Michele Ruvolo, Diffida ad adempiere e rinuncia dell’avente diritto ad avvalersi dell’effetto risolutorio, in Corriere Giur., 2008, 7, p. 935
Diffida ad adempiere e rinuncia dell’avente diritto ad avvalersi dell’effetto risolutorio
Sommario: Il caso – La posizione della Suprema Corte – La posizione della dottrina – È forse venuto il momento di procedere ad un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale – Conclusioni
Il caso
La fattispecie oggetto di Cass. 23315/07 è una di quelle che ricorrono non di rado nella casistica giudiziaria. In un giudizio in cui l’attore promittente-venditore aveva formulato domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre derivante da un contratto preliminare avente ad oggetto il trasferimento delle quote di una s.r.l. ed aveva quindi chiesto emettersi sentenza ex art. 2932 c.c. al fine di ottenere una sentenza produttiva degli effetti del contratto non concluso, il convenuto promissario-acquirente sosteneva, tra le altre cose, l’impossibilità di una pronuncia costituiva ex art. 2932 c.c. in quanto il preliminare inter partes si era risolto a seguito di diffida ad adempiere inviatagli dalla controparte. Secondo la tesi del convenuto, dopo la scadenza del termine per l’adempimento intimato ai sensi dell’art. 1454 c.c. l’effetto risolutorio si sarebbe verificato automaticamente, con la conseguente perdita in capo all’intimante del potere di domandare l’adempimento (analogamente a quanto avviene per il caso di domanda di risoluzione giudiziale ai sensi dell’art. 1453 comma 2).
In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda del promittente-venditore considerando che, anche dopo la scadenza del termine indicato nella diffida ad adempiere, la parte intimante conserva la facoltà di chiedere l’adempimento.
In secondo grado il principio affermato dalla Corte d’appello era del tutto differente. Si sosteneva che, una volta intimata correttamente la diffida, l’intimante non ha più il potere di neutralizzare l’effetto risolutorio già verificatosi e chiedere l’adempimento. Non può quindi neppure agire in giudizio per chiedere l’adempimento in forma specifica. Non si otterrebbe altrimenti il risultato di dare certezza e trasparenza al rapporto negoziale e si manterrebbe sine die il diffidato in una situazione di soggezione di fronte al diritto potestativo del creditore di far risuscitare gli effetti negoziali.
Il giudizio di legittimità veniva introdotto con un ricorso in cui il promittente-venditore richiamava la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale si può sempre rinunciare ad avvalersi della risoluzione già verificatasi per effetto del decorso del termine indicato nella diffida ad adempiere.
[thrive_lead_lock id=’4487′] Ed è proprio in considerazione del consolidato orientamento della Cassazione – sul potere dispositivo dell’effetto risolutorio del contraente adempiente e sulla sua facoltà di rinunciare allo stesso dopo l’inutile decorso del termine fissato nella diffida ad adempiere (1) – che il ricorso è stato accolto.
La posizione della Suprema Corte
Il giudice di legittimità ha quindi ribadito, con la sentenza in commento, che chi ha intimato la diffida ad adempiere conserva la facoltà di rinunciarvi, rientrando pur sempre nelle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata la rinuncia all’effetto risolutorio già verificatosi per far ricorso ad altri mezzi di tutela. Tale principio viene affermato alla luce di alcune fondamentali argomentazioni.
È vero – riconosce la Corte – che il termine fissato nella diffida ad adempiere ha carattere essenziale, ma è altrettanto vero che l’essenzialità è posta nell’interesse del creditore, che è l’unico arbitro della convenienza (o meno) di far valere l’inutile decorso del termine. Il creditore può cambiare idea dopo avere intimato la disdetta ed in questo risiede la ratio dell’articolo 1454 c.c., norma posta a favore della parte adempiente che conserva la facoltà di rinunciare a posteriori all’effetto risolutorio. La norma non tutela l’interesse del diffidato ad avere certezza del rapporto. L’effetto risolutorio rimane nella disponibilità del creditore, che può agire per l’adempimento.
L’obiettivo della diffida – prosegue il giudice di legittimità – è realizzare gli stessi effetti che sarebbero determinati da una clausola risolutiva espressa, vale a dire la rapida risoluzione del rapporto mediante la fissazione di un termine che ha carattere essenziale nell’interesse della parte adempiente, alla quale è rimessa la valutazione della convenienza (2). Ed è solo quest’ultima parte che può valutare la convenienza di farne valere o meno la decorrenza. Ecco che, dopo che si verifica automaticamente ed indipendentemente dalla volontà dell’intimato la risoluzione di diritto, l’effetto risolutorio resta nella disponibilità dell’intimante che può successivamente rinunciare ad avvalersene.
La Corte di cassazione riconosce quindi un assoluto potere dispositivo al contraente adempiente ed ammette la “ritrattazione” da parte dello stesso anche dopo l’inutile decorso del termine stabilito nella diffida ad adempiere, che viene considerato (come detto) come posto nel suo esclusivo interesse. In sostanza, sostiene la Cassazione, «la diffida ad adempiere è stabilita nell’interesse della parte adempiente, non costituisce un obbligo, bensì una facoltà che si esprime “a priori” nella libertà di scegliere questo mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri ed “a posteriori” nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodottisi » (3).
Per la Suprema Corte al creditore è riconosciuto un potere di rinunzia, uno ius poenitendi, che può manifestarsi in vari modi quali l’assegnazione di un nuovo termine all’inadempiente (con effetti risolutori collegati alla seconda diffida) o l’azione giudiziale per l’adempimento coattivo. Così come, verificatosi l’inadempimento, la parte non inadempiente può scegliere tra risoluzione (es. giudiziale o di diritto per diffida ad adempiere) e adempimento coattivo, così, verificatasi la risoluzione, la stessa parte non inadempiente potrà rinunciare agli effetti risolutori già prodottisi. Rientra nelle valutazioni di convenienza dell’adempiente anche quella di esercitare un’azione di adempimento contrattuale pur essendo scaduto il termine dallo stesso concesso nella diffida.
