, tutte in Foro it. 2013, I, 969 ss., con nota di Costantino, cit., nonché (le due ordinanze romane) in Riv. dir. proc.2013, 711, con nota di Panzarola, cit. 

(49) V. App. Roma 23 gennaio 2013, cit. 

(50) Cfr. Verde, Questione giustizia, Torino 2013; Id., La riforma dell’appello, cit., 993 ss. 

(51) Così Verde, La riforma dell’appello, cit., 995, ricordando l’insegnamento di Virgilio Andrioli. 

(52) Tedoldi, Cultura delle preclusioniloc. citt.

(53) V., per tutti, Chizzini, Franz Klein e i patres della procedura civile in Italia, in Giusto processo civ. 2011, 739 ss. 

(54) Si tratta dell’Hinweis- und Aufklärungspflicht di cui al § 139 ZPO, che precede lo spirare delle preclusioni, in Germania tutt’altro che rigide e precostituite: cfr. Caponi, Note in tema di poteri probatori delle parti e del giudice nel processo civile tedesco dopo la riforma del 2001, in Riv. dir. civ. 2006, I, 523 ss. 

(55) Conviene qui ricordare le parole di Piero Calamandrei nella Relazione al c.p.c., § 30: “La fase di secondo grado tradizionalmente concepita come un novum iudicium, cioè come una rinnovazione integrale, in fatto e in diritto, della prima istanza, aveva la sua ragion d’essere in un processo, come quello finora in vigore, nel quale il giudice di primo grado non poteva far nulla per supplire alla manchevole difesa delle parti e per richiamare la loro attenzione sulle questioni da trattare e sui mezzi di prova da proporre. Ma la diretta partecipazione del giudice di primo grado alla fase istruttoria, e quello scambio di idee che in questa fase avverrà necessariamente tra giudice e parti in virtù dell’oralità e della immediatezza, faranno sì che nel nuovo processo la fisionomia di ogni causa si riveli a pieno durante il corso della prima istanza”. 

(56) Così, icasticamente, Impagniatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it 2012, par. 4. 

(57) V. Panzarola, op. cit., 116 ss., il quale ricorda il brocardo: in ore duorum stat omne verbum

(58) Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, in Corriere giur. 2014, 1241, con nota critica di Glendi; in Giur. it. 2014, 1901, con nota di Turchi: “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il ‘fatto storico’, il cui esame sia stato omesso, il ‘dato’, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il ‘come’ e il ‘quando’ tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua ‘decisività’, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”. 

(59) Che, come sappiamo, intendeva già allora porre un freno alla “quasi illimitata ampiezza alla quale la pratica era arrivata nell’adattamento delle norme del Codice del 1865”, riducendolo “nei limiti precisi di un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti avevano discusso”: così la Relazione al c.p.c., § 30 ad finem

(60) Così, icasticamente, Impagnatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it 2012. 

(61) Già ricordavamo che, secondo App. Roma 23 gennaio 2013, in Corriere giur. 2013, 976, con nota di Di Francesco; in Giur. it. 2013, 1629, con nota di Didone; in Giur. it. 2013, 2619, con nota di Vanz; in questa Rivista 2013, 711, con nota di Panzarola, “il giudizio di ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello a norma dell’art. 348-bis c.p.c. non si risolve né in una valutazione sommaria assimilabile a quella identificata col fumus boni iuris che è condizione del rilascio dei provvedimenti cautelari (c.d. cognizione superficiale), né in una valutazione a cognizione parziale, come quella che si riscontra nel caso dei procedimenti a contraddittorio eventuale e, segnatamente, nel procedimento per ingiunzione. L’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che siano destinate ad esso energie del servizio giustizia, che non sono illimitate; l’ordinanza di cui all’art. 348-bis c.p.c. si inserisce, quindi, in un ampio intervento legislativo volto a sanzionare l’abuso del processo, abuso in cui si risolve l’esercizio del diritto di interporre appello in un quadro di plateale infondatezza”. V. anche App. Milano 22 gennaio 2014, inwww.ilcaso.it 2014, secondo cui “l’ordinanza di inammissibilità dell’appello emessa ai sensi degli articoli 348-bis e 348-ter c.p.c. non risolve nel merito la controversia sui diritti soggettivi devoluta nel giudizio, ma opera un mero ‘sbarramento processuale’ ed impedisce che il giudizio instaurato con l’atto di impugnazione prosegua il suo naturale corso fino alla sentenza. L’ordinanza di inammissibilità si caratterizza, pertanto, per un contenuto di natura squisitamente processuale, perché non definisce la lite ‘nel merito’, ma si limita a negare la meritevolezza di siffatto giudizio, date le argomentazioni dell’appellante stimate inidonee a scalfire la decisione di primo grado, con la conseguenza, normativamente prevista (articolo 348-ter, comma 3, c.p.c.), che l’unico rimedio esperibile contro la sentenza appellata è costituito dall’impugnazione della sentenza di primo grado avanti alla corte di cassazione”. 

(62) Così Cass. 11 dicembre 2014, n. 26097

(63) Sia consentito qui rinviare a Tedoldi, L’appello nel processo civile, Torino 2015, cap. XI (in corso di pubblicazione). 

(64) Su tali requisiti e sull’impossibilità di coonestare con la legge di conversione un decreto d’urgenza privo dei presupposti, perché ciò “significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del parlamento e del governo quanto alla produzione delle fonti primarie” v., tra molte, Corte cost. 23 maggio 2007, n. 171, in Foro it. 2007, I, 1985. 

(65) V. Costantino, La riforma, cit., 27. 

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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