Civile e … penale

Massimo Franzoni, Civile e … penale, in Responsabilità civile e previdenza, 2012, p. 1831 ss.

Civile e … penale (*)

di Massimo Franzoni

Sommario: 1. Civile e penale di fronte ad una comune difficoltà del diritto del nostro tempo. – 2. Il diritto penale come “braccio armato” del diritto civile o di un altro diritto. – 3. Il fatto illecito ed il reato. – 3.1. La responsabilità professionale. – 4. Il contratto e il reato. – 5. Il contratto, il reato e l’Unione europea. – 6. Il contratto di società ed il diritto penale. – 7. Civile e penale nella didattica.

1. Civile e penale di fronte ad una comune difficoltà del diritto del nostro tempo.

Il diritto civile ed il diritto penale appartengono al genere dei diritti codificati, e per entrambi a partire dagli anni sessanta del secolo scorso la carta costituzionale ha notevolmente contribuito a ridefinirne il contenuto ed i contorni. Il fenomeno è stato macroscopicamente avvertito nel diritto civile, per via degli studi sulla proprietà, sulla responsabilità civile e sul contratto, svolti da Stefano Rodotà. Ma più in generale questa nuova stagione ha visto come protagonista una vasta schiera di studiosi che in questo modo si è contrapposta alle scuole più tradizionali che, ragionando con il metodo e sui temi della dogmatica, sono rimasti legati ad una certa tradizione e alla cultura tedesca.

A questo processo non è risultato estraneo il diritto penale, quantomeno in una delle sue manifestazioni più originali di quegl’anni. nello scrivere la voce Teoria generale del reato sul Novissimo digesto italiano (1) e nel fondare qualche anno dopo la rivista La questione criminale, Franco Bricola ha introdotto l’argomento costituzionale, nello studio del diritto penale. La sua proposta ha portato a rileggere per intero il codice Rocco nella prospettiva di qualche norma costituzionale, con il risultato: a) di eliminare definitivamente il dubbio circa la necessità di cancellare per intero un codice entrato in vigore nel ventennio fascista; b) di correggere attraverso l’interpretazione (che oggi definiremmo costituzionalmente orientata) la dissonanza di certi principi o anche soltanto di certe norme penalistiche dai valori della costituzione. Non una riscrittura, quindi, ma certamente una rilettura integrale del sistema.

L’impiego di una fonte sovraordinata per giungere alla ratio iuris di una norma di diritto comune ha investito entrambi i diritti in esame ed è stato quello di maggiore impatto, poiché per la prima volta ha posto il tema del ruolo dell’interprete nel mutato sistema delle fonti, occasionato dalla qualità rigida della Costituzione italiana del 1948. È indubbio che il diritto civile ed il diritto penale siano stati interessati anche dal fenomeno della decodificazione, ma questo non ha avuto la portata di quello segnalato in precedenza. La decodificazione ha compromesso la sistematicità, pregiudicata dalla creazione di microsistemi esterni ai codici, ma non la gerarchia dei valori propri del diritto civile e del diritto penale. Del resto entrambi, e fin dal loro nascere, hanno visto una sorta di decodificazione per così dire genetica: per il diritto civile penso alla disciplina dei titoli di credito, del fallimento ed altri ancora; per il diritto penale, penso alle norme sulle false comunicazioni sociali, sulla bancarotta e così via. Nonostante il dibattito aperto dal saggio L’età della decodificazione (2), dubito che qualcuno abbia davvero messo in discussione la supremazia dei codici tradizionali, rispetto ai microsistemi introdotti dalla legislazione speciale. La regola normativa può anche essere esterna al codice, ugualmente la sua ratio iuris va trovata nei principi del codice, poiché l’unitarietà dell’ordinamento giuridico va ricostruita attraverso i testi che meglio la possono realizzare e non in via di eccezione.

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Diversa è la prospettiva apertasi con la costituzionalizzazione dei diritti e dei principi operata a far tempo dal 1948, in conseguenza della quale il giudice chiamato ad applicare la norma ordinaria, preliminarmente ha incominciato a chiedersi se quella norma sia conforme al dettato costituzionale (3). Questo solo fatto ha mutato il ruolo dell’interprete, per la prima volta chiamato a valutare la legittimità di una norma ordinaria; il problema si sarebbe posto qualche tempo dopo anche in sede di applicazione di una norma ordinaria, quando questa entra in conflitto con un’altra di fonte comunitaria.

Tale prospettiva ha inaugurato un dibattito tutt’ora aperto tra coloro che ravvisano nel nuovo ruolo assunto dal giudice una grave compromissione della certezza del diritto, acuitosi per effetto della pluralità delle fonti del diritto, portato del fenomeno della globalizzazione; e coloro che leggono proprio in questa situazione il carattere proprio del diritto del terzo millennio. In estrema sintesi ci si chiede sempre più frequentemente se il diritto vigente riposi in una norma di legge o se questa sia soltanto uno dei luoghi nei quali questa può trovare sede.

Questo dibattito non lascia estranei neppure i penalisti, che spesso ravvisano in tal fenomeno un attacco inaccettabile alla riserva di legge, sul cui fondamento si costruisce una consolidata tradizione di civiltà giuridica risalente a Beccaria. Se non è la legge a stabilire il crimen e la poena il giudice finisce per sovrapporsi e ad occupare spazi che non gli sono propri; la eccezionalità della norma penale male tollera queste intromissioni, secondo l’opinione di gran parte degli interpreti. D’altra parte c’è addirittura chi ritiene che il sistema attuale non consenta più l’impiego della tecnica propria del sillogismo e che quindi, pure nel diritto penale, ci si debba rassegnare all’idea di un diritto vigente che diventa sempre più diritto vivente. Con la conseguenza che l’overruling ed il suo grado di effettività finisce per interessare anche il diritto penale, quantomeno come problema che l’interprete si deve porre.