Alla possibilità di rinunciare all’effetto risolutorio la Cassazione perviene poi anche esaminando la natura giuridica della diffida ad adempiere.
Secondo il giudice di legittimità «la diffida ad adempiere è un negozio giuridico, sicché non può produrre effetti contro ed oltre la volontà del suo autore che può sempre decidere di non fare valere la risoluzione già verificatasi ».
Se la diffida ad adempiere è un negozio unilaterale recettizio, nulla osterebbe alla neutralizzazione degli effetti di tale negozio in forza di un altro atto negoziale unilaterale anche di carattere implicito (comportamento incompatibile con la volontà di volersi sciogliere dal vincolo contrattuale) quale l’esercizio di un’azione giudiziale tesa ad ottenere un rimedio del tutto diverso dalla risoluzione. La parte adempiente potrebbe rinunciare ad un effetto prodottosi sul piano sostanziale (risoluzione) e chiedere una diversa pronuncia di condanna all’adempimento coattivo di prestazione di dare o facere.
Rinunciare all’effetto risolutorio già verificatosi (per avvalersi di altri mezzi di tutela, quale l’azione di adempimento) rientra, per la Cassazione, fra le facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata.
Poiché la diffida costituisce l’oggetto di una facoltà della parte adempiente, che si esprime nella libertà di scegliere questo mezzo risolutorio che produce i suoi effetti di diritto, e poiché la diffida è un negozio giuridico, e come tale non può produrre effetti oltre e contro la volontà di chi lo pone in essere, allora deve ritenersi, per il giudice di legittimità, che il contraente non inadempiente abbia anche la facoltà di rinunciarvi.
Invece di avvalersi dell’effetto risolutorio, il diffidante può ricorrere ad altri mezzi di tutela (quale la domanda di adempimento), i quali rientrerebbero nell’ambito delle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata al pari della rinuncia al potere di ricorrere al congegno risolutorio predisposto dall’art. 1454 c.c.
Si è già accennato al fatto che per la Suprema Corte la rinuncia all’effetto risolutorio può essere esplicita ovvero implicita. In quest’ultimo caso essa deve risultare da atti univoci dai quali sia possibile desumere che il contraente, che in un primo tempo si sia avvalso della possibilità della risoluzione di diritto o abbia ottenuto una risoluzione giudiziale (4), abbia successivamente ritenuto più conforme ai propri interessi procedere all’esecuzione contrattuale.
La rinuncia all’effetto risolutivo può quindi verificarsi o per effetto di dichiarazione espressa o anche tramite comportamento concludente. E così, ad esempio, chi ha intimato una diffida ben può rinunciare successivamente alla stessa diffida ed al suo effetto risolutivo concedendo un nuovo, ulteriore termine per l’adempimento (5). In questo caso, la risoluzione di diritto consegue solo quale effetto della seconda diffida e, quindi, a condizione che la stessa sia valida anche in relazione alla congruità del termine (6). La prima diffida non risulta operativa in conseguenza della successiva iniziativa del creditore che ha posto nel nulla il primo effetto risolutorio.
E poiché rientra nell’autonomia delle parti disporre delle conseguenze della risoluzione e, conseguentemente, chiedere o meno la restituzione della prestazione eseguita in base al contratto risolto e rimasta senza causa, il giudice non può emettere i provvedimenti restitutori conseguenti alla risoluzione in assenza di domanda della parte interessata (7). Del pari, posto che l’effetto risolutorio rimane nella libera disponibilità del soggetto che ha ottenuto la risoluzione giudiziale o che si può avvalere di quella di diritto, il giudice non può provvedere d’ufficio alla risoluzione senza che vi sia stata apposita domanda del creditore (8).
In particolare, nell’ottica di Cass. 7079/83 e 4535/87 sembra che – essendo rimessa alla parte adempiente-intimante la valutazione circa la convenienza di far valere l’inutile decorso del termine, il cui carattere essenziale sarebbe posto nell’interesse esclusivo del creditore – allora l’espressione “risoluto di diritto” contenuta nell’art. 1454 c.c. starebbe a significare soltanto che la pronuncia giudiziale relativa ha carattere meramente dichiarativo, non già che ad essa il giudice possa provvedere d’ufficio, con la conseguenza che solo la necessaria domanda di parte valorizza la sopravvenuta scadenza del termine, con una produzione dell’effetto risolutorio che scaturirebbe, pertanto, da una fattispecie complessa della quale farebbe parte anche la domanda giudiziale dell’intimante. Occorrerebbe una nuova domanda di parte successiva alla scadenza del termine fissato nella diffida che valorizzi in maniera “esplicita e non equivoca” l’inutile suo decorso. Ad essa si riconnetterebbe l’effetto risolutorio (non già immediatamente collegato al mancato adempimento entro il termine indicato), che resterebbe pertanto nella libera disponibilità del creditore (9).
Cass. 23315/07 si pone, invece, in una prospettiva meno rigorosa. L’iniziativa dell’intimante non è necessaria per la produzione dell’effetto risolutorio, ma il diffidante può comunque mettere nel nulla tale effetto già prodottosi in autonomia. La risoluzione si produce di diritto indipendentemente dalla volontà dell’intimato, rimanendo però nella disponibilità dell’intimante che può successivamente rinunciare ad avvalersene.
La posizione della dottrina
È noto che la posizione della Suprema Corte non viene affatto condivisa da buona parte della dottrina, le cui argomentazioni vengono riportate ed apprezzate nella sentenza in commento, che tuttavia non le ha ritenute sufficienti per pervenire ad un mutamento del proprio consolidato orientamento.
