Appunti sul processo del lavoro

Alberto Tedoldi, Appunti sul processo del lavoro, in Giur. It., 2002, 7

(N.d.r.: la normativa citata nell’articolo ha nel frattempo subito modifiche)

Appunti sul processo del lavoro

Sommario: 1. Premessa. – I. I RAPPORTI GIURIDICI SOGGETTI AL RITO DEL LAVORO. 2. Controversie individuali e controversie collettive. – 3. Art. 409, n. 1: rapporti di lavoro subordinato privato anche se non inerenti all’esercizio di una impresa. – 4. Art. 409, n. 2: rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie. – 5. Art. 409, n. 3: rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. – 6. Art. 409, nn. 4 e 5: 4) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica; 5) rapporti di lavoro di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. – II. IL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE E L’ARBITRATO. 7. Il tentativo obbligatorio di conciliazione. – 8. Segue: L’improcedibilità della domanda giudiziale. – 9. Segue: Il tentativo di conciliazione e i procedimenti speciali. – 10. Segue: Tentativo di conciliazione, domanda riconvenzionale e intervento del terzo. – 11. Segue: Il verbale di conciliazione. – 12. Segue: Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie del pubblico impiego – 13. L’arbitrato in materia di lavoro. – III. IL PROCEDIMENTO IN PRIMO GRADO. 14. I caratteri generali. – A) La competenza. 15. La competenza per materia. – 16. La competenza per territorio. – 17. Il regime processuale della questione di competenza. – B) La fase introduttiva. 18. La proposizione della domanda. – 19. Segue: I vizi nell’instaurazione della lite. – 20. La costituzione del convenuto. – 21. Difesa personale delle parti e gratuito patrocinio. – 22. La pluralità di parti nel processo del lavoro (litisconsorzio, interventi, riunione di cause). – 23. Verifica della regolarità degli atti e dei documenti e della costituzione delle parti. – C) La fase istruttoria. – 24. Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione. – 25. L’istruzione probatoria: il perdurante vigore del principio iudex secundum allegata et probata iudicare debet, non secundum conscientiam. – 26. Le deduzioni istruttorie. – 27. I poteri istruttori del giudice del lavoro. – 28. Ammissione e assunzione dei mezzi di prova. – 29. Segue: La produzione dei documenti. – 30. Segue: La consulenza tecnica d’ufficio. – D) I provvedimenti. 31. Le ordinanze anticipatorie. – 32. L’accertamento pregiudiziale su efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi in materia di pubblico impiego. – 33. La pronuncia della sentenza. – 34. Il contenuto della sentenza. – 35. L’esecutorietà della sentenza e la sospensione della provvisoria esecutività. – E) Le vicende anomale del processo. 36. Sospensione e interruzione del processo. – 37. L’estinzione. – IV. LE IMPUGNAZIONI. 38. Aspetti generali. – A) L’appello. 39. Le sentenze appellabili. – 40. Il giudice d’appello. – 41. La proposizione dell’appello. – 42. La costituzione dell’appellato e l’appello incidentale. – 43. Il divieto di nuove domande e nuove eccezioni. – 44. Le nuove prove e l’istruzione probatoria in appello. – 45. La discussione e i provvedimenti in appello. – B) Il ricorso per cassazione. 46. Cenni sul ricorso per cassazione e sul giudizio di rinvio. – V. LE OPPOSIZIONI ALL’ESECUZIONE E AGLI ATTI ESECUTIVI E I PROCEDIMENTI SPECIALI. – 47. L’esecuzione forzata in materia di lavoro. – 48. L’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c. p. c. – 49. L’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. – 50. Il procedimento monitorio. – 51. Il procedimento per convalida di sfratto. – 52. I procedimenti cautelari.

Premessa.

Gli artt. 409 e segg. c.p.c., introdotti con legge n. 533 del 1973, sono stati interessati da un recente intervento legislativo che ha attribuito al giudice del lavoro le controversie in materia di pubblico impiego, sottraendole pressoché interamente al giudice amministrativo (D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29; D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, quale modificato dal D. Lgs. n. 387 del 1998; e v. ora gli artt. 63 e segg. D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, contenente «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»). Il legislatore ha colto però l’occasione per modificare alcune altre norme del rito speciale: del che si darà conto nel corso della presente trattazione.

Altra rilevante modifica è stata l’abolizione dell’ufficio del pretore e l’istituzione del giudice unico di primo grado avvenuta con D. Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in vigore dal 2 giugno 1999 e, per gli appelli nelle controversie di lavoro (come si vedrà a tempo debito), dal 1° gennaio 2000.

Si tratta di modificazioni molto incisive che impongono una rimeditazione dell’intero processo lavoristico: è ciò che tenteremo di fare nelle pagine seguenti, sia pure nei limiti imposti dal carattere istituzionale di questo scritto.

I RAPPORTI GIURIDICI SOGGETTI AL RITO DEL LAVORO.

2. Controversie individuali e controversie collettive.

Il rito lavoristico si applica alle «controversie individuali di lavoro», come risulta dalle rubriche dell’art. 409 e del Capo I del Titolo IV in cui esso si trova inserito.

Queste norme non si applicano direttamente alle azioni collettive dei sindacati se non nei casi di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro ai sensi dell’art. 28, 2° e 3° comma, Stat. Lav., mentre si deve negare la legittimazione delle associazioni sindacali ad agire in giudizio per la tutela collettiva dei singoli aderenti o per l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi (1). Tuttavia, alle controversie su diritti di cui il sindacato è immediatamente titolare (quali, ad es., la riscossione dei contributi mediante trattenuta in busta paga o il diritto a ricevere informazioni dal datore di lavoro, anche quando la violazione non integri una condotta antisindacale) si è ritenuto ragionevolmente di poter estendere, se non altro per analogia, il rito speciale del lavoro (2).

Art. 409, n. 1: rapporti di lavoro subordinato privato anche se non inerenti all’esercizio di una impresa.

Va chiarito, anzitutto, che la volontà legislativa è nel senso di applicare il rito del lavoro a tutte le controversie relative ai rapporti indicati nell’art. 409, senza particolari specificazioni in relazione al singolo petitum, com’è rilevabile dall’enunciazione stessa della norma in esame, di cui va preferita, perciò, un’interpretazione estensiva (3).

Rientrano nel n. 1 tutti i rapporti di carattere privato (per quelli di pubblico impiego v. infra al par. 6) e di natura subordinata, anche se estranei all’esercizio dell’impresa (quali, ad es., il lavoro domestico o presso enti religiosi o politici) e anche al di fuori dell’azienda o di una sua dipendenza (ad es., il lavoro a domicilio o il lavoro del personale viaggiante), a prescindere dall’attuale esistenza [potendosi trattare anche di un rapporto estinto o ancora da costituire (4)] e dalla fonte del rapporto (ex contractu, individuale o collettivo, o di fatto) o dalla validità del contratto.

Ininfluenti sono tanto il petitum immediato (domanda di accertamento, di condanna o costitutiva), quanto il petitum mediato, purché trovi titolo, esclusivo o concorrente, nel rapporto di lavoro (5).

Il rito del lavoro si applica anche al lavoro marittimo e portuale (6) e al lavoro subordinato agricolo (7).

Art. 409, n. 2: rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie.

La determinazione dell’ambito applicativo di questa norma è stata un rebus: la competenza del giudice del lavoro sorgeva solo in via sussidiaria, ma non era chiaro quali rapporti agrari fossero sottratti alla cognizione delle sezioni specializzate.

La L. 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari) con cui i contratti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria e soccida sono stati convcrtiti in contratti di affitto, ha stabilito che — ferma la competenza delle sezioni specializzate agrarie su tutte le controversie relative ai contratti di affitto, anche in fase cautelare (ex art. 26 legge n. 11/71) — in tutte le controversie agrarie si osservano le disposizioni dettate dagli artt. 409 e segg. e ha fatto si che dinanzi alle sezioni specializzate si applichi il rito lavoristico, ma ha lasciato ancora alcune perplessità sulla competenza delle sezioni specializzate con riguardo alle domande di prelazione e di riscatto dei fondi rustici (8).

L’art. 9 della L. 14 febbraio 1990, n. 29 ha risolto la querelle, stabilendo che tutte le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto sono devolute alla competenza delle sezioni specializzate agrarie e ha confermato l’assoggettamento di esse al rito del lavoro, nonostante la composizione collegiale dell’organo giudiziario.

Sicché anche la competenza sussidiaria del giudice del lavoro è cessata del tutto (9).

Art. 409, n. 3: rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.

Per aversi la parasubordinazione di cui al n. 3 dell’art. 409 l’attività lavorativa deve essere: a) continuativa, cioè stabile e non occasionale; b) coordinata, cioè inserita nell’organizzazione aziendale e soggetta alle direttive del preponente, ancorché in regime di lavoro autonomo e non subordinato (10); c) prevalentemente personale, cioè espletata con l’impegno preminente, quantitativo o qualitativo, del lavoratore.

Il carattere personale delle prestazioni lavorative esclude che possano rientrare nella fattispecie astratta dell’art. 409, n. 3, i casi di esercizio dell’attività parasubordinata attraverso la costituzione di società di persone o di capitali (11) o, anche le ipotesi di impresa individuale, quando le dimensioni organizzative siano tali da superare il preminente carattere personale dell’attività esercitata (12): ritornano perciò a vigere le regole ordinarie di competenza.

Va condivisa l’idea che il (non semplice) accertamento dei requisiti suddetti debba avvenire ponendo mente alla volontà legislativa di proteggere la parte contrattualmente più debole e che la disciplina del rito lavoristico si applichi perciò ai prestatori che, seppure autonomi, si trovino in uno stato di soggezione rispetto al preponente (13).

A quest’orientamento di fondo devono adeguarsi anche le scelte applicative concernenti i rapporti di collaborazione diversi dall’agenzia e dalla rappresentanza commerciale, allorché si debba verificare la sussistenza non solo del carattere personale della prestazione, ma anche della continuatività e della coordinazione. I casi esaminati dalla giurisprudenza sono oltremodo variegati e vanno dall’attività dell’artigiano (14) a quella del libero professionista stabilmente soggetto alle direttive dell’imprenditore (15), dai medici convenzionati con le a.s.l. (16)agli artisti (17), dai procacciatori di affari (18) ai gestori di impianti di distribuzione del carburante (19), dai rapporti di associazione di impresa quando l’apporto dell’associato sia consistito essenzialmente in un’attività personale e continuativa con ridotto conferimento di capitali e senza ingerirsi nella conduzione dell’azienda (20) alle controversie tra socio e cooperativa (21) e alle controversie all’interno dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c. c. (22).

Sussistono incertezze, invece, sulla competenza del giudice del lavoro nelle cause tra amministratore e società, competenza che viene riconosciuta quando la prestazione sia riconducibile ad un rapporto parasubordinato (23), ma altre volte viene esclusa quando la controversia concerne la gestione 

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societaria (24). Esulano senz’altro dall’art. 409, n. 3, le cause di responsabilità degli organi amministrativi e di controllo delle società che, ai sensi degli artt. 144-ter disp. att. c.p.c. e 50-bis, n. 5, c.p.c., sono attribuite al tribunale in composizione collegiale e con applicazione del rito ordinario (25).

Art. 409, nn. 4 e 5: 4) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica; 5) rapporti di lavoro di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice.

La problematica individuazione della competenza del giudice del lavoro in relazione ai rapporti con enti pubblici (economici e non) e con le pubbliche amministrazioni è stata ora risolta con la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego (D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che segue D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, modificato dal D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e dal D. Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387), che ha sottratto ai T.A.R. la competenza esclusiva in materia (26).

Per gli enti pubblici economici il problema era, per vero, in via di superamento mercé la trasformazione degli stessi in società di capitali, sicché non era neppure più necessario stabilire la prevalenza dell’attività economica sulle altre (27). Ma per il pubblico impiego la rivoluzione è notevole, non solo sul piano dell’ordinamento, ma anche nella struttura stessa dell’attività giurisdizionale.

Sono infatti devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, anziché al T.A.R., le controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze di tutte le pubbliche amministrazioni statali o territoriali, inclusi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e con riguardo anche agli incarichi dirigenziali e alle indennità di fine rapporto, nonché alla repressione dei comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni quando ricorrano gli estremi di cui all’art. 28 Stat. Lav.

Il giudice del lavoro può disapplicare, se illegittimi, gli atti amministrativi inerenti al rapporto oggetto di controversia, né l’impugnazione di tali atti di fronte al giudice amministrativo è causa di sospensione del processo per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c. Nei confronti della P. A. possono essere adottati tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati e, nei giudizi concernenti l’assunzione dell’impiegato, le sentenze con cui si accerta il diritto all’assunzione o che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di pubblico impiego (28).

Cade così la giurisdizione «speciale» accordata dal legislatore alle pubbliche amministrazioni e il sindacato del giudice del lavoro si spinge sino agli atti amministrativi, la cui impugnazione dinanzi al T.A.R. non costituisce il presupposto per la decisione della controversia. La tutela riconosciuta al pubblico impiegato è piena e si estende a ogni tipo di provvedimento giudiziale, con una completa equiparazione al rapporto di lavoro privato.

Restano al T.A.R. le controversie in materia di procedure concorsuali e relative ai rapporti di cui agli artt. 63, 4° comma, e 3 D. Lgs. n. 165/2001, che concernono: magistrati, avvocati dello stato, personale militare e delle forze di polizia, personale della carriera diplomatica e prefettizia, dipendenti del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, della Consob e dell’Autorità di vigilanza sulla concorrenza e sul mercato, professori e ricercatori universitari.

IL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE E L’ARBITRATO.

7. Il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Il D. Lgs. n. 80/1998 è intervenuto non solo sulla ripartizione delle controversie in materia di pubblico impiego, ma su alcune norme procedurali del rito lavoristico.

Prima tra queste l’art. 410, con cui è stato generalizzato a tutte le controversie di cui all’art. 409 (anche a quelle relative ai rapporti para-subordinati), qualunque ne sia il contenuto, il tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità della lite in sede giudiziale (29). La Corte costituzionale ha confermato la legittimità di questo presupposto processuale, anche con riguardo al diritto di azione di cui all’art. 24, 1° comma, Cost., che «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti» (30).

Ambedue le parti, in alternativa alle procedure previste nei contratti o negli accordi collettivi, devono indirizzare la richiesta alla commissione di conciliazione costituita presso l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione e composta dal direttore dell’ufficio o da un suo delegato in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da altrettanti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale (31). Le commissioni possono essere istituite anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e possono operare anche attraverso sottocommissioni: per la valida costituzione è comunque sufficiente la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori.

La competenza territoriale della commissione va stabilita in base agli stessi criteri di collegamento dettati dall’art. 413 per la competenza territoriale del giudice del lavoro: per i dipendenti di imprese private o di enti pubblici economici, sono competenti in alternativa la commissione del luogo in cui il rapporto di lavoro è sorto o quella del luogo in cui si trova la sede dell’azienda o della dipendenza cui è addetto il lavoratore o cui era addetto al momento della cessazione del rapporto; per i lavoratori parasubordinati di cui all’art. 409, n. 3, la competenza appartiene alla commissione del luogo in cui si trova il domicilio del collaboratore.

Il 2° comma dell’art. 410 ha cura di precisare che la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione [effettuata anche con semplice raccomandata, sottoscritta direttamente dalla parte (32) e contenente i termini di identificazione della controversia (33)] interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza: così, ad es., in caso di impugnazione delle rinunce compiute dal lavoratore ex art. 2113 c. c., il termine di sei mesi dalla cessazione del rapporto resterà sospeso sino al ventesimo giorno successivo alla conclusione del tentativo di conciliazione, dopodiché riprenderà il suo corso e la scadenza potrà essere evitata solo con la domanda giudiziale.

Conviene sin d’ora aggiungere che, ai sensi del nuovo art. 410-bis c.p.c., il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro sessanta giorni dalla richiesta, anche quando viene effettuato nelle forme previste dai contratti e dagli accordi collettivi; trascorso inutilmente tale termine, il tentativo si considera comunque espletato con esito, evidentemente, negativo. Compiuto il ventesimo giorno (e, quindi, ottanta giorni dopo la richiesta) cesserà la sospensione dei termini di decadenza, ma la richiesta, sempre che sia stata indirizzata anche alla controparte, resterà valida quale atto interruttivo della prescrizione o, ad es., quale manifestazione della volontà di impugnare il licenziamento illegittimo.

Segue: L’improcedibilità della domanda giudiziale.

Decorsi sessanta giorni dalla richiesta o espletato con esito negativo il tentativo di conciliazione, l’azione giudiziaria potrà essere proposta (34). Diversamente questa è improcedibile e l’improcedibilità può essere eccepita dal convenuto in memoria difensiva o può essere rilevata d’ufficio entro la prima udienza (art. 412 bis, che detta una disciplina analoga a quella contenuta nell’art. 428 per l’incompetenza territoriale del giudice adito) tuttavia il giudice non può dichiarare immediatamente improcedibile il ricorso, inaudita altera parte, senza fissare l’udienza, anche nei casi di macroscopica mancanza del presupposto (35). Se il convenuto non ha tempestivamente sollevato l’eccezione, non potrà poi impugnare la sentenza, lagnandosi in appello dell’omessa declaratoria di improcedibilità ex officio (36). Se invece il giudice non sospende il processo pur a fronte della tempestiva e fondata eccezione del convenuto, l’eventuale impugnazione della sentenza in appello condurrà tout-court alla declaratoria di improcedibilità della domanda: tutto dovrà ricominciare ab initio.

La domanda giudiziale è improcedibile tanto quando la richiesta di tentativo di conciliazione non è stata mai effettuata, quanto nel caso in cui il ricorso al giudice del lavoro è stato depositato prima che sia trascorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta: la lettera del 1° e del 3° comma dell’art. 412 bis è inequivocabile. Il giudice, rilevata l’improcedibilità, su eccezione del convenuto o ex officio entro la prima udienza, sospende il processo con ordinanza e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione. Trascorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta del tentativo di conciliazione, il processo va riassunto entro i successivi centottanta giorni o, in mancanza, viene dichiarato estinto con decreto reclamabile ad un collegio appositamente costituito secondo le forme e nei termini di cui agli artt. 308 e 178 c.p.c. (37): del collegio, in iure condito, può far parte anche il giudice che ha emesso il decreto dichiarativo dell’estinzione, ma ad evitare censure di incostituzionalità per violazione del principio di terzietà del giudice ora formalmente consacrato nel 2° comma dell’art. 111 Cost., sarà bene che egli non entri nel collegio (conformemente a quel che avviene per il reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c.), venendo sottoposto a sindacato e a possibile revisione un suo provvedimento.

Incerte restano invece le conseguenze dell’inosservanza del termine fissato dal giudice per chiedere il tentativo obbligatorio di conciliazione: considerando, però, che il legislatore ha inteso definire questo termine come perentorio, l’unica sanzione processuale immaginabile è quella dell’estinzione, secondo il generale dettato dell’art. 307, comma 3, c.p.c., estinzione che il giudice del lavoro, quale organo monocratico, deve dichiarare con sentenza, non essendo possibile adottare la forma del decreto reclamabile eccezionalmente prevista dall’art. 412 bis, penult. comma.

L’omessa sospensione del processo per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ancorché tempestivamente eccepito dal convenuto, dà luogo in appello a una declaratoria di improcedibilità della lite, senza alcuna rimessione in prime cure, come invece si è ritenuto (38).

Conviene ricordare infine che anche nelle liti previdenziali e assistenziali l’art. 443 c.p.c. contempla un’ipotesi di improcedibilità dell’azione quando non siano decorsi i termini per l’espletamento di procedure conciliative prescritte dalle leggi speciali (v. anche gli artt. 147 e segg. disp. att. c.p.c.).

Segue: Il tentativo di conciliazione e i procedimenti speciali.

Naturalmente, il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la possibilità di richiedere l’emanazione di provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. o di proporre altre istanze a carattere anticipatorio previste dal codice di procedura civile o dalle leggi speciali [si pensi all’art. 28 Stat. lav. sulla repressione della condotta antisindacale o all’art. 15 legge n. 903/1977 in materia di parità dei diritti della donna lavoratrice (39)].

Tra queste però non possono annoverarsi le ordinanze ex art. 423 c.p.c., non tanto perché esse non possiedono natura cautelare, quanto perché presuppongono sempre l’instaurazione del giudizio ordinario di cognizione, subordinato, come abbiamo visto, al previo espletamento del tentativo di conciliazione (40). Né — ci pare — i ricorsi per decreto ingiuntivo, salvo che non siano assistiti dalle particolari ragioni di urgenza che ne consentono la provvisoria esecutività ai sensi del 2° comma dell’art. 642 c.p.c.: invero, il ricorso per decreto ingiuntivo non è altro che una particolare forma di esercizio di un’ordinaria azione di cognizione, a struttura (eventualmente) bifasica, con una prima fase senza contraddittorio e a cognizione sommaria (perché parziale) e una seconda fase (eventuale) a cognizione piena in seguito all’opposizione dell’intimato. Questa struttura esclude, pertanto, la possibilità di far rientrare il decreto ingiuntivo tra i provvedimenti speciali d’urgenza esonerati dal previo esperimento del tentativo di conciliazione salva appunto l’ipotesi di sussistenza del periculum in mora ai sensi del 2° comma dell’art. 642 c.p.c. (41). Ovvie ragioni di tutela del diritto di difesa rendono inapplicabile l’onere di proporre il tentativo di conciliazione all’intimato, convenuto sostanziale rispetto alla pretesa monitoriamente azionata, che deve opporsi nel termine perentorio di quaranta giorni se vuole evitare che il decreto divenga irrevocabile (42).

Il giudizio di merito successivo all’emanazione di un provvedimento cautelare resterà pur sempre condizionato al tentativo di conciliazione (v. infatti l’art. 669-octies, comma 4, c.p.c. introdotto dal D. Lgs. n. 80/1998 per le controversie relative a dipendenti di pubbliche amministrazioni, su cui v. infra al par. 12). L’attore, se vorrà conservare efficacia al provvedimento ottenuto, avrà due strade: depositare il ricorso introduttivo del giudizio entro trenta giorni o nel diverso termine fissato dal giudice della fase cautelare ai sensi dell’art. 669-octies, comma 1, c.p.c. e, in tal caso, incorrere nella sospensione del processo ai sensi dell’art. 412 bis, 3° comma; oppure inviare la richiesta per il tentativo obbligatorio di conciliazione che, ex art. 410, 2° comma, produce comunque l’effetto di sospendere ogni decadenza e, quindi, evita l’inefficacia del provvedimento cautelare (43).

Segue: Tentativo di conciliazione, domanda riconvenzionale e intervento del terzo.

Va segnalato che il previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, voluto dal legislatore per la generalità delle controversie di lavoro, condiziona la procedibilità non solo della domanda principale (anche quando sia proposta con procedura monitoria), ma altresì della domanda riconvenzionale o di quella dell’interveniente volontario (44), non parendo persuasiva l’obiezione che un simile presupposto processuale sarebbe in contrasto con la struttura concentrata del rito lavoristico e costituirebbe una remora per l’attore, costretto ad attendere il decorso infruttuoso dei termini per il tentativo di conciliazione di tutte le domande prima che inizi la trattazione effettiva del processo (45). Nulla vieta al giudice, infatti, di separare le cause sulle domande riconvenzionali del convenuto o degli interventori, sospendendo ex art. 412 bis, 3° comma, soltanto quelle in cui manchi il presupposto della richiesta per il tentativo di conciliazione.

Per l’intervento coatto a istanza di parte, il tentativo di conciliazione non può essere richiesto quando il rapporto su cui si fonda la chiamata non rientra tra quelli di cui all’art. 409 c.p.c. (si pensi alla chiamata in causa di una compagnia assicuratrice), mentre maggiori dubbi si affacciano quando la chiamata integra una laudatici auctoris, cioè un’indicazione del soggetto passivo della pretesa azionata dall’attore, che concerne uno dei rapporti per i quali è imposto il previo esperimento del tentativo di conciliazione: considerando che siffatta condizione di procedibilità limiterebbe eccessivamente il diritto di difesa del convenuto, impedendogli di esercitarlo compiutamente con la chiamata di un terzo cui ascrivere la titolarità passiva del diritto azionato dall’attore, conviene concludere nel senso che il tentativo di conciliazione non è richiesto per l’intervento coatto neppure quando alla base di questo sta un rapporto rientrante tra quelli di cui all’art. 409 c.p.c.

Nulla quaestio per l’intervento coatto iussu iudicis, ben potendo il giudice ordinare l’intervento di un terzo cui ritiene comune la causa, prescindendo del tutto dalla condizione di procedibilità.

Segue: Il verbale di conciliazione.

Difficile sperare che il tentativo obbligatorio di conciliazione riduca il carico giudiziario, evitando che il contenzioso sfoci dinanzi alla magistratura. La conciliazione stragiudiziale continuerà probabilmente a svolgere quella funzione, per così dire, di omologa di un accordo già raggiunto in altra sede tra lavoratore e datore di lavoro, garantendo soprattutto il secondo da ogni possibile impugnazione del negozio transattivo ai sensi dell’art. 2113 c. c., come risulta, apertis verbis, dalla norma stessa (46).

Né maggiore stimolo alla conciliazione può venire dalla disposizione prevista nell’ult. comma dell’art. 412 c.p.c., secondo cui in sede di decisione sulle spese giudiziali il giudice tiene conto delle risultanze del verbale di mancata conciliazione, che contiene l’indicazione delle ragioni che hanno impedito il raggiungimento dell’accordo. La norma, che vorrebbe costituire una coazione indiretta alla conciliazione, presuppone che il tentativo obbligatorio avvenga davvero, con la partecipazione e il contributo attivo della commissione, non risolvendosi nel simulacro di cui il legislatore ha pur preso atto quando ha dettato l’art. 410 bis, disciplinando la (non infrequente) ipotesi che alla richiesta avanzata da una parte non faccia seguito neppure la convocazione. L’effettivo svolgimento del tentativo di conciliazione realisticamente comporterebbe una ristrutturazione organizzativa degli uffici del lavoro ben lungi a venire.

Ai sensi dei primi due commi dell’art. 411 c.p.c. il verbale (sottoscritto dalle parti e dal presidente del collegio), qualora le obbligazioni da esso portate non siano state eseguite contestualmente alla sottoscrizione, può essere munito di efficacia esecutiva attraverso un decreto del tribunale (in composizione monocratica) del luogo in cui la conciliazione è avvenuta, su istanza della parte interessata e previo deposito del verbale a cura della parte stessa o dell’ufficio provinciale del lavoro, in qualunque tempo e senza alcun termine di decadenza. Il controllo esercitato dal tribunale attiene soltanto alla regolarità formale del verbale, ma non è volto a verificare il rispetto dei requisiti sostanziali o di regolare formazione dello stesso: si tratta di una procedura affine a quella dell’exequatur in materia di lodo rituale, disciplinata dall’art. 825 c.p.c., anche se al verbale è conferita solo l’efficacia esecutiva propria di tutti i verbali di conciliazione giudiziali (si pensi agli artt. 185 e 420, comma 3, c.p.c.) (47). Gli eventuali vizi di formazione del titolo, tanto nella fase conciliativa quanto in quella di exequatur giudiziale, potranno essere fatti valere con opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (48).

Il contenuto della conciliazione, potendo concernere ogni tipologia di controversia in materia di lavoro, è idoneo a produrre gli effetti giuridici più vari, costitutivi o condannatorii, coercibili o incoercibili, senza alcuna limitazione: così, con il verbale di conciliazione si può disporre l’assunzione di un lavoratore o la reintegra nel posto di lavoro, né può ritenersi sussistere una correlazione necessaria tra coercibilità dell’obbligazione sancita nel verbale e contenuto dello stesso (49), dovendosi riconoscere alla conciliazione la stessa efficacia esecutiva conseguibile all’esito di un procedimento giurisdizionale, visto che essa è stata generalizzata a ogni possibile fattispecie e persegue lo scopo di evitare il contenzioso giudiziario.

L’ult. comma dell’art. 411 equipara al verbale firmato dinanzi alla commissione le conciliazioni svoltesi in sede sindacale, a norma degli accordi o dei contratti collettivi: il relativo verbale deve essere previamente depositato presso l’ufficio provinciale del lavoro a cura delle parti o dell’associazione sindacale e il direttore dell’ufficio o un suo delegato, accertata l’autenticità delle firme convocando personalmente le parti (50), lo deposita presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione esso è stato redatto. Il tribunale, su istanza della parte interessata proposta senza termini particolari e procedendo solo a una verifica formale secondo quanto poc’anzi descritto, dichiara il verbale esecutivo.

Segue: Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie del pubblico impiego

Nelle controversie in materia di pubblico impiego attribuite alla giurisdizione del tribunale in funzione di giudice del lavoro e indicate supra al par. 6, il tentativo di conciliazione costituisce del pari condizione di procedibilità della domanda giudiziale tanto dell’impiegato quanto della P. A., ai sensi degli artt. 65 e 66 D. Lgs. n. 165/2001, il cui analitico testo (quale introdotto e modificato dal D. Lgs. n. 80/1998 e dal D. Lgs. n. 387/1998 con gli artt. 69 e 69 bis D. Lgs. n. 29/1993, oggi abrogato) converrà riportare per esteso, per comodità del lettore.

«Art. 65 — Tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali. 1. Per le controversie individuali di cui all’articolo 63, il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile si svolge con le procedure previste dai contratti collettivi, ovvero davanti al collegio di conciliazione di cui all’articolo 66, secondo le disposizioni dettate dal presente decreto.

  1. La domanda giudiziale diventa procedibile trascorsi novanta giorni dalla promozione del tentativo di conciliazione.
  2. Il giudice che rileva che non è stato promosso il tentativo di conciliazione secondo le disposizioni di cui all’articolo 66, commi 2 e 3, o che la domanda giudiziale è stata proposta prima della scadenza del termine di novanta giorni dalla promozione del tentativo sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione. Si applica l’art. 412 bis, commi secondo e quinto, del codice di procedura civile. Espletato il tentativo di conciliazione o decorso il termine di novanta giorni, il processo può essere riassunto entro il termine perentorio di centottanta giorni. La parte contro la quale è stata proposta la domanda in violazione dell’articolo 410 del codice di procedura civile, con l’atto di riassunzione o con memoria depositata in cancelleria almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata, può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di merito, che non siano rilevabili d’ufficio. Ove il processo non sia stato tempestivamente riassunto, il giudice dichiara d’ufficio l’estinzione del processo con decreto cui si applica la disposizione di cui all’articolo 308 del codice di procedura civile.
  3. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, di intesa con la Presidenza del Consiglio dei ministri — Dipartimento per la funzione pubblica ed il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, provvede, mediante mobilità volontaria interministeriale, a dotare le Commissioni di conciliazione territoriali degli organici indispensabili per la tempestiva realizzazione del tentativo obbligatorio di conciliazione delle controversie individuali di lavoro nel settore pubblico e privato».

«Art. 66 — Collegio di conciliazione. 1. Ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’articolo 65 si svolge, con le procedure di cui ai commi seguenti, dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l’ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto. Le medesime procedure si applicano, in quanto compatibili, se il tentativo di conciliazione è promosso dalla pubblica amministrazione. Il collegio di conciliazione è composto dal direttore della Direzione o da un suo delegato, che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante dell’amministrazione.

  1. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, è consegnata all’Ufficio presso il quale è istituito il collegio di conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura dello stesso lavoratore all’amministrazione di appartenenza.
  2. La richiesta deve precisare:
  3. a) l’amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è addetto;
  4. b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla procedura;
  5. c) l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa;
  6. d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un’organizzazione sindacale.
  7. Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta, l’amministrazione, qualora non accolga la pretesa del lavoratore, deposita presso la Direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto nomina il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni successivi al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione. Dinanzi al collegio di conciliazione il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per l’amministrazione deve comparire un soggetto munito del potere di conciliatore.
  8. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale costituisce titolo esecutivo. Alla conciliazione non si applicano le disposizioni dell’articolo 2113, commi primo, secondo e terzo, del codice civile.
  9. Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, il Collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
  10. Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese.
  11. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell’articolo 420, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile, non può dar luogo a responsabilità amministrativa».

Limitandoci in questa sede a rilevare le differenze più salienti di questa disciplina rispetto a quella degli artt. 410 e segg. dettata per le controversie di lavoro privato, si osserva che: a) il termine decorso il quale la domanda diviene procedibile è elevato da sessanta a novanta giorni dalla richiesta; b) la competenza esclusiva appartiene al collegio di conciliazione del luogo in cui si trova l’ufficio cui il lavoratore è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto (conformemente a quanto previsto dal 5° comma dell’art. 413 per la competenza territoriale del giudice); c) è prevista una risposta della P. A. entro trenta giorni (e, mutatis mutandis, del lavoratore ove sia la P. A. ad agire) (51), avvenuta la quale il presidente del collegio fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione; d) il lavoratore, anziché comparire personalmente, può farsi rappresentare o assistere dall’associazione sindacale cui è iscritto; e) il verbale deve essere sottoscritto, oltre che dalle parti, da tutti i componenti del collegio e non dal solo presidente; f) esso non è soggetto alle impugnazioni di cui all’art. 2113 c. c. e costituisce immediatamente titolo esecutivo, senza necessità di passare attraverso un exequatur giudiziale; g) il collegio formula in ogni caso una proposta di conciliazione, trascrivendo le valutazioni espresse dalle parti su tale proposta in apposito processo verbale che viene acquisito anche d’ufficio al successivo giudizio e viene valutato ai fini del regolamento delle spese di lite: è una disciplina questa che, pur perseguendo uno scopo di coazione indiretta alla conciliazione come l’ult. comma dell’art. 412, ha un sapore un po’ paternalistico e soprattutto affida al collegio di conciliazione prima e al giudice poi un potere discrezionale troppo ampio e insindacabile (52); h) se il ricorso giudiziale viene depositato senza aver chiesto il tentativo di conciliazione o prima che sia decorso il termine di novanta giorni la disciplina è analoga a quella dettata nell’art. 412-bis c.p.c.: il giudice, su eccezione di parte nella memoria difensiva o su rilievo ex officio nella prima udienza, sospende il giudizio e invita le parti a esperire il tentativo di conciliazione; trascorsi novanta giorni dalla richiesta il processo può essere riassunto, ma alla parte contro cui è proposta la domanda è concessa la possibilità, dopo la riassunzione, di modificare o integrare le difese e anche di proporre nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, con disposizione che presta il fianco a censure di incostituzionalità per violazione del principio di parità delle armi tra le parti (artt. 3 e 111, 2° comma, Cost.) (53).

Il tentativo di conciliazione nelle vertenze sul pubblico impiego, nella stessa disciplina legislativa (così analitica, accurata e persino prolissa), par destinato a svolgersi effettivamente, a differenza della deludente prassi instauratasi per il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto per l’impugnativa dei licenziamenti nelle piccole imprese ai sensi della legge n. 108/1990, prassi che si perpetuerà probabilmente anche dopo la generalizzazione a tutte le controversie di lavoro subordinato privato e parasubordinato e per ogni tipo di fattispecie, come s’è visto nei precedenti paragrafi: c’è da sperare soltanto che il filtro, almeno per le liti di pubblico impiego, funzioni efficacemente, perché in mancanza il carico che piomberà sul capo dei giudici del lavoro per effetto della sottrazione pressoché completa del pubblico impiego alla giurisdizione esclusiva del T.A.R., risulterà insopportabile (54).