2. Il diritto penale come “braccio armato” del diritto civile o di un altro diritto.

Da circa vent’anni a questa parte, il diritto penale si è distinto dagli altri diritti per l’uso che talvolta i protagonisti ne fanno per gestire una lite. Sono sempre più frequenti i casi nei quali chi assume l’iniziativa presenta una denuncia o una querela allo scopo di indurre l’altra parte ad assumere un comportamento che altrimenti non sarebbe motivata a tenere. Specie in taluni settori delle attività umane in cui c’è di mezzo il diritto pubblico, oppure entra in scena la politica, la prassi di presentare una denuncia e di farne un uso giornalistico è abbastanza diffusa. L’uso del processo penale in modo alquanto disinvolto, specie in certi ambiti, storicamente incomincia con la stagione andata sotto il nome di tangentopoli e di fatto non è affatto terminata.

Anziché promuovere un giudizio civile o amministrativo, talvolta è più efficace (e sicuramente meno costoso) presentare una denuncia penale, per poi attendere i risultati del procedimento ormai avviato. In questo modo, pur caduta la pregiudizialità del giudizio penale, per altra via, assistiamo ad una ripresa di quel processo, quindi anche del diritto penale, del tutto inopinata.

Vi sono altri settori nei quali in questione sono i nuovi diritti della personalità, i diritti inviolabili dell’uomo secondo l’art. 2 cost., rispetto ai quali il processo penale e l’esercizio in quella sede dell’azione civile può apparire addirittura un appesantimento. In primo luogo, perché non è sicuro che la violazione della riservatezza di per sé costituisca reato, in secondo luogo perché il giudice civile ha la giusta sensibilità per liquidare il danno non patrimoniale, frutto della rilettura costituzionale dell’art. 2059 c.c., se dovuto. Lo stesso accade anche nei giudizi per lesioni alla persona conseguenti ad incidenti stradali, qui normalmente è più adeguato il risarcimento calcolato dal giudice civile, anche se talvolta la querela viene impiegata per provocare l’intervento più spedito dell’assicurazione del danneggiante.

3. Il fatto illecito ed il reato.

Quello dei fatti illeciti è il settore nel quale da sempre c’è una fisiologica contiguità tra il diritto civile e il diritto penale; a consacrarlo è l’art. 185 c.p., nel prevedere che tra le conseguenze del reato c’è il risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale. La solida pregiudizialità del processo penale rispetto a quello civile completava il disegno, ponendo una indiscussa supremazia del diritto penale su quello civile. In concreto questo si traduceva in una sostanziale equiparazione della colpa civile alla colpa penale, della causalità nei due sistemi, e non soltanto perché il diritto civile non dà nessuna definizione di colpa o di causalità.

La prima grande inversione di tendenza è avvenuta nel 2003, quando, in seguito alle note sentenze gemelle, il diritto vivente ha riletto la riserva di legge dell’art. 2059 c.c., di fatto scollegando questa norma dall’art. 185 c.c. «Il rinvio ai casi in cui la legge [art. 2059 c.c.] consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale» (4). A questo punto, il danno non patrimoniale perde quel connotato punitivo che di fatto lo aveva caratterizzato fino a quel momento, se si considera che la giustificazione degli altri casi previsti dalla legge diversi dall’art. 185 c.p. erano stati spesso motivati dal carattere di riprovevolezza che li poteva assimilare ad un reato, pur senza esserlo (5).

Se tutto questo si collega alla perdita della pregiudizialità assoluta, dovuta all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il risultato è l’inizio di un processo che vede due tappe intermedie. La prima è una sentenza della Suprema corte nella quale è affermato il principio che la prova degli elementi costitutivi del fatto di reato è data secondo le regole proprie del processo in cui vengono in rilevo. La questione concreta era la colpa presunta dell’art. 2054, comma 2º, c.c. che, proprio perché legalmente presunta, non aveva consentito fino a quel momento di ritenere la sussistenza di un fatto di reato, quindi di riconoscere il danno morale. Era pacifico che, per liquidare il danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 185 c.p., occorreva l’accertamento della colpa effettuato con le stesse tecniche impiegate dal giudice penale e non attraverso una presunzione legale, figura sconosciuta a quel giudice.

Con una decisione innovativa, spiegabile con l’intento di rendere autonomo il danno non patrimoniale dall’antico danno morale soggettivo, la Cassazione ha deciso che l’accertamento delle figure delle singole fattispecie deve essere effettuato con l’impiego degli strumenti propri del processo nel quale devono essere accertati. Pertanto l’accertamento della colpa effettuato nel processo civile nel quale è ammissibile la presunzione legale può produrre gli stessi effetti dell’accertamento condotto nel processo penale (6). Discende che da quel momento anche da uno scontro di veicoli, per il quale è applicabile l’art. 2054, comma 2º, c.c., il responsabile può essere condannato al pagamento del danno non patrimoniale.

Questa sentenza non avuto una larga eco, poiché è giunta in una fase in cui la rilettura costituzionale dell’art. 2059 c.c. ha di fatto superato la tecnicità della questione, dal momento che quel risarcimento non ha più dovuto passare attraverso le strettoie dell’art. 185 c.c. Resta, tuttavia, sintomatica di un certo scollamento tra il sistema civile ed il sistema penale che ha incominciato a rendersi evidente, a cavallo dei due millenni.