Il quesito al quale la dottrina ha provato a dare una risposta è, evidentemente, se vi sia, durante la pendenza del termine, la possibilità per l’intimante di chiedere l’adempimento o la risoluzione ex art. 1453 c.c. o di procedere all’esecuzione coattiva di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c. o, ancora, di revocare o modificare unilateralmente la diffida seppure ampliando il termine indicato per l’adempimento e se sia possibile, dopo la scadenza del termine, disporre, da parte del diffidante, dell’effetto risolutorio prodottosi proponendo una successiva domanda giudiziale di adempimento o di risoluzione o intimando una nuova diffida ovvero se, dopo l’inutile scadenza del termine per l’adempimento intimato, la parte intimante una diffida ad adempiere perda il relativo potere in conseguenza della risoluzione di diritto del contratto.
Secondo la costruzione dottrinale l’effetto risolutorio conseguente alla diffida ad adempiere non è nella disponibilità dell’intimante. Dopo che è stato azionato il meccanismo che porta alla risoluzione, l’effetto risolutorio non rientra nel potere dispositivo di chi ha intimato la diffida, soggetto che non può rinunciarvi, cancellandone così gli effetti, né mediante revoca esplicita della stessa, né mediante comportamento concludente (es. intimazione di nuova diffida e quindi concessione di altro termine per l’adempimento), né, infine, tramite il ricorso ad altri mezzi di tutela (10).
Se il contratto è risolto, il creditore ed il debitore sono liberati dall’obbligazione non ancora adempiuta o sono creditori della restituzione se hanno in tutto o in parte adempiuto. Ritenere diversamente, si afferma in dottrina, significa considerare la risoluzione di diritto come un vantaggio unilaterale del creditore, da lui liberamente disponibile. Essa, invece, non costituisce, secondo la detta impostazione dottrinale, un privilegio per il contraente non inadempiente essendo solo un’alternativa alla risoluzione giudiziale. Rimettere la risoluzione alla disponibilità delle parti determina un ingiustificato vantaggio, addirittura un privilegio per la parte non inadempiente.
In quest’ottica la notifica della diffida preclude al creditore la facoltà di revocarla o di modificarla. L’effetto risolutivo, prodottosi automaticamente, cristallizza un inadempimento che non può più cancellarsi neanche con la fissazione di un termine ulteriore rispetto a quello originario oramai già scaduto.
Si è al riguardo evidenziato che per l’ultimo comma dell’art. 1454 c.c. “decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto”. Ecco che all’inutile decorso del termine si collega un effetto risolutorio automatico e, pertanto, non disponibile da parte del contraente non inadempiente. Non occorre una domanda della parte adempiente-intimante, successiva alla scadenza del termine, che manifesti l’intenzione di produrre l’effetto risolutivo (11). Né è possibile una rinuncia a quest’ultimo.
Il creditore, in altri termini, non può disporre di tali effetti, considerato che la diffida costituisce l’esercizio irrevocabile di una scelta tra la risoluzione e l’adempimento. La diffida ad adempiere sarebbe un negozio unilaterale recettizio con il quale il diffidante manifesta la sua volontà di sciogliersi dal contratto ed esercita in maniera irrevocabile la facoltà di scelta tra risoluzione ed adempimento, con la consapevolezza di non poter più impedire l’effetto risolutivo.
In dottrina si osserva, poi, che sottraendo la risoluzione alla disponibilità delle parti si riesce a meglio tutelare i contrapposti interessi, compresi quello del soggetto inadempiente a non rimanere indefinitamente esposto all’arbitrio della parte adempiente e quello generale al rientro nella circolazione economica dei beni e delle risorse coinvolte nella vicenda contrattuale.
Occorre infatti trovare un bilanciamento tra i seguenti interessi contrapposti: l’interesse della parte adempiente ad ottenere una più rapida soddisfazione delle proprie pretese (quantomeno in via surrogatoria attraverso la liberazione dal vincolo contrattuale); l’interesse dell’inadempiente a non essere esposto alla discrezionalità (o, meglio, all’arbitrio) del creditore; l’interesse della collettività alla reintroduzione nella circolazione dei traffici commerciali delle risorse economiche interessate dalla vicenda contrattuale.
È forse venuto il momento di procedere ad un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale
La soluzione del riconoscimento di una possibile libera rinuncia ad opera della parte intimante all’effetto risolutorio che consegue alla diffida ad adempiere in considerazione della natura negoziale della diffida e della circostanza per cui tale istituto è conferito dal legislatore a tutela esclusiva della parte non inadempiente presta il fianco ad una serie di obiezioni:
1) l’art. 1454 ultimo comma c.c. sembra collegare alla scadenza infruttuosa del termine un effetto risolutorio automatico (12). La risoluzione si produce nel momento stesso del perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 1454 c.c. Non possono estendersi alla diffida i meccanismi tipici della clausola risolutiva espressa (dove è necessaria una dichiarazione ulteriore di volersi avvalere della clausola) o del termine essenziale (dove è possibile una dichiarazione volta alla conservazione del rapporto contrattuale se la parte interessata intende conseguire l’adempimento tardivo nonostante il decorso del termine) e ciò perché la clausola risolutiva e la previsione del termine essenziale risalgono al momento della genesi contrattuale con la conseguente necessità (nel caso della clausola risolutiva espressa) o possibilità (in ipotesi di termine essenziale) di un’ulteriore manifestazione di volontà da parte di chi potrebbe non avere più interesse all’effetto risolutivo al momento dell’inadempimento. Invece, la diffida ad adempiere interviene solo in presenza di un grave inadempimento conclamato, verificatosi il quale il diffidante manifesta la sua intenzione di considerare il termine intimato come ultima possibilità di mantenere il contratto. Dall’automaticità dell’effetto risolutorio in caso di diffida non adempiuta, ne deriva che non solo quando l’intimante formula la diffida egli è già consapevole delle conseguenze caducatorie del perfezionarsi della sequenza intimazione/decorrenza del termine, ma non è neppure in astratto possibile ipotizzare una reviviscenza di un contratto già sciolto. Il contratto risolto non può più risultare nuovamente produttivo di effetti ed è da escludere la configurabilità di atti posti in essere dopo la scadenza del termine fissato nella diffida e nel presupposto della permanente efficacia del contratto (es. nuova diffida o domanda di adempimento o di risoluzione) (13). Al debitore destinatario della diffida non può essere richiesto di adempiere dopo lo scioglimento del contratto;