Per completezza aggiungiamo che i provvedimenti cautelari potranno essere richiesti anche senza il previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione: ottenuto il provvedimento, la parte beneficiata dovrà promuovere il tentativo di conciliazione entro il termine fissato dal giudice della cautela o, in mancanza, entro trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza cautelare; decorsi i novanta giorni dalla richiesta, potrà proporre la domanda giudiziale sempre entro il termine fissato dal giudice della cautela. Se, invece, preferisce instaurare subito il giudizio di merito (incorrendo però nella sospensione per improcedibilità della domanda), il termine per instaurarlo prende corso non subito dopo la comunicazione dell’ordinanza cautelare, ma trascorsi trenta giorni da questa (art. 669-octies, comma 4, c.p.c.) (55).

L’arbitrato in materia di lavoro.

Il legislatore non ha mostrato un particolare favor verso l’arbitrato quale strumento alternativo di soluzione delle controversie individuali di lavoro. Dietro quest’atteggiamento v’è, indubbiamente, la preoccupazione di garantire alla parte debole del rapporto adeguati ed economici strumenti di tutela, laddove l’arbitrato presenta costi eccessivamente elevati per un lavoratore subordinato. Certamente più larga applicazione esso potrebbe avere in ambiti in cui la sproporzione dei mezzi patrimoniali sia meno grave (si pensi, ad es., a molti agenti o ai dirigenti d’azienda) (56). Oggi questa tendenza, quantomeno per l’arbitrato irrituale, risulta però invertita, essendo stata introdotta una disciplina generale dell’istituto in materia di lavoro con gli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c., che ne accentuano notevolmente i caratteri e gli effetti giurisdizionali (57).

L’arbitrato rituale, dopo che l’art. 806 c.p.c. (sia pure con il richiamo agli artt. 429 e 459, sostituiti dagli artt. 409 e 442 c.p.c.) ne afferma la radicale (ma solo apparente) esclusione, viene ammesso dall’art. 808, ult. comma, in quanto previsto dai contratti e accordi collettivi e senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria: il tutto a pena di nullità della clausola compromissoria contenuta nel contratto individuale, che non può neppure autorizzare gli arbitri a pronunciare secondo equità o dichiarare il lodo non impugnabile.

La facoltà di adire l’autorità giudiziaria è esercitabile finché non si sia instaurato il giudizio arbitrale con la nomina dei rispettivi arbitri (58). Il lodo è impugnabile dinanzi alla Corte d’appello nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato, per i motivi tassativamente elencati dall’art. 829 c.p.c. e, tra l’altro, per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi, che vengono equiparati in tal modo alle norme di legge. È appena il caso di rammentare che dinanzi alla Corte d’appello si applicherà il rito del lavoro e, dunque, l’impugnazione del lodo dovrà avvenire con ricorso, depositato a pena di decadenza nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo o di un anno dall’ultima sottoscrizione (art. 828 c.p.c.).

L’arbitrato irrituale in materia di lavoro ha storia risalente, essendone già disciplinate alcune ipotesi nell’art. 7, ult. comma, legge n. 604/1966 per i licenziamenti individuali e nell’art. 7, 6° e 7° comma, Stat. Lav. in relazione alle sanzioni disciplinari. La legge n. 533/1973, introducendo il rito lavoristico, ne sancì definitivamente l’ammissibilità in quanto previsto dalla legge o da contratti e accordi collettivi e senza pregiudizio per la facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria (art. 5, 1° comma, legge n. 533/1973). E ancora la legge n. 108/1990 sui licenziamenti individuali nelle piccole aziende ha previsto, all’art. 5, 6° comma, un arbitrato libero che sfocia in una decisione idonea a costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 411 c.p.c. (59).

Oggi l’arbitrato irrituale è stato generalizzato a tutte le controversie mediante l’introduzione nell’impianto codicistico degli artt. 412-tere 412-quater c.p.c., la cui disciplina è destinata a integrare, quale lex generalis, le ricordate ipotesi speciali di arbitrato irrituale (60).

L’inizio del procedimento arbitrale è, anche in tal caso, subordinato al tentativo obbligatorio di conciliazione. Le parti, anziché adire l’autorità giudiziaria (61), possono deferire ad arbitri la soluzione della controversia, purché il contratto o accordo collettivo applicabile preveda tale facoltà e stabilisca specificamente le modalità della nomina e il termine entro cui l’altra parte può aderirvi anziché dare inizio all’azione giudiziale, la composizione del collegio e la procedura di nomina, le forme dell’eventuale istruttoria, il termine per la pronuncia del lodo e i criteri per la liquidazione dei compensi agli arbitri. Il lodo dovrà adeguare i valori monetari riconosciuti al lavoratore in relazione agli indici di svalutazione, secondo quanto dispone l’art. 429, comma 3, c.p.c., e conterrà altresì la pronuncia sulle spese del procedimento, ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Particolarissimo è il regime di impugnazione e di esecutività del lodo irrituale dettato nell’art. 412-quater c.p.c. La decisione non è immediatamente esecutiva: per renderla tale, la parte vittoriosa ha l’onere di notificarla al soccombente, il quale potrà impedire che essa divenga irrevocabile impugnandola con ricorso depositato entro trenta giorni al tribunale, in funzione di giudice del lavoro (e in composizione monocratica), del luogo in cui è la sede dell’arbitrato (62). L’impugnazione concerne la validità del lodo e, pertanto, può essere proposta per far valere vizi del compromesso o della clausola compromissoria, violazioni delle norme procedurali fissate nei contratti o accordi collettivi o violazioni del contraddittorio, vizi sostanziali tratti dalla disciplina dei contratti (errore, dolo, violenza) o superamento dei limiti del mandato (63). Il tribunale decide in unico grado, con sentenza impugnabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, c.p.c., e compie un giudizio di carattere solo rescindente, nel senso che si limita a statuire sulla fondatezza dei motivi di impugnazione senza pronunciarsi sul merito della controversia, come risulta dal fatto che l’art. 412 quater determina quale oggetto dell’impugnativa esclusivamente la validità del lodo, mentre omette di disciplinare le conseguenze dell’accoglimento dell’impugnazione.

La decisione in unico grado impedisce, poi, di ammettere una pronuncia sul merito del rapporto controverso, sottraendo alle parti un grado di giurisdizione. Annullato il lodo, le parti torneranno libere di adire l’autorità giudiziaria o, in alternativa, di esperire un altro arbitrato irrituale.

Trascorso il termine di trenta giorni dalla notificazione (64) o se le parti hanno dichiarato per iscritto di accettare il lodo o, ancora, se il tribunale ha respinto l’impugnativa (65), il lodo è depositato, a cura della parte interessata, nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato; il giudice, accertatane la regolarità formale in modo puramente estrinseco, cioè con riguardo alla completezza e alla sussistenza delle suddette condizioni, lo dichiara esecutivo con decreto.

La notevole «processualizzazione dell’arbitrato libero» che con le norme in esame si attua non fa cessare la distinzione tra arbitrato rituale e irrituale (66).

III. IL PROCEDIMENTO IN PRIMO GRADO.

14. I caratteri generali.

Il rito del lavoro è speciale solo con riguardo alle forme del procedimento: con esso si attua la giurisdizione ordinaria in un giudizio a cognizione piena, al quale sono applicabili le disposizioni generali contenute nel libro primo del c. p. c. Le norme dettate per il processo dinanzi al tribunale si applicheranno solo in quanto compatibili (67).

I principii fondamentali del processo contenzioso vigono anche per il processo del lavoro e, così, il principio della domanda (art. 99 c.p.c.), quello del contraddittorio (art. 101 c.p.c.), quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), il principio tura novit Curia, la normale correlazione tra titolarità del diritto sostanziale e titolarità dell’azione (art. 81 c.p.c.), il libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove (art. 116 c.p.c.), la regola sussidiaria dell’onere della prova (art. 2697 c. c.) (68). Solo il principio dispositivo in materia di prove (art. 115 c.p.c.) viene ulteriormente attenuato con la concessione al giudice di più ampii poteri istruttori ex officio, poteri che si esamineranno infra al par. 27.

Certamente la struttura del processo del lavoro è improntata a un rigoroso rispetto delle preclusioni a fini di concentrazione processuale, in ossequio ad una concezione particolarmente rigida della Eventualmaxime (69) che costringe le parti a formulare tutte le allegazioni e le istanze istruttorie sin dagli atti introduttivi del processo, a pena di decadenza, e che sottrae ad esse il controllo sul progredire del processo, per affidarlo quasi interamente al giudice (70).

A) La competenza. 15. La competenza per materia.

Scomparsa la figura del pretore con D. Lgs. n. 51/1998 istitutivo del giudice unico di primo grado, la competenza in primo grado per le controversie di lavoro spetta al tribunale in funzione di giudice del lavoro (art. 413, comma 1, c.p.c.) e in composizione monocratica, non rientrando le controversie di lavoro e di previdenza sociale tra quelle che l’art. 50-bis c.p.c. affida a decisione collegiale.

La cosiddetta «funzione» di giudice del lavoro non implica la creazione di alcun organo distinto in seno al tribunale, ma più semplicemente la necessità di celebrare il processo secondo il rito lavoristico e, nei tribunali divisi in più sezioni, l’onere di attribuire ad una separata sezione le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie, ai sensi dell’art. 46 ord. giud. Né l’instaurazione di una causa di lavoro con il rito ordinario anziché con quello lavoristico, né l’attribuzione di essa a una sezione diversa dalla cosiddetta sezione lavoro comportano la nullità degli atti del processo o fanno sorgere questioni di competenza o, tantomeno, di giurisdizione (71); la causa verrà semplicemente trasferita alla sezione lavoro con provvedimento del presidente del tribunale e qui il giudice del lavoro disporrà la conversione del rito ai sensi dell’art. 426 c.p.c.

Quando nel circondario del tribunale esistono sezioni distaccate, le controversie di lavoro e della previdenza e assistenza sociale debbono essere trattate e decise esclusivamente nella sede principale (art. 48 quater, 2° comma, ord. giud.). Qualora venga adita la sezione distaccata, anche in tal caso non si pone un problema di competenza (72), ma il giudice, rilevando anche d’ufficio entro l’udienza di prima comparizione che l’affare deve essere attribuito al tribunale nella sede circondariale, dispone la trasmissione del fascicolo al presidente per l’assegnazione della causa alla sezione lavoro o, comunque, ad un giudice della sede principale (cfr. l’art. 83-ter disp. att. c.p.c.).

La competenza per territorio.

Il 2° comma dell’art. 413 per le controversie di lavoro subordinato privato detta tre criterii alternativi (73):

a) il forum contractus, cioè il luogo in cui è stato stipulato il contratto;

b)il luogo in cui si trova l’azienda, intesa come sede effettiva dell’impresa, dove si accentrano i poteri di direzione e di amministrazione, anche se non coincidente con quella di svolgimento dell’attività imprenditoriale o con la sede legale (74);

c) la circoscrizione in cui si trova la dipendenza alla quale era addetto il lavoratore o presso la quale prestava la sua opera al momento della fine del rapporto; per dipendenza si intende una struttura organizzativa ubicata in luogo diverso dalla sede dell’azienda e consistente in un complesso di beni decentrati, avente una propria individualità tecnica, pur se di modesta entità, a condizione che risulti direttamente e strutturalmente collegato con l’azienda medesima, in quanto destinato al perseguimento degli scopi imprenditoriali, ma senza necessità che sussista anche autonomia funzionale o esplicazione, nel medesimo nucleo decentrato, di un potere decisionale e di controllo riferibile all’organizzazione centrale (75).

Le competenze sub b) e c) permangono dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di essa o della sua dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi del trasferimento o dalla cessazione (art. 413, comma 3, c.p.c.).

Il forum contractus sub a) non viene meno neppure dopo il trasferimento o la cessazione dell’azienda (76) ed è l’unico applicabile in caso di rapporto di lavoro subordinato non inerente all’esercizio dell’impresa, come il lavoro domestico (77).

Per il lavoro parasubordinato di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., il 4° comma dell’art. 413 prevede ora una competenza esclusiva del giudice del luogo in cui si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di commercio o di altro lavoratore parasubordinato (78).

Per le controversie del pubblico impiego il 5° e il 6° comma dell’art. 413, introdotti ex novo dal D. Lgs. n. 80/1998, prevedono la competenza del giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto, restando esclusa l’applicazione dell’art. 6 R. D. n. 1611/1933 che devolve le controversie contro la P. A. al foro della sede distrettuale dell’Avvocatura dello Stato. Anche in tal caso, come per il lavoratore parasubordinato, il criterio è esclusivo (79).

Solo in via sussidiaria intervengono le regole sul foro generale del convenuto, persona fisica (art. 18 c.p.c.) o giuridica (art. 19 c.p.c., ancorché non richiamato expressis verbis) (80).

Nelle controversie di lavoro marittimo, devolute comunque alla competenza per materia del tribunale in funzione di giudice del lavoro (81), sull’art. 413 c.p.c. prevalgono i criterii speciali contenuti nell’art. 603 cod. nav., cioè in alternativa il luogo dove è iscritta la nave, dove è stato concluso il contratto, dove viene eseguito il contratto, dove è cessato il rapporto, dove, in caso di ingaggio non seguito da arruolamento, è pervenuta la proposta al lavoratore (82).

L’ult. comma dell’art. 413 dichiara nulle le clausole derogative della competenza per territorio; la nullità è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 c. c. ma solo entro l’udienza di comparizione delle parti, giusta la disciplina dettata nell’art. 428 (v. al par. successivo) (83). Irrilevanti sono perciò l’accettazione dell’attore o l’adesione ai sensi dell’art. 38, comma 3, c.p.c. (84).

L’inderogabilità della competenza territoriale non esclude, peraltro, la possibile riunione per connessione delle cause, come risulta dal 3° comma dell’art. 40 c.p.c., con prevalenza del rito lavoristico su quello ordinario (85).

Il regime processuale della questione di competenza.

Il rilievo della questione di competenza per materia o per territorio del tribunale in funzione di giudice del lavoro è disciplinata dall’art. 428 c.p.c., che la giurisprudenza, solitamente applica alla sola incompetenza territoriale, richiamando per l’incompetenza per materia l’art. 38 c.p.c. (86). In realtà, l’applicazione anche all’incompetenza per materia dell’art. 428 anziché dell’art. 38 dipende dal rito adottato dall’attore (87): è pur vero, però, che con l’abolizione della figura del pretore e la tendenziale riduzione dei giudici di primo grado agli uffici del giudice di pace e del tribunale, è ipotesi di scuola la proposizione di un ricorso di lavoro al giudice di pace. Inoltre, la disciplina dettata nelle due norme, dopo la riforma dell’art. 38 operata con legge n. 353/1990, è sostanzialmente analoga e i problemi sono in pratica azzerati (88). Certo è che il giudice di pace improvvisamente adito per una controversia di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatoria dovrà pronunciare sentenza declinatoria della competenza, avverso la quale è peraltro escluso il regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 46 c.p.c. Qualora l’incompetenza non fosse stata rilevata dal giudice di pace entro il momento preclusivo fissato dall’art. 38, si è sostenuto che l’inammissibilità del rito lavoristico dinanzi al giudice di pace deve condurre a una sentenza che si limita a dichiarare l’impossibilità della decisione sul merito (89). Si tratta però di soluzione che, pur tentando di risolvere con equilibrio un delicato problema pratico, non appare condivisibile, implicando la violazione della disciplina sul rilievo dell’incompetenza per materia: ex positivo iure, nella remota ipotesi in esame, non sembra prospettabile altro che una decisione nel merito da parte del giudice di pace.

Dinanzi al tribunale non si pongono problemi di incompetenza per materia quando sia proposta una causa di lavoro con le forme ordinarie, ma solo di conversione del rito disciplinata dall’art. 426 c.p.c. o di trasmissione del fascicolo alla cosiddetta sezione lavoro o dalla sezione distaccata alla sede circondariale (v. al par. precedente).

Se invece è stata proposta con le forme del rito lavoristico una causa non rientrante tra quelle dell’art. 409 c.p.c., il giudice dovrà semplicemente dare disposizioni per l’integrazione fiscale quando è competente per valore o materia a decidere della controversia; quando la competenza spetti invece ad altro giudice, rimette le parti dinanzi a questo con ordinanza (anziché, come di consueto, con sentenza), fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione (art. 427 c.p.c.) (90). L’ordinanza, secondo la giurisprudenza, ha efficacia di sentenza ed è impugnabile con regolamento necessario di competenza entro trenta giorni dalla comunicazione (91).

Per l’incompetenza territoriale del tribunale adito con ricorso di lavoro vige, senza discussioni, l’art. 428 c.p.c., secondo cui la relativa questione può essere sollevata dal convenuto solo con la memoria difensiva dieci giorni prima dell’udienza (92) o, in alternativa, rilevata d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., restando preclusa nel momento in cui il giudice provvede sulle istanze istruttorie, anche se ciò avvenga dopo alcune udienze di mero rinvio (93).

Trascorso tale momento processuale, non è più possibile denunciare l’incompetenza (94), che comunque va accertata alla stregua di ciò che emerge dagli atti, assunte se del caso sommarie osservazioni (cfr. l’art. 38, ult. comma, c.p.c.) (95).

La pronuncia declinatoria della competenza deve assumere forma di sentenza, come risulta dal 4° comma dell’art. 420 c.p.c., soggetta a regolamento necessario di competenza. Con il provvedimento il giudice indica il tribunale competente per territorio e fissa alle parti un termine non superiore a trenta giorni per la riassunzione dinanzi al nuovo giudice (96). Tanto il termine per la riassunzione quanto quello per proporre regolamento di competenza dinanzi alla Suprema Corte decorrono dalla comunicazione del deposito della motivazione in cancelleria, e non dalla lettura del dispositivo in udienza (97).

Effettuata la riassunzione mediante deposito del ricorso dinanzi al nuovo giudice nel termine assegnato (98), il processo prosegue e si conservano le attività svolte nella fase precedente, ai sensi dell’art. 50 c.p.c. In mancanza, il processo si estingue, purché l’eccezione sia tempestivamente sollevata secondo il regime generale previsto dall’art. 307, ult. comma, c.p.c. (99).

Il giudice ad quem, se si ritiene incompetente per materia o per territorio, può sollevare d’ufficio ex art. 45 c.p.c. il regolamento di competenza (100).

B) La fase introduttiva. 18. La proposizione della domanda.

La domanda si propone con ricorso, anziché con citazione come avviene nel rito ordinario. Il ricorso contiene soltanto l’editio actionis, che serve a identificare la domanda proposta: la vocatio in ius del convenuto avverrà solamente dopo l’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza, mediante notificazione del ricorso e del decreto.

Il ricorso deve contenere gli elementi elencati nell’art. 414 c.p.c., nonché dall’art. 125 c.p.c., cioè: 1) l’indicazione del giudice; 2) nome, cognome, residenza o domicilio eletto dal ricorrente nel comune dove ha sede il giudice adito; nome, cognome, la residenza o il domicilio o, in via residuale, la dimora del convenuto; se ricorrente è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, va indicata la denominazione o ditta nonché la sede (101), senza che occorra la specifica identificazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio (102); 3) la determinazione dell’oggetto della domanda, sotto il profilo del provvedimento richiesto (petitum immediato) e dell’utilità sostanziale (petitum mediato); 4) l’esposizione dei fatti con gli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni (che è poi la cosiddetta causa petendi); 5) l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti, a pena di decadenza dalla possibilità di dedurli e produrli nel seguito del giudizio.

Naturalmente il ricorso dovrà essere munito di procura e regolarmente sottoscritto, a pena di nullità (103).

Il ricorso deve essere depositato e il deposito coincide con la costituzione in giudizio, sicché una contumacia dell’attore non può mai configurarsi.

Gli effetti sostanziali e processuali che si producono per la citazione con la notifica di essa al convenuto, per i giudizi introdotti con ricorso vanno distinti a seconda che presuppongano il carattere recettizio o meno dell’atto, cioè l’instaurazione o meno del contraddittorio, e non già distinguendo tout-court tra effetti processuali ed effetti sostanziali (104). Così, il deposito del ricorso varrà per l’applicazione della regola della perpetuatio iurisdictionis (art. 5 c.p.c.) (105), per l’anatocismo e, in linea di massima, per evitare le decadenze (106) [salvo che la legge stessa non configuri l’atto impeditivo della decadenza come atto recettizio: ad es., ai sensi dell’art. 6 legge n. 604/1966 occorre comunicare al datore di lavoro la volontà di impugnare il licenziamento (107)]. Per la prevenzione ai fini della litispendenza, della continenza e della connessione (artt. 39 e 40 c.p.c.) (108)e per l’interruzione-sospensione della prescrizione ex art. 2943 c. c. (109)vale la notificazione del ricorso. Depositato il ricorso, il giudice designato fissa l’udienza di discussione: questo è l’unico potere previsto dalla legge, non essendo consentiti provvedimenti di rigetto immediato o di ammissione di mezzi istruttorii prima dell’instaurazione del contraddittorio (110). Il decreto, analogamente a quanto prevede il nuovo art. 163, n. 7, c.p.c. per la citazione, dovrà contenere a pena di nullità l’avvertimento che la costituzione del convenuto oltre il termine di dieci giorni prima dell’udienza implica le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c. (111).

Il deposito del decreto di fissazione (dell’udienza pone in moto il meccanismo di instaurazione del contraddittorio, con una previsione di termini in molti casi inutile e, come avrebbe detto Redenti, «canzonatoria». Così, limitandoci alle uniche indicazioni che possiedono qualche effettivo rilievo, entro il termine, puramente ordinatorio (112), di dieci giorni dalla pronuncia del decreto l’attore deve notificare al convenuto copia del ricorso e del decreto stesso, in modo che sia rispettato il termine a comparire di trenta giorni liberi o di quaranta se la notificazione deve avvenire all’estero (113).

Nelle controversie del pubblico impiego il ricorso è notificato direttamente all’amministrazione destinataria. Tuttavia, per le amministrazioni dello Stato la notifica deve avvenire presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato competente per territorio (art. 415, ult. comma, c.p.c.).

Segue: I vizi nell’instaurazione della lite.

Si notava che, a differenza della citazione, l’atto introduttivo del giudizio lavoristico scinde in due le funzioni della vocatio in ius e della editio actionis. L’odierna disciplina della nullità della citazione dettata nell’art. 164 c.p.c. agevola però il compito dell’interprete, rendendo possibile l’applicazione di tale norma anche alla fase introduttiva del processo del lavoro, giacché si distinguono con chiarezza i vizi attinenti alla vocatio in ius da quelli concernenti l’editio actionis, con gli adattamenti imposti dal limite della compatibilità (114).

a) Per le nullità afferenti alla vocatio in ius (omessa o incerta indicazione del tribunale adito o del nome delle parti, mancato rispetto dei termini a comparire, mancanza dell’avvertimento delle decadenze a carico del convenuto) non paiono sussistere ostacoli per un richiamo alla disciplina dell’art. 164 c.p.c.: il convenuto, se si costituisce senza nulla eccepire, sana la nullità ex tunc; se deduce l’inosservanza del termine a comparire o la mancanza dell’avvertimento, ottiene il rinvio della causa ad altra udienza rispettosa del termine a comparire, ma anche in tal caso la sanatoria opera ex tunc. Se invece il convenuto non si costituisce, il giudice ordina la rinnovazione del ricorso fissando altra udienza a distanza temporale sufficiente per il rispetto del termine a comparire (115). L’inosservanza del termine concesso cagionerà l’estinzione del processo ex 307, comma 3, c.p.c.

b) In caso di nullità della notificazione, la rinnovazione o la costituzione del convenuto determinano una sanatoria ex tunc (116); non così la radicale inesistenza della precedente notifica, pur potendo il giudice ordinare che venga effettuata ex uovo senza che l’omissione produca effetti estintivi del processo (117). Naturalmente, poi, l’inosservanza del termine fissato dal giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c. per la nuova notificazione al convenuto contumace cagionerà l’estinzione del procedimento (118).

c) Le nullità che inficiano l’editio actionis, cioè concernono il petitum o la causa petendi, davano luogo, secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza del lavoro, a una radicale e insanabile nullità del ricorso, rilevabile anche ex officio in ogni stato e grado (119). Ci pare che quest’orientamento debba cedere al novellato 164 c.p.c. che, pur tenendo ferma la rilevabilità d’ufficio del vizio attinente all‘editio actionis, consente di sanarlo entro un termine perentorio fissato dal giudice per rinnovare l’atto se il convenuto non si è costituito o per integrarlo se il convenuto si è costituito (120). Adempiuto all’incombente, la sanatoria opera solo ex nunc, cioè dal momento della rinnovazione o dell’integrazione, dal quale si producono gli effetti sostanziali e processuali della domanda. Se la rinnovazione o l’integrazione non vengono effettuate, il processo si estingue (121).

La costituzione del convenuto.

Nel processo del lavoro il thema decidendum deve essere definito e conosciuto dal giudice sin dalla prima udienza. Così come l’attore ha l’onere di proporre tutte le domande e tutti i mezzi di prova sin dall’atto introduttivo, il convenuto deve costituirsi dieci giorni prima dell’udienza (122), depositando in cancelleria il proprio fascicolo con la memoria difensiva che deve contenere, a pena di decadenza, le domande riconvenzionali (con le peculiarità formali di cui si dirà tra breve) e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, l’indicazione dei mezzi di prova e la produzione dei documenti (art. 416, 1° comma, c.p.c.) (123).

Trascorso tale termine il convenuto potrà egualmente costituirsi in giudizio ed evitare o far revocare la contumacia, ma le decadenze intervenute resteranno ferme ed egli potrà svolgere mere difese o contestazioni dei fatti costitutivi dedotti in giudizio dall’attore (124), salva l’ipotesi di causa non imputabile idonea a fondare una rimessione in termini ex art. 294 c.p.c. o secondo la lex generalis di cui all’art. 184-bis c.p.c. e ferma la possibilità in ogni tempo di disconoscere le scritture private prodotte contro di lui (art. 293, ult. comma, c.p.c.) (125). Al contumace si applicherà inoltre l’art. 292 c.p.c. sulla notifica di alcuni atti del processo.

La norma prevede anche un onere del convenuto di prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ma nessuna sanzione consegue all’inosservanza di quest’onere, se non la eventuale possibilità di valutare il comportamento difensivo ai sensi degli artt. 88 e 92 c.p.c. e, al limite, di trarre argomenti di prova (art. 116, comma 2, c.p.c.) (126). Una contestazione tardiva però — consentita anche al contumace e, financo, in appello — potrà riaprire i termini per deduzioni istruttorie sul fatto inizialmente non contestato (127).

Le eccezioni di merito non rilevabili d’ufficio sono quelle in cui l’effetto giuridico estintivo, modificativo o impeditivo del diritto vantato dall’attore è subordinato all’esercizio di un potere di parte: si tratta, ad es., dell’eccezione di prescrizione o di decadenza [artt. 2938 e 2969 c. c. e si pensi alla decadenza dell’impugnativa di licenziamento per decorso del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 6 legge n. 604/1966 (128), o alla decadenza dell’INAIL dall’azione di regresso ex art. 11 D. P. R. n. 1124/1965 (129)] o di quella di compensazione (130). Le dimensioni dell’impresa a fini dell’applicabilità della tutela reale del posto di lavoro (art. 18 Stat. Lav.) non fondano, invece, un’eccezione in senso stretto ma una mera difesa (131), così come l’eccezione di aliunde perceptum sollevata dal datore di lavoro onde ridurre la misura del risarcimento del danno spettante al lavoratore licenziato che, nel frattempo, abbia prestato altrove la propria attività (132).

Per la domanda riconvenzionale non basta il deposito della memoria difensiva dieci giorni prima dell’udienza, ma occorre che il convenuto chieda, sempre a pena di decadenza, il differimento dell’udienza (133). La memoria difensiva con il decreto di differimento verranno poi notificate a cura della cancelleria all’attore, nel rispetto dei termini di cui all’art. 418 (venticinque giorni liberi se, com’è normale, la notificazione deve avvenire nel domicilio eletto in Italia dall’attore). L’attore potrà poi reagire alla riconvenzionale avversaria, depositando a sua volta una memoria difensiva almeno dieci giorni prima della nuova udienza, con regime processuale analogo a quello del convenuto (134). Se la riconvenzionale fosse improcedibile per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione (v. supra al par. 10), il giudice, ferma la necessità di provvedere comunque al differimento dell’udienza, può separare la domanda principale da quella riconvenzionale e sospendere ex art. 412-bis c.p.c. solo quest’ultima (135).

Qualora il termine a comparire suddetto non fosse rispettato o sussistessero vizi di notificazione della memoria difensiva del convenuto, allorché l’attore abbia eccepito la nullità il giudice deve differire la causa ad altra udienza in applicazione degli artt. 164 e 291 c.p.c. (136). La nullità della riconvenzionale potrà aversi per difetti attinenti all‘editto actionis, con possibilità di integrare gli elementi mancanti in un termine perentorio assegnato dal giudice, analogamente a quanto previsto per la comparsa di risposta nel rito ordinario dall’art. 167, comma 2, c.p.c. (137).

La riconvenzionale ora, in grazia del 3° comma dell’art. 40 c.p.c. e a differenza di quanto accadeva in passato (138), potrà anche fondarsi su un rapporto che esula da quelli di cui all’art. 409 c.p.c.: l’intera causa verrà trattata con il rito del lavoro (139).

Difesa personale delle parti e gratuito patrocinio.

L’art. 417 c.p.c. prevede la possibilità per le parti di stare in giudizio personalmente in primo grado nelle controversie di valore inferiore a lire 250.000, anche senza eleggere domicilio nel circondario del giudice adito. Tale facoltà spetta sia all’attore che al convenuto, con la differenza che l’attore può proporre la domanda anche verbalmente dinanzi al giudice, che ne fa redigere processo verbale (140): il ricorso o il processo verbale con il decreto di fissazione dell’udienza vanno poi notificati al convenuto a cura della cancelleria, che provvede a tutte le notificazioni alle quali debbano adempiere le parti che stanno in giudizio personalmente. Questa facoltà dell’attore lascia perplessi, giacché analoga possibilità non è data al convenuto e sorgono possibili ragioni di incompatibilità in capo al giudice che ha dato assistenza all’attore nel predisporre la domanda (141): perplessità che vengono superate dalla scarsa area applicativa della norma.

Un’ipotesi tutta nuova di difesa personale è stata introdotta con l’art. 417-bis c.p.c. per la pubblica amministrazione, la quale, limitatamente al giudizio di primo grado e tanto in veste di attrice quanto in veste di convenuta, può stare in giudizio avvalendosi direttamente di proprii dipendenti. Identica facoltà è data agli enti locali, i quali possono all’uopo utilizzare le strutture dell’amministrazione civile del Ministero dell’interno, conferendo un apposito mandato (art. 417-bis, ult. comma, c.p.c.).

Quando l’amministrazione dello Stato è convenuta e l’atto viene notificato presso la competente Avvocatura dello Stato, questa, non oltre sette giorni dalla notifica, trasmette gli atti agli uffici dell’amministrazione interessata per la gestione del contenzioso del lavoro. Resta salva la possibilità per l’Avvocatura dello Stato di assumere direttamente la difesa quando vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici (art. 417-bis, comma 2, c.p.c.).

Conviene infine rammentare che gli artt. 11 e segg. legge n. 533/1973 hanno dettato regole particolari per l’ammissione dei non abbienti al patrocinio a spese dello Stato, con la stranezza di un provvedimento di ammissione da emanarsi solo dopo il deposito del ricorso (art. 13 legge cit.), quando cioè la parte o si è già scelta l’avvocato o si è difesa da sé (142). Queste norme verranno però a cessare con il 1° luglio 2002, allorché entreranno in vigore le nuove disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato introdotte dalla L. 29 marzo 2001, n. 134 nel testo della L. 30 luglio 1990, n. 217 (cfr. l’art. 23 legge n. 134/2001).

Nelle controversie previdenziali il lavoratore soccombente non è mai soggetto al pagamento delle spese nei confronti degli istituti di previdenza e assistenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente temeraria e infondata (art. 152 disp. att. c.p.c.) (143).

La pluralità di parti nel processo del lavoro (litisconsorzio, interventi, riunione di cause).

Le regole generali di cui agli artt. 102 e 103 c.p.c. vigono anche nel processo del lavoro ed anzi, come subito vedremo, sono vieppiù numerose le possibilità di cumulo soggettivo per connessione impropria, cioè per comunanza delle sole questioni giuridiche tra le diverse cause.

È tuttora dubbio se costituiscano fattispecie di litisconsorzio necessario le cause promosse per il riconoscimento dell’interposizione fittizia di manodopera ai sensi della legge n. 1369/1960 (144). Quando ravvisi un’ipotesi di litisconsorzio necessario, comunque, il giudice deve fissare altra udienza, disponendo che vengano notificati al litisconsorte pretermesso, a cura della cancelleria, gli atti introduttivi del processo e la data dell’udienza nel rispetto del termine a comparire di trenta giorni (elevati a quaranta, se la notifica debba avvenire all’estero) ex art. 420, comma 9, 10 e 11, c.p.c. Chiaramente l’ordine di integrazione del contraddittorio potrà essere emesso sino alla decisione della causa, derivandone, in difetto, la nullità o, financo, 1’«inesistenza» della pronuncia.

L’intervento volontario — in tutte le sue forme (principale, litisconsortile, adesivo) a meno che non si tratti di intervento del litisconsorte necessario — può avvenire ex art. 419 c.p.c. sino a dieci giorni prima dell’udienza, a pena di inammissibilità rilevabile ex officio e a prescindere dall’eventuale differimento dell’udienza stessa (145). L’intervento ha luogo con memoria (146) che, depositata in cancelleria, provocherà lo spostamento dell’udienza e dovrà essere notificata alle altre parti costituite nel rispetto del termine a comparire di trenta giorni (147). La domanda dell’interveniente deve essere di regola preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione a pena di improcedibilità (v. supra al par. 10).

L’istanza del convenuto per la chiamata di un terzo deve essere con tenuta a pena di decadenza nella memoria difensiva depositata almeno dieci giorni prima dell’udienza: il giudice fisserà altra udienza disponendo che il provvedimento, il ricorso dell’attore e la memoria del convenuto siano notificati al terzo con l’osservanza del termine a comparire di trenta (o quaranta) giorni (art. 420, comma 9, c.p.c.) (148); il terzo dovrà poi costituirsi con memoria difensiva nel termine di dieci giorni prima della nuova udienza, soggiacendo, in difetto, alle medesime preclusioni del convenuto.

Identiche formalità debbono essere seguite per l’intervento coatto iussu iudicis ex art. 107 c.p.c., anche se sussistono dubbi sul termine ultimo in cui è possibile disporlo, parendo preferibile, per le note esigenze di celerità e di economia del processo del lavoro, che il giudice emetta l’ordine prima di provvedere sulle istanze istruttorie (149).