La seconda tappa è un’altra decisione in tema di criterio sulla base del quale stabilire quando un antecedente può dirsi in collegamento con una certa conseguenza. È noto che la questione si è posta in sede penale e che i termini della vicenda oscillano tra una percentuale di probabilità intorno al 50% (talvolta anche meno) ed una percentuale che richiede una probabilità che vada “oltre ogni ragionevole dubbio”. La maggioranza degli interpreti ritiene inoltre che, qualunque sia la percentuale richiesta, debba trattarsi di una probabilità logica, eventualmente supportata da un criterio scientifico, ma non il risultato di una mera operazione effettuata in esecuzione solo di una regola tecnico-scientifica (7).

La decisione alla quale alludevo ha risolto il caso di un danno da perdita di chance, con il rigetto del ricorso ampiamente motivato proprio sul punto della capacità selettiva del rapporto eziologico. L’estensore ha voluto dimostrare che alla diversità dei fini propri del sistema civile e del sistema penale deve corrispondere un diverso impiego della regola causalistica. Il protagonista nel sistema penale è l’imputato eventualmente da sanzionare con la pena, quindi la regola causalistica deve rasentare il criterio dell’“oltre ragionevole dubbio”: occorre essere certi della consequenzialità per poter restringere la libertà personale di qualcuno. Il protagonista del sistema civile è, invece, la vittima da compensare con il risarcimento: è nella logica del sistema di voler proteggere efficacemente chi viene pregiudicato all’azione del responsabile, anche mediante un uso più lasco della causalità (8).

Nella ricostruzione fatta dalla Cassazione, alla diversità dei fini, deve corrispondere una modulazione nell’impiego dei singoli elementi della fattispecie (9), nonostante l’art. 651, comma 1º, c.p.p. preveda che «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale». E nonostante anche l’art. 652, comma 1º, c.p.p. preveda che «la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2° [c.p.p.]».

È ben vero che normalmente nelle ipotesi nelle quali in sede civile c’è un impiego lasco della causalità il petitum riguarda la perdita della chance (di sopravvivenza, di lesione) e non la perdita della vita o della integrità fisica. Di conseguenza il fatto penalisticamente rilevante, quello per il quale è decisivo conoscere se «l’imputato lo ha commesso» (omicidio o lesioni), è diverso da quello civilisticamente rilevante (la perdita della chance di vita o di salute non del diritto alla vita o alla salute). Senonché è indubbia una tendenza che vuole ricostruiti in modo differente i due sistemi, così da far acquistare loro quell’autonomia che storicamente non hanno mai avuto, e non soltanto per ragioni processuali.

La terza tappa, storicamente quasi contemporanea alla precedente, ha individuato nel contatto sociale, ossia in un fatto diverso da un illecito aquiliano (il contatto sociale, appunto), la fonte dell’obbligazione del medico e della struttura ospedaliera. In questo modo le regole della responsabilità sono state tutte governate (non dall’art. 2043 c.c., ma) dall’art. 1218 c.c., il quale impone un certo riparto dell’onere della prova per tutti i creditori e tutti i debitori, anche per quelli chiamati ad adempiere obbligazioni di mezzi (10). Al creditore (il danneggiato) compete la prova del titolo dell’obbligazione (il contratto di spedalità o il contatto sociale) e l’allegazione (non la prova) dell’inadempimento, mentre al debitore (il medico o l’ospedale) compete la prova diretta e contraria dell’adempimento o della prova del fatto impeditivo: che si è verificata una impossibilità della prestazione, per causa non imputabile a lui. In concreto ciò implica che, se il paziente lamenta di aver contratto una malattia da contagio in conseguenza della trasfusione, egli non deve dimostrare con rigore che prima del ricovero era in salute, quindi che con assoluta certezza contrasse la malattia in conseguenza di quella trasfusione, in quell’ospedale. Il riparto dell’onere della prova, qui incidente anche sul piano del rapporto di causalità, comporta che la prova della malattia pregressa compete al (debitore) medico e non al (creditore) paziente (11). La diversità del sistema penale dal sistema civile determina un diverso accertamento della causalità, che, nel secondo, può essere il risultato delle regole del riparto dell’onere della prova. Non causalità diverse, dunque, ma un diverso modo di accertarla, che porta con sé un diverso rischio per i soggetti del rapporto obbligatorio, con la conseguenza che un giudice civile può condannare, mentre per lo stesso fatto un giudice penale deve assolvere.

3.1. La responsabilità professionale.

L’ambito che ha fatto discutere di più, e non solo per ragioni statistiche, è stato quello della responsabilità professionale, e in particolare quella sanitaria. La stretta correlazione fra civile e penale, e la forte esigenza di valorizzare la persona umana nel rapporto con gli altri ed in modo particolare con lo Stato, ha fatto emergere una contraddizione. Tanto più il diritto valorizza la persona, quanto più la posizione del medico finisce per equivalere a quella di chiunque altro “le ponga le mani addosso”, con il rischio di esporlo al rischio di subire un giudizio penale. Paradossalmente lo stretto rapporto fra civile e penale amplifica l’effetto protettivo del paziente, ma espone il medico ad un rischio, che non sempre si giustifica, pur in presenza di una sua colpa di rilievo penale.

Il generale ripensamento del rapporto fra medico e paziente vede nell’adempimento del dovere all’informazione del primo il nucleo centrale di una relazione diretta a garantire l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del secondo. In questo contesto, il dolo o la colpa grave del medico certamente giustificano ampiamente l’impiego del diritto penale, secondo la logica tradizionale, forse per la colpa e la colpa lieve occorrerebbe ripensare il modello. Di questa situazione quasi tutti i progetti di legge sulla responsabilità professionale del medico giacenti in parlamento danno atto, nel prevedere l’obbligo bilaterale di assicurazione dal rischio della responsabilità civile e nel mitigare l’impiego dello strumento penale. Di questa situazione dà atto anche, con un certo imbarazzo, la cassazione penale nell’escludere da responsabilità penale il medico che abbia eseguito un intervento con successo su un paziente, quindi con esito migliorativo per la sua salute, pur senza aver acquisito il necessario consenso (12).