2) non convince la derivazione della possibilità di rinunciare “a posteriori” agli effetti risolutori già prodottisi dalla libertà di scegliere “a priori” la diffida ad adempiere. È evidente che il contraente non inadempiente può scegliere tra la diffida, la domanda giudiziale di adempimento e quella di risoluzione. Tuttavia, non si comprende come possa ricavarsi da ciò la possibilità, non prevista normativamente, di neutralizzare l’effetto risolutorio (14). Né la disponibilità di tale ultimo effetto può farsi discendere dall’affermazione (peraltro non pacifica) per cui l’essenzialità del termine di cui alla diffida sarebbe posta nell’esclusivo interesse del creditore intimante, al quale spetterebbe quindi la facoltà di valutare se farne valere o meno la decorrenza. Il fatto che il termine possa anche considerarsi nell’interesse del creditore intimante non vuol dire che l’effetto risolutivo non venga a tutelare pure altri interessi, con conseguente indisponibilità da parte dell’intimante della risoluzione verificatasi. La disponibilità dell’effetto risolutorio ad opera della parte intimante finisce, infatti, con il non prendere in alcuna considerazione il legittimo affidamento, operato da parte intimata dopo il verificarsi della risoluzione di diritto, circa l’avvenuta cessazione degli effetti contrattuali, l’estinzione dell’originario vincolo obbligatorio e la nascita dei nuovi obblighi restitutori e risarcitori che conseguono all’inadempimento. Inoltre, la tesi della Cassazione porta ad una disponibilità dell’effetto risolutorio sine die, con la conseguenza che la parte intimata resterebbe indefinitamente esposta all’arbitrio della parte adempiente, mentre la necessità di tutelare l’esigenza del diffidato di avere certezza e stabilità in ordine al rapporto comporta, nell’analogo caso del termine essenziale, che il creditore ha a disposizione un termine molto breve per dichiarare se intende accettare un adempimento tardivo. L’art. 1454 c.c. non prevede solo un diritto del contraente adempiente, ma predispone un meccanismo che non può non tenere in considerazione le esigenze di tutela del soggetto inadempiente-diffidato, nel quale l’atto di diffida ingenera un affidamento sia in ordine alla possibilità di adempiere con effetto liberatorio durante la pendenza del termine a lui assegnato, sia in merito alla volontà dell’intimante di sciogliersi dal vincolo contrattuale in caso di inadempimento alla scadenza del termine e, quindi, in merito all’impossibilità di essere chiamato ad adempiere dopo l’infruttuoso decorso dello stesso termine, essendosi a quel punto prodotto l’effetto risolutivo “di diritto” (15). Poiché il creditore-intimante ha manifestato di non avere più interesse alla prestazione dopo la scadenza del termine, il debitore-intimato può considerarsi autorizzato a non predisporre l’adempimento per il periodo di tempo successivo alla scadenza del termine indicato, con la conseguenza che non sarebbe neppure possibile prorogare il termine concesso in quanto verrebbe nuovamente creata una situazione di obbligo da cui l’intimato era stato già liberato (16). Non può non tenersi conto dell’interesse dell’intimato alla certezza della propria posizione e non può non può non salvaguardarsi il soggetto che, ricevuta la diffida e determinatosi a non adempiere ed a sopportare le conseguenze del suo inadempimento, potrebbe non essere più nelle condizioni di poter adempiere venendo così a subire grave pregiudizio dall’attribuita facoltà al creditore di ritornare sui propri passi decidendo di chiedere la prestazione relativamente alla quale era stato già manifestato un assoluto disinteresse in caso di decorso del termine (17). Peraltro, il debitore potrebbe anche avere un interesse alla produzione dell’effetto risolutivo connesso alla diffida a lui intimata, potendo preferire restare inadempiente anche nell’ipotesi in cui il creditore richieda la prestazione dopo l’inutile scadenza del termine indicato nella diffida. Nell’ottica del debitore, infatti, il danno da risarcire alla parte creditrice potrebbe pure essere considerato meno gravoso rispetto all’onere connesso all’esecuzione della prestazione. In questo caso, il riconoscimento al creditore-diffidante del potere di fare risorgere il contratto già risolto potrebbe esporre il debitore ad oneri e costi potenzialmente maggiori e comunque imprevisti (18). Al riguardo, si noti pure che al debitore diffidato che intenda produrre l’effetto risolutivo tramite il suo inadempimento non giova in alcun modo la rimessione in termini con la quale la giurisprudenza di legittimità tende a riconoscere protezione agli interessi dello stesso debitore diffidato. Ed il citato interesse del debitore inadempiente a non restare indefinitamente esposto all’arbitrio del suo creditore è già tutelato dalla generale disciplina sulla risoluzione per inadempimento, sia giudiziale che di diritto, disciplina che tende a fissare, con certezza e rapidità, le posizioni delle parti. Si pensi, come accennato, all’art. 1457 c.c. che se da un lato, al fine di tutelare l’adempiente e di verificare il suo permanente interesse allo scioglimento dal contratto in caso di mancato rispetto del termine essenziale (fissato in contratto e, quindi, a distanza di tempo dall’esecuzione dello stesso, con la conseguente necessità di una verifica, dopo il mancato adempimento tempestivo, delle intenzioni del soggetto nel cui interesse è fissato il termine essenziale), concede al creditore di una prestazione da eseguirsi entro un termine