Le associazioni sindacali, salvo il potere del giudice di chiedere informazioni e osservazioni (su cui v. infra al par. 27), possono intervenire solo quando sono titolari di una situazione sostanziale (e, se si vuole, collettiva) giuridicamente tutelabile (ad es., in materia di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Stat. Lav. o in caso di impugnazione del licenziamento del dirigente sindacale ai sensi dell’art. 18, 7° comma, Stat. lav. o, ancora ed ovviamente, quando il sindacato agisca per i contributi dovuti dai lavoratori (150): v. anche supra al par. 1), ma non per l’interpretazione o l’applicazione di una norma del contratto collettivo (151). Quest’ultima facoltà è consentita, invece, in materia di pubblico impiego dall’art. 68 bis, 5° comma, D. Lgs. n. 29/1993 (quale introdotto con il D. Lgs. n. 80/1998), all’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto o accordo collettivo invocato dalle parti ed anche oltre il termine di cui all’art. 419 c.p.c.: l’intervento è limitato alle questioni concernenti l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole del contratto o accordo collettivo concluso dall’ARAN e dai sindacati e costituisce la (problematica) manifestazione di un potere di interloquire sull’applicazione del contratto collettivo che, come vedremo infra al par. 32, trova ulteriori, ampie (ed anzi eccessive) estrinsecazioni. Sin d’ora, però, va osservato che siffatta facoltà di intervento fa sorgere dubbi di legittimità costituzionale per la mancata previsione di analoghi poteri in capo alle associazioni di categoria firmatarie di contratti o accordi collettivi in materia di lavoro subordinato privato.

Tutte le questioni concernenti l’ammissibilità dell’intervento volontario o coatto vanno decise con sentenza unitamente al merito o anche separatamente ai sensi degli artt. 272 e 420, comma 4, c.p.c.

La riunione delle cause pendenti dinanzi allo stesso ufficio giudiziario è obbligatoria per le controversie di lavoro che siano connesse anche solo per identità delle questioni dalla cui soluzione dipende totalmente o parzialmente la loro decisione (art. 151 disp. att. c.p.c.). Quella che, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., è una semplice facoltà del giudice diviene un dovere, il cui omesso esercizio, peraltro, non è sanzionato da alcuna nullità (152). La riunione è obbligatoria anche per i casi di cosiddetta connessione impropria, cioè per identità delle questioni trattate: sicché la norma par congegnata proprio in previsione delle possibili «liti di massa» promosse da una pluralità di lavoratori, magari attraverso un unico difensore le cui competenze saranno ridotte in relazione all’unitaria trattazione delle cause (art. 151, comma 2, disp. att. c.p.c.) (153).

Verifica della regolarità degli atti e dei documenti e della costituzione delle parti.

Prima di dare ingresso alla fase istruttoria (in senso lato) della causa il giudice deve indicare alle parti le irregolarità degli atti e dei documenti, invitandole a porvi rimedio e assegnando un termine per provvedervi, con salvezza peraltro dei diritti quesiti (art. 421, comma 1, c.p.c.). Si tratta di verifiche preliminari analoghe, per molti aspetti, a quelle previste per il rito ordinario dall’art. 180, comma 1, c.p.c. che il giudice del lavoro può effettuare in ogni momento, ma che è bene vengano adempiute sin dall’inizio onde evitare successivi rallentamenti processuali. Si legge la norma nel senso che essa, pur discorrendo tout-court di irregolarità (154), comprenda le vere e proprie nullità degli atti, come può evincersi dalla salvezza dei diritti quesiti (155): seguendo quest’opinione potrebbero esservi fatte rientrare anche le ipotesi di nullità degli atti introduttivi (ricorso e memoria difensiva), che perciò, difformemente dalle conclusioni cui siamo pervenuti nel par. 19, non sarebbero mai suscettibili di una sanatoria retroattiva, neppure per vizi del ricorso attinenti alla vocatio in ius. Pare allora preferibile intendere il termine «irregolarità» in senso letterale e, per le nullità, far capo alla disciplina generale degli artt. 156 e segg. o all’art. 164 c.p.c.

Tra queste attività preliminari rientra anche la verifica della regolare costituzione delle parti, in applicazione dell’art. 182 c.p.c.

Conviene ricordare, infine, che tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti in controversie individuali di lavoro, di pubblico impiego o di previdenza e assistenza obbligatorie, tanto in sede di cognizione quanto di esecuzione forzata o di procedure fallimentari, sono esenti dalle imposte di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura (art. 10 legge n. 533/1973 che ha sostituito l’art, unico della L. 2 aprile 1958, n. 319).

C) La fase istruttoria.

C) Di fase istruttoria parliamo in senso lato, come fase del processo attraverso cui la causa diviene matura per la decisione.

Può darsi che questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito oppure l’esistenza di dissenso tra le parti solo sulla quaestio iuris o sull’interpretazione di clausole contrattuali ma non sui fatti storici o, ancora, la sufficienza delle prove documentali prodotte dalle parti, consentano una subitanea decisione della lite sin dalla prima udienza cronologica (cfr. l’art. 420, comma 4, c.p.c.) (156). Il contrasto sui fatti storici o sugli elementi che qualificano il rapporto renderà, invece, necessaria l’assunzione di prove e dunque si dovrà far luogo all’istruttoria in senso stretto e sarà per lo più necessario rinviare ad altra udienza per l’assunzione dei mezzi di prova.

La legge prevede un processo orale e concentrato, che si risolve nella prima udienza o in poche udienze ravvicinate nel tempo, dinanzi a un unico giudice che istruisce e decide la causa e al quale sono vietati i meri rinvii (art. 420, ult. comma, c.p.c.). Essenziale è l’identità del giudice che assume le prove costituende e che decide la controversia, in ossequio al principio di immediatezza che costituisce il corollario indispensabile dell’oralità (157). In tutti i casi, anche quando la causa sia già matura per la decisione, il giudice deve sentire le parti in interrogatorio libero e tentare la conciliazione della lite.

Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione.

I primi tre commi dell’art. 420, rubricato «udienza di discussione della causa», disciplinano l’interrogatorio libero delle parti e il tentativo obbligatorio di conciliazione. Nel 1973 questa norma fu una sostanziale novità, che ha poi ispirato al legislatore della novella del rito ordinario promulgata con legge n. 353/1990 l’art. 183 c.p.c., con l’unica differenza che secondo questa norma il tentativo di conciliazione si svolge «quando la natura della causa lo consente».

Le parti debbono, dunque, comparire personalmente dinanzi al giudice del lavoro (art. 415, comma 2, c.p.c.) o, in alternativa, debbono nominare un procuratore generale o speciale munito di procura conferita con atto pubblico o con scrittura privata autenticata che gli attribuisca espressamente il potere di transigere o conciliare la controversia: tale facoltà tiene giustamente conto della possibile partecipazione al giudizio di grandi imprese con strutture ampie e complesse nonché, ora, delle pubbliche amministrazioni (158).

L’interrogatorio libero delle parti presenti riveste anzitutto la funzione di chiarire i fatti di causa, contribuendo alla determinazione definitiva del thema decidendum. Non è un caso che il 1° comma dell’art. 420, nel suo secondo periodo, si occupi proprio della possibile modificazione di domande, eccezioni e conclusioni formulate negli atti introduttivi del giudizio. L’interrogatorio libero costituisce invero la prima manifestazione di quel dovere di collaborazione del giudice con le parti in cui risiede la più profonda essenza del principio costituzionale del contraddittorio (ora contemplato, oltre che nell’art. 24, 2° comma, Cost., anche nel 2° comma del nuovo art. 111 Cost.) e che, per il rito ordinario, si è tradotto nell’art. 183, comma 3, c.p.c.: sin dall’inizio del processo il giudice deve richiedere i chiarimenti necessari e indicare alle parti e ai loro difensori le questioni rilevabili d’ufficio che debbono essere trattate (159).

All’esito dell’interrogatorio libero può sorgere l’esigenza, come detto, di modificare domande, eccezioni e conclusioni proposte negli atti introduttivi. La regola del contraddittorio impone di consentire all’attore di reagire in prima udienza alle eccezioni e alle difese svolte dal convenuto (cfr. l’art. 183, comma 4, c.p.c.), con le rettifiche che si rendano necessarie e alle quali il convenuto potrà a sua volta rispondere: in queste esigenze difensive si estrinsecano i «gravi motivi» enunciati dalla norma, il cui apparente rigore non può comprimere il diritto di difesa delle parti; in caso di domanda riconvenzionale si è visto però che il meccanismo processuale di tutela del contraddittorio è più articolato (v. supra al par. 20).

Le modificazioni di domande, eccezioni e conclusioni sono sottoposte all’autorizzazione del giudice [autorizzazione che non è puramente discrezionale, ma dovrà tener conto delle esigenze difensive delle parti (160)] e possono avvenire solo nei limiti della emendatici libelli, cioè della specificazione o correzione di domande ed eccezioni già proposte, senza alcuna possibilità di introdurre domande o eccezioni nuove, rispetto alle quali sono già cadute le barriere preclusive poste in coincidenza con gli atti introduttivi (161).

Vi è poi la funzione probatoria dell’interrogatorio libero: infatti, tanto le risposte fornite dalle parti, quanto la mancata comparizione senza giustificato motivo o la mancata conoscenza, senza gravi motivi, dei fatti di causa da parte del procuratore nominato, sono fonte di argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c., equiparabili in buona sostanza a indizi che da soli non bastano a fondare la decisione ma, uniti ad altri, possono consentire al giudice la soluzione della quaestio facti (162). Certamente, se le dichiarazioni rese dalla parte hanno contenuto confessorio esse — ancorché prive di efficacia di prova legale poiché esulanti da un interrogatorio formale volto a provocare una confessione strido sensu — possono essere sufficienti per l’accertamento dei fatti (163).

L’interrogatorio libero potrà comunque servire a circoscrivere il thema probandum, per effetto della non contestazione inter partes di alcune circostanze, sulle quali pertanto non sarà necessario dare adito a prove costituende (164).

La mancata comparizione o la mancata conoscenza dei fatti di causa da parte del procuratore, per restare senza effetti, devono trovare adeguate giustificazioni, le quali consistono in seri impedimenti che potranno essere addotti dal difensore per ottenere il rinvio dell’interrogatorio a un’udienza successiva.

Nonostante il chiaro tenore letterale della norma che configura come obblighi l’esperimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione, la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte ritiene che l’eventuale omissione non comporti alcuna nullità del procedimento e della successiva sentenza (165).

L’istruzione probatoria: il perdurante vigore del principio iudex secundum allegata et probata iudicare debet, non secundum conscientiam.

L’ampiezza dei poteri istruttorii ufficiosi del giudice del lavoro di cui subito diremo non fa venir meno il vigore, anche nel rito lavoristico, dell’onere di allegazione dei fatti in capo alle parti (iudex secundum allegata iudicare debet) e della regola di giudizio dell’onere della prova.

L’onere di allegazione comprende sia i fatti principali (166), sia i fatti cosiddetti secondarii dai quali desumere l’esistenza dei fatti principali; i fatti secondarii non possono essere introdotti come tema di prova dal giudice ex officio per non violare il suo dovere di imparzialità, ma egli potrà utilizzarli per la formazione del proprio convincimento allorché emergano dalle prove assunte (167).

La regola dell’onere della prova (art. 2697 c. c.) vige anch’essa pienamente nel processo del lavoro, ancorché si debba tener conto di alcune peculiarità delle fattispecie sostanziali: così, se è chiaro che la prova del carattere subordinato del rapporto grava su chi intende giovarsene (168) e che la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento impugnato dal lavoratore debbono essere dimostrati dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 legge n. 604/1966 (169), qualche incertezza in più sussiste in ordine al requisito dimensionale dell’impresa onde applicare l’art. 18 Stat. Lav., requisito che secondo la giurisprudenza prevalente deve essere dimostrato dal lavoratore che chiede la tutela reale del posto di lavoro (170).

Il divieto di utilizzare la scienza privata vige pienamente anche nel rito lavoristico e vale, in qualche misura e come vedremo tra breve, a circoscrivere la portata degli ampii poteri istruttorii ufficiosi del giudice del lavoro, il cui esercizio non può e non deve mai pregiudicare il dovere di imparzialità e di terzietà del giudicante, condicio sine qua non per la realizzazione del «giusto processo» ex art. 111 Cost.

Le deduzioni istruttorie.

I fatti che costituiscono il thema probandum vanno allegati sin dalle scritture iniziali del processo, essendo consentite solo quelle modifiche di cui s’è detto nel par. 24. I mezzi di prova devono essere parimenti indicati sin dagli atti introduttivi a pena di decadenza (171), anche se per l’indicazione delle generalità dei testimoni da assumere sulle circostanze articolate nel ricorso o nella memoria difensiva il giudice ha il potere-dovere di concedere un termine alle parti per ottemperare a quella che viene ritenuta una mera irregolarità (172).

Questa regola di preclusione subisce dei temperamenti nel dettato stesso della legge processuale, là dove consente alle parti di dedurre in udienza i mezzi di prova che esse non hanno potuto proporre prima (art. 420, comma 5, c.p.c.). Naturalmente — salvo quanto diremo infra al par. 29 a proposito della produzione di nuovi documenti — devono sussistere precise ragioni per attuare questa sorta di rimessione in termini, ragioni determinate dallo sviluppo del contraddittorio e, dunque, dalle difese della controparte, o anche da impedimenti di carattere personale (173). Questa norma, che può essere per certi versi avvicinata al nuovo art. 184-bis c.p.c. (di per sé applicabile anche al rito lavoristico) (174), funge da correttivo al severo regime di preclusioni. La possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova deve comunque passare attraverso il vaglio del giudice, che saggia la consistenza delle ragioni addotte, e comporterà per la controparte la possibilità di controdedurre a propria volta dei mezzi di prova entro un termine perentorio di cinque giorni prima della nuova udienza fissata ex necesse (art. 420, comma 7, c.p.c.).

I poteri istruttori del giudice del lavoro.

Fermi i ricordati oneri di allegazione e di prova nonché il divieto di scienza privata, il legislatore ha dotato il giudice del lavoro di notevoli poteri istruttori ufficiosi, disciplinati nell’art. 421 c.p.c.

Egli può ammettere ogni mezzo di prova anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, nell’esercizio di poteri inquisitorii prima facie persino troppo ampii e che vanno contemperati con la necessaria imparzialità del giudice (175). Si sono tentate così alcune interpretazioni restrittive, che concedono al giudice solo il potere di articolare la prova sulla base di una fonte probatoria già indicata dalle parti, analogamente a quanto è oggi previsto dall’art. 281-ter c.p.c. (e prima dagli artt. 312 e 317 c.p.c.) (176), ma si giungerebbe così a un’inutile duplicazione di norme già esistenti; altrove si vieta al giudice di sopperire alle decadenze in cui sono incorse le parti (177), ma questa lettura comporta una interpretatio abrogans della norma.

Pare più equilibrato perciò ritenere che il giudice, nell’ambito delle allegazioni delle parti, può ricavare fonti di prova da tutto il materiale di causa, dagli atti e dai documenti prodotti, dalle risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, dalle dichiarazioni di altri testi [anche ai sensi dell’art. 257 c.p.c. (178)], dalle informazioni delle associazioni sindacali, dai rilievi compiuti durante l’accesso sul luogo di lavoro (179), in funzione sussidiaria rispetto alle deduzioni di parte, onde vincere i dubbi residuati all’esito dell’istruttoria (180), senza però trasformarsi in libero investigatore per non violare il suo dovere di imparzialità.

Sul piano pratico il pensiero va innanzitutto alla possibilità per il giudice di superare i limiti oggettivi della prova testimoniale di cui agli artt. 2721 e segg. c. c. o in materia di simulazione (art. 1417 c. c.) (181); tali limiti sono tuttavia invalicabili quando sia richiesta la forma scritta del contratto adsubstantiam o adprobationem (ad es., per una transazione o per un contratto a termine), salvo che la parte dimostri di aver incolpevolmente perduto il documento (artt. 2725 e 2724, n. 3, c. c.) (182).

Inoltre, ai sensi dell’ult. comma dell’art. 421 il giudice del lavoro può ordinare, se indispensabile (183), la comparizione delle persone incapaci di testimoniare, perché titolari di un interesse che le legittimerebbe a intervenire nel giudizio [art. 246 c.p.c. (184)], per interrogarle liberamente sui fatti di causa, senza far loro assumere la veste di veri e propri testimoni e senza esigere che essi pronuncino la formula di impegno di cui all’art. 251 c.p.c. (come riscritto da Corte cost., 5 maggio 1995, n. 149). L’efficacia delle risposte date da questi terzi non, è la stessa della prova testimoniale, ma è quella degli argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. (185).

Restano fermi invece i limiti oggettivi e soggettivi della confessione (186) e del giuramento in tutte le sue forme (187).

Il giudice può chiedere alle associazioni sindacali, su istanza di parte o anche ex officio, di rendere in giudizio informazioni e osservazioni orali o scritte (artt. 421, comma 2, e 425 c.p.c.). Tale richiesta può essere indirizzata solo alle associazioni sindacali indicate dalle parti, con provvedimento motivato e assunto nel rispetto del contraddittorio, concedendo la possibilità di depositare note difensive ai sensi dell’art. 420, comma 6, c.p.c. L’associazione sindacale, che ha la semplice facoltà ma non l’obbligo di rendere le informazioni o le osservazioni richieste ed è priva di quella imparzialità necessaria a renderla organo «neutrale» di giustizia, svolge un compito ausiliario della parte che ha sollecitato la richiesta (188). Le informazioni si risolvono in narrazione di fatti che possono essere utilizzati come argomenti di prova (189); le osservazioni consistono in valutazioni che possono contribuire a interpretare i fatti di causa e a formulare le massime di esperienza da porre a base del giudizio, ma sono, ad es., inidonee a identificare la comune intenzione delle parti nella conclusione del contratto collettivo (190). Contratto collettivo la cui interpretazione spetta esclusivamente al giudice e che questi può acquisire anche d’ufficio, richiedendolo alle associazioni sindacali anche non designate dalle parti (art. 425, ult. comma, c.p.c.) (191).

L’accesso sul luogo di lavoro può essere disposto solo su istanza di parte (art. 421, comma 3, c.p.c.) e, pur risolvendosi in un’ispezione, prescinde dai più ristretti vincoli cui è soggetta l’ispezione giudiziale, la quale peraltro è disponibile dall’ufficio su persone e cose (diverse dal luogo di lavoro) anche nel rito lavoristico (192). L’accesso va compiuto quando è necessario (193), cioè quando può servire a constatare la situazione dei luoghi o, ad es., le condizioni di sicurezza sul luogo di lavoro, ed è coercibile, cioè può compiersi anche praeter vel contra voluntatem partium (194). In quella sede il giudice, se lo ritiene utile, può sentire i testimoni già ammessi e presenti, a differenza dell’ispezione nella quale vi è soltanto la possibilità di assumere informazioni da terzi che non assurgono a vere e proprie testimonianze.

Per le prove cosiddette atipiche si pongono gli stessi problemi del processo ordinario (195).

Ammissione e assunzione dei mezzi di prova.

Come nel rito ordinario, le prove costituende vanno ammesse con ordinanza [non reclamabile, ma revocabile anche se basata sull’accordo delle parti (196)] se il giudice le ritiene ammissibili e rilevanti, disponendone l’assunzione immediata nella stessa udienza o, se non è possibile, fissando altra udienza non oltre dieci giorni dalla prima (art. 420, comma 5 e 6, c.p.c.).

L’omessa indicazione dei testi, come abbiamo già detto, può essere sanata entro un termine perentorio concesso dal giudice (197), mentre se le parti non hanno affatto formulato le richieste istruttorie negli atti introduttivi, va dichiarata la decadenza.

Per l’assunzione vigono le regole generali (artt. 202 e segg. c.p.c.), inclusa la possibilità di espletare la prova mediante delega al giudice istruttore del luogo in cui essa deve venire assunta, ai sensi dell’art. 203 c.p.c., che non è ritenuto in contrasto con la spiccata oralità del processo del lavoro (198), nonché l’utilizzo di rogatorie internazionali ex art. 204 c.p.c. quando la prova va assunta all’estero (199).

La decadenza della parte per mancata comparizione nel giorno fissato per assumere la prova può essere pronunciata anche d’ufficio, salvo che l’altra parte presente non ne chieda l’assunzione (art. 208 c.p.c.) (200).

I testi vanno intimati a cura delle parti, a pena di decadenza (201).

La verbalizzazione può essere sostituita da registrazione su nastro (art. 422 c.p.c.).

Segue: La produzione dei documenti.

Con gli atti introduttivi scattano le preclusioni anche per la produzione dei documenti: gli artt. 414 e 416 c.p.c. prevedono infatti che i documenti vengano prodotti con il ricorso e con la memoria difensiva a pena di decadenza, depositandoli in cancelleria unitamente a tali atti.

A onta della preclusione espressamente sancita, la successiva produzione di documenti nel corso del giudizio e sino alla discussione orale della causa viene consentita dalla giurisprudenza (202), che solo in alcuni casi richiede un preventivo giudizio di ammissibilità e rilevanza del documento (203). Così però le preclusioni vengono sostanzialmente aggirate e un maggior rigore dovrebbe condurre ad ammettere la produzione di quei documenti volti a reagire alle difese e alle prove dedotte dalla controparte o da cui la parte sia decaduta per causa non imputabile, previa rimessione in termini ai sensi dell’art. 184-bis c.p.c. (204). Né appare possibile sottoporre il documento a un preventivo giudizio di rilevanza, che può avere ad oggetto le sole prove costituende, mai quelle precostituite la cui acquisizione avviene uno actu per effetto della produzione in giudizio che rende il documento utilizzabile per la decisione. C’è il rischio, però, di irrigidire troppo il sistema probatorio nel rito del lavoro ed è per questo che la giurisprudenza, con la dottrina maggioritaria, consente la produzione di nuovi documenti per tutto il corso del giudizio ed anche per la prima volta in appello (205).

Il disconoscimento e la verificazione delle scritture private seguono le regole generali: la parte contro cui è prodotta la scrittura privata è tenuta a disconoscere la firma con la prima risposta successiva alla produzione (cioè nella memoria difensiva per il convenuto che intende disconoscere la scrittura prodotta dall’attore con il ricorso; in udienza per l’attore che intende disconoscere la scrittura prodotta dal convenuto con la memoria difensiva); il contumace potrà disconoscere le scritture private in ogni tempo (art. 293, ult. comma, c.p.c.) e gli dovrà essere notificata copia del verbale da cui risulta la produzione (206); la verificazione verrà istruita e decisa dal giudice del lavoro secondo le regole proprie del rito.

Maggiori problemi pone il procedimento per querela di falso, che segue bensì le regole ordinarie, ma va inserito, ora, nell’ambito del rito lavoristico, atteso che l’abrogazione della figura del pretore ha tratto seco l’impossibilità di sospendere il giudizio di merito nell’attesa che il tribunale, funzionalmente competente, emani la decisione sulla querela di falso in composizione collegiale (cfr. l’art. 313 ,c.p.c.). Poiché le controversie di lavoro sono affidate al tribunale in composizione monocratica, il giudice del lavoro potrà istruire anche la querela di falso e all’esito dell’istruttoria avrà due strade: a) rimettere al collegio l’intera causa, ai sensi dell’art. 281-nonies c.p.c., per decidere sia sulla querela di falso che sul merito; in tal caso si applicherà il rito del lavoro ex art. 40, comma 3, c.p.c.; b) rimettere al collegio solo la querela di falso, che il collegio deciderà con il rito ordinario, per poi trasferire nuovamente la causa al giudice monocratico per la decisione nel merito con rito lavoristico; il quale giudice potrebbe anche proseguire l’istruttoria sulle domande che possono essere decise indipendentemente dal documento impugnato (art. 225, comma 2, c.p.c.). La separazione dell’incidente sulla querela di falso comporta, cioè, la diversificazione dei riti, che invece devono rimanere congiunti sub specie laboris quando la rimessione al collegio sia totale (207).

È bene rammentare che i verbali degli ispettori del lavoro o dei funzionari di enti previdenziali possiedono efficacia di atto pubblico, cioè formano piena prova ai sensi dell’art. 2700 c. c. quanto alla provenienza da chi li ha sottoscritti, alle dichiarazioni ricevute e agli atti compiuti in presenza del pubblico ufficiale, mentre le restanti affermazioni possono essere valutate liberamente dal giudice (208). Pari efficacia di piena prova possiedono i certificati del medico fiscale (209), mentre il libretto di lavoro, contenendo solo le dichiarazioni unilaterali del datore, fornisce al massimo elementi indiziari (210).

Va segnalato infine che, in forza dei suoi ampii poteri istruttorii, il giudice può emettere anche d’ufficio l’ordine di esibizione di documenti a carico della parte o di terzi (211).

Segue: La consulenza tecnica d’ufficio.

Alla consulenza tecnica il legislatore del lavoro ha dedicato un’apposita norma, l’art. 424 c.p.c. In realtà tanto la funzione quanto la struttura della consulenza non si discostano da quelle vigenti nel rito ordinario, esigendosi semmai maggiore celerità dal consulente nominato dal giudice del lavoro per la nota direttiva di concentrazione processuale.

Il consulente è un ausiliare che non fornisce di per sé elementi probatorii, ma contribuisce alla valutazione degli elementi acquisiti e alla soluzione di questioni tecniche (212); può essere nominato in qualunque momento del processo, nel rispetto del contraddittorio e, semmai, autorizzando le parti al deposito di note difensive ai sensi dell’art. 420, comma 6, c.p.c. La nomina del consulente implicherà il rinvio della causa e la fissazione di apposita udienza per la formulazione del quesito e per il giuramento, con assegnazione di un termine per il deposito della relazione o per riferire verbalmente in udienza; le parti potranno nominare i loro consulenti entro sei giorni dall’udienza di nomina (art. 145 disp. att. c.p.c.). L’inutile decorso del termine di venti giorni per il deposito della relazione non comporta alcuna nullità della consulenza, che resta utilizzabile dal giudicante per la propria decisione quale perìtus peritorum (213).

L’utilizzo della consulenza rientra nella discrezionalità del giudice. Non così nelle cause relative a domande di prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedano accertamenti tecnici, in cui si ritiene che la c.t.u. sia obbligatoria ex art. 445 c.p.c. (214).

D) I provvedimenti. 31. Le ordinanze anticipatorie.

L’art. 423 c.p.c. consente l’emanazione di ordinanze anticipatone munite di efficacia esecutiva, che anticipano in tutto o in parte il futuro contenuto della sentenza di merito (215).

Nel 1° comma la norma disciplina l’ordinanza di pagamento di somme non contestate che è stata tratta ad esempio dal legislatore del 1990 per formulare l’art. 186-bis c.p.c., applicabile al solo rito ordinario data l’esistenza, nel rito lavoristico, della specifica disposizione in esame. Il provvedimento è emesso su istanza di una delle parti (e dunque, anche del datore di lavoro), ha per oggetto esclusivamente una somma di denaro e si fonda sul presupposto della «non contestazione» più che dei fatti costitutivi del credito azionato, delle somme vantate dall’attore o dal convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale (216). La non contestazione non deriva tout-court dalla genericità delle difese svolte dalla parte nella memoria difensiva o dalla semplice contumacia del convenuto, la cui omessa costituzione in giudizio non può valere quale ammissione o fida confessio del debito (217), ma va desunta dal complesso delle difese svolte, da cui emerga, anche implicitamente ma in modo non equivoco, che il credito affermato dall’attore (o dal convenuto in via riconvenzionale) viene riconosciuto.

Il provvedimento ha carattere anticipatorio, si fonda su una sorta di accordo tra le parti che riduce in qualche misura il thema probandum, non è impugnabile con appello né con ricorso straordinario per cassazione e, non possedendo natura cautelare (218), neppure con reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., ma è revocabile con la sentenza che definisce il merito (219) e, in analogia a quanto previsto dall’art. 186-bis, comma 2, c.p.c., sopravvive in caso di estinzione del giudizio (220).

L‘ordinanza provvisionale disciplinata nel 2° comma dell’art. 423 c.p.c. può essere emessa solo su istanza del lavoratore, rispondendo all’esigenza del sollecito soddisfacimento dei bisogni primari del lavoratore stesso e della sua famiglia (221); essa si basa su un accertamento sommario della fondatezza del diritto vantato dal lavoratore, nei limiti della quantità per cui si ritiene già raggiunta la prova (222). Tale provvedimento presenta alcune affinità con la condanna generica accompagnata dalla provvisionale ex art. 278 c.p.c. (223), ma a differenza di questa si basa — come detto — su un accertamento sommario e provvisorio, è revocabile con la sentenza che definisce il merito (art. 423, ult. comma, c.p.c.), non è impugnabile neppure con reclamo cautelare (224), non è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale (225) e diviene inefficace in caso di estinzione (226).

Nel processo del lavoro risulta pianamente utilizzabile l’ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter c.p.c., attesa la diversità dei presupposti rispetto alle ordinanze disciplinate nell’art. 423 e la compatibilità del procedimento monitorio con il rito lavoristico (227).

Non così l’ordinanza post-istruttoria ex art. 186-quater c.p.c., che appare incompatibile con il rito del lavoro in cui il giudice, terminata l’istruttoria, deve invitare subito le parti alla discussione e pronunciare la sentenza dando lettura del dispositivo (228).

Va rammentata infine la possibilità di ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali ai sensi dell’art. 18, 4° comma, Stat. Lav. con ordinanza su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui egli aderisce, quando il giudice ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro (229). Ordinanza reclamabile immediatamente dinanzi allo stesso giudice che l’ha pronunciata, con norma che desta forti dubbi di costituzionalità, essendo il giudice privo del necessario requisito di terzietà oggi costituzionalmente sancito dall’art. 111 Cost. e dunque manifestandosi un chiaro caso di incompatibilità che già in sede di procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Stat. lav. ha portato ad affidare ad altro giudice la fase di opposizione al provvedimento, attraverso una lettura estensiva dell’art. 51, n. 4, c.p.c. (230).

L’accertamento pregiudiziale su efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi in materia di pubblico impiego.

All’art. 64 D. Lgs. n. 165/2001 (ma v. già l’art. 68 bis D. Lgs. n. 29/1993) è stata introdotta una norma di dubbia opportunità e di sapore, si passi l’espressione, un po’ «paternalistico». In tale articolo di legge si prevede, per il solo settore del pubblico impiego, un subprocedimento speciale per l’interpretazione del contratto collettivo applicabile alla fattispecie sottoposta al tribunale del lavoro, con norma che genera un vincolo per il giudice affatto sconosciuto dopo la riforma del rito lavoristico del 1973, potendosene rinvenire dei precedenti solo nel testo originario degli artt. 410, 444, 467, 470 e 471 c.p.c. riferiti al «diritto corporativo» (231).

Il giudice, di fronte a un problema di efficacia, validità o interpretazione del contratto collettivo invocato dalle parti e che sia stato sottoscritto dall’A.R.A.N. (Agenzia per la rappresentanza negoziale della pubbliche amministrazioni), con ordinanza non impugnabile indica espressamente la questione da risolvere e fissa una nuova udienza di discussione a non meno di centoventi giorni, disponendo la comunicazione dell’ordinanza, del ricorso introduttivo e della memoria difensiva all’A.R.A.N. stessa.

Il provvedimento va emesso solo quando esistano gravi dubbi nell’interpretazione di un contratto collettivo od anche due letture esegetiche contrapposte tra le parti del processo (232), ma non quando la soluzione sia agevole o addirittura univoca e obbligata (233): non pare invero possibile introdurre un caso di sospensione necessaria del processo (qual è sostanzialmente l’ordinanza de qua là dove rinvia l’udienza a non meno di centoventi giorni) quando la pregiudizialità che, ex art. 295 c.p.c. giustifica la espressione, deve sussistere tra due diversi rapporti giuridici, non rispetto alle norme di carattere contrattuale che disciplinano la fattispecie. D’altronde, anche nelle ipotesi di sospensione del processo perché è stata sollevata questione di costituzionalità o questione interpretativa di norme di fonte europea, il giudice stabilisce secondo il suo libero apprezzamento l’esistenza di un dubbio costituzionale o esegetico che richiede l’intervento della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione Europea: a fortiori, in materia di norme contrattuali collettive non si scorge ragione per negare al giudice un potere discrezionale di valutare la sussistenza di un serio dubbio interpretativo; potere temperato soltanto dall’esistenza di un ragionevole contrasto tra le parti sull’esegesi del testo contrattuale, che impone di dare adito alla procedura dinanzi all’A.R.A.N., se si vogliono rispettare le garanzie del contraddittorio e la ratio dell’art. 64 legge cit. che, forse per acritico ossequio al principio pacta sunt servanda, è volto a rimuovere il conflitto in sede collettiva e ad evitare future controversie.

Ed infatti, ricevuta l’ordinanza del giudice, l’A.R.A.N. entro trenta giorni deve attivare le procedure necessarie per trovare con i sindacati firmatari del contratto collettivo un accordo per l’«interpretazione autentica» della clausola o per la sua sostituzione, comunicando alla cancelleria del giudice l’esito di tale procedura. Pare ovvio che poi il tribunale non abbia altra scelta che uniformarsi all’«interpretazione autentica» data dai conditores contractus, sottostando al dictum che da essi promana, assai più di quanto non debba fare nelle controversie di lavoro subordinato privato dopo aver raccolto le osservazioni delle organizzazioni sindacali; ancor più quando la clausola sia addirittura sostituita, vigendo la nuova norma sin dall’inizio dell’efficacia del contratto collettivo (art. 49 D. Lgs. n. 165/2001).

Decorsi novanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza del giudice, in mancanza di accordo, la procedura dinanzi all’A.R.A.N. si intende conclusa (234), ma il giudice del lavoro, dopo aver invitato le parti alla discussione, è tenuto a pronunciare sentenza sulla sola questione esegetica della norma contrattuale collettiva: sentenza affatto peculiare, di cui risulta arduo definire la portata, se si tratti cioè di sentenza non definitiva di merito che sopravvive ex art. 310 c.p.c. in caso di estinzione del giudizio o se invece è destinata a cadere con essa, ed inoltre se rivesta efficacia di giudicato solo endoprocessuale o anche di giudicato esterno (235). Il tema è troppo ampio e complesso per essere affrontato in questa sede, ma si deve ittico et immediate osservare che la sopravvivenza all’estinzione viene accordata dalla legge solo alla pronuncia della Corte di cassazione sulla questione interpretativa della norma contrattuale (art. 64, 4° comma, legge cit.), dovendosi desumere a contrariis che sentenza sulla questione interpretativa emessa dal giudice del lavoro in primo grado e processo simul stabunt simul cadent.

Alla pronuncia del dispositivo in udienza secondo le forme previste per il rito del lavoro si accompagna un’ordinanza per la prosecuzione dell’istruttoria. La sentenza è impugnabile solo con ricorso per cassazione da notificare entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della motivazione, in deroga ai consueti termini dell’impugnazione per cassazione. Il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice a quo arresta l’istruttoria, cagionando la sospensione automatica del processo, con disposizione che appare di dubbia opportunità e financo incostituzionale per violazione del diritto delle parti alla durata ragionevole del processo (art. 111 Cost.) e per irrazionale disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di sospensione discrezionale del giudizio di merito in caso di regolamento di giurisdizione (art. 367 c.p.c.).

La Corte di cassazione, adita in certo senso per saltum, può sindacare l’interpretazione del contratto collettivo offerta dal giudice di merito non solo per violazione dei criterii legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e segg. c. c.) e per vizio di motivazione, come normalmente avviene per i contratti collettivi del settore privato (236), ma direttamente per violazione o falsa applicazione delle norme collettive su ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., come se si trattasse di norme di legge (v. l’art. 63, 5° comma, legge cit.): se accoglie il ricorso, enuncia il principio di diritto (recte, la corretta interpretazione della norma collettiva applicabile alla fattispecie) e cassa con rinvio allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, dinanzi al quale la causa deve essere riassunta, a pena di estinzione, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di cassazione (riassunzione cui si dovrà provvedere anche in caso di rigetto del ricorso e sempre a pena di estinzione). Tale norma pare derogare al principio di alterità del giudice di rinvio desumibile dal 1° comma dell’art. 383 c.p.c. per avvicinarsi alla riassunzione a seguito di pronuncia della Cassazione sulla competenza (art. 50 c.p.c.): se ne può forse desumere il carattere pregiudiziale [sia pure in senso atecnico (237)] della questione interpretativa sul contratto collettivo e, da questo carattere, l’inefficacia esoprocessuale della sentenza emessa dal giudice del lavoro.