Effettivamente, in questo settore, l’allontanamento fra i due sistemi sarebbe opportuno, così da rendere i due settori davvero autonomi.

4. Il contratto e il reato.

Il divieto di rilievo penalistico ha sempre svolto una importante funzione nella teoria sulla validità del contratto. La premessa dalla quale muovere è la imperatività di una norma, che il contratto non può contrastare, pena la sanzione della nullità, secondo l’art. 1418, comma 1º, c.c. La violazione di una norma imperativa, quindi, determina la nullità dell’atto, in conseguenza del combinato disposto della norma primaria, quella che contiene il divieto o che pone l’obbligo, e la norma secondaria dell’art. 1418, comma 1º, c.c., che ne prevede la conseguenza. Senonché la violazione di una norma imperativa può anche determinare la illiceità della causa (art. 1343 c.c.), dei motivi (art. 1345 c.c.) o dell’oggetto (artt. 1346 e 2379 c.c.) e per questa via può determinare la nullità del contratto, secondo l’art. 1418, comma 2º, c.c., ossia per illiceità. L’effetto della nullità è l’inefficacia dell’atto, peraltro se deriva da una illiceità: (a) quel contratto non può essere convertito (art. 1424 c.c.), quantomeno secondo la prevalente opinione (13); (b) la eventuale transazione che abbia riguardato quel titolo è essa stessa irrimediabilmente nulla (art. 1972, comma 1º, c.c.), altrimenti è annullabile ad istanza della sola «parte che ignorava la causa di nullità del titolo» (art. 1972, comma 2º, c.c.); (c) per un contratto di lavoro, opera l’art. 2126 c.c., quanto alla irripetibilità prestazione di fatto rese in violazione di legge.

In buona sostanza, nell’ambito delle norme imperative che non prevedono una sanzione specifica, si deve distinguere quelle che sono causa di nullità (art. 1418, comma 1º, c.c.), da quelle che causano la illiceità (art. 1418, comma 2º, c.c.). Storicamente l’impiego della norma penale proibitiva è stata impiegata per desumere la portata di una certa norma imperativa. In concreto, un conto è vietare l’uccisione di una persona, un altro conto è vietare l’esportazione di capitali all’estero. È innegabile che la conclusione di un contratto che favorisca entrambe le attività debba essere sanzionato con la nullità. Senonché la prima norma protegge la vita di una persona fisica, mentre la seconda protegge la persona dello Stato e la sua capacità di esercitare l’imposizione fiscale. Nella gerarchia dei valori le due norme proibitive non si pongono sullo stesso piano, sicché, anche nella prospettiva della validità del contratto, altrettanto diverse possono essere le conseguenze: la illiceità la prima (art. 1418, comma 2º, c.c.) e la illegalità la seconda (art. 1418, comma 1º, c.c.).

In conclusione, il diritto penale e le tecniche per individuare il bene protetto dalle singole norme concorrono a delineare qualitativamente il grado di imperatività di una norma, sulla base del grado nella gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico. Quando l’interprete rileva che l’interesse sottostante ad un certo divieto non potrebbe essere derogato neppure da un’altra norma, allora significa che non è protetto soltanto un interesse generale, ma un principio etico giuridico, di rilievo quasi per la sua pregiuridicità (14). La riflessione sulle norme penali favorisce l’attribuzione della giusta ratio a taluni precetti proibitivi, in applicazione di un principio che si modella dall’art. 25, comma 2º, cost., previsto per la tutela della salute della persona: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

5. Il contratto, il reato e l’Unione europea.

Una speciale incapacità che dagli interpreti è stata assimilata a quella legale riguarda la condizione degli enti pubblici quando contrattino con i privati in regime di diritto privato, ovvero quando concludano un contratto al termine di una procedura di scelta del contraente ad evidenza pubblica, se il procedimento di formazione della volontà interna all’ente è viziata. L’ipotesi è quella della mancanza di un’autorizzazione del funzionario che ha sottoscritto il contratto, oppure della sottoscrizione del contratto d’appalto in seguito ad una gara poi annullata in via amministrativa oppure ancora dell’acquisto di un terreno da parte del sindaco di un comune, senza la preventiva delibera consiliare (15). Per lungo tempo, gli interpreti erano giunti alla conclusione che il funzionario rogante si trovava nella medesima condizione giuridica dell’incapace legale, privo della capacità d’agire o con capacità limitata. Coerentemente ritenevano che soltanto l’ente pubblico fosse legittimato ad impugnarlo e non anche il privato contraente, osservato il termine di prescrizione quinquennale dell’annullamento (16).

Più di recente, sul presupposto della ripensata imperatività delle norme sull’evidenza pubblica, alla luce della disciplina comunitaria e della legislatore penale di supporto, è stato deciso che il contratto concluso in conseguenza di un vizio del procedimento amministrativo è nullo per mancanza dell’accordo (artt. 1325, n. 1; 1418, comma 2º, c.c.) (17). «Le norme sull’evidenza pubblica non sono poste solo nell’interesse della parte pubblica, ma anche, se non soprattutto, in quello delle imprese ad un accesso libero, competitivo e concorrenziale alla contrattazione con le amministrazioni». Quindi «la riserva alla sola pubblica amministrazione della legittimazione a domandare l’annullamento del contratto impedisce una tutela satisfattiva e piena dell’impresa ricorrente che ha ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione». Con la conseguenza che «l’ascrizione dell’annullamento dell’aggiudicazione alle categorie dell’incapacità di contrattare (art. 1425) o dei vizi del consenso (art. 1427 c.c.) risulta sprovvista di sufficienti riscontri positivi e di sicure indicazioni argomentative: non si chiariscono i caratteri costituivi della presunta incapacità legale dell’amministrazione e non si precisa il tipo di vizio della volontà nella specie riscontrato» (18).