essenziale di dichiarare, dopo la scadenza di esso, di avere ancora interesse all’adempimento, dall’altra però, per tutelare il debitore inadempiente, limita il tempo utile ai fini di una tale dichiarazione a soli tre giorni. Ed anche nella disciplina della diffida ad adempiere viene tutelato l’interesse del debitore intimato. Si pensi al requisito di forma, alla congruità del termine (che deve poter consentire l’adempimento effettivo) ed all’indicazione del contenuto della diffida, che non è una semplice costituzione in mora, dovendo chiaramente risultare l’intento del diffidante e la circostanza che nel caso di inutile decorso del termine intimato conseguirà l’effetto risolutorio (non bastando, ad esempio, di minacciare il ricorso alle vie legali). Riconoscere all’intimante il potere di disporre dell’effetto risolutorio già prodottosi significa sacrificare interessi invece tenuti presenti dall’art. 1454 c.c. (19). Inoltre, dovendo l’atto di diffida contenere l’espressa previsione del conseguente effetto risolutorio, non si comprende bene come possa consentirsi una successiva rinuncia ed una lesione così evidente dell’affidamento ingenerato nel destinatario della diffida. La tesi sottesa a Cass. 7079/83 e 4535/87 (ma vedi anche Cass. 3052/80) – per cui sarebbe necessaria una nuova domanda di parte successiva alla scadenza del termine fissato alla diffida che valorizzi in maniera esplicita non equivoca l’inutile suo decorso ed alla quale si riconnetterebbe l’effetto risolutorio, che non sarebbe immediatamente da collegare al mancato adempimento entro il termine indicato – non solo rende del tutto incerto il momento della produzione dell’effetto risolutivo collegando quest’ultimo ad una fattispecie complessa (il cui ultimo atto è costituito dalla domanda giudiziale del diffidante) che è del tutto assente nella disciplina normativa (20), ma non tiene neppure conto del fatto che nella diffida ad adempiere, a differenza delle semplici costituzioni in mora, si deve esplicitare chiaramente il legame tra l’inadempimento e la risoluzione. Inoltre, anche la tesi della rinunciabilità dell’effetto risolutivo già prodottosi (tesi affermata nella sentenza in commento) contrasta con il contenuto e la disciplina della diffida. Riconoscere all’intimante la facoltà di rinunciare all’effetto risolutivo già verificatosi comporta la vanificazione dell’obiettivo cui tende la disciplina della diffida ad adempiere, atto nel quale va esplicitato l’intento del intimante volto alla produzione dell’effetto risolutivo in caso di mancato rispetto del termine per l’adempimento (21);
3) analogamente a quanto avviene per il caso di domanda di risoluzione giudiziale ai sensi dell’art. 1453 comma 2, anche quando si mette in moto il meccanismo della risoluzione di diritto e questa si verifica, allora non si dovrebbe potere più agire per l’adempimento, ricorrendo anche in questo caso la medesima ratio sottesa al detto comma 2 dell’art. 1453 c.c., ossia che la controparte, che è stata destinataria di un’iniziativa risolutoria, potrebbe anche essersi messa in condizione di non potere più adempiere (22). È noto al riguardo che la proposizione di una domanda giudiziale di risoluzione dimostra l’assenza dell’interesse del creditore alla prestazione con il conseguente acquisto da parte del debitore convenuto del “diritto di non adempiere” (23). Peraltro, anche nella Relazione al codice civile si legge che «scegliendo la risoluzione il contraente dichiara di non aver più interesse al contratto ed il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l’esecuzione della prestazione » (24). Ora, non vi è motivo alcuno per distinguere, ai fini in questione, il caso della risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c. da quello della risoluzione de iure ex art. 1454 c.c., che pur postula l’imputabilità e la gravità dell’inadempimento;
4) non vanno neppure trascurati, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, il principio della certezza dei rapporti giuridici e l’interesse generale alla reintroduzione nella circolazione economica dei beni e delle risorse coinvolte nella vicenda contrattuale;
5) non convince la derivazione della disponibilità dell’effetto risolutorio (e quindi della possibilità di rinunciare ad avvalersi della risoluzione verificatasi e di ricorrere ad altri mezzi di tutela) anche dalla natura negoziale – peraltro non univocamente ammessa – della diffida, che non potrebbe produrre effetti contro ed oltre la volontà del suo autore. Da ciò deriverebbe anche la necessità di una domanda di parte, successiva alla scadenza del termine, che valorizzi in maniera esplicita e non equivoca l’inutile suo decorso. In realtà, a parte il fatto che la natura negoziale della diffida non costituisce communis opinio, non può non considerarsi che tale natura negoziale dovrebbe portare invece alla conclusione dell’indisponibilità degli effetti della diffida discendendo dal negozio giuridico una situazione di vincolo per il suo autore, vincolo dal quale quest’ultimo non potrebbe liberarsi a proprio arbitrio (25). Una volta che il contraente non inadempiente esercita il suo diritto potestativo di intimare la diffida, allora egli ha già manifestato la sua scelta in ordine alla richiesta di risoluzione o di adempimento optando, in modo impegnativo, per la risoluzione (e quindi per il venir meno del rapporto giuridico inter partes) in caso di inutile decorso del termine (26);
6) se è vero che nel caso della prescrizione l’effetto estintivo si verifica automaticamente per il decorso del termine ma l’ordinamento lascia al privato la scelta se fare valere o meno tale effetto, consentendo la rinuncia alla prescrizione, precludendo la rilevabilità officiosa della relativa eccezione e addirittura garantendo stabilità al pagamento del debito prescritto tramite lo strumento della soluti retentio, è anche vero però che, mentre nella prescrizione la disponibilità degli effetti si ricava da precise disposizioni normative (artt. 2937, 2938, 2940 c.c.) ed è giustificata dal fatto che l’interesse a far valere la prescrizione spetta al soggetto contro il quale si vuole esercitare il diritto dopo la scadenza del termine e l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici cede di fronte alla scelta dell’interessato di non avvalersi dello strumento estintivo, pena un sacrificio eccessivo della posizione del titolare del diritto prescritto (che non potrebbe in alcun modo realizzare il proprio interesse), nella diffida ad adempiere la mancata tutela dell’interesse del contraente inadempiente e dell’interesse generale di certezza del diritto e di reintroduzioni dei beni nel circuito economico non trova un idoneo bilanciamento nella salvaguardia delle ragioni dell’intimante, posto che a quest’ultimo l’ordinamento assicura comunque i rimedi restitutori e risarcitori;