Viceversa, un’efficacia panprocessuale è accordata alla sentenza della Cassazione, anche in caso di estinzione del procedimento (art. 64, 4° comma, ultimo periodo, legge cit.). Tale efficacia ovviamente non travalica i confini soggettivi del giudicato e il giudice di un’altra controversia, in cui si discute della stessa norma contrattuale sulla quale la Cassazione si è pronunciata, è libero di dissentire dalla lettura data dalla Suprema Corte, non vigendo il principio dello stare decisis: in tal caso, però, anziché richiedere il procedimento dinanzi all’A.R.A.N., egli risolve direttamente la sola questione ermeneutica con la sentenza non definitiva, soggetta al solo ricorso per cassazione e di cui s’è detto (art. 64, 7° comma, legge cit., che richiama il 3° comma).

Se la questione è giunta alla Corte di cassazione in un altro processo e si è in attesa della pronuncia, il giudice dinanzi a cui penda analoga controversia, anziché rimettere la soluzione all’A.R.A.N. e poi, se l’accordo in sede collettiva non è raggiunto nei termini, pronunciare sentenza sulla questione, può sospendere il processo in attesa dell’arrêt della Corte, intervenuto il quale il giudice, anche d’ufficio o su ricorso in riassunzione delle parti (238), fissa l’udienza per proseguire il processo.

L’A.R.A.N. e le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo di cui le parti invocano l’applicazione possono intervenire nel processo anche oltre il termine di cui all’art. 419 c.p.c. e, quindi, sino alla discussione orale della causa. Si tratta di un intervento sui generis, svolto, per così dire, nell’interesse della interpretazione della clausola auspicata dall’A.R.A.N. piuttosto che dall’associazione sindacale e quindi privo di ogni connotato di imparzialità (239). Queste organizzazioni, se intervenute, sono altresì legittimate a impugnare con ricorso per cassazione la sentenza ermeneutica emessa dal giudice del lavoro; ma se anche non hanno assunto la veste di intervenienti volontarie, possono depositare memorie tanto nel giudizio di merito quanto in quello di cassazione, memorie di cui è data notizia alle parti a cura della cancelleria. Queste accentuate facoltà lasciano notevolmente perplessi per le ingerenze che comportano in una lite che si voleva «privatizzare», ma che «privata» non è divenuta del tutto. L’intervento pare necessario allo scopo di acquistare legittimazione ad impugnare la sentenza sulla questione esegetica del contratto collettivo, ma non si vede quali poteri l’A.R.A.N. e le organizzazioni sindacali possano esercitare oltre ad illustrare la loro visione interpretativa delle norme collettive. Se poi non si vuole consegnare all’anarchia il deposito delle memorie, pare indispensabile che esso avvenga nel giudizio di merito con sufficiente anticipo rispetto all’udienza fissata per la discussione orale della causa o della questione sul contratto collettivo onde far salvo il diritto di difesa delle parti e, in Cassazione, fino a cinque giorni prima dell’udienza di discussione ex art. 378 c.p.c. Ma sul punto l’art. 64, 5° comma, legge cit. è così vago da farne sospettare l’incostituzionalità per violazione del principio costituzionale del «giusto processo regolato dalla legge» (art. 111 Cost.).

Numerose perplessità solleva la complessa normativa esaminata in questo paragrafo e gravi dubbi di legittimità costituzionale essa trae seco, exempli gratia: a) per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto le associazioni sindacali e degli industriali firmatarie dei contratti collettivi del settore privato non hanno i poteri riconosciuti alle organizzazioni sindacali del pubblico impiego; b) per violazione dell’art. 24 Cost., in relazione al diritto di difesa delle parti di fronte all’intervento o alle memorie depositate dall’A.R.A.N. e dalle organizzazioni sindacali senza comma, Cost., venendo sottratta al giudice precostituito per legge la soluzione del quesito sulla norma contrattuale applicabile; d) per violazione degli artt. 101 e 102 Cost., perché impone ai giudici di accogliere l’interpretazione autentica non già del legislatore, ma delle organizzazioni firmatarie del contratto; e) per violazione del principio di ragionevole durata del processo oggi introdotto all’art. 111 Cost., ma già presente nell’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, per il significativo ritardo prodotto dai centoventi giorni di rinvio dell’udienza in attesa della procedura dinanzi all’A.R.A.N. e per la sospensione automatica per effetto del ricorso in cassazione avverso la sentenza sulla questione interpretativa del contratto collettivo.

E altri ancora potrebbero profilarsene (240).

La pronuncia della sentenza.

Quando il giudice ritiene la causa matura per la decisione sul merito o su una questione pregiudiziale o preliminare idonea a definire la controversia, invita le parti alla discussione orale e pronuncia sentenza, dando lettura del dispositivo in udienza (artt. 420, comma 4, e 429, comma 1, c.p.c.). Non v’è soluzione di continuità tra istruttoria in senso lato e fase decisoria, cui il giudice può fare immediatamente luogo senza necessità di rinviare ad altra udienza per la discussione orale (241).

Il giudice, su richiesta di una delle parti e se, con valutazione discrezionale e insindacabile (242), lo ritiene necessario, concede un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all’udienza immediatamente successiva per la discussione e la pronuncia della sentenza (art. 429, comma 2, c.p.c.).

La discussione consiste, ovviamente, nell’esposizione orale (243) delle ragioni di fatto e di diritto poste a sostengo delle rispettive domande ed eccezioni. Secondo la Suprema Corte, l’omessa discussione non comporta nullità della sentenza, perché non inficia la validità del contraddittorio e le parti ben possono rinunciare ad esporre le loro ragioni (244): a nostro avviso però la rinuncia deve essere esplicita e concorde, dovendo in mancanza svolgersi la discussione orale a pena di nullità per violazione del diritto di difesa e del contraddittorio.

Alla discussione fa seguito immediatamente la deliberazione della sentenza nel segreto della camera di consiglio (art. 276 c.p.c.) e, subito dopo, la lettura del dispositivo in udienza (245).

La mancata lettura del dispositivo in udienza (246) costituisce vizio di nullità della sentenza, che si converte in motivo di impugnazione e va fatto valere in appello o in cassazione, a seconda del grado in cui è stata pronunciata la sentenza (247): il vizio cioè viene sanato dalla mancata impugnazione e, se fatto valere in appello, non implica alcuna rimessione della causa in primo grado, ma semplicemente una nuova pronuncia sul merito (248); se inficia una sentenza emessa in grado di appello, si potrà proporre ricorso ex art. 360, n. 4, c.p.c. e si avrà cassazione della sentenza con rinvio a un giudice di pari grado (249).

Con la lettura del dispositivo la sentenza è pubblicata e assume l’efficacia propria del dictum giudiziale (250). Il dispositivo, sottoscritto dal giudice (251) con l’indicazione delle parti e dell’esatto contenuto della decisione, entra a far parte degli atti del processo e non può essere integrato o modificato (252) con la motivazione depositata entro i quindici giorni successivi, ai sensi dell’art. 430 c.p.c. Solo dal deposito della motivazione prende corso il termine annuale per proporre impugnazione (253), essendo inammissibile l’appello contro il solo dispositivo, a meno che non si tratti di appello con riserva dei motivi (su cui v. infra al par. 41) (254).

Il contenuto della sentenza.

La sentenza del giudice del lavoro può essere definitiva o non definitiva, conformemente a ciò che prevede l’art. 279 c.p.c.; di accertamento mero (255), di condanna e costitutiva (256).

Le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito possono essere decise con sentenza non definitiva (257), ma il giudice può anche riservarsi di deciderle unitamente al merito (258) ed è altresì possibile emettere sentenze di condanna generica (259). La sentenza non definitiva potrà essere impugnata immediatamente nel termine di trenta giorni o di un anno applicabile a seconda che vi sia stata o meno la notificazione, ma comunque entro la prima udienza dinanzi al giudice successiva al deposito della sentenza in cancelleria, completa di motivazione; entro tale udienza, ed anche subito dopo la lettura del dispositivo in udienza (260), potrà proporsi riserva di appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c. (261).

Ai sensi dell’ult. comma dell’art. 429 c.p.c. il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, applicando gli indici ISTAT (cfr. l’art. 150 disp. att. c.p.c.) e con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto (262).

La norma è applicabile ai lavoratori di qualsivoglia genere, cioè per uno qualunque dei rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. (263)e anche in materia di pubblico impiego (264), nonché ai rapporti previdenziali (265) e assistenziali (266), qualunque sia la natura del credito, inclusi i crediti per risarcimento dei danni (267).

Il riconoscimento della rivalutazione monetaria è automatico e avviene ex officio: se la relativa pronuncia è omessa, il lavoratore deve impugnare la sentenza, con appello principale o incidentale, se vuole evitare che si formi il giudicato interno sul punto (268), ma quando la condanna è stata emanata, non occorre che il lavoratore chieda espressamente al giudice del gravame di riconoscere anche gli interessi e la rivalutazione monetaria successivamente maturati (269). È peraltro possibile agire autonomamente per ottenere la rivalutazione e gli interessi quando il pagamento del credito sia stato tardivo (270).

Tanto gli interessi quanto la rivalutazione monetaria decorrono dal giorno della maturazione, non dalla costituzione in mora o dalla domanda giudiziale (271). Essi, peraltro non si cumulano, cioè vanno calcolati sul capitale rivalutato anno per anno [nel caso di retribuzioni, al lordo di ritenute fiscali e contributive (272)]: per i crediti maturati successivamente al 1° gennaio 1995, infatti, l’art. 22, 36° comma, L. 23 dicembre 1994, n. 724, mediante il richiamo all’art. 16, 6° comma, L. 30 dicembre 1991, n. 412, vieta il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria (273); per i crediti anteriori a tale data, dopo alcuni contrasti giurisprudenziali che lasciavano incerto se gli interessi dovessero essere calcolati sul capitale puro (274) o sul capitale rivalutato anno per anno (275) o financo rivalutato interamente (276), è prevalso l’orientamento favorevole ad un calcolo sul capitale rivalutato annualmente.

Ai sensi dell’art. 432 c.p.c., quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa (277). Questo potere, esercitabile anche ex officio (278), non ha nulla a che vedere con la cosiddetta equità sostitutiva di cui all’art. 114 c.p.c. e si avvicina piuttosto agli artt. 1226 e 2056 c. c., poiché concerne solo il quantum debeatur, mentre non vale ad attenuare gli oneri probatorii sull’an della prestazione (279). Il credito pecuniario deve essere certo, cioè la parte che lo esige deve dimostrare i fatti costitutivi del diritto azionato e, ad es., in tema di lavoro straordinario, deve fornire la prova delle ore approssimativamente espletate. Quando la quantificazione della somma risulti impossibile o estremamente difficoltosa si potrà far luogo a valutazione equitativa della prestazione ai sensi della norma in commento (280), indicando con adeguata e corretta motivazione l’obiettiva impossibilità di una determinazione certa della somma dovuta, alla stregua degli elementi acquisiti al processo e dando conto del processo logico attraverso il quale si giunge alla liquidazione del quantum debeatur e dei criterii assunti a base del procedimento valutativo (281).

L’esecutorietà della sentenza e la sospensione della provvisoria esecutività.

Al testo originario dell’art. 431 c.p.c., che prevedeva la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado in favore del solo lavoratore, sono stati aggiunti due commi con la novella del processo civile approvata con legge n. 353/1990, si da rendere provvisoriamente esecutive anche le sentenze favorevoli al datore di lavoro, come sono provvisoriamente esecutive ex lege tutte le sentenze di primo grado, ai sensi dell’art. 282 c.p.c. Le due proposizioni normative sono state inserite nel testo un po’ sbrigativamente ed ora pongono alcuni problemi di coordinamento.

A) Cominciando dalla provvisoria esecutività della sentenza a favore del lavoratore, può agevolmente constatarsi che il 1° comma dell’art. 431 c.p.c. parla di «condanna per crediti derivanti dai rapporti di cui all’art. 409». Deve trattarsi dunque di sentenze di condanna e non di accertamento mero o costitutive (per le quali, se si supera l’opinione tradizionale che circoscrive l’efficacia esecutiva alle sentenze di condanna, vigono semmai gli 282 e 283 c.p.c.: v. infra in questo paragrafo), aventi ad oggetto dei crediti pecuniari o per la consegna di cose (282), nascenti da uno qualunque dei rapporti di cui all’art. 409 (283) o da un rapporto di pubblico impiego. Restano escluse, invece, le condanne a un facere o a un nonfacere, quale ad es. la reintegrazione nel posto di lavoro, la cui esecutorietà si fonda tutt’oggi sul 6° comma dell’art. 18 Stat. Lav. (284).

Il lavoratore può procedere all’esecuzione delle sentenze di condanna per crediti con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza (art. 431, comma 2, c.p.c.). Secondo l’opinione dominante, la scadenza del termine non priva di esecutorietà il dispositivo che, spedito in forma esecutiva, è quindi idoneo a dare inizio all’esecuzione forzata in qualunque momento, anche dopo il deposito della sentenza completa di motivazione (285). L’opinione che il dispositivo perpetui i proprii effetti esecutivi anche oltre la scadenza del termine per il deposito della motivazione va condivisa, per non frustrare la concreta soddisfazione del credito del lavoratore in caso di ritardo del giudice nel depositare la motivazione, fondandosi sulla ratio della norma, pur a fronte dell’equivoco tenore letterale. D’altronde, il datore di lavoro può immediatamente reagire alla notifica del dispositivo spedito in forma esecutiva (286), interponendo appello con riserva dei motivi ex art. 433, comma 2, c.p.c., onde chiedere immediatamente la sospensione della provvisoria esecutività, che, come subito vedremo, può essere concessa solo per «gravissimo danno», cioè con la sola valutazione del periculum derivante dall’esecuzione senza delibare affatto la fondatezza del gravame, dai cui motivi si deve prescindere completamente.

La sospensione dell’esecutorietà della sentenza a favore del lavoratore può essere concessa dalla Corte d’appello — in composizione collegiale (salva la possibilità, in caso di estrema urgenza, di chiedere al presidente l’emanazione del decreto ai sensi dell’art. 351 c.p.c., che il collegio deve poi confermare in udienza) e con ordinanza non impugnabile (287) — solo se ricorra il presupposto del «gravissimo danno», che si distingue dalla formula utilizzata nell’art. 283 c.p.c. («gravi motivi»), ma non presuppone l’irreparabilità del pregiudizio (come avviene nell’art. 373 c.p.c. per l’inibitoria contro le sentenze di secondo grado) e consiste in una possibile crisi aziendale o anche nella sicura impossibilità di ripetere, all’esito del gravame, le prestazioni erogate a un lavoratore nullatenente, dovendosi peraltro ponderare i danni che subirebbe il lavoratore dal ritardo nell’esecuzione con quelli, che devono essere gravissimi, del datore di lavoro (288).

Nonostante la lettera della norma, è possibile chiedere l’inibitoria anche prima che l’esecuzione forzata abbia avuto inizio con il pignoramento, privando direttamente di efficacia esecutiva il titolo, così come avviene nel rito ordinario ai sensi dell’art. 283 c.p.c. e nel rito locatizio (che al rito del lavoro si informa) ex art. 447-bis, ult. comma, c.p.c., ove è prevista la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza (289).

La sospensione può essere anche parziale, ma in ogni caso l’esecuzione resta autorizzata fino alla somma di lire cinquecentomila (art. 431, comma 4, c.p.c., che fissa un limite minimo mai più aggiornato dal 1973 a oggi).

Per le sentenze di accertamento mero e costitutive (290), nonché per le sentenze di condanna aventi ad oggetto prestazioni di fare o di non fare non disciplinate da norme speciali vigono le regole generali dettate negli artt. 282 e 283 c.p.c. e forse, in via residuale (ma la norma si sovrappone e praticamente coincide con quella contenuta nell’art. 283), nell’ult. comma dell’art. 431.

B) Le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro sono anch’esse dotate di forza esecutiva, in seguito alla ricordata introduzione, da parte della legge n. 353/1990, del 5° comma dell’art. 431, che superfluamente richiama l’art. 282 c.p.c.

La sospensione, per effetto del richiamo all’art. 283 c.p.c. (che va peraltro coordinato con l’ult. comma dell’art. 431), può essere proposta (semmai utilizzando la procedura d’urgenza di cui all’art. 351 c.p.c.) anche prima dell’inizio dell’esecuzione per togliere efficacia esecutiva al titolo e può venire concessa per «gravi motivi», cioè in base ad una valutazione che attiene non solo al periculum, ma anche al fumus dell’impugnazione, e che è senz’altro più ampia di quella concernente il «gravissimo danno» che abbiamo veduto poc’anzi (291).

E) Le vicende anomale del processo. 36. Sospensione e interruzione del processo.

La sospensione necessaria per pregiudizialità (art. 295 c.p.c.) non presenta differenze rispetto al processo ordinario: il giudice deve sospendere il processo quando egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. È noto che la pregiudizialità penale è stata fortemente ridimensionata dal nuovo art. 75 c.p.p. e si è ridotta a casi marginali, mentre il nesso che deve legare la causa alla controversia pregiudiziale consiste in un vincolo di stretta ed effettiva consequenzialità logico-giuridica fra due emanande statuizioni, cioè non in un mero collegamento per l’esistenza di coincidenza o di analogia di riscontri fattuali o di quesiti in diritto da risolvere, bensì in un collegamento per cui l’altro giudizio (civile, penale od amministrativo), oltre ad essere pendente in concreto ed a coinvolgere le stesse parti, investa una questione di carattere pregiudiziale che costituisce indispensabile antecedente logico-giuridico, la soluzione del quale pregiudica in tutto o in parte l’esito della causa da sospendere (292).

Exempli gratia in materia di lavoro si è statuito che sussiste pregiudizialità ex art. 295 c.p.c.: tra la causa di accertamento di interposizione illecita nella manodopera in violazione dell’art. 1 L. 23 ottobre 1960, n. 1369 e quella per illegittimità del licenziamento da parte del datore di lavoro interponente, perché questo secondo giudizio presuppone l’accertamento di chi sia l’effettivo datore di lavoro (293); o, ancora, tra la causa sull’an e quella sul quantum debeatur (294).

Non v’è invece pregiudizialità: tra processo penale e causa civile di impugnazione del licenziamento basato sugli stessi fatti per i quali si procede penalmente (295); tra due processi civili tra gli stessi soggetti e che prospettino la stessa questione riferita però a periodi di lavoro diversi, trattandosi di mera connessione impropria e non di pregiudizialità tecnica (296).

Va poi ricordato che l’art. 64 D. Lgs. n. 165/2001 (v. supra al par. 32) configura un’ipotesi speciale di sospensione necessaria.

È senz’altro consentita la sospensione facoltativa ex art. 337, comma 2, c.p.c. quando l’autorità di una sentenza venga invocata nel processo del lavoro (297).

Ed anche la sospensione su istanza concorde delle parti ai sensi dell’art. 296 c.p.c. non appare incompatibile con l’impulso d’ufficio che domina il processo lavoristico, fungendo anzi da contrappeso ad esso e risolvendosi in una breve «pausa di riflessione» (298).

L’interruzione del processo in conseguenza di eventi che colpiscono la capacità delle parti (artt. 299 e segg. c.p.c.) non presenta peculiarità, se non per quanto riguarda l’art. 299 c.p.c., nella parte in cui prevede l’interruzione automatica quando la parte decede o diviene incapace prima della costituzione in giudizio: questa norma non può essere applicata all’attore, la cui contumacia nel rito lavoristico è inconcepibile, atteso che proposizione della domanda e costituzione in giudizio coincidono; tale disciplina concerne dunque il solo convenuto che muore o perde la capacità di stare in giudizio dopo aver ricevuto la notificazione del ricorso e del decreto, ma prima di costituirsi (299).

La riassunzione del processo avverrà con ricorso, il cui deposito in cancelleria consente di rispettare il termine di sei mesi fissato dalla legge (artt. 297 e 305 c.p.c., quali integrati dalle sentenze additive della Corte costituzionale n. 34/70, n. 139/67 e n. 159/71), mentre il vizio della notifica o anche l’inesistenza di essa non influiscono sul perfezionarsi della riassunzione (300).

L’estinzione.

Nulla quaestio per la rinuncia delle parti agli atti del processo ai sensi dell’art. 306 c.p.c.: essa, resa e accettata personalmente dalle parti, è pienamente ammissibile anche nel processo del lavoro.

L’estinzione per inattività delle parti disciplinata dall’art. 307 c.p.c. va adattata alle particolarità del processo del lavoro e deve confrontarsi con l’impulso d’ufficio che domina la fase di trattazione (in senso lato).

Anzitutto, non è concepibile l’omessa costituzione di tutte le parti del processo proprio perché l’attore si costituisce con il deposito del ricorso e, dunque, il meccanismo estintivo previsto dalla prima parte del 1° comma dell’art. 307 non può applicarsi.

Secondo alcuni Autori, la mancata notifica del ricorso e del decreto prima dell’udienza di discussione provoca l’estinzione del processo (301), ma l’opinione non può essere seguita, non essendo stabilita la perentorietà del termine per la notificazione: si tratterà di un vizio della vocatio in ius, che il giudice potrà emendare assegnando un termine (esso si perentorio a pena di estinzione) per la notificazione (302).

Viceversa, il mancato rispetto di un termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice per un’attività di parte (ad es., per rinnovare il ricorso nullo o la notificazione viziata o per riassumere il processo sospeso o interrotto, o dopo una declaratoria di incompetenza, ecc.) cagionerà l’estinzione. Non così, ovviamente, quando l’attività spetti all’ufficio, come ad es. per l’integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari o per la chiamata di un terzo il cui intervento è stato ordinato dal giudice, dovendo alle relative notifiche provvedere l’ufficio ai sensi dell’art. 420, comma 9 e 11, c.p.c. (303).

I problemi maggiori si sono posti sulle conseguenze della mancata comparizione delle parti all’udienza, mancata comparizione che, nel rito ordinario, dopo un rinvio comunicato alle parti provoca la cancellazione della causa dal ruolo, da riassumere entro un anno dal provvedimento di cancellazione (artt. 309 e 181 c.p.c.): dopo che molti avevano ritenuto incompatibile questo regime con la concentrazione processuale imposta nel rito del lavoro (304), la Suprema Corte ne ha sancito la piena applicabilità sia in primo grado sia in appello (305).

L’estinzione opera di diritto, ma va eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa; essa va pronunciata con sentenza impugnabile con appello e, in caso di riforma, la causa deve essere rimessa in primo grado ex art. 354, comma 2, c.p.c. (306).

LE IMPUGNAZIONI.

38. Aspetti generali.

Le norme sul processo del lavoro dettano una disciplina speciale solo per l’appello; nulla invece per gli altri mezzi di impugnazione, per i quali si deve fare riferimento alle regole consuete, con gli eventuali adattamenti imposti dalle forme e dal regime delle preclusioni previste agli artt. 409 e segg. c.p.c.

Così, la revocazione ex art. 395 c.p.c., tanto ordinaria quanto straordinaria, verrà introdotta con ricorso al giudice di appello o di unico grado che ha emesso la sentenza e dovrà indicare il motivo della revocazione e i mezzi di prova sui quali esso si fonda, non solo per il disposto dell’art. 398, comma 2, c.p.c., ma (quand’anche tale norma non esistesse) per le preclusioni che caratterizzano il rito lavoristico (307).

Analogamente, l’opposizione di terzo (ordinaria o revocatoria) di cui all’art. 404 c.p.c. dovrà rispettare la forma del ricorso e indicare, a pena di decadenza, i fatti e i mezzi di prova posti a base dell’impugnazione (308).

Il regolamento di competenza innanzi alla Corte di cassazione non presenta, invece, alcuna peculiarità, se non quella di essere assegnato alla sezione lavoro (309).

Certamente, a tutti i mezzi di impugnazione ed anche all’appello nel processo del lavoro, specificamente disciplinato negli artt. 433 e segg. c.p.c., sono applicabili le norme generali sulle impugnazioni contenute negli artt. 323 e segg. c.p.c.

Sul termine adimpugnandum conviene sin d’ora osservare che, in mancanza di notificazione, per appello, ricorso per cassazione e revocazione ordinaria (art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c.) vale il termine annuale (310), decorrente dalla data di deposito in cancelleria della sentenza, completa di motivazione, e non dalla lettura del dispositivo in udienza (311).

Con la notificazione della sentenza, da eseguirsi nei luoghi e nelle forme indicate dall’art. 330 c.p.c., prende corso il termine breve di trenta (o quaranta) giorni per l’appello (art. 434, comma 2, c.p.c.), di trenta giorni per la revocazione ordinaria, di sessanta giorni per il ri-

corso in cassazione.

Per appello e revocazione ordinaria il deposito del ricorso in cancelleria impedisce ogni decadenza, anche se la successiva notificazione del ricorso e del decreto avvengano dopo il decorso del termine (312).

A) L’appello. 39. Le sentenze appellabili.

Tutte le sentenze emanate dal giudice del lavoro sono di regola appellabili.

L’art. 440 c.p.c. dichiara non impugnabili le sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore a lire cinquantamila (313). Per determinare il valore occorre far riferimento alla somma capitale richiesta dall’attore (314), oltre interessi e rivalutazione monetaria che, ex art. 429 c.p.c., sono riconoscibili ex officio (315), applicando i criterii contenuti negli artt. 10 e segg. c.p.c., cioè sommando le domande proposte da una parte contro l’altra ex art. 10, comma 2, c.p.c., ma valutandole separatamente in caso pluralità di parti che determini un litisconsorzio facoltativo o per le cause pregiudiziali e per le domande riconvenzionali (316). In caso di errore del tribunale nello stabilire il valore della controversia ai fini dell’impugnabilità il rimedio esperibile è comunque il ricorso per cassazione (317), non l’appello che va dichiarato inammissibile anche d’ufficio (318).

L’appello non è ammesso neppure quando le parti vi abbiano concordemente rinunciato per ricorrere in Cassazione omisso medio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c. o quando le parti abbiano richiesto un giudizio secondo equità ex art. 114 c.p.c. (319).

Se la sentenza concerne solo la competenza, contro di essa può essere proposto esclusivamente il regolamento necessario di competenza, ai sensi dell’art. 42 c.p.c.

L’art. 64 D. Lgs. n. 165/2001, infine, contempla un’ipotesi particolare di ricorso in Cassazione per saltum contro le sentenze non definitive sulla questione pregiudiziale di interpretazione di un contratto collettivo in materia di pubblico impiego (v. supra al par. 32).

Il giudice d’appello.

L’appello va proposto alla Corte d’appello, in funzione di giudice del lavoro nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza (320). Un errore di competenza territoriale non rende inammissibile il gravame, ma conduce a una pronuncia di incompetenza che apre la via per la riassunzione del processo ex art. 50 c.p.c. dinanzi al giudice di appello territorialmente competente (321).

Per le liti con le pubbliche amministrazioni, sino alla riforma del giudice unico l’appello contro la sentenza emessa dal pretore in primo grado andava comunque proposto dinanzi al tribunale del luogo dove ha sede l’avvocatura distrettuale dello Stato, ai sensi dell’art. 7, 2° comma, R. D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (322). Ora, l’attribuzione della competenza sui gravami alla Corte d’appello elimina il problema.

Il ricorso deve essere assegnato alla sezione lavoro della Corte d’appello, costituita ai sensi dell’art. 54, 3° comma, ord. giud., quale modificato dall’art. 19 D. Lgs. n. 51/1998, ma un’erronea assegnazione non cagiona alcuna nullità (323).

La Corte tratta la causa e giudica in composizione collegiale (art. 435, comma 1, c.p.c), a pena di nullità del procedimento e della sentenza per vizio di costituzione del giudice, da far valere con ricorso per cassazione ex art. 360, n. 4, c.p.c. (324).

La proposizione dell’appello.

Conformemente alle modalità di proposizione della domanda tipiche del processo lavoristico, l’art. 433, comma 1, c.p.c. prevede la forma del ricorso da depositarsi nella cancelleria del giudice competente per l’appello. Come già ricordavamo supra al par. 38, il deposito del ricorso è sufficiente a impedire la maturazione del termine breve (di trenta o quaranta giorni dalla notifica della sentenza ex art. 434, comma 2, c.p.c.) o lungo (di un anno dal deposito della sentenza in cancelleria ex art. 327 c.p.c.), essendo irrilevante che l’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza o la notifica avvengano dopo la scadenza (325).

Qualora però l’appellante adotti la forma della citazione, il termine ad impugnandum verrà interrotto non dalla notificazione dell’atto, ma dal deposito dello stesso in cancelleria, con la conseguenza che se la notificazione è tempestiva ma il deposito avviene dopo la scadenza, l’appello è inammissibile (326).

Al proposito va ricordato il principio della cosiddetta ultrattività del rito, per cui la forma dell’atto di appello deve essere quella prevista per il rito applicato dal giudice di primo grado, anche quando egli abbia errato nel qualificare il rapporto giuridico controverso (327): se è stato applicato il rito ordinario, la forma è quella della citazione e la notificazione impedisce ogni decadenza; se è stato adottato il rito del lavoro, la forma è quella del ricorso, il cui deposito impedisce la decadenza.

L’appello deve contenere i requisiti previsti per il ricorso introduttivo della lite, ai sensi dell’art. 414 c.p.c.; requisiti il cui difetto rende nullo l’atto con applicazione della disciplina ricordata supra al par. 19.

Oltre ad essi l’appello deve contenere una critica della pronuncia impugnata, attraverso i motivi specifici dell’impugnazione (art. 434, comma 1, c.p.c.), che sono richiesti anche per l’appello nel rito ordinario (cfr. l’art. 342 c.p.c.) e la cui mancanza trova analoghe sanzioni, provocando, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, l’inammissibilità del gravame, senza alcuna possibilità di successive integrazioni o di sanatoria mediante comparizione dell’appellato in udienza (328).

Quando l’appello viene proposto, dopo la lettura del dispositivo ma prima del deposito della sentenza, con riserva dei motivi (art. 433, comma 2, c.p.c.), onde ottenere la sospensione dell’esecutorietà della sentenza che pronunci condanna al pagamento di somme di denaro a favore del lavoratore, l’atto di appello ha struttura complessa (329), consistendo: a) nel ricorso privo dei motivi specifici di impugnazione ma completo di tutti i restanti elementi di cui agli artt. 434-414 c.p.c., che condurrà alla fissazione di un’udienza per discutere sull’inibitoria; b) nel deposito di una memoria contenente i motivi specifici di impugnazione nel termine di trenta o quaranta giorni dal deposito della sentenza completa di motivazione. Soltanto dopo questa memoria verrà fissata dal presidente della Corte d’appello l’udienza per la discussione (330), mentre il tardivo deposito dei motivi renderà inammissibile l’appello, facendo cadere anche l’eventuale inibitoria accordata dalla Corte (331). Qualora l’appello con riserva dei motivi venga presentato prima che l’esecuzione sia iniziata (332) e sia perciò dichiarato inammissibile, non si ha alcuna consumazione del diritto di impugnare e, pertanto, la parte può interporre regolare appello sempre che non ne siano decorsi i termini (333).

Le domande e le eccezioni non accolte in primo grado vanno riproposte ex art. 346 c.p.c. con l’atto di appello, al pari delle istanze istruttorie alle quali il giudice non ha dato corso in prime cure (334) o le istanze per nuove prove, nei limiti in cui sono ammesse (v. infra al par. 44).

Il ricorso, una volta depositato, apre il giudizio di appello con un procedimento analogo a quello previsto per il primo grado il presidente fissa l’udienza di discussione dinanzi al collegio, nominando un relatore; l’appellante, entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto (335) provvede alla notificazione dell’atto alla controparte (nei luoghi indicati dall’art. 330 c.p.c.), rispettando il termine a comparire di venticinque giorni liberi se la notificazione va eseguita in Italia o di sessanta giorni liberi se va eseguita all’estero (art. 435 c.p.c.).

La violazione del termine a comparire provoca la nullità dell’atto per vizio attinente alla vocatio in ius, con possibilità di sanatoria mediante rinnovazione entro un termine perentorio assegnato dal giudice a pena di estinzione o, in caso di costituzione dell’appellato che sollevi la relativa eccezione, rinviando l’udienza di discussione nel rispetto dei suddetti termini a comparire, conformemente alla disciplina esaminata per il ricorso in primo grado (v. supra al par. 19) (336).

Il vizio nella notificazione del ricorso o anche la notificazione del tutto inesistente (337), resta sanato dalla costituzione dell’appellato o dalla rinnovazione ordinata dal giudice entro un termine perentorio ai sensi dell’art. 291 c.p.c., a pena di estinzione del giudizio di appello (con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata ex art. 338 c.p.c.).

Nel costituirsi in giudizio l’appellante deve depositare il proprio fascicolo e una copia autentica della sentenza impugnata: mancando questa (338), l’appello va dichiarato improcedibile ex art. 347, comma 2, c.p.c. con sentenza definitiva soggetta a ricorso per cassazione (339).

Se manca il fascicolo, invece, non si determina alcuna improcedibilità, atteso che l’art. 348, comma 2, c.p.c.. è stato abrogato dalla legge di riforma del processo civile n. 353/1990: il giudice di appello dovrà pronunciarsi nel merito, sulla base degli elementi desumibili dal fascicolo d’ufficio o dai fascicoli delle altre parti (340).

La sanzione dell’improcedibilità è chiaramente inapplicabile in relazione alla fattispecie di cui al 1° comma dell’art. 348 c.p.c. (costituzione tardiva dell’appellante), atteso che nel rito del lavoro proposizione dell’appello e costituzione in giudizio coincidono. Il 2° comma è invece pianamente applicabile anche nel processo lavoristico: quando l’appellante non compare all’udienza di discussione, il collegio rinvia la causa ad altra udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante e, se questi non compare neppure alla nuova udienza, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio (341).

La costituzione dell’appellato e l’appello incidentale.

L’appellato deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza, depositando in cancelleria il fascicolo con una memoria difensiva analoga a quella prevista per il primo grado di giudizio (l’art. 416 c.p.c. viene infatti richiamato, in quanto applicabile) e nella quale deve assumere precisa posizione sulle censure mosse dall’appellante contro la sentenza, esponendo dettagliatamente tutte le sue difese (art. 436, comma 2, c.p.c.).

In particolare, la memoria difensiva deve contenere, a pena di decadenza, la riproposizione ex art. 346 c.p.c. delle domande, delle eccezioni e delle istanze istruttorie non accolte in primo grado, non essendo sufficiente un generico rinvio alle precedenti difese (342). Anche l’istanza per nuove prove e le domande nuove, in quanto ammissibili, vanno inserite in questa memoria (343).

Il deposito tardivo della memoria produce le preclusioni testé indicate, ma consente comunque all’appellato di partecipare alla discussione orale, ottenendo la liquidazione delle spese ove l’appello sia respinto (344).