Assistiamo qui ad un impiego di norme di fonte comunitaria, rifinite da qualche divieto penale, che ha comportato un cambiamento nel modo di intendere l’imperatività di una norma agli effetti della validità del contratto. Paradossalmente si può azzardare che l’esigenza di proteggere la concorrenza del mercato ha assunto un carattere davvero generale al punto che il rimedio della nullità è parso più appropriato. Se il mercato degli contraenti privati deve essere tutelato, allora è da preferire la nullità all’annullamento che finirebbe per privilegiare esclusivamente l’interesse della pubblica amministrazione che, per quanto generale, non è pari a quello garantito dalla nullità. A meno che non si tratti di contratti stipulati per la realizzazione delle opere o delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale, per le quali l’inefficacia del contratto già concluso potrebbe determinare un pregiudizio all’interesse pubblico o generale. Penso all’art. 14, comma 2º, d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, ora abrogato o, ad esempio, all’art. 121 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo), nei quali il risarcimento del danno sostituisce l’inefficacia del contratto conseguente all’aggiudicazione illegittima.

6. Il contratto di società ed il diritto penale.

Nel diritto societario la funzione del diritto penale è sempre stata quella di erigere barriere di confine, così da marcare in modo chiaro le aree dell’agire lecito dalle altre (19). Proprio per questo, da lungo tempo, gli interpreti condividevano l’idea che tutte le norme sul funzionamento del contratto di società dovessero essere interpretate restrittivamente, perché dirette a realizzare un interesse di ordine pubblico in senso economico. Non soltanto erano considerate inderogabili le norme sul bilancio, va da sé, ma anche altre come, ad esempio, quelle che regolano la nomina degli amministratori ed i loro poteri. Proprio per questo, era alquanto dibattuto che l’assemblea potesse imporre al consiglio di amministrazione di nominare amministratori delegati o che lo statuto potesse predeterminare il loro potere. Altrettanto dibattuto era che l’assemblea potesse nominare direttamente amministratori delegati, sostituendosi al consiglio (20).

Le cose sono cambiate sia per l’intervento del legislatore penale, sia per la riforma generale del Titolo V del Libro V. Il primo segnale è giunto con la sostituzione dell’intero Titolo XI, del Libro V, ad opera dell’art. 1 d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, emanato in attuazione dell’art. 11 l. 3 ottobre 2001, n. 366. Nell’apprezzamento del reato di false comunicazioni sociali, c’è stato un generale spostamento di attenzione dal pericolo al danno. Ciò ha comportato un ampliamento dell’autonomia privato, quindi dello spazio della libera iniziativa economica, poiché più basso è diventato il limite della illiceità delle condotte.

Coerentemente la cennata riforma del Titolo V, operata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, è stata letta come apertura verso l’autonomia privata anche nel settore del diritto societario, quantomeno in quello non soggetto alle regole delle società che fanno ricorso al mercato di rischio, per le quali in primo piano c’è l’esigenza della tutela del risparmio. Anche il diritto civile ha registrato lo spostamento di attenzione dalla repressione alla prevenzione da realizzare con l’informazione, salvo che dal provvedimento possa derivare un danno alla società. Questo mi sembra il senso della nuova disciplina sugli «interessi degli amministratori», art. 2391 c.c., profondamente innovata su questo aspetto rispetto alla precedente dettata per il conflitto di interessi.

Un’altra innovazione importante è giunta in conseguenza della disciplina penale introdotta con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche». Il senso è di spostare il controllo sulle attività umane direttamente su alcune figure cui la legge attribuisce un potere speciale, fuori dal potere pubblico in senso stretto (21). In effetti, la responsabilità dell’ente deriva dal non aver adottato un efficace assetto organizzativo amministrativo e contabile capace di prevenire gli illeciti. Per assicurare l’effettività di questo controllo è prevista la istituzione di un’autorità di vigilanza sul rispetto delle procedure predisposte con finalità preventiva. In caso di inosservanza è prevista la sanzione direttamente a carico della persona giuridica, da intendersi come sanzione penale di carattere patrimoniale o sanzione amministrativa conseguente alla commissione di un reato, secondo i linguaggi impiegati. È certo che il legislatore penale ha privilegiato un percorso che vede vacillare l’antico principio societas delinquere non potest, per di più ha scelto di avvalersi di sanzioni diverse da quelle tradizionalmente previste nel codice penale (art. 9 d.lgs. cit.).

Si tratta di una scelta che meriterebbe di essere pensata anche dai civilisti, i quali sempre più di frequente sono chiamati a riflettere sui rimedi. Mi viene in mente il dibattito da qualche tempo in atto circa l’impiego della nullità come sorta di rimedio generale, basti ricordare la figura della nullità di protezione. Probabilmente è venuto il tempo che la civilistica proponga al legislatore qualche figura diversa dalla invalidità e dal risarcimento, eventualmente collegato con la risoluzione del contratto. Forse anche nel nostro sistema si può prefigurare qualche forma di danno punitivo o a qualche altra misura assimilabile al genere delle inibitorie (22), da impiegare in aggiunta o in sostituzione di quelle tradizionali. In taluni settori il risarcimento ha preso il posto del rimedio contro la invalidità dell’atto, ad esempio così è nell’art. 2377, comma 4º, c.c.; non è sbagliato pensare a rimedi diversi anche dal risarcimento, ove ciò sia possibile.