7) ammettere la rinuncia all’effetto risolutorio può comportare degli effetti processuali non prevedibili da parte del contraente inadempiente ed in considerazione dei quali la rinuncia all’effetto risolutorio può non avvenire per la volontà di rendere efficace il contratto, ma di fare cessare solo in un secondo momento i suoi effetti per avvalersi di meccanismi di liquidazione forfettaria del danno conseguenti a soluzioni alternative a quella della risoluzione di diritto. Ed infatti, in seguito alla rinuncia all’effetto risolutivo ammessa dalla Suprema Corte il contratto risulta pienamente efficace tra le parti, con la conseguenza, tra le altre, che si può ben esercitare il diritto di recesso previsto dall’art. 1385 c.c. (27). In tal modo si pone «nelle mani della parte “sagace” un’efficace arma per modulare la propria condotta processuale secondo la migliore convenienza. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del venditore che, dopo avere ricevuto la caparra, intimi al compratore la diffida ad adempiere. Si ipotizzi altresì che il medesimo venditore, verificatasi ipso iure la risoluzione del contratto, si avveda che il patrimonio del compratore è incapiente, e non consentirebbe l’utile esperimento dell’azione esecutiva per il risarcimento. In questi casi, il venditore potrà rinunciare alla risoluzione già verificatasi, col risultato di potere trattenere la caparra quale risarcimento forfetario del danno: risultato che, invece, gli sarebbe stato precluso se avesse scelto la via della risoluzione, in quanto l’avvenuta risoluzione non consente di trattenere la caparra a titolo di acconto sul risarcimento dovuto » (28). Invece di dovere provare il danno subito (come deve farsi se si segue la via della risoluzione), si può reputare più comodo rinunciare all’effetto risolutivo al fine di operare il recesso ex art. 1385 c.c. e chiedere, quale liquidazione forfettaria del danno, la ritenzione della caparra o il pagamento del doppio della stessa. In senso in qualche modo contrario è bene ricordare Cass. 2557/89 (29), per la quale il contraente non inadempiente che, dopo avere intimato diffida ad adempiere con dichiarazione che, decorso il termine fissato, il contratto sarebbe stato senz’altro risolto (art. 1454 c.c.), sia stato convenuto in giudizio dall’altro contraente con richiesta di risoluzione del contratto per suo inadempimento e sua condanna al pagamento del doppio della caparra confirmatoria ricevuta, non può – quando il termine da lui concesso con la diffida sia decorso – chiedere la declaratoria, in via riconvenzionale, del suo diritto di recesso dal contratto con il diritto a ritenere la caparra ricevuta, poiché la sentenza che, nel pronunciare sulle contestazioni circa i presupposti e le condizioni di efficacia dell’atto di diffida, le rigetta, accerta l’avvenuto verificarsi della risoluzione di diritto del contratto al momento della scadenza del termine concesso, sicché la dichiarazione di recesso trova il contratto già risolto. Ne conseguirebbe che la parte la quale non abbia potuto operare la ritenzione della caparra a titolo di risarcimento del danno dovrebbe chiedere il risarcimento stesso in base alle norme generali. Certo, Cass. 2557/89 riguardava il caso del recesso ex art. 1385 c.c. operato dopo una diffida produttiva della risoluzione. La sentenza in questione non si era invece pronunciata sulla possibilità o meno di una rinuncia all’effetto risolutivo conseguente alla diffida e sulla possibilità di operare il recesso di seguito a tale rinuncia, possibilità ammessa, come detto, da Cass. 7182/97. È comunque da preferire l’impostazione, che evita abusi ai danni del debitore diffidato, che esclude il recesso dopo l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto e ciò sia in presenza che in assenza di una successiva rinuncia. Una tale soluzione, infatti, tutela l’interesse del diffidato a non subire le conseguenze dei mutamenti di opinione da parte del creditore (interesse come detto tutelato dalla disciplina generale in tema di risoluzione – art. 1453, comma 2, c.c. – ) ed a provocare l’effetto risolutivo con il suo inadempimento persistente anche dopo la ricezione della diffida (30).
Conclusioni
Escludendo quindi la disponibilità dell’effetto risolutorio ad opera della parte inadempiente, ne deriva che dovrebbero essere dichiarate inammissibili sia l’azione di esatto adempimento sia quella di risoluzione giudiziale conseguente ad una diffida ad adempiere regolarmente intimata e non adempiuta.
Inoltre, la risoluzione di diritto dovrebbe poter essere dichiarata d’ufficio non occorrendo alcuna domanda una volta esclusa la detta disponibilità dell’effetto risolutorio. E la rilevabilità d’ufficio della risoluzione verificatasi ai sensi dell’art. 1454 c.c. verrebbe a tutelare l’interesse del diffidato sia a non subire le conseguenze delle mutate valutazioni del diffidante che a provocare la risoluzione con il suo inadempimento (31).
Ancora, considerato che si è già detto che la manifestazione da parte del creditore-intimante dell’assenza di interesse alla prestazione dopo la scadenza del termine comporta che il debitore-intimato può considerarsi autorizzato a non predisporre l’adempimento per il periodo di tempo successivo alla scadenza del termine indicato, non sarebbe neppure possibile prorogare il termine concesso in quanto verrebbe nuovamente creata una situazione di obbligo da cui l’intimato era stato già liberato. Peraltro, non può tacersi il profilo relativo alla certezza del termine per l’adempimento, prima concesso e poi revocato.