Quando vi sia soccombenza reciproca e l’appellato risenta un pregiudizio dalla sentenza emessa in prime cure, per ottenere la reformatio in melius deve interporre appello incidentale, esponendo nella memoria i motivi specifici di impugnazione (art. 436, comma 3, c.p.c.), a pena di inammissibilità del gravame. Oltre al deposito la legge richiede la notificazione della memoria a cura dell’appellato sempre nel termine di dieci giorni prima dell’udienza di discussione, a pena di decadenza (345). A onta del chiaro dettato di legge, però, la più recente giurisprudenza della Suprema Corte opina che eventuali vizi od anche l’omissione della notifica possano essere sanati mediante rinnovazione o rinviando l’udienza su richiesta dell’appellante principale (346).

Valgono poi per l’appello incidentale le norme generali sulle impugnazioni incidentali, per cui, ricevuta la notificazione dell’appello principale, la parte appellata o chiamata ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c. (347)deve proporre appello incidentale in quello stesso processo e nei termini appena veduti, a pena di decadenza ex art. 333 c.p.c. (348), mentre l’appellato e le parti in cause inscindibili ex art. 331 c.p.c. potranno valersi dell’appello incidentale anche quando siano trascorsi per loro i termini per impugnare in via principale ed anche contro capi diversi da quelli impugnati dalle altre parti (349). I soggetti chiamati naturalmente potranno interporre appello incidentale secondo le modalità previste e nel termine di dieci giorni prima dell’udienza alla quale il collegio avrà rinviato la causa per gli adempimenti di cui agli artt. 331 e 332 c.p.c. (350). Inoltre, l’interesse ad appellare per incidens potrebbe sorgere dall’impugnazione incidentale di una parte diversa dall’appellante principale e, in tal caso, l’appello incidentale andrà proposto prima della nuova udienza cui il collegio rinvierà la causa (cfr. l’art. 343, comma 2, c.p.c.) (351).

Come ben vedesi, nel caso più semplice di processo con due sole parti la concentrazione processuale è massima, non essendo previsto (a differenza di ciò che avviene per la domanda riconvenzionale in primo grado) alcun rinvio dell’udienza di discussione per consentire all’appellante di reagire all’appello incidentale notificatogli: ciò che si giustifica considerando che in appello il thema disputandum è, di massima, lo stesso su cui si discusse in prime cure (352).

Il divieto di nuove domande e nuove eccezioni.

L’art. 437, comma 2, c.p.c. icasticamente vieta la proposizione di nuove domande e di nuove eccezioni. Però il legislatore minus dixit quam voluit e la disposizione, che ha costituito il modello del nuovo art. 345 c.p.c., ha una portata sostanzialmente identica alla disciplina vigente per il rito ordinario.

Ancorché non menzionate expressìs verbis, sono senz’altro ammesse le cosiddette domande consequenziali, cioè quelle che concernono interessi, frutti e accessori successivi alla sentenza di primo grado o la restituzione delle somme versate in ottemperanza alla pronuncia esecutiva (353); anche in caso di intervento in appello del soggetto legittimato all’opposizione ex art. 404 c.p.c., le domande nuove inerenti a tale intervento sono consentite (354). Non incorrono nel divieto in discorso neppure le domande che si fondano su fatti o su norme di legge sopravvenute dopo il giudizio di primo grado (355) o che si rendano necessarie in seguito a una sentenza della «terza via», cioè che abbia applicato norme giuridiche completamente diverse da quelle di cui si discusse nel contraddittorio delle parti.

Domanda nuova è quella che implica un mutamento dei fatti costitutivi e introduce nel processo un nuovo tema di indagine, modificando i termini della controversia (356). Né la diversa qualificazione giuridica (357), né la riduzione della pretesa azionata (358) implicano novità della domanda.

L’inammissibilità delle domande nuove va rilevata d’ufficio, anche a prescindere dall’eventuale accettazione del contraddittorio (359) e la sentenza di appello che si sia pronunciata su domanda nuova va cassata senza rinvio (360).

Anche in tema di nuove eccezioni il dettato normativo è meno drastico di quel che appare a prima vista: come nel nuovo art. 345, comma 2, c.p.c., il divieto concerne solo le eccezioni riservate alle parti ed è la naturale conseguenza delle preclusioni maturate in prime cure a carico del convenuto in coincidenza con la memoria difensiva; sfuggono al divieto, invece, le eccezioni in senso lato, cioè i fatti la cui efficacia estintiva, impeditiva o modificativa opera automaticamente e le cosiddette «mere difese», cioè le contestazioni dei fatti allegati dall’attore (361). Così, sono riservate alle parti le eccezioni di remissione di debito (362) e di prescrizione (363); sono invece rilevabili d’ufficio il pagamento (364), la compensalo lucri cum damno (365), il giudicato esterno (366), nonché il numero di dipendenti dell’impresa ai fini dell’applicazione della tutela reale del posto di lavoro ex art. 18 Stat. Lav. (367)(v. anche supra al par. 20). Conviene ribadire che in appello può essere allegato ex novo anche il fatto posto a base dell’eccezione rilevabile d’ufficio, ancorché non introdotto nel precedente grado (368). L’inammissibilità dell’eccezione riservata alle parti va rilevata ex officio.

Le nuove prove e l’istruzione probatoria in appello.

Nuove prove sono ammesse solo se il collegio, anche d’ufficio, le ritiene indispensabili, cioè decisive per la soluzione della controversia (369).

Occorre anzitutto che la prova dedotta dalle parti negli atti introduttivi del processo del lavoro sia nuova, id est diversa da quelle assunte in prime cure o per l’oggetto (nel senso che la prova deve vertere su circostanze completamente differenti e non connesse a quelle dedotte in prime cure) o per il mezzo istruttorio (ad es., interrogatorio formale quando in primo grado erano stati escussi solo dei testimoni) (370). Il carattere non nuovo della prova è rilevabile anche d’ufficio (371).

Quanto al requisito dell’indispensabilità, pare vano ogni tentativo di individuarne l’esatto significato logico-giuridico, risolvendosi in un invito al secondo giudice a far luogo a istruzione probatoria solo in casi eccezionali, con l’obbligo di motivare l’ammissione dei nuovi mezzi di prova (372).

Al divieto di nuove prove sfuggono gli strumenti istruttorii volti a dimostrare fatti deducibili per la prima volta in appello e le prove precostituite, cioè i documenti che, per giurisprudenza consolidata (ancorché criticabile), possono essere prodotti anche in grado di appello, contestualmente al deposito del ricorso o della memoria difensiva (373).

V’è spazio anche per la rimessione in termini per causa non imputabile, sebbene l’art. 437, comma 2, c.p.c., a differenza dell’art. 345, ult. comma, c.p.c., non la menzioni espressamente: d’altronde, la rimessione in termini per causa non imputabile è principio generale del processo civile (art. 184-bis c.p.c.).

È ammesso il giuramento, in tutte le sue forme (decisorio, suppletorio ed estimatorio, nonostante la legge non menzioni quello suppletorio) (374)ed è altresì consentito al collegio di rinnovare le prove assunte in primo grado (375).

La deduzione dei mezzi di prova e la produzione dei documenti deve avvenire di regola con gli atti introduttivi del giudizio di appello, tanto per le nuove prove quanto per i mezzi istruttorii riproposti al secondo giudice (376). L’ammissione delle nuove prove implicherà il riconoscimento alle altre parti del potere di compiere deduzioni contrarie o consequenziali, in applicazione analogica degli artt. 420, comma 6 e 7, e 421, comma 2, c.p.c. (377).

All’assunzione provvede il collegio, senza possibilità di delega ad un proprio membro, a pena di nullità dell’atto e della sentenza successivamente emanata per vizio di costituzione del giudice (378). All’uopo occorrerà differire l’udienza per l’assunzione delle prove e, subito dopo, per la pronuncia della sentenza (art. 437, comma 3, c.p.c.).

L’art. 441 c.p.c. dedica un’apposita norma al consulente tecnico in appello, di cui si avvale d’ufficio il collegio quando lo ritenga opportuno (379), assegnando alle parti un termine non superiore a sei giorni per la nomina dei proprii consulenti (artt. 145 disp. att. e 201 c.p.c.) e fissando l’udienza per il giuramento e la formulazione del quesito. Il consulente deve poi depositare la relazione almeno dieci giorni prima della nuova udienza di discussione (art. 441, 2° comma): l’inosservanza di questo termine (380) [peraltro prorogabile prima della scadenza (381)] cagiona una nullità relativa, che deve essere eccepita dalla parte nella prima difesa successiva al deposito (382).

Il giudice di appello deve comunque fornire adeguata giustificazione del suo convincimento, mediante l’enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti e salva l’esperibilità di un’ulteriore indagine tecnica, la quale è opportuna, se non addirittura indispensabile, in ipotesi di notevole divergenza delle consulenze già espletate o di precise critiche sollevate dalle parti (383).

La discussione e i provvedimenti in appello.

L’udienza di discussione in appello è quanto mai concentrata, non essendo più previsto neppure l’interrogatorio libero delle parti. Anche in caso di ammissione di prove, come veduto, il rinvio deve essere brevissimo e la decisione segue subito la conclusione dell’istruttoria (art. 437, comma 3, c.p.c.).

Anzi, a conferma della straordinaria concentrazione processuale, proprio nell’ipotesi in cui vi sia la necessità di espletare degli incombenti istruttorii, il collegio può emettere, se ne sussistono i presupposti, le ordinanze previste dall’art. 423 c.p.c., cioè l’ordinanza di pagamento di somme non contestate quando la non contestazione si verifichi in appello e l’ordinanza provvisionale nella misura in cui ritiene provato il diritto del lavoratore (384).

In udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa, i difensori espongono le rispettive difese, dopodiché il collegio si ritira in camera di consiglio, al termine della quale da pubblica lettura del dispositivo (385). Se il collegio lo ritiene necessario in relazione alla complessità del caso, su richiesta delle parti può rinviare la discussione, concedendo termine per il deposito di note difensive (art. 437, ult. comma, che richiama il 2° comma dell’art. 429 c.p.c.). La composizione del collegio che ha assistito alla discussione deve essere la stessa di quello che pronuncia la sentenza, a pena di nullità per vizio di costituzione del giudice (386), mentre non occorre che vi sia identità tra il collegio che ha assunto le prove e quello che ha deliberato la sentenza (387).

La sentenza completa di motivazione va depositata nel termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo, secondo le regole dettate per il primo grado di giudizio nell’art. 430 c.p.c. (richiamato infatti dall’art. 438 c.p.c.). Tanto il dispositivo quanto la sentenza debbono essere sottoscritti dal presidente del collegio e dal relatore, a pena di inesistenza ex art. 161, comma 2, c.p.c., rilevabile anche d’ufficio in Cassazione (388).

La pronuncia in grado di appello concerne normalmente anche il rescissorio e produce effetto sostitutivo rispetto alla pronuncia impugnata, salvo che ricorrano i casi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. o salvo che l’appello sia inammissibile, improcedibile o nullo o, ancora, salvo che venga dichiarata l’estinzione del giudizio di gravame (389). Il secondo giudice deve provvedere d’ufficio a riconoscere interessi e riva lutazione monetaria sulle somme dovute per crediti di lavoro (art. 429, 3° comma, richiamato dall’art. 437, ult. comma, c.p.c.) e può anche valutare in via equitativa le somme dovute, in applicazione dell’art. 432 c.p.c. (390).

La sentenza è esecutiva ex lege come lo sono tutte le pronunce di secondo grado e, per l’inibitoria, soggiace allo stesso presupposto del «pregiudizio grave e irreparabile» previsto dall’art. 373 c.p.c. per il rito ordinario (391). L’unica norma speciale è quella che, mercé il richiamo al 2° comma dell’art. 431 c.p.c., consente di procedere ad esecuzione forzata sulla base del solo dispositivo (art. 438, comma 2, c.p.c.): si è sostenuto che la norma, non contenendo alcuna limitazione, si applichi anche al datore di lavoro oltre che al lavoratore (392), ma l’opinione non può essere seguita, dovendosi ritenere che il regime non sia diverso da quello dettato per il primo grado (su cui v. supra al par. 35) (393). Va però consentita, in tal caso, l’istanza di sospensione dell’esecuzione anche prima che sia proposto il ricorso per cassazione, in ragionevole deroga agli artt. 373 c.p.c. e 131-bis disp. att. c.p.c. (394).

La riforma della sentenza di prime cure non solo la priva di efficacia esecutiva impedendo l’inizio o la prosecuzione dell’azione in executivis, ma provoca la caducazione immediata degli atti esecutivi già compiuti, senza necessità di attendere il passaggio in giudicato della pronuncia emessa in grado di appello (art. 336, comma 2, c.p.c.) (395), potendosi esigere la restituzione degli importi corrisposti (396). o estromettere il lavoratore reintegrato (397).

Ove emerga, invece, che è stato applicato in primo grado un rito erroneo, l’art. 439 c.p.c. prevede il cambiamento del rito in appello, ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c., senza che si produca alcuna nullità della sentenza impugnata (398).

B) Il ricorso per cassazione. 46. Cenni sul ricorso per cassazione e sul giudizio di rinvio.

L’art. 19 legge n. 533/1973 ha istituito presso la Corte di cassazione la sezione specializzata in controversie di lavoro e di previdenza e assistenza sociale, cui vengono affidati i ricorsi proposti in tale materia, salvo che esigenze di servizio o la natura delle questioni trattate non ne rendano opportuna l’assegnazione ad altre sezioni, senza alcuna conseguenza sulla validità del procedimento (399).

I termini per proporre il ricorso per cassazione sono, come di consueto, di un anno dal deposito della sentenza o di sessanta giorni dalla notificazione, senza sospensione feriale (400).

L’impugnazione relativa a norme contenute nei contratti o accordi collettivi può concernere solo il vizio di motivazione della sentenza o la violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1368 e segg. c. c.) (401). Però, in materia di pubblico impiego le norme contenute nei contratti o accordi collettivi sono parificate alle norme di legge e possono dare adito a un ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (art. 63, 5° comma, D. Lgs. n. 165/2001): ciò che implica un’evidente violazione dell’art. 3 Cost., con riguardo al trattamento riservato ai contratti collettivi del settore privato (402).

Per il resto, il procedimento dinanzi alla Suprema Corte è soggetto alle consuete regole. Conviene ricordare che la Corte di cassazione, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, può decidere la controversia nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c.: evenienza cui si assiste di frequente in materia di lavoro, specialmente con riguardo alle impugnative dei licenziamenti (403).

Quando la Corte cassa con rinvio, la riassunzione del processo va effettuata secondo le regole proprie del giudizio dinanzi al giudice cui la Corte ha rinviato la causa e quindi con ricorso depositato nel termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza della Suprema Corte (404), ricorso che deve contenere tutti gli elementi idonei a identificare le parti, il giudice, la causa petendi e il petitum (405).

In sede di rinvio, come di consueto, le parti non possono modificare le loro conclusioni o dedurre nuovi mezzi di prova, se non in quanto i nova siano conseguenti alla sentenza pronunciata dalla cassazione (art. 394, ult. comma, c.p.c.): e altrettale limite vale per i poteri istruttorii ufficiosi (406).

LE OPPOSIZIONI ALL’ESECUZIONE E AGLI ATTI ESECUTIVI E I PROCEDIMENTI SPECIALI.

V’è appena lo spazio per accennare agli aspetti salienti che, in materia di controversie del lavoro e della previdenza e assistenza sociale, caratterizzano le opposizioni in ambito esecutivo e alcuni dei procedimenti speciali disciplinati nel libro quarto del c. p. c. Lo faremo con estrema sintesi e in modo puramente schematico, rinviando sin d’ora per i necessari approfondimenti ad opere manualistiche (407) o agli scritti monografici che si troveranno citati in nota. Di alcune importanti tutele speciali in materia di lavoro [quali il procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Stat. Lav. (408), i procedimenti a tutela della parità uomo-donna nel lavoro ex lege 9 dicembre 1977, n. 903, integrata con legge n. 125/1991 (409), o contro la discriminazione razziale ai sensi della L. 6 marzo 1998, n. 40 (410)] non è possibile trattare neppure concisis verbis.

L’esecuzione forzata in materia di lavoro.

L’esecuzione forzata per crediti di lavoro non presenta alcuna peculiarità se non per l’esenzione di ogni atto da spese, tasse o diritti di qualsiasi genere.

Del problema di eseguire coattivamente obbligazioni infungibili qual è quella di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato si è a lungo dibattuto e si propende ad escludere l’utilizzabilità dell’esecuzione in forma specifica disciplinata negli artt. 612 e segg. c.p.c. (411): le difficoltà evidenziate sin dall’inizio dell’entrata in vigore dell’art. 18 Stat. Lav. hanno condotto il legislatore ad accordare al prestatore di lavoro la facoltà di optare per un’indennità sostituiva della reintegra (5° comma dell’art. 18, introdotto con legge n. 108/1990).

Con riguardo all’azione di accertamento dell’obbligo del terzo di cui agli artt. 548 e segg. c.p.c., le norme sulle controversie di lavoro si applicano solo quando il credito dell’esecutato verso il debitor debitons trae origine da uno dei rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. (412): nulla quaestio invece quando il debito del terzo trova la propria fonte in un rapporto non rientrante tra quelli di cui all’art. 409 c.p.c.

L’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c. p. c.

L’art. 618-bis c.p.c., introdotto con legge n. 533/1973, prevede che le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi in materia di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatorie siano disciplinate dalle norme sulle controversie individuali di lavoro in quanto applicabili; resta ferma, però, la competenza del giudice dell’esecuzione nei casi previsti dal 2° comma dell’art. 615 e dal 2° comma dell’art. 617 c.p.c.

L’opposizione all’esecuzione può precedere o seguire l’inizio dell’esecuzione forzata che, ai sensi dell’art. 491 c.p.c., prende abbrivio con il pignoramento, laddove il precetto riveste soltanto una funzione prodromica.

Quando si intende contestare il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata prima che questa sia iniziata proponendo un’opposizione a precetto, il 1° comma dell’art. 615 c.p.c. contempla nel rito ordinario la forma della citazione: per effetto del ricordato art. 618 bis in materia di lavoro occorre invece adottare la forma del ricorso e il processo di cognizione così instaurato si svolgerà secondo le norme del rito lavoristico dinanzi al tribunale monocratico del lavoro individuato secondo i criterii di cui all’art. 413 c.p.c., non dinanzi al giudice del luogo dell’esecuzione o del luogo in cui è stato notificato il precetto, in mancanza di elezione di domicilio ai sensi degli artt. 27 e 480, comma 3, c.p.c. (413).

Quando è già iniziata l’esecuzione (cioè dopo il pignoramento), l’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c. con cui si contesta il diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata e quella con cui si contesta la pignorabilità dei beni vanno proposte al giudice dell’esecuzione ai sensi del 2° comma dell’art. 618 bis, con ricorso contenente anche l’eventuale istanza di sospensione dell’azione esecutiva ex art. 624 c.p.c. Secondo l’opinione maggioritaria, conclusa la fase preliminare che attiene alla sospensione dell’azione esecutiva, il giudice dell’esecuzione deve rimettere la causa al tribunale del lavoro individuato secondo i criterii di competenza territoriale di cui all’art. 413 c.p.c. (414). Tuttavia, il 2° comma dell’art. 618 bis non distingue tra competenza per la fase preliminare attinente alla sospensione dell’esecuzione e competenza per il merito dell’opposizione, mentre il richiamo ai momenti di collegamento territoriale dettati dall’art. 413 c.p.c. apporta soverchie complicazioni né può valere, ad es., per le opposizioni in cui si contesti la pignorabilità dei beni, le quali non par d’uopo che vengano sottratte al giudice naturale che è il giudice dell’esecuzione stessa. Sembra più corretto, quindi, adottare un’interpretazione conforme alla lettera della legge e ritenere che l’intero giudizio di opposizione di cui al 2° comma dell’art. 615 c.p.c. si debba svolgere dinanzi al giudice dell’esecuzione secondo il rito del lavoro.

L’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.

Anche l’opposizione contro la regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto o per far valere la nullità o l’eventuale inopportunità degli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) soggiace al rito del lavoro. Prima che l’esecuzione sia iniziata la forma dell’opposizione è quella del ricorso, in deroga al 1° comma dell’art. 617 c.p.c.; ricorso il cui deposito in cancelleria consente di rispettare il termine perentorio di cinque giorni dalla notificazione del titolo o del precetto (415) e che va proposto al giudice del lavoro territorialmente competente ai sensi dell’art. 413 c.p.c., giusta il richiamo alle norme per le controversie individuali di lavoro genericamente compiuto dal 1° comma dell’art. 618-bis c.p.c. (416)(ancorché la deroga alla competenza del giudice dell’esecuzione sembri inopportuna, discutendosi della validità formale di atti prodromici al processo esecutivo: ma la littera legis non lascia spazio a soluzioni alternative).

Le opposizioni agli atti esecutivi successive all’inizio dell’esecuzione forzata (art. 617, comma 2, c.p.c.) si propongono invece con ricorso al giudice dell’esecuzione e secondo il rito del lavoro. L’art. 618 bis, 2° comma, fa salva, infatti, la competenza funzionale e inderogabile del giudice dell’esecuzione, il quale, emessi gli eventuali provvedimenti urgenti e indilazionabili di cui all’art. 618 c.p.c, dovrà decidere il merito della controversia applicando il rito lavoristico (417), con sentenza non impugnabile se non con regolamento di competenza (art. 187 disp. att. c.p.c.) o con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. (418).

Il procedimento monitorio.

Non v’è alcuna incompatibilità tra procedimento per ingiunzione e rito del lavoro. Quando sussistono i presupposti e le prove scritte di cui agli artt. 633 e segg. c.p.c, la parte può rivolgersi al giudice del lavoro con ricorso monitorio e ottenere un decreto ingiuntivo, la cui efficacia esecutiva, però, è sempre subordinata ai requisiti di cui all’art. 642 c.p.c. (prove privilegiate o periculum in mora), non potendosi applicare, neppure per analogia, la disciplina della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado nelle controversie di lavoro, atteso che questa, a differenza del decreto ingiuntivo, sopraggiunge dopo un processo a contraddittorio pieno e non parziale, qual è il procedimento monitorio (419).

L’opposizione, che ai sensi dell’art. 645, comma 2, c.p.c. si svolge secondo le norme del procedimento davanti al giudice adito, va proposta con ricorso (e non con atto di citazione), il cui deposito in cancelleria entro quaranta giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo (420) impedisce che esso divenga irrevocabile, anche quando la fissazione dell’udienza per la discussione e la notificazione del ricorso e del decreto avvengano successivamente (421). Se erroneamente l’opposizione è proposta con citazione, la notificazione di questa non produce effetto, occorrendo comunque che essa venga depositata nel termine (422): in mancanza l’opposizione va dichiarata inammissibile.

Il ricorso in opposizione avrà il contenuto della memoria difensiva, in cui l’opponente, convenuto in senso sostanziale, ha l’onere di sollevare tutte le eccezioni non rilevabili d’ufficio, di proporre le eventuali domande riconvenzionali e di compiere tutte le deduzioni istruttorie a pena di decadenza (423). La memoria difensiva dell’opposto, attore sostanziale, deve contenere invece tutti gli elementi previsti dall’art. 414 c.p.c., che non si applica invece al ricorso per decreto ingiuntivo, stante la specialità del procedimento monitorio nella fase inaudita altera parte (424).

Sul rapporto tra tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c., decreto ingiuntivo e opposizione all’ingiunzione v. supra al par. 9 (note 41 e 42 anche al richiamo).

Il procedimento per convalida di sfratto.

Ai sensi dell’art. 659 c.p.c, se il godimento di un immobile è il corrispettivo anche parziale di una prestazione d’opera, l’intimazione di licenza o di sfratto con la contestuale citazione per la convalida può essere fatta, dinanzi al giudice del luogo in cui si trova la cosa locata ex art. 661 c.p.c. (425), quando il contratto lavorativo viene a cessare per qualsiasi causa.

Secondo la Corte costituzionale la norma si applica quando il godimento dell’immobile trova la sua fonte non in un contratto di locazione, ma in un rapporto di lavoro [ad es. di portierato, ma non solo (426)], la cui cessazione non è più controversa (427). Il procedimento per convalida di licenza o di sfratto, cioè, non può essere utilizzato per far cessare il rapporto lavorativo da cui deriva il godimento dell’immobile: se l’intimato si oppone alla licenza o allo sfratto deducendo che il rapporto di lavoro non è terminato, la controversia si traduce in causa di lavoro che va trattata secondo il rito lavoristico dal giudice competente ex art. 413 c.p.c. (428)); se invece l’opposizione dell’intimato non si fonda su eccezioni attinenti al rapporto lavorativo, la cui conclusione è pacifica inter partes, il rito da applicare, dopo la conversione ex art. 667 c.p.c. e sempre dinanzi al giudice del luogo in cui si trova la cosa locata, è quello locatizio che, peraltro, si conforma al rito lavoristico (art. 447-bis c.p.c.) (429)).

I procedimenti cautelari.

Le istanze per provvedimenti cautelari [sequestro conservativo e giudiziario, provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (430)] sono pienamente ammissibili anche nel processo del lavoro. Si applicano le disposizioni uniformi sui procedimenti cautelari (artt. 669-bis e seg. c.p.c.) e, pertanto, l’istanza può essere formulata sia ante causarti sia in corso di causa. Se il provvedimento viene concesso ante causam, occorre instaurare il giudizio di merito nel termine fissato dal giudice o, in mancanza, entro trenta giorni dalla comunicazione di esso, a pena di inefficacia (artt. 669 octies e 669-nonies c.p.c.): come di consueto, per osservare il termine è sufficiente il deposito del ricorso in cancelleria, mentre è ininfluente che il decreto di fissazione dell’udienza e la notificazione avvengano successivamente (431).

È invalso l’uso (specialmente per i ricorsi ex art. 700 c.p.c. per la reintegra del lavoratore licenziato) di presentare la domanda di merito e l’istanza cautelare con unico ricorso, con prassi che giustamente è stata giudicata legittima: in tal caso si deve ritenere che il provvedimento sia stato emesso in corso di causa e non è pertanto necessario fissare un termine per l’inizio del giudizio di merito (432).

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(1) Sul tema v. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999, 1, anche in nota; Proto Pisani, voce «Lavoro (controversie individuali in materia di)», in Digesto Civ., X, Torino, 1993, 336 e seg.; Borghesi, Contratto collettivo e legittimazione del sindacato, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1978, 241 e segg. In giurisprudenza v. Cass., 3 novembre 1995, n. 11444;Id., 3 novembre 1983, n. 6480, in Foro It., 1984, I, 1011, con nota di Pioli, e in Giur. Comm., 1984, I, 1855, con nota adesiva di Vallebona, Sulle controversie collettive giuridiche per l’interpretazione del contratto collettivo, e nota critica di Sassani, Clausole «normative» di contratto collettivo e azione del sindacato.

(2) V. Cass., 24 maggio 1991, n. 5905 e Id., 16 aprile 1991, n. 4075, in Foro It., 1991, I, 2769; Id., 24 giugno 1986, n. 4205, ivi, 1986, I, 2757; Id., 30 gennaio 1986, n. 612, ibidem, I, 2548; Id., 27 maggio 1982, n. 3263, ivi, 1983, I, 141; Id., 26 gennaio 1982, n. 4205, ivi, 1986, I, 2757. Contra Id., 24 gennaio 1983, n. 674, in Giur. Comm., 1983, I, 1480; Id., 5 aprile 1982, n. 2093, in Foro It., 1982, I, 2521, con nota critica di Proto Pisani.

(3) V. Proto Pisani, op. cit., 324.

(4) Sulle controversie insorte in fase di assunzione v. Cass., 22 febbraio 1985, n. 1601;Id., 29 giugno 1983, n. 4436, in Foro It., 1984, I, 791, con nota di Pioli.

(5) Così, a puro scopo esemplificativo e al di fuori delle classiche fattispecie di impugnazione di un licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo o di riconoscimento della qualifica corrispondente alle mansioni esercitate o, ancora, di pagamento della retribuzione o di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato: la domanda di ardomanda principale proposta ai sensi dell’art. 2126 c. c. (Cass., 12 novembre 1996, n. 9893; Id., 3 aprile 1990, n. 2679); il compenso per invenzione industriale in costanza del rapporto lavorativo (Cass., 17 aprile 1989, n. 1827;Id., 23 aprile 1979, n. 2276, in Foro It., 1979, I, 1416); la violazione del divieto di concorrenza (Cass., 23 aprile 1997, n. 3528;Id., 8 agosto 1996, n. 7272; Id., 9 aprile 1991, n. 3709; v., però, Id., 23 aprile 1985, n. 2677, che ritiene competente il giudice ordinario quando il rapporto di lavoro è cessato); l’azione per il rilascio di immobile concesso per lo svolgimento dell’attività di custode di uno stabile (Cass., 2 ottobre 1985, n. 4780, in Foro It., 1986, I, 490); l’azione del lavoratore subordinato contro il fideiussore (Cass., 8 aprile 1978, n. 1648, in Giur. Comm., 1978, I, 1854, con nota adesiva di Pezzano e in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1983, 540 e segg., con nota critica di Menchini); il diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro (Cass., 9 ottobre 1997, n. 9808; Id., 20 agosto 1993, n. 8828, in Foro It., 1994, I, 452); il diritto alla retribuzione dovuta dall’acquirente di azienda ai sensi dell’art. 2112 c. c. (Cass., 25 luglio 1986, n. 4779); l’azione dell’ausiliario dell’appaltatore nei confronti del committente ex art. 1676 c. c. (;Cass., 14 dicembre 1998, n. 12551 Id., 24 ottobre 1996, n. 9303); l’azione per il risarcimento dei danni patiti tanto dal lavoratore (Cass., 8 settembre 1999, n. 9539), quanto dal datore di lavoro (Cass., 21 marzo 1997, n. 2508) in conseguenza del rapporto lavorativo.

(6) V. Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 29, in Foro It., 1976, I, 508, e in Mass. Giur. Lav., 1977, 21 e segg., con nota di Balbi, Controversie individuali di lavoro nautico e competenza per territorio; Id., 7 luglio 1976, n. 164, in Foro It., 1976, I, 1770; Id., 20 aprile 1977, n. 66, in Foro It., 1977, I, 1031, con nota di Andrioli, da cui si desume che la legge n. 533/1973 ha tacitamente abrogato le norme del codice della navigazione (artt. 603 e segg.) che attribuivano alla competenza del comandante di porto la decisione sulle controversie di lavoro marittimo e portuale: v., infatti, Cass., Sez. un., 11 novembre 1982, n. 5944, in Foro It., 1983, I, 1959, con nota di Proto Pisani.

(7) V. Tarzia, op. cit., 6; Proto Pisani, op. cit., 324; in giurisprudenza v. Cass., 15 giugno 1977, n. 2490, in Foro It. ,1977, I, 1641. Contra Pera, I rapporti soggetti al nuovo rito, in Nuovo trattato di diritto del lavoro diretto da Riva Sanseverino e Mazzoni, IV, Padova, 1975, 161.

(8) V., infatti, in senso diametralmente opposto Consolo, in Le nuove leggi civili commentate, 1982, 731 e segg., che riteneva competente il giudice ordinario, in base al valore della causa; Olivieri, Prime riflessioni sulle disposizioni processuali della legge 3 maggio 1982, n. 203 (sui contratti agrari), in Foro It., 1982, V, 179 e seg., che sosteneva la competenza delle sezioni specializzate.

(9) Proto Pisani, op. cit., 326 e seg.; Nappi, Tutela giurisdizionale e contratti agrari, Milano, 1994, 222 e segg.; Luiso, La riforma del codice di procedura civile (aspetti di interesse agrario), in Riv. Dir. Proc., 1994, 396 e segg.; Cass., 27 settembre 1995, n. 10216;Id., 10 gennaio 1994, n. 195. Per alcune precisazioni v., però, Cass., 15 maggio 1996, n. 4506; Id., 9 aprile 1996, n. 3255; Id., 12 ottobre 1995, n. 10635.

(10) V., per tutti, Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 21 e segg. e, in giurisprudenza, Cass., 11 dicembre 1995, n. 12962, in Giur. It., 1997, I, 1, 92.

(11) Cass., 26 marzo 1996, n. 2653;Id., 27 marzo 1997, n. 2710, in Giur. It., 1996, I, 1, 342; Id., 1° agosto 1995, n. 8412, ibidem, I, 1, 321, con nota di Di Nunzio, «Prevalente personalità» della prestazione nel lavoro parasubordinato ed implicazioni nella relativa disciplina; Cass., Sez. un., 11 febbraio 1982, n. 836, RDL, 1983, II, 335; e v. anche Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 33, in Foro It., 1976, I, 507. In dottrina Olivieri-Verde, voce «Processo del lavoro e della previdenza sociale», in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, 210 e segg.; Luiso, op. cit., 25.

(12) Il carattere personale dell’attività si presume in capo all’agente o al rappresentante persona fisica: Cass., 23 agosto 1991, n. 9068; Id., 15 luglio 1987, n. 6212, v. inoltre Id., 6 febbraio 1984, n. 901, in Foro It., 1984, I, 1610. In dottrina Luiso, op. loc. cit.

(13) Proto Pisani, op. cit., 328.

(14) Cass., 21 marzo 1996, n. 2420.

(15) Cass., Sez. un., 28 giugno 1984, n. 3815, in Foro It., 1984, I, 1813 per gli avvocati dell’I.N.A.M.; Id., 9 gennaio 1996, n. 96, in Giur. Comm., 1997, I, 826, con nota di richiami.

(16) Cass., Sez. un., 3 ottobre 1996, n. 8632;Id., Sez. un., 15 maggio 1995, nn. 5301 e 5302.

(17) Cass., 21 febbraio 1998, n. 1897;Id., 19 dicembre 1984, n. 6648. In dottrina Vullo, Scrittura artistica e parasubordinazione, in Riv. Dir. Lav., 1993, II, 404 e segg.

(18) Cass., 22 luglio 1978, n. 3674.

(19) Cass., 16 maggio 1987, n. 4521. Non così il concessionario di vendita che acquista i prodotti per poi rivenderli: Id., 27 febbraio 1987, n. 2122, in Foro It., 1987, I, 2134.

(20) V. Cass., 21 maggio 1991, n. 5693 e, a contrariis, Id., 6 maggio 1997, n. 3936.

(21) V., per tutte, Cass., Sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906, che ha composto il precedente contrasto giurisprudenziale.

(22) Cass., 1° luglio 1997, n. 5875;Id., 3 luglio 1996, n. 6060.

(23) V. Cass., Sez. un., 14 dicembre 1994, n. 10680, in Giur. Comm., 1995, I, 2473, con nota di Neri, L’amministratore di società lavoratore parasubordinato ex art. 409, n. 3, c. p. c.; Id., 27 maggio 1995, n. 5976.

(24) Cass., 14 dicembre 1991, n. 13498;Id., 19 settembre 1991, n. 9788, entrambe in Foro It., 1992, I, 1803.

(25) Tarzia, op. cit., 14.

(26) Sulle novità del D. Lgs. N. 80/1998 v. da ultimo Tiscini, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni di fronte al giudice ordinario (l’art. 68 del d.lgs. n. 80/1998), in Riv. Dir. Proc., 2000, 467 e segg.

(27) V, per tutti, Tarzia, op. cit., 15 e segg.