7. Civile e penale nella didattica.

Normalmente gli insegnamenti di diritto civile e di diritto penale sono tenuti nello stesso anno di corso. Per di più la struttura del reato presenta forti analogie con la prima parte dell’art. 2043 c.c., quella che si ferma al danno ingiusto, prima di menzionare il risarcimento come conseguenza. Ancora: una tradizionale lettura dell’illecito civile costruito sul modello del neminem laedere ben si presta ad accostamenti suggestivi fra i due sistemi; spesso sono efficaci dal punto di vista didattico.

In definitiva è innegabile una certa simmetria fra reato e pena, tra illecito e risarcimento, che ricalca, in ultima istanza, il binomio precetto e sanzione; ma si tratta di una simmetria foriera di insidie che devono essere svelate, in limine, anche agli studenti. È innegabile che la pena è la conseguenza del reato, così come il risarcimento per equivalente è una conseguenza dell’illecito, senonché nella teoria generale del reato la pena è una conseguenza automatica del reato, mentre così non è nel fatto illecito. L’illecito aquiliano è fonte di obbligazione ai sensi dell’art. 1173 c.c.: l’obbligazione che nasce è il risarcimento del danno. Di conseguenza se manca il danno patrimoniale (o non patrimoniale) risarcibile, manca anche l’illecito, nonostante formalmente una norma sia stata violata, quindi nonostante l’operatività in astratto dell’alterum non laedere. Non si deve negare che, nei due sistemi, la colpa e il dolo si presentano sostanzialmente identici, che molte norme del codice penale possono essere impiegate anche per definire elementi della fattispecie di responsabilità civile; che, quindi, molte riflessioni fatte in punto di rapporto di causalità, in ambito penalistico, ben possono essere adoperate pure per stabilire la sequenzialità tra un evento ed il suo presupposto.

Senonché è il risarcimento del danno, ossia l’obbligazione che nasce dall’illecito, ad essere il nucleo della figura rispetto alla quale il neminem laedere degrada al ruolo di presupposto o elemento della fattispecie complessa. Proprio perché il risarcimento non è la sanzione dell’illecito civile, nella responsabilità civile il ruolo del protagonista spetta alla vittima da compensare, mentre nella responsabilità penale l’analogo ruolo spetta al reo, al quale può essere comminata la pena criminale. Queste premesse forniscono la condizione necessaria e sufficiente per delineare la profonda differenza tra i due sistemi, che si può così riassumere:

– per privare una persona della propria libertà occorre maturare una convinzione tale da superare “ogni ragionevole dubbio”, altrimenti occorre assolverla, in applicazione dell’art. 27, comma 2º, cost.;

– per risarcire un danno, specie in un settore nel quale l’agente avrebbe potuto assicurare quel rischio, occorre muovere dalla premessa che è meglio tutelare chi subisce rispetto a chi si intromette nella sfera giuridica altrui;

– quindi per il secondo sistema va seguita la regola esattamente opposta a quella adottata per il primo.

Ancora, dal punto di vista didattico l’accostamento fra le due discipline è utile per esporre in concreto l’operatività di una regola proibitiva nell’ambito delle libertà. È utile per chiarire la portata del principio di pienezza del godimento e della disposizione nella proprietà (art. 832 c.c.) o del principio della libera iniziativa economica nell’art. 41, comma 1º, cost. È utile, infine, per spiegare la ragione per la quale la norma che pone un limite, in quanto normalmente speciale, deve essere passibile di un’interpretazione restrittiva e non possa mai essere analogica. La logica della norma penale è utile per spiegare convincentemente il rapporto fra regola ed eccezione, quest’ultima da intendersi anche quale isola che emerge nel mare delle libertà.

È utile altresì per esporre la differenza fra norme elastiche, fino a comprendere quelle che contengono clausole generali, e norme a fattispecie determinata. Ed è utile per spiegare che un sistema che si basa sulla previsione di limitazioni non può essere costruito per clausole generali, al contrario di quanto accade nel diritto civile. Anche perché l’impiego di clausole generali nel diritto penale lascerebbe all’interprete il compito di formare il precetto, ma con ciò potrebbe compromettere la regola tempus regit actum, di cui all’art. 25, comma 2º, cost. È vero che la legge che contiene una clausola generale è già entrata in vigore quando il fatto si compie. Ma è altrettanto vero che la norma contenuta in quella legge è creata al tempo della sentenza di condanna o di assoluzione, quindi è come se la pronuncia avesse posto a base della decisione una “legge” postuma.

Di conseguenza le clausole generali, che hanno costituito l’elemento di novità nel dibattito sul diritto civile, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, devono essere bandite dal diritto penale, per evitare il rischio di privare l’imputato dalle elementari garanzie che sarebbero sacrificate dalla possibilità di uno strapotere da parte dello Stato. Nel diritto civile il tema delle clausole generali ha aperto la via ad una nuova riflessione sul diritto vivente, capace di adattarsi al mutare delle situazioni e dei tempi, grazie all’autopoiesi, garantita dal ruolo dell’interprete (23). Nel diritto penale ampliare la portata ed il valore di certe norme elastiche si traduce in un insidia, che, in ultima istanza, penalizza la certezza dei rapporti giuridici, evidenziati nel rischio di compromettere i diritti dell’imputato nel processo penale.

Si tratta di un altro ambito che conferma la tradizionale cesura fra i due sistemi, al punto che, è il caso di osservare, il diritto penale è proprio “altro” …

(*) Relazione al Convegno dell’Associazione Civilisti Italiani, «Il diritto civile, e gli “altri”», Roma, 2-3 dicembre 2011, Sapienza, Facoltà di Giurisprudenza, Aula Calasso.