A maggior ragione, dopo la scadenza del termine il creditore non potrebbe più fare alcunché. Neppure l’accettazione del diffidato potrebbe far rivivere un contratto già risolto.
L’esecuzione della prestazione dopo la scadenza del termine indicato nella diffida, e quindi dopo il verificarsi dell’effetto risolutivo, e la sua accettazione non configurano, infatti, una novazione. È il disposto dell’art. 1234 c.c. a contrastare con la configurabilità di un accordo novativo dopo la scadenza del termine indicato nella diffida ad adempiere. Partendo dalla connessione tra l’effetto risolutivo e l’inutile decorso del termine assegnato con la diffida, non potrebbe ipotizzarsi un atto di autonomia privata finalizzato ad estinguere un’obbligazione già estinta. Inoltre, l’animus novandi non è ravvisabile nella semplice mancata protesta o nella mera adesione all’altrui iniziativa, richiedendo l’inequivoca manifestazione della comune volontà di estinguere l’originaria obbligazione sostituendola con una nuova (32).
Un accordo transattivo potrebbe però essere raggiunto sulla base della concorde volontà delle parti, le quali potrebbero porre fine alla lite relativa alla perdurante (o meno) efficacia del vincolo obbligatorio ovvero alle pretese scaturenti dalla (controversa) risoluzione del contratto. Con un atto di «opposizione o di «controdiffida, lo stesso diffidato potrebbe invitare l’intimante ad una modifica consensuale della situazione giuridica scaturita dalla diffida (33). Tramite la stipulazione di una nuova disciplina negoziale, si potrebbe così risolvere la res litigiosa riguardante gli effetti risolutivi della diffida.
Nel caso di pattuizione successiva alla scadenza del termine indicato nella diffida, si verterà in un caso di transazione novativa (e non «propria’) (34) in quanto il nuovo accordo sostituisce il contratto originario ormai risolto (35).
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(1) V. Cass. 23 aprile 1977, n. 1530, in Foro it., 1977, I, 1, 1913, con nota di A. Lener; Cass. 9 maggio 1980, n. 3052, in Giust. civ. Mass. 1980, fasc. 5; Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it., 1988, I, 448, con nota di C. Scognamiglio; in Vita not. 1987, 717; in Dir. e giur. agr. 1988, 289; Cass. 4 agosto 1997, n. 7182, in Giust. civ. Mass. 1997, 1321; Cass. 28 giugno 2004, n. 11967.
(2) Vedi ad es. Cass. 8 luglio 1978, n. 3498, in Giust. civ. Mass. 1978; Cass. 12 gennaio 1982, n. 132, ivi 1982; Cass. 6 aprile 1983, n. 953, ivi, 1983; Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, in Giust. civ. 1984, I, 3141 con nota di P.M. Letta; Cass. 29 maggio 1990, n. 5017, in Giust. civ. Mass.1990, in cui la Suprema Corte ha affermato che la semplice diffida ad adempiere deve considerarsi non preclusiva della successiva domanda di adempimento, alla quale sarebbe ostativa, a norma dell’art. 1453, 2° comma, c.c., solo la domanda giudiziale di risoluzione.
(3) Si poneva già su questa linea Cass. 23 aprile 1977, n. 1530, cit. V. pure Cass. 3 aprile 1979, n. 1890, in Giust. civ. Mass. 1979, 4; Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit.
(4) È noto che per la Cassazione è possibile rinunciare agli effetti risolutori sia quando questi conseguano a casi di risoluzione di diritto sia quando questi derivino da risoluzione giudiziale V. Cass. 28 giugno 2004, n. 11967, in Giust. civ. Mass. 2004, 6; in Vita not. 2004, 1588; Cass. 10 febbraio 2003, n. 1952, in Giust. civ. Mass. 2003, 297, in Giust. civ. 2003, I,1536; Cass. 4 maggio 1991, n. 4908, in Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 5; Cass. 3 aprile 1979, n. 1890, in Giust. civ. Mass. 1979, fasc. 4.
(5) Cfr. Cass. 4 agosto 1997, n. 7182, cit., nella quale si prevede la possibilità per il contraente diffidante di rinunciare successivamente all’effetto risolutorio conseguente alla diffida anche mediante comportamenti concludenti; Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit.; cfr. anche Cass. 1 aprile 2005, n. 6891, in Giust. civ. Mass. 2005, 4. È bene ribadire che per la Suprema Corte la rinuncia ad avvalersi dell’effetto risolutivo deve avvenire comunque con un comportamento che presenti il carattere della univocità. Tale non è, ad esempio, la percezione di pagamenti relativi al debito scaduto o dipendenti dalla mora del debitore. Occorre infatti un comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi dell’effetto risolutivo (v. Cass. 1409/75). L’inerzia nell’esercizio di un diritto può portare alla perdita dello stesso solo per prescrizione. La mera tolleranza non è indicativa di una rinuncia (v. Cass. 18 marzo 2003, n. 3964;20 gennaio 1994, n. 466). E così anche l’accettazione di pagamenti parziali o l’apertura di trattative inter partes.
(6) Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, in Giust. civ. 1984, I, 3141.
(7) Cass. 3 febbraio 2006, n. 2439, in Giust. civ. Mass. 2006, 2.
(8) Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit.
(9) Cfr. Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit.