(28) Per questa disciplina v. ora l’art. 63 D. Lgs. n. 165/2001 e, prima di questo, l’identico art. 68 D. Lgs. n. 29/1993, come modificato dall’art. 29 D. Lgs. n. 80/1998, integrato dall’art. 18 D. Lgs. n. 387/1998. Per un commento alle norme del D. Lgs. n. 80/1998 v. Sassani, in AA. VV., Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni a cura di Perone e Sassani, Padova, 1999, 3 e segg.; AA. VV, Pubbliche amministrazioni, lavoro, processo. Commento al decreto legislativo n. 80/1998, a cura di Dell’Olio e Sassani, Milano, 2000, sub art. 68.

(29) Sul tema v. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, I, 375 e segg.; Chiarloni, Prime riflessioni sulla riforma del pubblico impiego e processo, in Corriere Giur., 1998, 625 e segg.; Id., Brevi note sulla conciliazione stragiudiziale (e contro l’obbligatorietà del tentativo), in Giur. It., 2000, 209 e segg.; Vaccarella, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull’arbitrato in materia di lavoro, in Arg. Dir. Lav., 1998, 748 e segg.; Tiscini, Il tentativo obbligatorio di conciliazione, in AA. VV, Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, a cura di Perone e Sassani, cit., 23 e segg.; Ead., Brevi note su un dubbio di incostituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali di lavoro, nota a Pret. Lecce, ord. 25 novembre 1998, in Riv. Dir. Proc., 2000, 272 e segg.; Ead., Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1999, 1087 e segg.; Cecchella, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro pubblico e privato, in Mass. Giur. Lav., 1999, 446 e segg.; Peyron, , Il D. Lgs. n. 80/1998 di riforma del processo del lavoro nell’esperienza torinese, in Giur. It., 2000, 877 e segg.

(30) Corte cost., 13 luglio 2000, n. 276, in Foro It., 2000, I, 2752, con nota di De Angelis, in Giur. It., 2001, 1 e segg. con nota di Sartoretti, La composizione stragiudiziale delle controversie al vaglio della Corte costituzionale, ibidem, 438 e segg., con nota di Ventura, Tentativo obbligatorio dì conciliazione procedimento monitorio nelle controversie di lavoro; in Mass. Giur. Lav., 2000, 1098 e segg., con nota di Tiscini, Legittimità del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie dì lavoro, che ha dichiarato infondate molteplici questioni di costituzionalità degli artt. 410, 410 bis, 412 bis c. p. c., sollevate da numerosi giudici per violazione dei limiti della legge-delega, per violazione del diritto di azione e del principio di eguaglianza. E, sulla scorta della sentenza 276/2000, v. Corte cost., 6 febbraio 2001, n. 29 (ord.), in Giur. It., 2001, 1093 e segg., con note di Fontana, Tentativo obbligatorio di conciliazione e procedimento monitorio nella interpretazione «adeguatrice» della Corte costituzionale e di Ronco, Costituzionalità (e inopportunità) del tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale nelle controversie dì lavoro.

(31) Confindustria, Confcommercio e Confagricoltura per i datori di lavoro; CGIL, CISL, UIL e CISNAL per i lavoratori dipendenti: sul tema v., sinteticamente, Tarzia, op. cit., 31 e seg., che sottolinea come la maggiore rappresentatività su base nazionale esclude di per sé le organizzazioni locali, nonché Nogler, Condotta antisindacale, coamministrazione dei rapporti di lavoro e principio di uguaglianza tra i sindacati maggiormente rappresentativi, nota a Cass., 26 ottobre 1991, n. 11442, in Giur. Comm., 1992, I, 3124; Conte, Il «sindacato maggiormente rappresentativo» nella giurisprudenza, in Giur. Comm., 1993, II, 463.

(32) Cfr. Cass., 26 gennaio 1996, n. 607.

(33) V. l’obiter dictum di Corte cost., 13 luglio 2000, n. 276, cit., che richiama la disciplina del tentativo di conciliazione nel pubblico impiego e, segnatamente, l’art. 69 bis, 3° comma, lett. c), D. Lgs. n. 29/1993.

(34) Cfr. Corte cost., 4 marzo 1992, n. 82, in Mass. Giur. Lav., 1992, 135 e segg., con nota di Mannacio, La Corte costituzionale e il tentativo obbligatorio di conciliazione a norma dell’art. 5, l. 11 maggio 1990, n. 108, la quale ha ritenuto costituzionalmente legittimo e non in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. l’art. 5 della legge n. 108/1990 che, per le imprese con meno di quindici dipendenti, imponeva il tentativo di conciliazione in relazione alle impugnative dei licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo (v. anche Cass., 15 novembre 1996, n. 10033, in Mass. Giur. Lav., 1997, 130 e segg., con nota di Cecchella, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro).

(35) V. Tarzia, op. cit., 36.

(36) Tarzia, op. cit., 36.

(37) V. Tarzia, op. cit., 37, che giustamente trova incomprensibile la deroga alla regola generale per cui il reclamo contro le ordinanze di estinzione è ammesso solo nelle cause affidate a decisione collegiale e non in quelle in cui il giudice è organo monocratico.

(38) V. Trib. Milano, 20 gennaio 1999, in Giur. It., 2000, 309, con nota critica di Maffuccini, Rimessione in primo grado della causa ove sia stato omesso il tentativo obbligatorio di conciliazione; contra anche Conte, op. cit., 1245 in nota, che ipotizza, sulla scorta di Luiso, op. ult. cit., 390, una sospensione del processo in appello.

(39) Cfr. Tarzia, op. cit., 38.

(40) Contra Tarzia, op. cit., 38.

(41) Conf. Miccolis, Il tentativo obbligatorio, cit., 2330 e segg.; Cecchella, Il tentativo obbligatorio di conciliazione, cit., 452. Contra Tarzia, op. cit., 332 e seg.; Luiso, Il tentativo obbligatorio, cit., 388; Id., in AA. VV., Amministrazioni pubbliche, cit., a cura di Dell’Olio e Sassani, 460; e Corte cost., 13 luglio 2000, n. 276, cit. supra in nota 30 ed anche in Riv. Dir. Proc., 2000, 1219, con nota adesiva di Conte, Tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di lavoro, giurisdizione condizionata e finalità del procedimento monitorio (ove ulteriori riferimenti), che esenta il procedimento monitorio dal tentativo di conciliazione, sostenendo che questo è strutturalmente teso ad anticipare un processo a contraddittorio pieno, non una fase senza contraddittorio. Per la necessità del previo tentativo di conciliazione si esprimono invece Pret. Ferrara, 27 aprile 1998, in Giur. Comm., 1998, I, 2327 e segg., con nota di critica di Miccolis, Il tentativo obbligatorio di conciliazione disciplinato dagli art. 410 ss. c. p. c. nel procedimento di ingiunzione; Id. Brescia, 22 febbraio 1999, in Giust. Civ., 1999, I, 2544; Id. Roma, 17 novembre 1998, in Giur. Comm., 1999, I, 295, con nota critica di Tiscini, 77 tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali di lavoro ed il procedimento di ingiunzione; Id. Latina, Sez. dist. di Minturno, 1° ottobre 1998, in Nuovo Dir, 1998, 937 e segg., con nota di Tatarelli, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro; Id. Campobasso, 9 novembre 1998, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 237 e segg., con nota di Manna, Tentativo obbligatorio di conciliazione e ricorso per decreto ingiuntivo; Id. Milano, 5 febbraio 1999, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 365, con nota di Tagliagambe, A mali estremi, rimedi d’urgenza (che consente il ricorso alla tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere il pagamento della retribuzione, proprio argomentando dalla necessità di far precedere il procedimento monitorio dal tentativo obbligatorio di conciliazione). Esclude invece che sia necessario il tentativo di conciliazione Pret. Lecce, 13 novembre 1998, in Giust. Civ., 1999, I, 2545 e in Foro It., 1999, I, 709. Sul tema v. anche Ronco, L’art. 646 c. p. c. ? (procedimento monitorio e tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro), in Riv. Dir. Proc., 1999, 1069 e segg.; Id., Costituzionalità, cit., 1094 e segg., che propone una tesi intermedia (di difficile applicazione pratica), in base alla quale il tentativo di conciliazione andrebbe esperito dopo l’instaurazione del giudizio di opposizione.

(42) Tarzia, op. loc. cit.

(43) Tarzia, op. cit., 40.

(44) La Suprema Corte insegna che i presupposti di procedibilità dell’azione si applicano anche alle domande riconvenzionali: v. Cass., Sez. un., 11 novembre 1991, n. 12006, in Giur. It., 1992, I, 1, 2234, con nota di Dalmotto, Riconvenzionale del danneggiato dalla circolazione di veicoli o natanti e «favor» per l’assicuratore, sulla raccomandata all’assicuratore ex art. 22 legge n. 990/1969; Id., 4 novembre 1996, n. 9544, sul tentativo di conciliazione in materia di contratti agrari disciplinati dalla legge n. 203/1982.

(45) Così Tarzia, op. cit., 40.

(46) Sulla non impugnabilità ex art. 2113 c. c. della conciliazione conclusa con l’avallo della commissione v. Cass., 26 luglio 1984, n. 4413 e, per le conciliazioni in materia di pubblico impiego, v. ora espressamente l’art. 66, 5° comma, D. Lgs. n. 165/2001 che dichiara inapplicabili i primi tre commi dell’art. 2113 c. c., analogamente a quanto avviene per le conciliazioni giudiziali.

(47) V. Tarzia, op. cit., 44 e seg.; contra Montesano-Mazziotti, Le controversie del lavoro e della sicurezza sociale, Napoli, 1974, 62, secondo i quali il giudice può valutare la legittima formazione del collegio di conciliazione, anche con riguardo alla rappresentatività dei sindacati, e il verbale, all’esito del controllo giudiziale, acquista valore di sentenza come «decisione conciliativa».

(48) V. Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 58 e seg., ai quali aderisce Tarzia, op. cit., 45, nota 21.

(49) Così invece Tarzia, op. cit., 46.

(50) Solo qualora il direttore attesti che le parti hanno riconosciuto personalmente le proprie firme il verbale può acquisire, quanto a provenienza, l’efficacia propria dell’atto pubblico ex art. 2700 c. c.

(51) È proprio il termine per questa risposta (peraltro solo eventuale) a implicare il prolungamento a novanta giorni del tempo necessario affinché la domanda giudiziale divenga procedibile.

(52) Tarzia, op. cit., 48, nota 26, ricorda la norma dell’art. 3, 8° comma, legge n. 39/1977 sull’assicurazione obbligatoria per la circolazione stradale, ove si prevede che, quando il giudizio si conclude con una condanna a carico dell’assicuratore e vi sia una notevole sproporzione fra la somma liquidata al danneggiato e quella offerta dalla compagnia del responsabile civile dovuta a dolo o colpa grave dell’assicuratore stesso, questo può essere condannato a pagare la differenza tra somma offerta e somma accordata dal giudice al Fondo di garanzia per le vittime della strada. Sulla base di questa analogia l’insigne Autore ritiene possibile che il giudice neghi al lavoratore la rifusione delle spese di lite quando questi abbia rifiutato la conciliazione proposta e vi sia notevole sproporzione tra somma offerta in sede conciliativa e somma liquidata o condanni il lavoratore stesso a rifonderle al datore di lavoro quando la domanda è stata respinta dopo che, in sede conciliativa, era stata rifiutata un’offerta. Non crediamo però che le due norme possano essere assimilate se non in modo molto ampio e generico, atteso che nel primo caso il legislatore ha inteso prevedere una sanzione a carico del soggetto economicamente forte e debitore del risarcimento per indurlo a comportarsi secondo i principi della buona fede e della correttezza, evitando espedienti dilatorii o, semplicemente, un’inerzia lungamente protratta senza alcuna giustificazione, laddove la normativa in esame coinvolge tanto la P. A. quanto il lavoratore e non è pensabile una sanzione a carico di questi soltanto perché, ad es., le prove espletate non hanno consentito di raggiungere la dimostrazione completa dei fatti costitutivi; né si può ammettere che il rifiuto di una proposta, magari formulata dal collegio del tutto irragionevolmente o sbrigativamente, possa condurre a una drastica deminutio del diritto spettante al lavoratore attraverso una pronuncia oltremodo discrezionale e incontrollabile sulle spese, la quale potrebbe financo violare il chiovendiano principio per cui il processo non deve svolgersi in danno della parte che ha ragione.

(53) Tarzia, op. cit., 37 e seg., ritiene incomprensibile questa normativa e (in nota 12) ricorda come la Suprema Corte esclude costantemente qualsiasi rimessione in termini per il convenuto in caso di riassunzione del processo previdenziale dopo la sospensione pronunciata ex art. 443 c. p. c. (Cass., 7 marzo 1998, n. 2546).

(54) Sul tema v. Proto Pisani, La giustizia del lavoro dopo il d.leg. 80/98, in Foro It., 1999, V, 57 e segg.; Vaccarella, Appunti sul contenzioso del lavoro, cit., 719 e segg.; Chiarloni, Prime riflessioni, cit., 625 e segg.; Apicella, Briguglio,Filardo, Vallebona, Il D.lgs. n. 80 del 1998 (c.d. Bassanini ter), in Giur. Comm., 1998, II, 245 e segg.; Cecchella, Sassani, Romano Tassone, Ancora sul d.lgs. n. 80 del l998, in Giur. Comm., 1998, II, 432 e segg.; Luiso, in AA. VV., Amministrazioni pubbliche, cit., a cura di Dell’Olio e Sassani, 376 e segg. e 452 e segg.

(55) Su questa disciplina, inutilmente complicata, v. Tarzia, op. cit., 39.

(56) Sull’arbitrato in materia di lavoro v, in generale, Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano, 1990; ed ora Muroni, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Corriere Giur., 1998, 1 e segg.; Borghesi, L’arbitrato irrituale, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario a cura di Carinci e D’Antona, III, Milano, 2001, 2003 e segg.

(57) V. infatti le forti perplessità espresse da Monteleone, L’arbitrato nelle controversie di lavoro ovvero esiste ancora l’arbitrato irrituale?, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2001, 43 e segg.

(58) Cfr., sia pure in materia di arbitrato irrituale, Cass., 17 settembre 1993, n. 9568;Pret. Milano, 31 gennaio 1995, in Orient. Giur. Lav., 1995, I, 203. V. però Id., 18 febbraio 1992, n. 1978, in Giust. Civ., 1992, I, 3077, con nota di Cecchella, L’efficacia ad libitum del patto compromissorio nel diritto del lavoro, che fa invece riferimento all’acccttazione degli arbitri designati; mentre Id., 12 marzo 1991, n. 2586, in Mass. Giur. Lav., 1991, 289, consente alla parte di rifiutare il giudizio arbitrale, sollevando l’eccezione di incompetenza del collegio nel corso del procedimento, si da cagionare la nullità del lodo.

(59) Per una chiara esposizione in materia v. Tarzia, op. cit., 54 e segg. Prima dell’introduzione degli artt. 412 ter e 412 quater v. Del Sarto, L’arbitrato irrituale nel diritto del lavoro, in Riv. Arb., 1994, 772 e segg.; Grandi, L’arbitrato irrituale in materia di lavoro, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1991, 417 e segg.; Pera, Le controversie in tema di sanzioni disciplinari e di licenziamento secondo lo statuto dei lavoratori, ivi, 1971, 1267 e segg.; Id., L’arbitrato irrituale previsto dall’art. 7 della l. 15 luglio 1966, n. 604, in Riv. Dir. Proc., 1968, 334 e segg.; Carnacini, Le controversie di lavoro e l’arbitrato irrituale come procedimento, ibidem, 629. V. ora Borghesi, op. ult. cit., passim.

(60) V. Luiso, in AA. VV., Amministrazioni pubbliche, cit., a cura di Dell’Olio e Sassani, 487 e segg.; Cecchella, L’arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi: l’impugnazione e l’esecutività del lodo arbitrale, in AA. VV., Processo del lavoro, cit., a cura di Perone e Sassani, 121 e segg.

(61) Come per l’arbitrato rituale, la scelta è preclusa allorché ambedue le parti hanno dato inizio al procedimento arbitrale, nominando i propri arbitri senza manifestare una volontà contraria: cfr. Cass., 6 marzo 1992, n. 2733, in Foro It., 1992, I, 3194, e in Giust. Civ., 1992, I, 2396; Id., 9 giugno 1993, n. 6411, che fissa il momento preclusivo in coincidenza con l’accettazione della nomina da parte di tutti gli arbitri.

(62) Per la sede dell’arbitrato v., quantomeno per analogia, l’art. 816 c. p. c.

(63) V. Tarzia, op. cit., 64.

(64) Secondo Tarzia, op. cit., 64, in mancanza di notificazione l’impugnativa può essere proposta entro un anno dall’ultima sottoscrizione, analogamente alla disciplina dettata dall’art. 828, 2° comma, c. p. c. per il lodo rituale: ma crediamo che le decadenze non possano essere estese in via analogica.

(65) In caso di ricorso per cassazione contro la sentenza emessa dal tribunale, si propone giustamente di applicare per analogia la disciplina dell’art. 373 c.p.c., dovendosi chiedere allo stesso tribunale di sospendere l’efficacia esecutiva acquisita dal lodo in seguito al rigetto dell’impugnativa: cfr. Tarzia, op. cit., 66, che tra l’altro sottolinea l’inopportunità di condizionare l’efficacia esecutiva del lodo sino all’esito dell’impugnativa dinanzi al tribunale, ché si dà sprone a interporre impugnazioni anche infondate solo per guadagnare tempo.

(66) Sulla distinzione tra arbitrato rituale e irrituale e sui criterii di identificazione v. ;Cass., 1° febbraio 1999, n. 833 Id., 14 aprile 1994, n. 3504, in Giur. It., 1994, I, 1, 1264; Id., 12 gennaio 1984, n. 268.

(67) Sul problema v. Proto Pisani, op. cit., 355 e segg.; Garbagnati, Il processo del lavoro: lineamenti generali, in Jus, 1978, 147 e segg.

(68) V. Tarzia, op. cit., 70; Proto Pisani, op. cit., 354.

(69) Sull’Eventualmaxime — che in definitiva si identifica con il principio di preclusione e si traduce nell’onere per le parti di introdurre nel processo tutto quanto possa risultare eventualmente utile alle proprie difese, anche se in concreto non rivesta alcuna effettiva utilità — e sulla necessità di apportare temperamenti al principio di eventualità nel rito del lavoro v. Proto Pisani, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al principio di eventualità, in Foro It., 1981, I, 2402 e segg.

(70) Secondo una tendenza di politica del diritto presente anche nella riforma del rito ordinario introdotta con legge n. 353/1990 e poi lievemente attenuata con D. L. n. 432/1995, conv. dalla legge n. 534/1995, che ha diluito le cadenze processuali.

(71) V. Cass., 8 giugno 1994, n. 5582 e Id., 13 ottobre 1992, n. 11148, che hanno escluso l’ammissibilità del regolamento di competenza; nonché Id., Sez. un., 29 aprile 1987, n. 4120, che ha escluso quella del regolamento di giurisdizione.

(72) Contra Tarzia, op. cit., 15 e seg.

(73) Sul carattere alternativo dei fori indicati, anche di quelli sub b) e c), v. Cass., 13 febbraio 1999, n. 1190;Id., 6 luglio 1998, n. 6572; Id., 9 giugno 1998, n. 5704; Id., 29 maggio 1998, n. 5356; Id., 20 gennaio 1993, n. 700; in dottrina v. Tarzia, op. cit., 77. Contra Id., 27 maggio 1997, n. 4683; Id., 2 aprile 1996, n. 2618; Proto Pisani, voce cit., 341.

(74) Cass., 13 dicembre 1989, n. 5560;Id., 27 agosto 1991, n. 9172.

(75) Cass., 8 gennaio 1996, n. 67;Id., 22 ottobre 1994, n. 8686; Id., 12 febbraio 1993, n. 1771; v. inoltre, con riguardo all’abitazione del lavoratore, Id., 27 agosto 1987, n. 7078, secondo cui l’abitazione del lavoratore non può costituire una dipendenza dell’azienda per il solo fatto che in essa vi siano oggetti o beni inerenti alla sua attività lavorativa, esigendosi invece un quid pluris che può essere, anche alternativamente, ravvisato: a) in un’autonomia tecnico-economica e strutturale dei detti beni (come nel caso del deposito di cose da destinare al commercio); b) nell’esercizio in ordine ad essa di poteri di direttiva e controllo del datore di lavoro che vanno oltre le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa; c) nella circostanza che all’abitazione del lavoratore fanno riferimento rapporti giuridici, con soggetti esterni all’azienda, a quest’ultima imputabili in via definitiva.

(76) Cass., 23 luglio 1994, n. 6842.

(77) Cfr. Luiso, op. cit., 71.

(78) Sul carattere esclusivo di tale criterio v. Cass., 8 aprile 1994, n. 3309, in Giur. It., 1995, I, 1, 1351, con nota di Dalmotto, Sulla esclusività incontrovertibile del nuovo foro per i rapporti di parasubordinazione. In generale sul foro del lavoratore parasubordinato introdotto con legge n. 128/1992, v. Dalmotto, La nuova competenza per territorio in materia di agenzia e di rappresentanza commerciale, in Riv. Dir. Proc., 1996, 278 e segg.; Vullo, Brevi osservazioni sulla natura della competenza per territorio di cui al nuovo comma 4 dell’art. 413 c. p. c. e sul principio della perpetuatio iurisdictionis dopo la riforma dell’art. 5 c. p. c., in Giur. Comm., 1993, I, 1117 e segg.

(79) V. Tarzia, op. cit., 79; cfr. anche Capponi, in AA. VV., Amministrazioni pubbliche, cit., a cura di Dell’Olio e Sassani, 505 e segg.; Passalacqua, La competenza territoriale, in AA. VV., Il processo del lavoro, cit., a cura di Perone e Sassani, 67 e segg.

(80) Cfr. Cass., 8 maggio 1998, n. 4707, che applica gli artt. 18 e 19 in caso di domanda di assunzione in forza di un contratto preliminare; Id., 12 maggio 1989, n. 2181 e Id., 28 aprile 1987, n. 4116, che precisano che l’art. 18 si applica solo quando sia accertata l’impossibilità di applicare gli altri criteri dell’art. 413. Nei casi di lavoro parasubordinato, ad es., gli artt. 18 e 19 vengono in rilievo quando non sia possibile determinare il domicilio del lavoratore: cfr. Tarzia, op. cit., 81; Luiso, op. cit., 14.

(81) Cass., Sez. un., 11 novembre 1982, n. 5944, in Foro It., 1983, I, 1959, con nota di Proto Pisani.

(82) V. Proto Pisani, voce cit., 342. In giurisprudenza cfr. Cass., 26 gennaio 1989, n. 458 e Id., 27 gennaio 1989, n. 509, secondo le quali l’art. 413 svolge una funzione solo sussidiaria rispetto all’art. 603 cod. nav.

(83) Cass., 18 aprile 1994, n. 3662, in Giur. It., 1995, I, 1, 1080, con nota di Dalmotto, Suddivisione in fasi ed eventuale frazionamento in successive sedute dell’udienza di discussione di cui all’art. 420 c. p. c. quale termine al rilievo d’ufficio dell’ incompetenza nel processo del lavoro (art. 428, 1° comma, c. p. c.).

(84) Cass., 16 aprile 1991, n. 4078;Id., 2 luglio 1986, n. 4368.

(85) Sul tema v. in generale Merlin, Connessione di cause e pluralità di «riti», in Riv. Dir. Proc., 1993, 1021 e segg.; sul processo del lavoro v. Proto Pisani, op. cit., 353.

(86) Cass., 12 gennaio 1998, n. 180;Id., 4 maggio 1996, n. 4119; Id., 25 gennaio 1990, n. 441; Id., 10 giugno 1988, n. 3947.

(87) Cfr. implicitamente Cass., 16 dicembre 1996, n. 11233 e v. Tarzia, op. cit., 217 e seg.

(88) Cfr. Luiso, op. cit., 79.

(89) Tarzia, op. cit., 219.

(90) Per una completa disamina delle molteplici ipotesi derivanti dalla combinazione di problemi di rito con problemi di competenza v. Tarzia, op. cit., 203 e segg.; Proto Pisani, op. cit., 346 e segg.

(91) Cass., 16 maggio 1984, n. 3011;Id., 19 marzo 1981, n. 1630; Id., 9 settembre 1981, n. 5068; nonché Id., 21 agosto 1996, n. 7692.

(92) Trattandosi di eccezione di incompetenza per territorio inderogabile, non occorre l’indicazione del giudice che il convenuto ritiene competente (Montesano-Vaccarella, Manuale di dir. proc. del lavoro, Napoli, 1996, 248; contra, implicitamente, Cass., 6 luglio 1998, n. 6572). Con pronunce non condivisibili la Suprema Corte, peraltro, riprendendo l’orientamento affermatosi con riguardo all’eccezione di incompetenza territoriale derogabile di cui all’art. 38, 2° comma, c. p. c., ha imposto al convenuto di contestare tutti i possibili criterii di collegamento della fattispecie con la circoscrizione del giudice adito (Cass., 18 luglio 1998, n. 7083, in Il lavoro nella Giur., 1999, 343, con nota di Collia, L’eccezione di incompetenza territoriale nel rito del lavoro; Id., 28 agosto 1996, n. 7903; Id., 6 agosto 1996, n. 7180; Id., 14 giugno 1996, n. 5452; Id., 11 giugno 1996, n. 5368; e già Id., 16 dicembre 1983, n. 7438). Contra Id., 16 aprile 1991, n. 4078, che ha giustamente ritenuto non vincolante per il giudice l’adesione dell’attore all’eccezione del convenuto, escludendo l’applicazione dell’art. 38; nonché Id., 2 luglio 1986, n. 4368.

(93) V. Cass., 25 marzo 1998, n. 3173;Id., 29 novembre 1995, n. 12381; Id., 18 aprile 1994, n. 3662; secondo Id., 3 settembre 1993, n. 9291, la preclusione di cui all’art. 428 c.p.c. non esclude che il giudice conservi tale facoltà anche oltre la prima udienza di discussione, finché, attraverso l’interrogatorio libero delle parti e le eventuali modificazioni delle domande ed eccezioni, non sia stato delimitato l’oggetto della controversia e non sia stato espletato con esito negativo il tentativo di conciliazione, restando detta facoltà preclusa dall’adozione dei provvedimenti attinenti all’istruttoria, anche se la discussione della causa prosegua nella stessa udienza; v. anche Cass., 13 maggio 1998, n. 4838 e Id., 6 febbraio 1998, n. 1263, secondo le quali non possono essere consentiti né l’eccezione d’incompetenza, né il rilievo d’ufficio di tale questione da parte del giudice, dopo che questi si sia pronunciato sulla richiesta di provvedimento d’urgenza formulata dalla parte in corso di causa; Cass., 12 gennaio 1998, n. 180, che preclude il rilievo nel rito ordinario dopo la chiusura dell’udienza ex art. 183 c.p.c. e, nel rito del lavoro, dopo la prima udienza di discussione.

(94) Cass., 23 febbraio 1990, n. 1359, in Giust. Civ., 1991, I, 2157, con nota di Jaccheri, Nozione di pronuncia sulla competenza ai sensi dell’art. 42 c. p. c.; cfr. anche Id., Sez. un., 12 novembre 1999, n. 764, che ha dichiarato inammissibile il regolamento di competenza sollevato d’ufficio dal secondo giudice quando dinanzi al giudice a quo la competenza non era stata rilevata entro il momento preclusivo.

(95) V. Proto Pisani, op. cit., 345.

(96) Questo termine non si applica al giudizio di appello nel rito del lavoro, che in caso di incompetenza resta disciplinato dall’art. 50 c.p.c.: v. Cass., 15 gennaio 1987, n. 250;Id., 19 gennaio 1987, n. 413; Id., 9 dicembre 1986, n. 7290; Id., 18 aprile 1986, n. 2762, in Giust. Civ., 1986, I, 3149, con nota di Fornaciari, Applicabilità dell’art. 428 c. p. c. al giudizio di appello e suoi rapporti con l’art. 50 c. p. c.

(97) Cfr. Cass. (ord.), 2 marzo 1989, n. 96;Id. (ord.), 20 dicembre 1983, n. 1005, che ritiene inammissibile il regolamento di competenza proposto prima del deposito della motivazione.

(98) Cass., 4 ottobre 1988, n. 5352 e Id., 24 giugno 1981, n. 4108 considerano tempestivamente riassunto il processo quando il ricorso è stato depositato nel termine, anche se la fissazione dell’udienza e la notificazione siano successive.

(99) V. Cass., 27 maggio 1994, n. 5205;Id., 10 ottobre 1985, n. 4939.

(100) Cfr. Tarzia, op. cit., 221 e seg.; in giurisprudenza Cass., 21 luglio 1998, n. 7177; Id. (ord.), 4 ottobre 1996, n. 728; Id., 9 settembre 1981, n. 5068; Id., 9 settembre 1981, n. 5068, che impone anche per il regolamento di competenza ex officio il limite preclusivo dell’udienza di discussione (contra su quest’ultimo punto Id., 8 novembre 1980, n. 6003, in Foro It., 1981, I, 733, con nota di Orsenigo). Contrario alla possibilità di sollevare regolamento di competenza d’ufficio è Proto Pisani, op. cit., 346, che ritiene abrogato l’art. 45 c. p. c. per incompatibilità con il nuovo art. 38 [sul punto cfr. anche Oriani, Il nuovo testo dell’art. 38 c. p. c. (art. 4 l. 353/90), in Foro It., 1991, V, 334 e segg., cui si contrappone Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1996, 26, che giustamente esclude un fenomeno di abrogazione tacita]. Sul tema v. anche Cass., Sez. un., 12 novembre 1999, n. 764/SU, secondo cui la pronuncia che dichiari l’incompetenza, a seguito di eccezione, rilevata d’ufficio o dalla parte, in violazione dei limiti temporali stabiliti per la sua rilevabilità, non è impugnabile con il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c., ma deve essere impugnata con l’appello (o, nel caso di declaratoria emessa in sede di appello, con il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 4, c.p.c.), in quanto l’error in procedendo così verificatosi non riguarda la competenza ma la violazione delle norme del procedimento attinenti al rilievo dell’eccezione; ed ha pertanto dichiarato inammissibile il regolamento di competenza, tanto su istanza di parte quanto d’ufficio.

(101) L’omessa indicazione della residenza o della sede non cagiona però alcuna nullità: Cass., 3 febbraio 1994, n. 1086;Id., Sez. un., 15 luglio 1991, n. 7827.

(102) Cfr. Cass., 3 gennaio 1986, n. 30.

(103) Cass., 6 ottobre 1998, n. 9899;Id., 1° dicembre 1987, n. 8943; Id., 11 giugno 1986, n. 3880. Montesano-Vaccarella, op. cit., 108 propendono invece per la sanabilità del vizio in udienza.

(104) Cfr. Tarzia, op. cit., 88; Montesano-Vaccarella, op. cit., 141 e seg. Si fondano invece sulla mera distinzione tra effetti processuali ed effetti sostanziali Pret. Avellino, 28 febbraio 1994, in Informazione prev., 1994, 410; Id. Verbania, 20 marzo 1995, ivi, 1995, 1641.

(105) Cass., 11 maggio 1984, n. 2874, in Foro It., 1984, I, 1827.

(106) Cass., 22 giugno 1982, n. 3799. Contra Id., 8 gennaio 1987, n. 44.

(107) V. Cass., 4 marzo 1998, n. 2374;Id., 24 giugno 1997, n. 5611; Id., Sez. un., 18 ottobre 1982, n. 5395, in Foro It., 1982, I, 3019, con nota di Proto Pisani.

(108) Tarzia, op. cit.,89; Cass., 22 ottobre 1985, n. 5189. Contra Id., Sez. un., 11 maggio 1992, n. 5597, in Foro It., 1992, I, 2089, con nota di Costantino, Successione di leggi nel tempo, criteri di competenza e controversie relative a rapporti di lavoro parasubordinato.

(109) Cass. 23 novembre 1992,n. 12489;Id., 17 gennaio 1992, n. 543; Id., 17 marzo 1990, n. 2257.

(110) Cfr. Tarzia, op. cit., 91 e segg. V. però Cass., 13 aprile 1987, n. 3681, in Giust. Civ., 1988, I, 229, con nota di critica di Luiso, Intorno all’obbligo delle parti di far intimare i testimoni per la prima udienza nel processo del lavoro, che impone l’intimazione dei testimoni già per l’udienza, prima di qualunque provvedimento di ammissione delle prove emanato dal giudice.

(111) Cfr. Tarzia, op. cit., 93, che profila una possibile questione di legittimità costituzionale, ove dovesse ritenersi superfluo l’avvertimento; questione di costituzionalità dichiarata inammissibile da Corte cost. (ord.), 23 aprile 1998, n. 146, in Giur. Cost., 1998, 1134, ma per pure ragioni di forma dei quesiti proposti dal giudice remittente.

(112) Cass., 19 gennaio 1998, n. 420;Id., 2 novembre 1995, n. 9288; Id., 16 agosto 1993, n. 8711.

(113) Si esclude la possibilità di abbreviazione del termine: Cass., 28 aprile 1995, n. 4719, in via di obiter dictum; Id., 2 giugno 1981, n. 3566; Montesano-Vaccarella, op. cit., 111; Tarzia, op. cit., 95.

(114) Cfr. Tarzia, op. cit., 97; Luiso, op. cit., 134; Montesano-Vaccarella, op. cit., 126; Merlo, In tema di sanatoria del ricorso nullo nel processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc., 1999, 200 e segg. Per un’applicazione solo analogica si esprime invece Proto Pisani, op. cit., 352 e segg. In giurisprudenza v. Pret. Lecce, 13 dicembre 1997, in D&L, 1999, 129.

(115) Per la rinnovazione della notificazione tanto in caso di inosservanza del termine a comparire quanto in caso di nullità della notifica v. Cass., Sez. un., 23 dicembre 1991, n. 13862, che applica l’art. 162 c. p. c.; Id., 12 febbraio 1994, n. 1399; Id., 13 novembre 1989, n. 4780 che applica l’ante vigente art. 164, parlando di sanatoria ex nunc; Id., 8 settembre 1986, n. 5484.

(116) Cass., 6 settembre 1995, n. 9385;Id., 29 aprile 1993, n. 5030; Id., 28 maggio 1990, n. 4936.

(117) Cfr. Garbagnati, Omissione od invalidità della notificazione prescritta dall’art. 435 c. p. c., in Riv. Dir. Proc., 1989, 326 e segg.; in giurisprudenza cfr., sia pure con riguardo al giudizio di appello, Cass., Sez. un., 29 luglio 1996, n. 6841 e Id., Sez. un., 25 ottobre 1996, n. 9331. Contra Tarzia, op. cit., 94, che ritiene che l’omessa notificazione del ricorso e del decreto cagioni l’estinzione del processo per inattività dell’attore. Sul tema v. anche Besso, Processo del lavoro e vizi della vocatio in jus, in Giur. It., 1995, IV, 88 e segg.

(118) Cass., 10 aprile 2000, n. 4529.