(1) Cfr. Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, di cui è stato pubblicato anche l’estratto di 94 pagine, dalla stessa casa editrice nell’anno successivo.

(2) Cfr. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1986.

(3) Solo per completezza ricordo che la Corte cost., 16 giugno 1956, n. 1, in http://www.cortecostituzionale.it, ha deciso che il giudizio di costituzionalità riguarda anche le norme contenute in leggi anteriori all’entrata in vigore della costituzione.

(4) La motivazione è comune alla Cass., 31 maggio 2003, n. 8828; ed alla Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, pubblicate su tutte le principali riviste, fra le quali in Corriere giur., 2003, p. 1017, con nota adesiva di Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta nel danno alla persona.

(5) Cfr. Franzoni, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, diretto da Franzoni, Milano, 2010, p. 555 ss.

(6) Cfr. Cass., 1 giugno 2004, n. 10482, in Danno e resp., 2004, p. 953, con nota di Bitetto, All’ombra dell’ultimo sole: il danno morale soggettivo e la sua funzione «punitiva»; Cass., 26 febbraio 2004, n. 3871, in La responsabilità civile, 2005, p. 132, con nota di Todaro, Il danno non patrimoniale in progress: «il danno non patrimoniale, allorché vengano lesi valori della persona costituzionalmente garantiti, è risarcibile tanto nelle ipotesi in cui il danneggiante sia ritenuto responsabile in base a una presunzione di colpa, quanto in quelle di responsabilità oggettiva»; anche Cass., 14 febbraio 2008, n. 3532, in Mass. Foro it., 2008; Cass., 19 novembre 2007, n. 23918, ivi, 2007; Cass., 1 giugno 2004, n. 10489, ivi, 2004; Cass., 27 ottobre 2004, n. 20814, ivi, 2004.

(7) Ho trattato questi temi in Franzoni, L’illecito, in Trattato della responsabilità civile, diretto da Franzoni, Milano, 2010, p. 61 ss.

(8) Cfr. Cass., 16 ottobre 2007, n. 21619, in Resp. civ., 2008, p. 323, con nota di Locatelli, Causalità omissiva e responsabilità civile del medico: credibilità razionale o regola del «più probabile che non»?; in Corriere giur., 2008, p. 35, con nota di Bona, Causalità civile: il decalogo della cassazione a due «dimensioni di analisi»; e in Danno e resp., 2008, p. 43, con nota di Pucella, Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione, la liquidazione ed il relativo criterio non hanno costituito oggetto di impugnazione, quindi la sentenza non si è pronunciata su questo capo della sentenza.

(9) Lo afferma chiaramente la Cass., 16 gennaio 2009, n. 975, in Foro it., 2010, I, c. 994, con nota di Tassone, Concorso di condotta illecita e fattore naturale: frazionamento della responsabilità; in Danno e resp., 2010, p. 372, con nota di Capecchi, Il revirement della corte di cassazione sulla interpretazione dell’art. 2055 c.c.: si apre una nuova stagione nel rapporto tra nesso causale e risarcimento del danno?; e Tassone, Il frazionamento della responsabilità secondo la cassazione e in prospettiva di comparazione; e in Resp. civ., 2010, p. 375, con nota di Miotto, Il «difficile» concorso di cause naturali e cause umane del danno, nel seguente passo della motivazione: «nel cosiddetto sottosistema civilistico, il nesso di causalità (materiale) – la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”» (ivi, § 7.2).

(10) Cfr. Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, c. 769, con nota di Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo; in Corriere giur., 2001, p. 1565, con nota di Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le sezioni unite compongono un contrasto e ne aprono un altro. Questo principio è stato applicato anche alle obbligazioni di carattere professionale dalla Cass., 28 maggio 2004, n. 10297, in Danno e resp., 2005, p. 26, con nota di De Matteis, La responsabilità medica a una svolta?; in Nuova giur. civ., 2004, I, p. 783, con nota di Palmerini, La responsabilità medica e la prova dell’inesatto adempimento; in Giur. it., 2005, p. 1413, con nota di Perugini, La fattispecie prevista dall’art. 2236 c.c. e la ripartizione dell’onere della prova; e in La responsabilità civile, 2005, p. 396, con nota di Martinelli, L’art. 2236 c.c. e la responsabilità medica: la suprema corte quadra il cerchio; Cass., 13 aprile 2007, n. 8826, in Resp. civ., 2007, p. 1824, con nota di Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile.

(11) Cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in La responsabilità civile, 2008, p. 687, con nota di Dragone, Le sezioni unite, la “vicinanza alla prova” e il riparto dell’onere probatorio; in Danno e resp., 2008, p. 1002, con nota di Gazzara M., Le sezioni unite “fanno il punto” in tema di onere della prova della responsabilità sanitaria; in La responsabilità civile, 2008, p. 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria.

(12) Cass. pen., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437, in Foro it., 2009, II, c. 305, con nota di Fiandaca, Luci ed ombre della pronuncia a sezioni unite sul trattamento medico-chirurgico arbitrario; in La responsabilità civile, 2009, p. 881, con nota di Campione, Trattamento medico eseguito lege artis in difetto di consenso: la svolta delle sezioni unite penali nella prospettiva civilistica: «ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle alternative ipotizzabili, e senza che ci fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di lesione personale di cui all’art. 582 c.p., che sotto quello del reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p.».

(13) Cfr. Franzoni, La “magia” della conversione, in Obbligazioni e contratti, 2011, p. 7 ss.; indirettamente Cass., sez. lav., 26 luglio 2002, n. 11108, in Mass. Foro it., 2002: «poiché la forma scritta, prevista dall’art. 5, comma 2º, d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito dalla l. 19 dicembre 1984, n. 863, per la stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale costituisce un requisito stabilito ad substantiam e non già ad probationem, la mancanza della forma scritta comporta nullità per difetto di forma e non anche per illiceità della causa o dell’oggetto».