(10) V. G. Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, in Foro it., 1954, IV, 33 e ss.; Id., Dei contratti in generale, in Commentario al codice civile, IV, Delle obbligazioni, Torino, 1958, 484 e ss.; U. Natoli, Diffida ad adempiere, in Enc. dir, XII, Milano, 1964, 509 e ss.; A. Dalmartello, Risoluzione del contratto, in Noviss. dig. it., XVI, Torino, 1969, 134 e ss.; A. Lener, nota a Cass. 23 aprile 1977, n. 1530, in Foro it., 1977, I, 1, 1913 e ss.; P. M. Letta, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, in Giust. civ., 1984, II, 3141 e ss.; C. Scognamiglio, nota a Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it., 1988, I, 448 e ss.; M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, in Commentario del codice civile, IV, Delle obbligazioni, Bologna, 1990, 431 e ss.
(11) Vedi invece, come già rilevato nel testo, Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur.it., 1988, I, 459. Cfr. sul punto P. M. Letta, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, cit., 3143-3144; M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 447.
(12) V. anche M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 447.
(13) V. P. M. Letta, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, cit., 3143; A. Dalmartello, Risoluzione del contratto, cit., 141
(14) Sul punto v. A. Lener, nota a Cass. 23 aprile 1977, n. 1530, cit., 1913; C. Scognamiglio, nota a Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit., 452-453.
(15) V. G. Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, cit., 39-40; M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 434.
(16) A. Dalmartello, Risoluzione del contratto, cit., 141; G. Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, cit., 39.
(17) Cfr. G. Mirabelli, Dei contratti in generale, cit., 486; P. M. Letta, nota a Cass. 25.11.1983, n. 7079, cit., 3143; A. Dalmartello, Risoluzione del contratto, cit., 141.
(18) V. G. Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, cit., 40; M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 447.
(19) C. Scognamiglio, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 4535, cit., 453-454; U. Natoli, Diffida ad adempiere, cit., 509.
(20) Cfr. sul punto C. Scognamiglio, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 4535, cit., 455.
(21) V. sul punto Scognamiglio, nota a Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit., 454.
(22) Cfr. sul punto C. Scognamiglio, nota a Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, cit., 453-454.
(23) V. P. M. Letta, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, cit., 3143.
(24) Relazione al codice civile, n. 661.
(25) V. G. Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, cit., 37-38.
(26) Cfr. sul punto P.M. Letta, nota a Cass. 25 novembre 1983, n. 7079, cit., 3144; U. Natoli, Diffida ad adempiere, cit., 509-511 .
(27) V. Cass. 4 agosto 1997, n. 7182, cit. In senso contrario si è però espresso, nella giurisprudenza di merito, Tribunale Cagliari, 13.3.1997, in Riv. giur. sarda 1999, 109 con nota di Cotza, per il quale «la manifestazione della volontà di recedere (nella specie in base a caparra confirmatoria, a norma dell’art. 1385 comma 2 c.c.), intervenuta in un momento successivo a quello in cui la diffida ad adempiere, intimata dallo stesso recedente, ha prodotto i propri effetti, è inefficace in quanto relativa ad un contratto già risolto ».
(28) M. Rossetti, Inadempimento: risoluzione e recesso (nota a Cassazione civile, 28 settembre 2004, n. 19387 sez. III), in D&G 2004, 43, 30.
(29) In Giust. civ. Mass. 1989, fasc. 5.
(30) V. M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 438.
(31) M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, cit., 448.
(32) V. Cass. 6 agosto 1983, n. 5274.
(33) Natoli, Diffida ad adempiere, cit., 511; Mirabelli, Richiesta e rifiuto di adempimento, cit., 33.
(34) Si ha invece transazione c.d. “propria”, non novativa cioè, quando le parti, non assumendo obbligazioni incompatibili, non eliminano il precedente rapporto e la relativa fonte negoziale. Mentre, quindi, ricorre la transazione novativa quando le parti estinguono interamente il rapporto preesistente, sostituendolo con un altro rapporto del tutto diverso, si è in presenza di una transazione semplice (o modificativa o propria) quando le parti modificano solo alcuni aspetti del rapporto preesistente, che per il resto continua a rimanere inalterato. La transazione, infatti, pur modificando la fonte del rapporto giuridico preesistente, non ne determina necessariamente l’estinzione in quanto, in assenza di un’espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, l’eventuale efficacia novativa della transazione dipende da una situazione di oggettiva incompatibilità nella quale i due rapporti – quello preesistente e quello nuovo – vengono a trovarsi. Ne consegue che, a differenza di quel che accade nella transazione semplice, nella quale il contratto di transazione è complementare rispetto al fatto causativo del rapporto originario ed è quindi fonte concorrente, insieme al titolo preesistente, dei diritti e degli obblighi dei contraenti, nella transazione novativa il contratto di transazione rappresenta l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti, l’unica fonte del rapporto. Proprio perché con la transazione novativa si è estinto interamente il rapporto preesistente, sostituendolo con un altro del tutto diverso, l’art. 1976 c.c. prevede la non risolubilità per inadempimento di questo tipo di transazione, la cui risoluzione farebbe risorgere quel rapporto preesistente che le parti hanno manifesto di non volere più sotto alcun profilo. L’unico strumento che residua al creditore che si trovi di fronte all’inadempimento della controparte è il risarcimento dei danni o l’eccezione di inadempimento. Ora, per determinare il carattere novativo o conservativo della transazione occorre accertare se le parti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto diretto a costituire, in sostituzione integrale di quello precedente, nuove ed autonome situazioni giuridiche. Ciò alla luce, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, dell’intenzione delle parti e delle clausole contrattuali.
(35) Sulla transazione novativa v. Cass. 7522/05; 7830/03; 6380/01; 12838/99; 6680/98; 10937/96; 9766/96; 4427/96; 10683/94; 3240/90. Un accordo formatosi prima della scadenza del termine, e quindi prima della produzione dell’effetto risolutivo, potrebbe invece non avere la natura di transazione in considerazione della possibile inesistenza di una res litigiosa. Certo, è anche vero che per configurare quest’ultima è anche sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale anche se ancora da definire nei più precisi termini di una lite e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione. V. Cass. 11 marzo 1983, n. 1846. [/thrive_lead_lock]