(119) V, da ultimo, Cass., 7 marzo 2000, n. 2572;Id., 1° marzo 2000, n. 2257; Id., 7 luglio 1999, n. 7089 (ove si ribadisce che la nullità è insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado); Id., 1° luglio 1999, n. 6714 (che, tra l’altro, reputa giustamente impossibile integrare aliunde le manchevolezze del ricorso); Id., 18 marzo 1999, n. 2519, e Id., 29 gennaio 1999, n. 817, che escludono sanatorie successive, anche se poi attenuano il rigore dell’orientamento osservando che, per dichiarare la nullità deve risultare assolutamente impossibile l’individuazione di petitum e causa petendi attraverso un esame complessivo dell’atto, in base ad una valutazione del giudice di merito insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione; v. anche Cass., 29 dicembre 1997, n. 13066 e, tra la giurisprudenza di merito, Pret. Roma, 20 dicembre 1998, in Lav. Giur., 1999, 759, con nota di critica di Guarnieri, Mancata quantificazione del «petitum» e nullità del ricorso; Id. Monza, 21 dicembre 1996, in Giur. It., 1997, I, 503 e segg.

(120) Per l’applicabilità della nuova disciplina dell’art. 164 c.p.c. anche in materia di vizi attinenti all’editio actionis si pronuncia la dottrina maggioritaria: v. Tarzia, op. cit., 100; Proto Pisani, op. cit., 361; Luiso, op. cit., 135 e seg.; sul tema in generale v. Merlo, In tema di sanatoria del ricorso nullo nel processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1999, 200 e segg. In giurisprudenza si veda la pronuncia (per ora isolata) di Id., 5 novembre 1998, n. 11149.

(121) Contra, parzialmente, Tarzia, op. loc. ult. cit., che, per il caso di mancata integrazione, opina per la necessità di una declaratoria di nullità del ricorso anziché di estinzione del giudizio.

(122) A questo termine si applica la regola generale sul computo fissata dall’art. 155 c.p.c.: non si tratta cioè di un termine libero e dies a quo non computatur ( Cass., 3 gennaio 1995, n. 26;Id., 2 aprile 1992, n. 4034; contra Id., 7 aprile 1988, n. 2739, in Giust. Cip., 1988, I, 2952, con nota critica di Pulitori, Termini liberi nel rito del lavoro?).

(123) Sull’operare delle decadenze v. Cass., 24 gennaio 1997, n. 717;Id., 24 giugno 1997, n. 5629, che ha ammesso il deposito di più memorie difensive, purché rispettose del termine di legge, salvo per l’eccezione di incompetenza per territorio che deve essere comunque contenuta nella prima difesa; Id., 25 novembre 1995, n. 12193; Id., 27 maggio 1995, n. 5970.

(124) Cfr. Cass., 1° luglio 1999, n. 6731;Id., 26 febbraio 1985, n. 1655.

(125) V. Tarzia, op. cit., 108 e seg.

(126) V. Cass., 8 gennaio 1997, n. 89;Id., 19 agosto 1996, n. 7630, ove efficacemente si osserva che la contestazione può essere fatta — salva l’applicazione degli artt. 88 e 92 c p.c. ove sia ravvisabile una violazione del dovere di lealtà e probità processuale — in qualsiasi momento, anche dal contumace che si costituisce tardivamente ed anche per la prima volta in appello, senza che la sua mancanza (pur potendo il giudice ricavarne elementi integrativi di convincimento) possa essere equiparata, quanto a effetto probatorio, ad una confessione o ammissione, e senza che l’attore ed il giudice possano esimersi l’uno dall’assolvimento dell’onere probatorio circa la sussistenza di quei fatti, e l’altro dalla verifica di tale assolvimento e comunque dall’accertamento dei fatti stessi; v. anche Cass., 13 marzo 1996, n. 2058; Id., 11 novembre 1995, n. 11736; Id., 2 giugno 1994, n. 5359.

(127) Cfr. Cass., 11 febbraio 1995, n. 1509, secondo cui la parte ha facoltà di proporre, alla prima udienza, quei nuovi mezzi di prova che si rendano necessari in relazione all’inaspettata contestazione sollevata dall’avversario su un fatto che poteva ragionevolmente considerarsi pacifico. Sull’onere di contestazione nel processo del lavoro v. Carratta, A proposito dell’onere di «prendere posizione», in Giur. It., 1997, I, 2, 151 e segg.; Frus, Note sull’onere del convenuto di «prendere posizione» nel processo del lavoro, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1991, 63 e segg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 122.

(128) V. Cass., 27 febbraio 1997, n. 1788;Id., 2 febbraio 1991, n. 1035.

(129) Cass., 18 giugno 1998, n. 6101.

(130) Cass., 14 luglio 1997, n. 6391;Id., 24 marzo 1997, n. 2582.

(131) Cass., 6 dicembre 1986, n. 7269;Id., 5 marzo 1983, n. 1648.

(132) Cfr. Cass., Sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099, che ha composto il precedente contrasto giurisprudenziale.

(133) Cass., Sez. un., 4 dicembre 1991, n. 13025;Id., 12 agosto 1993, n. 8652; Id., 1° marzo 2000, n. 2299.

(134) Cfr. Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 13, che ha respinto la relativa questione di legittimità costituzionale; Cass., 14 giugno 1986, n. 3985. In dottrina v. Tarzia, op. cit., 110; Montesano-Vaccarella, op. cit., 151.

(135) Cfr. Pret. Milano, 9 marzo 1999, in Lav. Giur., 1999, 6, 575 e seg.

(136) Cfr. ;Cass., Sez. un., 4 dicembre 1991, n. 13025 Id., 19 aprile 1995, n. 4347; Id., 13 giugno 1981, n. 3854.

(137) Cfr. Tarzia, op. cit., 112.

(138) V. Tarzia, op. cit., 112 e seg.

(139) Sul tema v. Monaci, La nuova disciplina della connessione e il processo del lavoro, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1995, 823 e segg.

(140) La disciplina è simile a quella dettata dall’art. 316 c. p. c. per le cause dinanzi al giudice di pace.

(141) Su quest’incompatibilità v. già Andrioli, Commento al c. p. c., II, Napoli, 1957, sub artt. 312, 354; nonché ora Tarzia, op. cit., 116 e segg.

(142) Sul tema v. Denti, voce «Assistenza giudiziaria ai non abbienti (II)», in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1988, 3 e segg.; Pezzano, voce «Patrocinio a spese dello Stato», in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 440 e segg.

(143) La norma era stata abrogata dall’art. 4, 2° comma, D. L. 19 settembre 1992, n. 384, conv. dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, caduto poi per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata da Corte cost., 13 aprile 1994, n. 134.

(144) Cass., 21 giugno 1999, n. 6277;Id., 5 maggio 1999, n. 4511; Id., 16 aprile 1999, n. 3810, impongono l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’appaltatore. Contra Id., 23 aprile 1999, n. 4067; Id., 2 aprile 1998, n. 3410. In dottrina v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 125 e segg.

(145) Cass., 22 aprile 1984, n. 1898;Id., 26 novembre 1998, n. 12021.

(146) Cfr. Tarzia, op. cit., 121; Montesano-Vaccarella, op. cit., 154; Luiso, op. cit., 157.

(147) Così Corte cost., 23 giugno 1983, n. 193 ha integrato il lacunoso dettato dell’art. 419 c.p.c. Peraltro, il mancato rinvio non è vizio rilevabile d’ufficio, trattandosi di norma posta a tutela del diritto di difesa delle parti controinteressate che dovranno sollevare la relativa eccezione (Cass., 23 ottobre 1991, n. 11258;Id., 10 aprile 1990, n. 3021).

(148) Su questa disciplina v. Tarzia, op. cit., 132; Montesano-Vaccarella, op. cit., 176; Luiso, op. cit., 160; Proto Pisani, voce cit., 385.

(149) Così Tarzia, op. cit., 132 e seg.; contra Luiso, op. cit., 162 e Proto Pisani, op. loc. cit., che lo consentono per tutto il giudizio di primo grado.

(150) Per quest’ultima fattispecie v. Cass., 16 aprile 1991, n. 4075.

(151) Sul tema, troppo vasto per essere affrontato funditus in questa sede, v. Romagnoli, Le associazioni sindacali nel processo, Milano, 1969; Tarzia, Le associazioni di categoria nei processi civili con rilevanza collettiva, in Riv. Dir. Proc, 1987, 774 e segg.

(152) Cass., 7 settembre 1995, n. 9430;Id., 1° settembre 1995, n. 9243; Id., 25 maggio 1995, n. 5754.

(153) Cfr. Cass., 16 luglio 1997, n. 6532;Id., 2 luglio 1994, n. 6280; nonché Id., 5 febbraio 1983, n. 1010, la quale, pur ribadendo che l’omessa riunione non cagiona alcuna nullità, rileva che l’inosservanza dell’art. 151, 1° comma, disp. att. c. p. c. ben può fondare un provvedimento con cui il giudice escluda la ripetizione delle spese superflue e/o compensi le spese tra le parti.

(154) Sul significato processuale del termine v. Mandrioli, Sulla nozione di «irregolarità» nel processo civile, in Riv. Dir. Civ., 1977, 509 e segg.

(155) Tarzia, op. cit., 126 e seg.

(156) Secondo Cass., 2 febbraio 1996, n. 894, in Nuova Giur. Cotnm., 1996, I, 823, con nota di Gamba, non esiste alcun obbligo di differire l’udienza di discussione su richiesta del difensore di una delle parti, allorché questi assuma la propria impossibilità di discutere immediatamente la causa.

(157) V. Chiovenda, Sul rapporto fra le forme del procedimento e la funzione della prova. L’oralità e la prova, in Saggi dir. proc. civ., II, Roma, 1931, rist. dell’edizione originale, Milano, 1993, 197 e segg.

(158) La veste di procuratore speciale della parte può, in astratto, essere affidata allo stesso difensore della parte, nel rispetto delle forme ricordate nel testo (atto pubblico o scrittura privata autenticata da pubblico ufficiale), non essendo sufficiente una semplice integrazione della procura ad litem apposta a margine o in calce all’atto con la menzione del potere di transigere o conciliare la controversia: pare però sconsigliabile che vengano cumulate le due funzioni di difensore e di procuratore ad negotia della parte (sul tema cfr. Cass., 25 marzo 1983, n. 2096;Prêt. Milano, 10 gennaio 1994, in Gius, 1994, 8, 224; nonché Tarzia, op. cit., 144 e seg.).

(159) Che poi, in iure condito, l’inosservanza di tale dovere da parte del giudice resti sostanzialmente priva di sanzione processuale giacché il giudice di appello che rilevi tale vizio non può rimettere la causa in primo grado ai sensi dell’art. 354 c. p. c., ma deve pronunciarsi nel merito, è rilievo che, pur rendendo assai poco efficace l’enunciato dovere, non sminuisce la portata della norma per una corretta formazione del giudizio: sul tema v. — oltre a Tarzia, op. cit., 140 e segg. (spec, in nota 140), che ricorda le esplicite norme contenute nella ZPO tedesca al § 278 (1) e all’art. 16 del Nouveau Code de procedure civile francese — Montesano-Vaccarella, op. cit., 164; Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. Dir. Proc, 1966, 580 e segg.; nonché per alcuni rilievi critici Chiarloni, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e «formalismo delle garanzie», in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1987, 569 e segg.

(160) Cfr. esplicitamente Tarzia, op. cit., 141.

(161) V. Cass., 9 gennaio 1997, n. 134;Id., 25 ottobre 1995, n. 11081, che fa espresso riferimento alle esigenze di tutela del contraddittorio; Id., 22 aprile 1995, n. 4555; Id., 14 marzo 1991, n. 2693, in relazione ad un aumento quantitativo dell’originaria domanda costituente mera emendatio libelli; Trib. Roma, 6 agosto 1997, in Lav. Giur., 1998, 159. Sulla distinzione tra mutatio ed emendatio libelli v., in generale, Gasbarrini, Osservazioni in tema di modifica della domanda, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1995, 1253 e segg. Sul divieto di mutatio libelli v. Cass., 20 giugno 2001, n. 8423, in Foro It., 2001, I, 3123.

(162) V. Cass., 1° ottobre 1997, n. 9612;Id., 5 maggio 1997, n. 3910; Id., 2 agosto 1996, n. 6996, che parla di «elementi chiarificatori e sussidiari del convincimento del giudice». In dottrina v. Tarzia, op. cit., 137 e seg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 166; Bernasconi, Sulla efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, in Riv. Dir. Proc, 1996, 619 e segg.

(163) V. Cass., 20 maggio 1995, n. 5590 e Id., 23 giugno 1992, n. 7665, che sottolineano la possibilità di porre direttamente a base della decisione le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, ma precisano che il giudice non può omettere di dare ingresso alle altre prove proposte dalle parti, successivamente valutandole. V. anche Tarzia, op. loc. cit., spec, in nota 130.

(164) Sull’operare della non contestazione sul piano degli oneri probatori cfr. Cass., 20 gennaio 1997, n. 551;Id., 13 marzo 1996, n. 2058; Id., 26 gennaio 1996, n. 600; Id., 19 agosto 1994, n. 7447; Id., 2 marzo 1995, n. 2415; Id., 19 agosto 1994, n. 7447; Id., 10 novembre 1990, n. 10849; Id., 6 marzo 1982, n. 1435. Sul tema in generale v. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, 453 e segg.

(165) Cass., 9 giugno 1998, n. 5710;Id., 21 ottobre 1995, n. 10958; Id., 7 settembre 1995, n. 9430. Contra Tarzia, op. cit., 141 e seg.; Guarnieri, Sull’omissione dell’interrogatorio libero nel processo del lavoro e previdenziale, nota a Cass., 8 marzo 1978, n. 1171, in Giur. It., 1979, I, 1, 320.

(166) Il che è indiscusso: v. Cass., 15 marzo 1999, n. 2306; Id., 24 giugno 1998, n. 6272; Id., 20 settembre 1997, n. 9328; Id., 3 gennaio 1995, n. 24; Id., 13 maggio 1982, n. 2994. In dottrina Luiso, op. cit., 186; Tarzia, op. cit., 148 e seg.

(167) Sul tema in generale v. Cavallone, Principio dispositivo, fatti secondarii e fatti «rilevabili ex officio», in II giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 99 e segg. Con riguardo al processo del lavoro v. Tarzia, op. cit., 148; Montesano-Vaccarella, op. cit., 189; Luiso, op. cit., 186; Vallebona, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, 37 e segg.

(168) V, da ultimo, Cass., 22 novembre 1999, n. 12926.

(169) V, explurimis, Cass., 26 febbraio 2000, n. 2192;Id., 29 novembre 1999, n. 13352; Id., 16 gennaio 1999, n. 410.

(170) Cass., 10 dicembre 1999, n. 13854;Id., 22 novembre 1999, n. 12926; Id., 10 novembre 1999, n. 12492; Id., 7 dicembre 1998, n. 12375. Contra Id., 22 gennaio 1999, n. 613, secondo cui l’onere di eccepire e di provare l’insussistenza del requisito in discorso grava sul datore di lavoro.

(171) Cass., 12 novembre 1996, n. 9896;Id., 2 settembre 1996, n. 8020; per alcune attenuazioni v. però Id., 23 giugno 1998, n. 6230.

(172) Cass., Sez. un., 13 gennaio 1997, n. 262, in Foro It., 1997, I, 1506, con nota di Farnararo, a composizione del precedente contrasto giurisprudenziale: v. poi Id., 2 giugno 1998, n. 5413, in Giust. Civ., 1999, I, 193 e segg., con nota di Gatti; Id., 6 aprile 1998, n. 3530.

(173) Cfr. Tarzia, op. cit., 150 e seg.

(174) V. De Santis, La rimessione in termini nel processo civile, Torino, 1997,311 e segg.

(175) Per alcune riflessioni critiche su questa norma v. Cavallone, Crisi delle «Maximen» e disciplina dell’istruzione probatoria, in II giudice e la prova, cit., 289 e segg.

(176) V. Montesano-Vaccarella, op. cit., 192.

(177) Cass., 1° ottobre 1997, n. 9596;Id., 13 aprile 1987, n. 3681, in Giust. Civ., 1988, I, 229, con nota di Luiso, Intorno all’obbligo delle parti di far intimare i testimoni per la prima udienza nel rito del lavoro.

(178) Che è applicabile al rito del lavoro: v. Cass., Sez. un., 13 gennaio 1997, n. 264.

(179) V., ex multis, Cass., 15 gennaio 1998, n. 310, in Giust. Civ., 1998, I, 2259, con nota di Todde, Brevi osservazioni in tema di poteri officiosi del giudice del lavoro; Id., 25 ottobre 1997, n. 10522; Id., 12 febbraio 1997, n. 1304; Id., 2 agosto 1996, n. 6995; Id, 20 aprile 1995, n. 4432. In dottrina Tarzia, op. cit., 153 e seg.

(180) V. Cass., 9 giugno 1994, n. 5590, secondo cui il potere del giudice di disporre d’ufficio mezzi istruttori presuppone l’incertezza o l’incompletezza del materiale probatorio acquisito, e non l’esistenza di oggettive e non imputabili difficoltà di una delle parti nell’acquisizione delle prove; nonché Cass., 15 aprile 1994, n. 3549.

(181) Cass., 28 ottobre 1995, n. 11255;Id., 16 giugno 1995, n. 6828; Id., 7 ottobre 1994, n. 8229; Id, 28 ottobre 1989, n. 4525.

(182) Cass, 9 ottobre 1996, n. 8838; Id, 24 novembre 1993, n. 11588; Id, 1° ottobre 1991, n. 10206; Id, 12 gennaio 1988, n. 117.

(183) Cass, 8 aprile 1994, n. 3302.

(184) Il limite soggettivo fissato dall’art. 247 c.p.c. per il coniuge, i parenti e gli affini in linea retta è, invece, caduto per effetto della declaratoria di incostituzionalità pronunciata da Corte cost, 23 luglio 1974, n. 248, su cui v. criticamente Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, 2000, 105 e segg.

(185) Per una fattispecie v. Cass, 4 agosto 1998, n. 7661. Non sussiste invece incapacità a testimoniare in capo a soggetti coinvolti in cause connesse: v. Id, 4 marzo 1997, n. 1887; Id, 14 luglio 1993, n. 7800. Né in capo al procuratore speciale incaricato dall’azienda di partecipare all’interrogatorio libero: Id, 13 marzo 1996, n. 2058. In dottrina v. Montesano, L’interrogatorio lìbero dei «terzi interessati» dopo la sentenza costituzionale n. 248 del 1974, in Riv. Dir. Proc., 1975, 222 e segg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 203; Tarzia, op. cit., 164 e segg.

(186) Cfr. Tarzia, op. cit., 152, nonché Cass, 21 gennaio 1999, n. 547, essendo possibile anche nel rito del lavoro l’interrogatorio formale delle parti pur dopo l’espletamento dell’interrogatorio libero, attesa la differente funzione di essi e sempre che sia deferito a persona capace di disporre del diritto controverso (cfr. Tarzia, op. cit., 174; Montesano-Vaccarella, op. cit., 199 e segg.).

(187) Sul giuramento decisorio nel processo del lavoro v. Cass, 2 febbraio 1999, n. 861; Id, 28 ottobre 1997, n. 10628. In dottrina Guarnieri, Interrogatorio libero, giuramento decisorio e onere di conoscenza dei fatti della causa nel processo del lavoro, in Mass. Giur. Lav., 1996, 113 e segg, in nota a Id, 8 febbraio 1985, n. 1022. Sul giuramento suppletorio v. Id, 25 novembre 1996, n. 10441; Id, 22 marzo 1994, n. 2715, in Riv. Dir. Proc., 1995, 577 e segg, con nota di Ferrari, Ammissione del giuramento suppletorio da parte del giudice di primo grado e poteri del giudice d’appello in tema di apprezzamento della semipiena cognitio; Id, 10 novembre 1989, n. 4732.

(188) V. giustamente Tarzia, op. cit., 170, a confutazioni di altre opinioni avanzate in dottrina.

(189) Cfr. Cass, 22 aprile 1995, n. 4572; Id, 23 luglio 1994, n. 6845; Id, 19 gennaio 1990, n. 276, che giustamente esige che le associazioni siano indicate dalle parti, essendo esclusa la possibilità di verbalizzare notizie offerte da persone estranee alle associazioni stesse e non espressamente indicate come legittimate a renderle; e, analogamente, Id, 1° febbraio 1988, n. 871, in Giust. Civ., 1988, I, 1527, con nota di Luiso, Richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali o ai sindacalisti?, secondo cui le informazioni e osservazioni delle associazioni sindacali che, pur non costituendo mezzo di prova, possono fornire al giudice presunzioni semplici, non sono tuttavia utilizzabili se non siano state rispettate le previsioni degli artt. 421 e 425 c.p.c., cioè se la persona che rende le informazioni non appartiene più al sindacato o non ne è il rappresentante designato; Cass, 25 febbraio 1982, n. 1219; Pret. Bologna, 7 maggio 1982, in Giust. Civ., 1983, I, 686, con nota di Vaccarella, Informazioni e osservazioni delle associazioni sindacali nel processo del lavoro.

(190) Cass, 29 luglio 1994, n. 7103.

(191) V. Cass, 25 marzo 1997, n. 2633. Sui contratti collettivi nel pubblico impiego v. però infra al par. 32.

(192) Per la segnalazione del «pasticcio» in cui è incorso il legislatore nel richiedere l’istanza di parte per l’accesso sul luogo di lavoro, anziché affidarlo all’eventuale iniziativa dell’ufficio v. Cavallone, II principio inquisitorio nell’art. 47 della legge sull’«equo canone», in II giudice e la prova, cit., 329 e seg, che evidenzia come il legislatore locatizio abbia rettificato l’errore, prevedendo l’ispezione dell’immobile anche ex officio.

(193) Cass, 11 agosto 1982, n. 4508.

(194) Tarzia, op. cit., 162.

(195) Sul tema, troppo vasto per essere esaminato in questa sede, v. Taruffo, Frove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. Dir. Proc, 1973, 389 e segg.; Cavallone, Critica alla teoria delle prove atipiche, in Il giudice e la prova, cit., 335 e segg. Sull’utilizzo delle prove atipiche nel processo del lavoro v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 184 e segg.; e per una fattispecie Cass., 19 novembre 1999, n. 12884 che, sul piano argomentativo, ammette l’utilizzazione di prove atipiche proprio in relazione agli ampii poteri istruttorii del giudice del lavoro.

(196) Cass., 27 novembre 1997, n. 11999.

(197) V. Cass., Sez. un., 13 gennaio 1997, n. 262 e supra in nota 172.

(198) Cass., 10 novembre 1998, n. 11334;Id., 20 agosto 1996, n. 7670; Id., 22 marzo 1986, n. 2040, ove si sottolinea che il principio di immediatezza e di concentrazione del giudizio si risolve non già nel divieto di delegare l’espletamento di mezzi istruttori ad altro giudice, bensì in un semplice e ulteriore limite al potere discrezionale, riservato al giudice dall’art. 203 c.p.c., di disporre l’assunzione di mezzi di prova fuori dall’ambito territoriale di sua competenza, con delega ad altro giudice e con provvedimento che va adeguatamente motivato. V. Montesano-Vaccarella, op. cit., 197 e seg.; Luiso, op. cit., 200; Tarzia, op. cit., 158.

(199) Cass., 3 novembre 1992, n. 11906.

(200) Sull’applicabilità dell’art. 208 anche alle controversie di lavoro v. Cass., 3 dicembre 1998, n. 12279;Id., 4 maggio 1991, n. 4906; Id., 24 maggio 1986, n. 3507. In dottrina v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 198; contra, parzialmente, Tarzia, op. cit., 160, che sulla base dei poteri istruttorii ufficiosi del giudice del lavoro propende per la necessità di procedere egualmente all’assunzione.

(201) Cass., 27 luglio 1998, n. 7371;Id., 12 luglio 1995, n. 7611; Id., 7 giugno 1995, n. 6368; Id., 13 aprile 1987, n. 3681. V. anche Id., 16 aprile 1997, n. 3275, che ha giustamente escluso la necessità di intimare i testi già per la prima udienza. Per la necessità di notificare le intimazioni a cura dell’ufficio si pronuncia invece Tarzia, op. cit., 173 e seg.

(202) Cass., 19 agosto 1995, n. 8927;Id, 7 maggio 1993, n. 5265; Id., 23 luglio 1993, n. 8380; Id., 7 maggio 1993, n. 5265.

(203) Cass., 19 gennaio 1995, n. 552, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, II, 189, con nota di Vannucci, Natura, requisiti processuali e conseguenze dell’eccezione fondata su transazione non tempestivamente impugnata; Cass., 3 febbraio 1986, n. 643. In dottrina v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 206; Luiso, op. cit., 202.

(204) Cfr. Tarzia, op. cit., 178.

(205) Sulla necessità di evitare irrigidimenti eccessivi del sistema delle preclusioni v. Proto Pisani, voce cit., 367 e segg.

(206) Corte cost, 6 giugno 1989, n. 317.

(207) Per analoga soluzione v. Tarzia, op. cit., 181 e seg.

(208) Cass, 18 giugno 1998, n. 6110. V. però Id, 3 febbraio 1996, n. 916, secondo cui le altre circostanze di fatto che l’ispettore segnali di avere accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria.

(209) V, da ultimo, Cass, 22 maggio 1999, n. 5000.

(210) Cass, 27 novembre 1996, n. 10529.

(211) Cass, 10 luglio 1998, n. 6769; Id, 14 settembre 1995, n. 9715, che ribadisce che l’ordine di esibizione deve essere volto a ottenere la dimostrazione di un fatto determinato non acquisibile aliunde e non deve possedere carattere «esplorativo»; l’ordine è affidato alla completa discrezionalità del giudice (Cass, 23 novembre 1994, n. 9929).

(212) Cass, 16 marzo 1996, n. 2205; Id, 10 gennaio 1996, n. 132.

(213) In questo senso v. Tarzia, op. cit., 185 e seg.; in giurisprudenza Cass, 8 agosto 1989, n. 3647 e Id, 19 aprile 1983, n. 2698. Contra Id, 9 aprile 1999, n. 3488; Id, 4 aprile 1985, n. 2337; Id, 24 febbraio 1982, n. 1154; Id., 3 settembre 1981, n. 5037, che parlano di nullità relativa, la quale va eccepita dalla parte nella prima difesa utile successiva alla scadenza del termine.

(214) Cass., 11 giugno 1999, n. 5794;Id., 5 dicembre 1998, n. 12354, secondo cui nelle controversie in materia di previdenza e assistenza che richiedono accertamenti tecnici, la nomina di un consulente tecnico è obbligatoria per il giudice di primo grado ai sensi dell’art. 445 c. p. c., mentre è facoltativa per il giudice d’appello, il quale, tuttavia, è tenuto, a pena di nullità del procedimento di secondo grado, a disporre la suddetta consulenza ove essa risulti omessa nel giudizio di primo grado; Cass., 27 marzo 1986, n. 2187.

(215) Sulle ordinanze anticipatone nel processo del lavoro v., da ultimo, Cosattini, Ordinanze anticipatone di pagamento somme nel processo del lavoro, in Lav. giur, 1997, 3, 197 e segg.

(216) Cfr., per tutti, Tarzia, op. cit., 234 e seg.

(217) In questo senso v., invece, Proto Pisani, voce cit., 402; Cass., 4 ottobre 1984, n. 4941 (che però non ammette l’ordinanza sulla base della mera contumacia del convenuto, ma richiede che sussistano altri elementi a suffragio dell’istanza: ciò, peraltro, contraddice il senso della non contestazione); Id., Sez. un., 12 aprile 1980, n. 2321, in Foro It., 1980, I, 1919 e Trib. Trani, 30 settembre 1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 150 e segg., con nota di Carratta, A proposito dell’onere di «prendere posizione»; contra esplicitamente Tarzia, op. loc. cit.; MontesanoVaccarella, op. cit., 225; Luiso, op. cit., 226. Si noti che nell’art. 186 bis c. p. c. esige espressamente che la parte intimata sia costituita.

(218) Così invece Borghesi, Le condanne anticipate nel processo del lavoro e nella «miniriforma» del c. p. c., in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1976, 660 e segg. e Cass., Sez. un., 21 dicembre 1990, n. 12132. MonTesano-Vaccarella, op. cit., 224, l’accostano all’ordinanza di convalida di sfratto fondata sulla mancata opposizione dell’intimato ex art. 663 c.p.c. Tarzia, op. cit., 238 e seg. vi ravvisa invece un contenuto negoziale che renderebbe l’ordinanza irrevocabile, se non quando ne manchino completamente i presupposti. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a Merlin, L’ordinanza di pagamento di somme non contestate (dall’art. 423 all’art. 186 bis c. p. c.), in Riv. Dir. Proc, 1994, 1009 e segg.; Collia, Ordinanze di pagamento delle somme non contestate e natura cautelare, nota a Trib. Milano, 28 febbraio 1994, in Lav. giur, 1994, 1255 e segg.; Zucchi, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1991, 1025 e segg.

(219) Cass., Sez. un., 26 settembre 1997, n. 9479, in Giust. Civ., 1998, I, 2291, con nota adesiva di Fornaciari, Ordinanza ex art. 423 c. p. c. e appello: due mondi giustamente incomunicanti, e in Giur. It., 1998, 1833, con nota critica di Carratta, Sui rimedi esperibili avverso le ordinanze dell’art. 423 c. p. c.; Id., Sez. un., 21 luglio 1997, n. 9479, ibidem; Id., Sez. un., 22 dicembre 1987, n. 9567; sulla riduzione del thema probandum v. anche Id., 24 novembre 1998, n. 11919. In dottrina cfr. Montesano-Vaccarella, op. cit., 227 e segg.

(220) Cfr. Tarzia, op. cit., 239, che fonda Pultrattività dell’ordinanza sul carattere negoziale di essa.

(221) Cfr. Corte cost., 26 maggio 1981, n. 76, che ha respinto la questione di costituzionalità sollevata per violazione dell’art. 3 Cost. La norma si applica anche ai superstiti del lavoratore: Id., 14 gennaio 1977, n. 16.

(222) Sul carattere sommario dell’accertamento v. Tarzia, op. cit., 242; Luiso, op. cit., 228; Carrata, Profili sistematici della tutela anticipatoria, Torino, 1998, 266 e segg. V. anche Montesano-Vaccarella, op. cit., 231; Proto Pisani, voce cit., 402.

(223) Cfr. Tarzia, op. cit., 241, secondo cui la condanna generica è consentita nel processo del lavoro solo quando costituisce l’unico oggetto della domanda; contra Proto Pisani, voce loc. cit., che, a fronte della facoltà concessa al lavoratore dal 2° comma dell’art. 423, espressamente riconosce al datore di lavoro la possibilità di chiedere una condanna generica del lavoratore.

(224) V. espressamente Trib. Napoli, 22 febbraio 1995, in Gius, 1995, 1863, con nota di Mutarelli; Tarzia, op. cit., 244 in nota 356, ove ulteriori riferimenti.

(225) Tarzia, op. cit., 244; contra Montesano-Vaccarella, op. at., 235.

(226) Tarzia, op. loc. at.; Cass., 13 febbraio 1989, n. 880;contra Luiso, op. cit., 228.

(227) Cfr. Tarzia, op. cit., 245; Montesano-Vaccarella, op. cit., 230; Prêt. Milano, 14 marzo 1996, in Orient. Giur. Lav., 1996, 276.

(228) Tarzia, op. cit., 245 e seg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 232; E. F. Ricci, in Leggi civ. comm., 1996, 659. Contra Prêt. Massa, 28 agosto 1995, in Corriere Giur, 1995, 1406 e segg., con nota di Consolo, Attese e problemi sul nuovo art. 186 quater (fra condanna interinale e sentenza abbreviata).

(229) Sull’istituto v. Borghesi, Licenziamenti individuali e ordinanza di reintegra ex art. 18, comma 4°, dello statuto dei lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1972,1, 437 e segg.

(230) Sull’incompatibilità del giudice che ha emesso il provvedimento di repressione della condotta antisindacale v. la sentenza interpretativa di rigetto emessa da Corte cost., 15 ottobre 1999, n. 387.

(231) Cfr. Costantino, Sull’accertamento pregiudiziale dell’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi, in Corriere Giur., 1998, 966 e segg.

(232) In questo senso v. Gragnoli, Profili dell’interpretazione dei contratti collettivi, Milano, 1999, 258 e segg.; De Angelis, in AA. VV., Il nuovo processo del lavoro. Il dibattito, Atti del convegno UIL 26 gennaio 1999, Roma, 2000, 23 e segg. In giurisprudenza v. Pret. Pistoia, ord. 26 maggio 1999, in Foro It., 1999, I, 2133.

(233) Contra Trib. Brescia, ord. 9 maggio 2000, in Foro It., 2000, I, 2682, che esclude qualunque discrezionalità; in dottrina Luiso, in AA. VV., Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo a cura di Dell’Olio-Sassani, Milano, 2000, 359. Sul tema v. anche Bollani, L’interpretazione del contratto collettivo alla luce della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 80/1998, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, I, 402 e segg.

(234) V’è da chiedersi, però, che cosa accada se l’interpretazione autentica consensuale dell’A.R.A.N. con le organizzazioni sindacali interviene dopo il novantesimo giorno, ma prima dell’udienza fissata per la prosecuzione del processo: in questa (remota) ipotesi non è plausibile che il giudice si sottragga al dictum delle parti collettive rilevando, scilicet, la «decadenza» del loro potere interpretativo.

(235) Sul problema v. le diverse opinioni di Tarzia, op. cit., 231, nota 329; Briguglio, La Cassazione e le controversie in materia di pubblico impiego trasferite alla giurisdizione ordinaria, in Riv. Dir. Proc, 1998, 1037 e segg.; Id., Le funzioni della Corte di cassazione e l’accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi, in AA. VV, Processo del lavoro, cit., a cura di Perone e Sassani, 88 e segg. e 94 e segg.; Costantino, op. cit., 972; Luiso, in AA. VV, Amministrazioni pubbliche, cit., a cura di Dell’Olio e Sassani, 371 e seg.

(236) V, da ultimo, ;Cass., 1° luglio 1999, n. 6799 Id., 24 marzo 1998, n. 3132; Id., 26 agosto 1997, n. 8048.

(237) Cfr. Costantino, op. loc. cit.

(238) Il termine per riassumere il processo è di sei mesi e, ai sensi dell’art. 297 c. p. c. quale integrato da Corte cost., 4 marzo 1970, n. 34, decorre dal giorno in cui le parti hanno avuto conoscenza della pronuncia della Corte di cassazione, non applicandosi il termine di sessanta giorni ex art. 64, 4° comma, legge cit., che ovviamente vale solo per le parti del giudizio di cassazione.

(239) V criticamente Tarzia, op. cit., 231 e seg., nota 330, che parla di una categoria speciale di interventori adesivi-dipendenti ex art. 105, 2° comma, c. p. c.

(240) V. un accenno incidenter tantum in Trib. Brescia, ord. 9 maggio 2000, in Foro It., 2000, I, 2684, che enumera le norme sulla libertà sindacale (art. 39 Cost.) e sui limiti del legislatore delegato in relazione a un possibile eccesso di delega (art. 76 Cost.); in dottrina v. Bollani, op. cit., 402 e segg.

(241) Cass., 2 febbraio 1996, n. 894.

(242) Cass., 3 luglio 1981, n. 4325.

(243) Semmai con l’ausilio di note o appunti: cfr. Cass., 17 febbraio 1998, n. 1668, che ha escluso la nullità della sentenza che abbia utilizzato lo scritto predisposto dal difensore per la discussione orale, parificandolo incongruamente a un testo di legge o di giurisprudenza o di dottrina richiamato nella discussione.

(244) Cass., 12 novembre 1998, n. 11458.