(14) Così Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 330.

(15) Su quest’ultimo caso, cfr. Cass., 28 marzo 1996, n. 2842, in Foro it., 1996, I, c. 2054, nella quale si precisa che «l’annullabilità è rilevabile esclusivamente da parte dell’amministrazione, e consente la possibilità di convalida ai sensi dell’art. 1444 c.c.».

(16) Cfr. Cass., 14 agosto 1990, n. 8274, in Mass. Foro it., 1990; Cass., 13 ottobre 1986, n. 5983, in Foro it., 1987, I, c. 850; e in Giust. civ., 1987, I, p. 86: «il contratto della p.a. posto in essere in mancanza (cui deve parificarsi la invalidità) degli atti della serie procedimentale, che ne costituiscono antecedenti in senso logico-giuridico, è annullabile e non già colpito da nullità assoluta e, trattandosi di una invalidità di diritto privato che colpisce il negozio come atto di autonomia privata, il potere di chiederne al giudice l’annullamento è concesso, ai sensi dell’art. 1441 c.c., soltanto all’autorità amministrativa, nel cui interesse sono poste le norme che ne discriminano il relativo procedimento».

(17) Così T.a.r. Lazio, sez. I, 10 aprile 2006, n. 2553, in Foro it., 2006, III, c. 670; T.a.r. Liguria, sez. II, 1 aprile 2004, n. 313, in Enti pubblici, 2005, p. 659; T.a.r. Puglia, sez. Lecce, sez. II, 2 febbraio 2004, n. 833, in Ragiusan, 2004, fasc. 247, p. 174; Cass., 9 gennaio 2002, n. 193, in Arch. locazioni, 2002, p. 155; e in Rass. locazioni, 2002, p. 166: «la delibera con la quale il competente organo della p.a. (nella specie, giunta provinciale) autorizzi la stipula di un contratto (nella specie, di locazione) con un privato deve dirsi giuridicamente inesistente qualora venga successivamente annullata in sede di controllo di legittimità (nella specie, dal Coreco), con conseguente nullità – e non semplice annullabilità – del contratto de quo per assenza del requisito dell’accordo delle parti (art. 1325, n. 1 e 1418 c.c.)».

(18) Cons. Stato [ord.], sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3355, in Foro it., 2005, III, c. 549, con nota di Lamorgese, Vizi del procedimento amministrativo e contratto di diritto privato; e in Giust. civ., 2005, I, p. 2205, con nota di Micari, L’adunanza plenaria di fronte alla problematica ma necessaria sistematicità del diritto (giurisprudenziale) amministrativo, il quale ha rimesso la decisione sull’intera vicenda all’adunanza plenaria. Un accenno di questo indirizzo era contenuto nelle decisioni della Cass., sez. lav., 24 marzo 2004, n. 5941, in Mass. Foro it., 2004; Cass., sez. lav., 1 aprile 2004, n. 6450, ivi, 2004, a proposito del vizio nella nomina del direttore generale della Asl: «l’esecutività della sentenza del Tar di annullamento del provvedimento presupposto del contratto ad evidenza pubblica già stipulato (nella specie, di nomina a direttore generale di asl) determina immediatamente l’inefficacia dell’atto negoziale, con la conseguenza che, riformata in appello la sentenza di primo grado, non è configurabile, in relazione alla mancata esecuzione del contratto nelle more, un inadempimento imputabile all’ente pubblico (che è parte vittoriosa nel giudizio amministrativo), fonte di danno risarcibile per il contraente privato, dovendosi il pregiudizio ricondurre all’esercizio del potere giurisdizionale, non suscettibile di ristoro fuori delle ipotesi specificamente contemplate dall’ordinamento».

(19) Evidenzia luci ed ombre di questa concezione, Galgano, Civile e penale nella produzione di giustizia, in Riv. critica dir. privato, 1983, p. 53.

(20) Per l’esclusiva competenza del consiglio di amministrazione alla nomina degli amministratori: Trib. Genova, 14 febbraio 1986, in Società, 1986, p. 414, anche se ritiene legittima la nomina fatta dall’assemblea dei soci, quando vi partecipino come soci tutti i componenti del consiglio di amministrazione; Trib. Vicenza, 24 marzo 1988, ivi, 1988, p. 857; Trib. Cassino, 9 giugno 1989, ivi, 1989, p. 1307. Il Trib. Milano, 30 maggio 1977, in Giur. it., 1978, II, c. c. 81, ha sollevato il problema della validità della nomina degli amministratori delegati da parte dell’assemblea senza tuttavia pronunciarsi in merito. Il Trib. Torino, 10 maggio 1967, in Giust. civ., 1967, I, p. 1549, ha ritenuto legittima la nomina degli amministratori delegati da parte dell’assemblea, ove lo statuto lo consenta; implicitamente il Trib. Roma, 29 giugno 1979, in Giur. comm., 1981, II, p. 369, ha ritenuto derogabile l’art. 2381 c.c. sotto questo profilo.

(21) In linea con queste considerazioni sono i criteri di controllo introdotti con il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, preceduta dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e dal d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, ora abrogati dal più recente decreto.

(22) Non sono convinto che il passo della motivazione nella quale si afferma che il danno punitivo è contrario all’ordine pubblico nazionale sia davvero fondata. Fra l’altro per motivare il dictum non era neppure necessario; le riflessioni si riferiscono a Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, anche in Foro it., 2007, I, c. 1460, con nota di Ponzanelli, Danni punitivi: no, grazie.

(23) Ho riflettuto su questi temi in Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in Contratto e impr., 2010, p. 366 ss.