(245) La giurisprudenza consente, peraltro, un rinvio per prosecuzione della discussione orale o anche solo per lettura del dispositivo: cfr. Cass., 18 febbraio 1998, n. 1729;Id., 24 agosto 1996, n. 7815; Id., 19 gennaio 1984, n. 480; Id., 4 ottobre 1982, n. 5086, in Giur. It., 1983, I, 1, 1285, con nota di critica di Guarnieri, Sulle conseguenze, nel processo del lavoro, del rinvio della lettura del dispositivo ad una udienza successiva.

(246) Conviene ricordare che il verbale attestante l’avvenuta lettura del dispositivo in udienza fa fede fino a querela di falso: Cass., 9 marzo 1984, n. 1639;Id., 17 ottobre 1983, n. 6073.

(247) Cass., 28 giugno 1997, n. 5818;Id., 16 luglio 1996, n. 6427; Id., Sez. un., 17 gennaio 1987, n. 299; Id., Sez. un., 22 giugno 1977, n. 2632, in Riv. Dir. Proc, 1978, 546, con nota di critica di Guarnieri, In tema di omessa lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, che sostiene trattarsi di una mera irregolarità. In dottrina v. Guarnieri, Sulla lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc., 1983, 481 e segg., spec. 504 e segg.

(248) Cass., 10 maggio 1999, n. 4620;Id., 16 luglio 1996, n. 6427, cit.; Id., 4 novembre 1995, n. 11517. Né l’appello può fondarsi unicamente sulla mancata lettura del dispositivo: Id., 8 agosto 1987, n. 6799.

(249) Cfr. Luiso, op. cit., 310.

(250) È nullo il dispositivo letto nei locali dell’azienda per carenza del requisito di pubblicità dell’udienza: su questa particolare fattispecie v. Trib. Milano, 2 novembre 1977, in Riv. Dir. Lav., 1978, II, 1308.

(251) L’omessa sottoscrizione provoca la cosiddetta inesistenza della sentenza ex art. 161, 2° comma, c. p. c., con obbligo per il giudice di appello di rimettere la causa in primo grado ex art. 354 c.p.c.: ;Cass., 14 febbraio 1996, n. 1122 cfr. anche Id., 3 febbraio 1999, n. 927; Id., Sez. un., 15 luglio 1991, n. 7828.

(252) Cfr. Cass., 10 novembre 1998, n. 11336;Id., 18 febbraio 1998, n. 1733, ove si precisa che l’errore contenuto nella decisione espressa nel dispositivo non può essere corretto dallo stesso giudice in sede di motivazione e, ove ciò avvenga, la difformità fra motivazione e dispositivo costituisce causa di nullità della sentenza, non potendo trovare applicazione il principio della possibilità di integrazione del dispositivo con la motivazione della sentenza (sul quale v. Cass., Sez. un., 18 febbraio 1997, n. 1481), né il procedimento di correzione ex art. 287 c. p. c.; Id., 15 gennaio 1996, n. 279, secondo cui le proposizioni contenute nella motivazione e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte e non sono suscettibili di passare in giudicato (analogamente Id., 9 agosto 1997, n. 7425).

(253) Cass., 20 marzo 1987, n. 2799.

(254) V., da ultimo, Cass., Sez. un., 8 giugno 1998, n. 5617, che giustamente fa salva la possibilità di proporre una nuova impugnazione anche dopo la declaratoria di inammissibilità e sempre che non siano decorsi i termini; v. anche Cass., 14 marzo 1990, n. 2062.

(255) V. Cass., 5 giugno 1996, n. 5240;Id., 21 settembre 1995, n. 10017; Id., 24 giugno 1995, n. 7196, ove si ribadisce che l’azione di mero accertamento — relativamente alla quale sussiste l’interesse ad agire quando vi sia la possibilità di conseguire, con il giudizio, un risultato giuridicamente apprezzabile — non può avere per oggetto una mera situazione di fatto (salvi i casi eccezionalmente previsti dalla legge), ma deve tendere all’accertamento di un diritto che sia già sorto e che possa competere all’attore, sempre che sussista un pregiudizio attuale, e non meramente potenziale, che non possa essere eliminato senza una pronuncia giudiziale.

(256) Sulla tutela costitutiva nei rapporti di lavoro v. Cass., 25 ottobre 1993, n. 10563, in Lav. giur., 1994, 453, con nota di Guarnieri, Retroattività della sentenza costitutiva del rapporto di lavoro ex art. 2932 c. c. Id., 20 aprile 1995, n. 4436, peraltro, esclude che sia esperibile un’azione costitutiva per un obbligo legale di assunzione, essendo rimessa esclusivamente alle parti la determinazione dei concreti elementi del rapporto. In dottrina v. Russo, Sentenza costitutiva e rapporto di lavoro, in Dir. e Prat. Lav., 1988, 1157 e segg.

(257) Cfr., sulle sentenze parziali di merito, Cass., 23 gennaio 1998, n. 640;Id., 30 maggio 1991, n. 6113. In dottrina v. Toto, La sentenza non definitiva nel processo del lavoro, in Giust. Civ., 1996, II, 425 e segg.

(258) Cass., 29 novembre 1995, n. 12381;Id., 7 settembre 1993, n. 9389.

(259) Cass., 22 agosto 1997, n. 7888 (che ammette una domanda limitata all‘an debeatur, con riserva di agire in separato giudizio per la quantificazione); Id., 20 marzo 1992, n. 3503 e Id., 3 luglio 1992, n. 8129.

(260) Cass., 28 agosto 1986, n. 5300, che fa salva altresì la possibilità di appello con riserva dei motivi; Id., 30 ottobre 1981, n. 5736.

(261) Per questo regime v. Tarzia, op. cit., 282 e seg.; Cass., 20 novembre 1991, n. 12455; Id., 14 febbraio 1990, n. 1084; Id., Sez. un., 18 febbraio 1989, n. 955.

(262) Sul tema v. De Angelis, Rivalutazione e interessi sui crediti di lavoro: una modifica clandestina?, in Riv. it. dir. lav., 1995, I, 439 e segg.

(263) Cass., 4 gennaio 1995, n. 96;Id., Sez. un., 30 maggio 1989, n. 2627.

(264) V. già Cons, di Stato, Ad. plen., 15 giugno 1998, n. 3, in Foro Amm., 1998, 1683; Id., Sez. V, 10 febbraio 1998, n. 154, ibidem, 412; Corte cost., 27 marzo 1986, n. 52, in Giur. It., 1987, I, 1, 620, con nota di Carella, La rivalutazione dei crediti da lavoro dei dipendenti pubblici.

(265) Per effetto di Corte cost., 12 aprile 1991, n. 156, in Foro It., 1991, I, 1321, con nota di Pardolesi, Crediti previdenziali, «tutela differenziata» e «punitive damages», e di Tartaglia, II «modesto consumatore»… va in pensione, e successivamente grazie alle norme contenute negli artt. 16 L. 30 dicembre 1991, n. 412 e 22, 36° comma, legge n. 724/1994.

(266) Corte cost., 27 aprile 1993, n. 196, in Giur. It., 1994, I, 4.

(267) Cass., 7 febbraio 1996,n. 976;Id., Sez. un., 5 aprile 1991, n. 3561.

(268) Cass., 15 gennaio 1996, n. 275.

(269) Cass., 17 dicembre 1998, n. 12640.

(270) Cass., Sez. un., 16 febbraio 1984, n. 1146.

(271) Per tutte v. ;Cass., 12 novembre 1992, n. 12169 Id., 21 maggio 1992, n. 6108.

(272) Cfr. Cass., 7 luglio 1997, n. 6127;Id., 16 maggio 1996, n. 4534.

(273) La norma però si applica solo ai dipendenti pubblici, atteso che Corte cost., 2 novembre 2000, n. 459, in Foro It., 2001, I, 35, con nota di Pardolesi, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale «nella parte in cui estende tale regime ai dipendenti privati». È poi intervenuta la Cass., Sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38/SU, in Foro It., 2001, 845, con nota di Pardolesi, che (richiamandosi a Id., Sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712, in Foro It., 1995, I, 1470, con nota di De Marzo, Debiti di valore e «overcompensation», e Valcavi, A proposito della teoria dei crediti di valore, della rivalutazione e degli interessi moratori nel risarcimento del danno) ha comunque stabilito che «in caso di tardivo adempimento dei crediti di lavoro subordinato, gli interessi legali devono essere calcolati sul capitale rivalutato con scadenza periodica dal momento dell’inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore». Per l’interpretazione precedente alla declaratoria di incostituzionalità cfr. Cass., 18 gennaio 1999, n. 440;Id., 23 gennaio 1999, n. 651; Id., 24 luglio 1999, n. 8063; Id., 12 dicembre 1998, n. 12523, in Mass. Giur. Lav., 1999, 91, con nota di Ciampolini, La Cassazione si pronuncia sul divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione per i crediti di lavoro; Prêt. Milano, 11 marzo 1999, in Lav. Giur, 1999, 682; Id. Milano, 29 settembre 1998, ibidem, 281. Contra Trib. Milano, 11 dicembre 1999, ivi, 2000, 374, che riteneva la norma inapplicabile ai lavoratori subordinati privati. Sui rapporti di pubblico impiego v. Cons., di Stato, Ad. plen., 15 giugno 1998, n. 3, in Foro Amm., 1998, 1683 e in Corriere Giur., 1998, 1450, con nota di Di Majo, Interessi e rivalutazione nei crediti di lavoro: ritorno al diritto comune? In precedenza la stessa Corte cost, (ord.), 23 aprile 1998, n. 147, in Mass. Giur. Lav., 1998, 541, con nota di Ciampolini, Crediti di lavoro: ambito soggettivo di applicazione del divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione, aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo, per non essere stata neppure vagliata la possibilità di un’interpretazione conforme ai canoni costituzionali.

(274) Così ;Cass., 24 luglio 1999, n. 8063 Tarzia, op. cit., 258, nota 384; Montesano-Vaccarella, op. cit., 286.

(275) Cass., 17 marzo 1999, n. 2434, sulla scorta del ragionamento enunciato in Id., Sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712. V. ora, a composizione del contrasto giurisprudenziale, Id., Sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38/SU, in Foro It., 2001, I, 845, con nota di Pardolesi.

(276) V. Cass., 15 aprile 1996, n. 3513;Id., 5 novembre 1987, n. 8115.

(277) Sul tema v. Picardi, L’equità integrativa nel nuovo processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1976, 467 e segg.

(278) Tarzia, op. cit., 260 e seg.

(279) Cfr. Tarzia, op. cit., 259; Cass., 20 gennaio 1999, n. 508.

(280) Cass., 26 marzo 1997, n. 2691;Id., 8 agosto 1996, n. 7268; Id., 8 novembre 1995, n. 11615; Id., 19 agosto 1995, n. 8927.

(281) Cass., 20 gennaio 1999, n. 508, cit.

(282) Cass., 21 giugno 1985, n. 3738, in Foro It., 1986, I, 1013, con nota di N. Carrata, Esecuzione spontanea di condanna esecutiva a fare infungibile, «riserva di revoca» e riforma della sentenza; Trib. Torino, ord. 29 gennaio 1985, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 584, con nota di Vaccarella, Sulla condanna alla reintegrazione dei cassaintegrati.

(283) Tarzia, op. cit., 264 e seg.

(284) Tarzia, op. cit., 264; Luiso, op. cit., 256; Montesano-Vaccarella, op. cit., 279. Contra ;Cass., 26 luglio 1984, n. 4424 Prêt. Padova, 9 luglio 1980, in Riv. Dir. Proc, 1983, 715, con nota di Sbaraglio, Limiti dell’efficacia espansiva dell’art. 336 cod. proc. civ. Sul problema dell’esecuzione in forma specifica dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro v. D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro, Padova, 1979; Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 166 e segg.; Chiarloni, Dal diritto alla retribuzione al diritto di lavorare, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1978, 1461 e segg.; Cass., 14 maggio 1998, n. 4881;Id., 11 gennaio 1990, n. 46; Id., 11 gennaio 1988, n. 112, che lo ritengono incoercibile. Come noto, vi è però la possibilità per il lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva della reintegra ai sensi dell’art. 18, 5° comma, Stat. Lav. e, nell’ipotesi di licenziamento dei dirigenti sindacali, vi è la coazione indiretta data dal pagamento al Fondo pensioni per ogni giorno di ritardo di una somma pari alla retribuzione del lavoratore non reintegrato (art. 18, ult. comma, Stat. Lav.). Si è peraltro ritenuto (con opinione non condivisibile, atteso che il diritto all’indennità sostitutiva della reintegra può essere esercitato anche dopo l’emanazione della sentenza che ordina la reintegrazione) che la sentenza di reintegra nel posto di lavoro non costituisce titolo esecutivo per ottenere l’indennità sostitutiva, ove non contenga gli specifici elementi che ne consentano la determinazione (Prêt. Milano, 19 giugno 1998, in Giur. milanese, 1999, 3, 92; Id. Noia, 18 febbraio 1995, in Orient. Giur. Lav., 1995, 657; e v. già Pret. Milano, 27 novembre 1996, in Lavoro nella Giur., 1997, 338, con riguardo al risarcimento del danno).

(285) Cass., 4 novembre 1995, n. 11517, in Foro It., 1996, I, 1329; Id., Sez. un., 9 marzo 1979, n. 1464. In dottrina v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 282. Contra Tarzia, op. cit., 265 e segg.

(286) Cioè anche prima che l’esecuzione inizi con il pignoramento, dovendosi così correggere la lettera dell’art. 433, 2° comma, c. p. c.: v. Trib. Corno, 20 luglio 1990, in Riv. Dir. Proc, 1991, 299 e segg., con nota adesiva di Tarzia, Appello nel processo del lavoro e sospensione dell’esecutività della sentenza; Buoncristiani, Presupposti, forma, competenza e modalità di concessione dell’inibitoria ex art. 431 c. p. c., in Giust. Civ., 1990, II, 211; Montesano-Vaccarella, op. cit., 315. Contra Cass., 24 giugno 1998, n. 6274;Id., Sez. un., 29 aprile 1988, n. 3261; Id., 27 novembre 1984, n. 6169, che giudicano inammissibile l’appello con riserva dei motivi prima del pignoramento.

(287) Nemmeno con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., essendo provvedimento privo di contenuto decisorio: Cass., Sez. un., 3 giugno 1997, n. 4954;Id., 28 marzo 1995, n. 3622. Sull’applicabilità dell’art. 351 c.p.c. v. Tarzia, op. cit., 210; Montesano-Vaccarella, op. cit., 321; Luiso, op. cit., 260.

(288) V. Trib. Lecce, 23 luglio 1993, in Nuova Giur. Lav., 1993, 769; Id. Torino, 23 ottobre 1980, in Riv. Giur. Lav., 1981, II, 240; Id. Palmi, 29 gennaio 1991, in Dir. Lav., 1993, II, 485, con nota di Ioele, secondo cui il gravissimo danno deve rilevare sia sotto il profilo oggettivo, nel senso di pregiudizio economico che esponga l’appellante al rischio grave di veder seriamente compromesso lo svolgimento della sua attività economica, sia sotto il profilo soggettivo, nel senso di gravissima difficoltà di recuperare le somme medio tempore versate in caso di accoglimento dell’appello. In dottrina v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 316 e seg.; Proto Pisani, op. cit.; De Angelis, L’inibitoria nell’appello di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1997, I, 45 e segg.

(289) V. Tarzia, op. cit., 271; Montesano-Vaccarella, op. cit., 316; De Angelis, op. cit., 29 e segg. In giurisprudenza Trib. Bologna, 25 luglio 1995, in Mass. Giur. Lav., 1997, 928; Id. Corno, 20 luglio 1990, cit.

(290) Sempre che se ne ammetta l’efficacia esecutiva: per le sentenze di accertamento mero v. Pret. Milano, 26 marzo 1997, in Lavoro nella Giur, 1997, 686; Id. Napoli, 22 dicembre 1995, in Dir. e lav., 1996, 847; contra Cass., 21 giugno 1985, n. 3738;per le sentenze costitutive v. Trib. Milano, 18-9 e 15 novembre 1991, in Foro Pad., 1991, I, 492. Sul problema in generale v. Montesano-Vaccarella, op. cit., 279 e segg.; Comoglio, L’esecutorietà della sentenza di primo grado in materia di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1997,1, 135.

(291) Cfr. per tutti, Tarzia, op. cit., 274 e segg.

(292) Cfr. ex plurimis, Cass., 26 maggio 1999, n. 5082. Sul tema v. Consolo, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, in Riv. Dir. Civ., 1996, I, 227 e segg.; Ravenna, La sospensione necessaria del processo civile e le questioni pregiudiziali alla luce della riforma del 1990, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1996, 999 e segg.

(293) Cass., 22 maggio 1997, n. 4996.

(294) ;Cass., 18 dicembre 1997, n. 12836 contra Id., 25 maggio 1996, n. 4844, in Foro It., 1997, I, 1109, con nota di Trisorio Liuzzi, Sospensione necessaria del processo e regolamento di competenza, in base a una nozione ristretta di pregiudizialità.

(295) Cass., 27 maggio 1998, n. 5258.

(296) Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, n. 5631, in Foro It., 1997, I, 1107, con nota di Trisorio Liuzzi, Sospensione necessaria del processo e regolamento di competenza.

(297) Cass., 25 ottobre 1997, n. 10523;ed anche Id., 25 maggio 1996, n. 4844.

(298) V. Tarzia, op. cit., 195 e seg.; Luiso, op. cit., 215; Montesano-Vaccarella, op. cit., 179.

(299) Cfr. Tarzia, op. cit., 196 e seg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 179; Luiso, op. cit., 215 e seg.

(300) Cass., 3 novembre 1997, n. 10747.

(301) Tarzia, op. cit., 198 e seg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 183.

(302) Cfr. Garbagnati, Omissione od invalidità della notificazione prescritta dall’art. 435 c. p. c., in Riv. Dir. Proc, 1989, 326 e segg.; in giurisprudenza cfr., sia pure con riguardo al giudizio di appello, Cass., Sez. un., 29 luglio 1996, n. 6841 e Id., Sez. un., 25 ottobre 1996, n. 9331.

(303) Cfr. Tarzia, op. cit., 197 e segg.

(304) Sulle varie posizioni espresse in dottrina e in giurisprudenza v. Tarzia, op. cit., 200 e seg., spec, nota 274.

(305) Cass., Sez. un., 25 maggio 1993, n. 5839 (ma contra v. ancora Id., 1° aprile 1994, n. 3187). In dottrina v. Tarzia, op. loc. cit.; Luiso, op. cit., 220; Montesano-Vaccarella, op. cit., 180 e segg.

(306) Montesano-Vaccarella, op. cit., 183; Tarzia, op. cit., 201.

(307) Tarzia, op. cit., 323 e seg., che, pur richiedendo la forma del ricorso, ritiene tuttavia di applicare la norma speciale di cui all’art. 399 c. p. e, tanto all’attore in revocazione quanto al convenuto, con riferimento al termine di venti giorni dalla notificazione per costituirsi in giudizio. Tale opinione non può, peraltro, essere condivisa quantomeno per i convenuti, a carico dei quali non possono essere sancite le preclusioni proprie del rito lavoristico in un termine diverso da quello previsto dall’art. 416 c.p.c.: v. infatti Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 272.

(308) Tarzia, op. cit., 325; Montesano-Vaccarella, op. cit., 366.

(309) Anche se ne è possibile l’assegnazione a sezione diversa: v. Cass., 14 gennaio 1983, n. 4073.

(310) Cui non si applica la sospensione feriale ex lege n. 742/1969: Id., 11 novembre 1998, n. 11389.

(311) V, ex plurimis, Cass., 14 gennaio 1998, n. 286;Id., 26 marzo 1997, n. 2683.

(312) V, da ultimo, Cass., 7 giugno 1999, n. 5585;Id., 29 settembre 1998, n. 9731; Id., 18 aprile 1996, n. 3690.

(313) II rimedio naturalmente resta esperibile per le controversie di valore indeterminabile: v. Luiso; op. cit., 271; Cass., 8 ottobre 1988, n. 5443;Id., 18 luglio 1985, n. 4246; per alcune precisazioni v. Cass., 9 giugno 1993, n. 6417.

(314) Senza che influiscano eventuali riduzioni successive del petitum: ;Cass., 9 ottobre 1985, n. 4922 Montesano-Vaccarella, op. cit., 302. Contra Tarzia, op. cit., 282. In mancanza di indicazione il quantum può essere determinato in base alle risultanze degli atti e con opportuni conteggi (Cass., 23 gennaio 1986, n. 446).

(315) Cass., 9 giugno 1993, n. 6417;Id., 5 febbraio 1991, n. 1100.

(316) Tarzia, op. cit.,281; in giurisprudenza Cass., 27 febbraio 1984, n. 1416; Id., 14 dicembre 1982, n. 6901; Trib. Milano, 13 gennaio 1993, in Riv. critica dir. lav., 1993, 452.

(317) Cass., 3 aprile 1985, n. 2289;Montesano-Vaccarella, op. cit., 302.

(318) Cass., 9 dicembre 1988, n. 6698;Id., 8 ottobre 1988, n. 5443.

(319) Giudizio secondo equità che pare inammissibile in materia di lavoro, non potendo le parti disporre efficacemente del diritto controverso ed essendo tra l’altro escluso l’arbitrato di equità ex art. 4 legge n. 533/1973: cfr. Tarzia, op. cit., 281; contra Montesano-Vaccarella, op. cit.,2%9.

(320) L’art. 134 bis D. Lgs. n. 51/1998, in via transitoria e in sede di prima applicazione della riforma sul giudice unico di primo grado, ha attribuito la competenza per gli appelli nelle cause di lavoro, previdenziali e assistenziali al tribunale in composizione collegiale, imponendo che anche gli appelli separatamente proposti contro la medesima sentenza dopo il periodo transitorio fossero rimessi al tribunale. La norma ha avuto vigore dal 2 giugno al 31 dicembre 1999 e presta il fianco a severe censure di incostituzionalità, perché l’organo investito dell’appello, ancorché diversamente composto, appartiene allo stesso ufficio giudiziario del giudice che ha emanato la sentenza impugnata, contraddicendo il principio di terzietà del giudice (art. Ill Cost.) e la necessaria e consueta diversità del giudice (inteso come ufficio giudiziario) che statuisce sulla fondatezza dell’appello avverso una sentenza.

(321) Cass., 11 aprile 1996, n. 3355;contra Id., 3 febbraio 1999, n. 938.

(322) Sulla legittimità costituzionale della norma v. Cass., 7 agosto 1998, n. 7785.

(323) Tarzia, op. cit., 284.

(324) V. Cass., 14 novembre 1994, n. 9555 e Id., 26 novembre 1992, n. 12638 in materia di prove assunte da un singolo membro delegato dal collegio. Non è, invero, applicabile alla Corte d’appello la definizione che l’art. 50 quater c. p. c. riserva all’errore sulla composizione monocratica o collegiale del tribunale, escludendo che esso implichi un vizio di costituzione del giudice: sul tema sia consentito il rinvio a Tedoldi, Il « non-vizio » di costituzione del giudice (ovvero, della inosservanza delle disposizioni sulla composizione del tribunale nel processo civile), in Giur. It., 2000, 881 e segg.

(325) Cass., 7 giugno 1999, n. 5585;Id., 17 ottobre 1998, n. 10295; Id., 18 aprile 1996, n. 3690.

(326) Cfr. a contrario Cass., 4 novembre 1995, n. 11517;Id., 23 giugno 1992, n. 7687; Id., 19 marzo 1990, n. 2260.

(327) Cass., 4 novembre 1995, n. 11517;Id., 9 marzo 1995, n. 2754; Id., 9 marzo 1991, n. 2518; Id., Sez. un., 10 novembre 1982, n. 5919.

(328) V., per tutte, Cass., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16/SU, in Foro It., 2000, I, 1606, con nota di Balena, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui; Barone, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sezioni unite; Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione; Cass., Sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro It., 1987, I, 3037, con nota di Balena e in Giur. It., 1988, I, 1, 1819, con nota di Monteleone, La funzione dei motivi ed i limiti dell’effetto devolutivo nell’appello civile secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione.

(329) V. Tarzia, op. cit., 287 e seg.

(330) Cass., 2 ottobre 1991, n. 10266, in Foro It., 1992, I, 1214, con nota di Baldacci; Id., 4 marzo 1981, n. 1280.

(331) Cass., 2 ottobre 1991, n. 10266.

(332) Ma, come ricordavamo supra al par. 35, questa limitazione è a nostro avviso inaccettabile e la facoltà di chiedere la sospensione della provvisoria esecutività, semmai mediante appello con riserva dei motivi, va accordata anche prima dell’inizio dell’esecuzione.

(333) Cass., 24 giugno 1998, n. 6274;Id., 14 marzo 1990, n. 2062.

(334) Cass., 23 marzo 1999, n. 2756 (che opera una distinzione tra appellante e appellato, ritenendo superflua una riproposizione delle istanze istruttorie quando l’appello investe tutta la sentenza); Id., 13 ottobre 1984, n. 5126; contra parzialmente Id., 5 luglio 1996, n. 6170, in Foro It., 1997, I, 2262, con nota di Rascio, Sul riesame in appello delle istanze istruttorie disattese dal giudice di primo grado.

(335) V. Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il 2° comma dell’art. 435 c.p.c nella parte in cui non dispone che l’avvenuto deposito del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza venga comunicato all’appellante. Si tratta, peraltro, di termine ordinatorio, al pari di tutti quelli contemplati nell’art. 435, fatta eccezione per il termine a comparire: cfr. Cass., Sez. un., 28 ottobre 1998, n. 10728;Id., 16 agosto 1993, n. 8711; Id., 16 gennaio 1988, n. 311.

(336) Sul tema cfr. Luiso, I vizi della fase introduttiva dell’appello rito lavoro alla luce della riforma del rito ordinario, nota a Cass., 29 novembre 1991, n. 12814, in Giust. Civ., 1992, I, 1253 e segg.

(337) V. Cass., Sez. un., 25 ottobre 1996, n. 9331, in Lav. giur., 1997, 123 e segg., con nota di critica di Guarnieri, Sanabile anche la mancata notifica del ricorso in appello; Id., Sez. un., 29 luglio 1996, n. 6841, in Giur. Comm., 1996, I, 3165, che hanno mutato il precedente indirizzo, consentendo la possibilità di emendare ex tunc anche una notifica completamente omessa; v. poi Id., 17 ottobre 1998, n. 10295; Id., 7 giugno 1999, n. 5585. Per l’orientamento precedente v. Cass., Sez. un., 1° marzo 1988, n. 2166, in Riv. Dir. Proc, 1988, 1134, con nota di Verde, Sulle conseguenze della mancata notificazione dell’atto di appello nel processo del lavoro (e su di un non opportuno revirement delle SS. UU.), e in Foro It., 1988, I, 2613, con nota di Proto Pisani, che prevedeva una possibilità di sanatoria del vizio solo ex nunc per effetto della costituzione dell’appellato o della rinnovazione dell’atto.

(338) Il giudice può tuttavia utilizzare una copia semplice quando la controparte non ne contesti la conformità all’originale: Cass., 12 novembre 1997, n. 11153.

(339) Cass., 1° aprile 1996, n. 2973;Id., 22 aprile 1995, n. 4570; Id., 12 novembre 1993, n. 11164, in Lav. giur., 1994, 127 e segg., con nota di Guarnieri, Mancato deposito della sentenza in appello; sull’impugnabilità per cassazione v. Id., 8 agosto 1998, n. 5640; Id., 1° febbraio 1996, n. 848.

(340) Tarzia, op. cit., 291; Guarnieri, Mancata comparizione in appello nel rito del lavoro: revirement delle Sezioni Unite, nota a Cass., Sez. un., 25 maggio 1993, n. 5839, in Riv. Dir. Proc, 1993, 1264 e segg. Sulla normativa anteriore alla riforma del 1990 v., in vario senso, Id., 25 marzo 1998, n. 3138; Id., 22 aprile 1995, n. 4570; Id., Sez. un., 28 febbraio 1992, n. 2438; Id., 15 ottobre 1992, n. 11332; 18 maggio 1989, n. 2379. Nel nuovo rito ordinario continua invece a parlare di improcedibilità del gravame per omesso deposito del fascicolo Cass., 14 aprile 1999, n. 3697 (in un caso in cui, però, non era stata depositata neppure copia della sentenza impugnata).

(341) Cass., 1° febbraio 1996, n. 848;Id., 26 ottobre 1995, n. 11123, che, in caso di mancata comparizione di ambedue le parti, applica l’art. 181 c.p.c. (ciò che desta alcune perplessità, in presenza di una norma speciale qual è l’art. 348); Id., 14 aprile 1993, n. 4424, in Giust. Civ., 1994, I, 172, con nota di Favi.

(342) Cass., 11 aprile 1998, n. 3755;Id., 30 novembre 1994, n. 10238; Id., 23 novembre 1985, n. 5838; sulle istanze istruttorie v. Id., 23 marzo 1999, n. 2756; Id., 2 giugno 1997, n. 4894, nonché Id., 9 giugno 1993, n. 6412 e Id., 10 febbraio 1990, n. 978, che reputano automaticamente riprodotte in appello le istanze istruttorie poste a base di una domanda o di un’eccezione debitamente riproposta. Sull’onere di riproposizione mera v., da ultimo, Bianchi, I lìmiti oggettivi dell’appello civile, Padova, 2000, 189 e segg.; e (scilicet) Tedoldi, II onere di appello incidentale, in Giur. It., 2001, 1301 e segg.

(343) Per un accenno v. Tarzia, op. cit., 294 e 305.

(344) Cass., 2 maggio 1996, n. 3961.

(345) Tarzia, op. cit., 295; Montesano-Vaccarella, op. cit., 322; Luiso, op. cit., 285.

(346) Cass., 24 febbraio 2001, n. 2698, in Giur. It., 2001, 1588, con nota adesiva di G. Tesoriere; Cass., 8 febbraio 1999, n. 1081;Id., 4 ottobre 1996, n. 8707, su cui v. criticamente Guarnieri, «Ultimissime» in tema di notificazione dell’appello nel processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1997, 253 e segg.

(347) Sulla cui applicabilità nel rito lavoristico v. Cass., 13 settembre 1997, n. 9136;Id., 27 novembre 1992, n. 12660.

(348) Cfr. Cass., 6 febbraio 1999, n. 1066.

(349) Cass., Sez. un., 7 novembre 1989, n. 4640, in Giur. It., 1990, I, 392, con nota di adesiva di Chizzini, Ancora sui limiti di impugnazione incidentale tardiva: la decisione delle Sezioni Unite; Id., 9 febbraio 1995, n. 1466, in Giur. It., 1995, I, 1, 2056, con nota di Dalmotto, L’abolizione dei limiti oggettivi all’impugnazione incidentale tardiva chiama quella dei limiti soggettivi.

(350) Tarzia, op. cit., 297.

(351) Montesano-Vaccarella, op. cit., 326; Tarzia, op. cit., 296 e seg.

(352) Ed infatti questa disciplina è stata ritenuta conforme a Costituzione: Cass., 18 marzo 1977, n. 1080.

(353) Cass., 16 giugno 1998, n. 6002 e Id., 9 aprile 1998, n. 3695 sulla domanda di restituzione delle somme versate dopo il primo grado; Id., 30 novembre 1982, n. 6510, sugli interessi successivi alla sentenza (sempre che ineriscano alle somme richieste in prime cure e non a somme diverse: v. anche Id., 24 gennaio 1997, n. 725); Id., 17 marzo 1990, n. 2255 e Id., 1° dicembre 1988, n. 6510 sulla rivalutazione monetaria; Id., 24 giugno 1992, n. 7770 sul risarcimento dei danni successivi alla sentenza. In dottrina v. Tarzia, op. cit., 299; Montesano-Vaccarella, op. cit., 331; Luiso, op. cit., 289.

(354) Cfr. Tarzia, op. cit., 299; contra Montesano-Vaccarella, op. cit., 331. Per una fattispecie di intervento del terzo in appello in materia previdenziale v. Cass., 9 marzo 1992, n. 2819.

(355) Cass., 29 settembre 1998, n. 9731.

(356) Cass., 6 dicembre 1999, n. 13630;Id., 16 aprile 1999, n. 3810 (concernente la modifica del motivo di impugnazione del licenziamento); Id., 20 aprile 1998, n. 4008; Id., 14 giugno 1995, n. 6720; Id., 11 febbraio 1995, n. 1506. Sul concetto di domanda nuova in appello si consenta il rinvio a Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 106 e segg.

(357) Cass., 20 aprile 1998, n. 4008, cit.; Tarzia, op. cit., 299; Luiso, op. cit., 289 e seg.

(358) Cass., 11 settembre 1997, n. 8906, in tema di domanda ex lege n. 604/1966, anziché di reintegra ex art. 18 Stat. Lav.

(359) Cass., 27 gennaio 1998, n. 821.

(360) Cass., 8 novembre 1996, n. 9768.

(361) Sul tema v. Tarzia, op. cit., 299 e seg. In giurisprudenza Cass., 24 giugno 1998, n. 6272;Id., 30 agosto 1995, n. 9183; Id., 17 novembre 1993, n. 11364.

(362) Cass., 9 febbraio 1999, n. 1110.

(363) Cass., 24 settembre 1998, n. 9575;Id., 24 maggio 1991, n. 6086.

(364) Cass., 22 gennaio 1998, n. 599.

(365) Cass., 8 marzo 1996, n. 1862.

(366) Almeno nella giurisprudenza più recente: cfr. Cass., 24 maggio 2000, n. 6783;Id., 14 giugno 1999, n. 5886.

(367) Cass., 24 giugno 1998, n. 6272;Id., 18 marzo 1996, n. 2268.

(368) Contra Tarzia, op. cit., 300; Montesano-Vaccarella, op. cit., 267. In giurisprudenza nel senso del testo v., implicitamente, Cass., 24 giugno 1998, n. 6272;Id., 4 dicembre 1986, n. 7192; Trib. Milano, 14 marzo 1998, in Orient. Giur. Lav., 1998, 182; contra Cass., 11 novembre 1994, n. 9457.

(369) Sull’istruzione probatoria nel rito del lavoro ci permettiamo di rinviare a Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000.

(370) Per una ricostruzione critica del concetto di novità v. Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997, 84 e segg., che propende per il superamento del requisito quando la prova sia indispensabile. In giurisprudenza v. di recente Cass., 12 gennaio 1998, n. 196;Id., 1° ottobre 1997, n. 9596; Id., 3 settembre 1997, n. 8421.

(371) Cass., 10 gennaio 1986, n. 84;Luiso, op. cit., 298.

(372) Contra la giurisprudenza che esclude un preciso obbligo di motivazione in materia di prove in appello: Cass., 2 ottobre 1999, n. 10960;Id., 20 giugno 1996, n. 5714.

(373) Cass., 16 febbraio 2000, n. 1738;Id., 23 gennaio 1999, n. 655; Id., 22 luglio 1999, n. 7919; Id., 15 gennaio 1998, n. 309; Id., 2 novembre 1998, n. 10944, che ammette la produzione del documento anche dopo gli atti introduttivi, quando esso non era disponibile all’inizio del giudizio di appello e previa autorizzazione del collegio.

(374) Cass., 25 novembre 1996, n. 10441;Id., 10 marzo 1979, n. 1523; Luiso, op. cit., 296; Ruffini, op. cit., 265 e seg. Contra Tarzia, op. cit., 302 e seg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 271. Sul giuramento decisorio v. Cass., 8 giugno 1995, n. 6441;Id., 27 febbraio 1995, n. 2250, che lo ammette soltanto in relazione a fatti non preclusi in appello.

(375) V. Luiso, op. cit., 293; Tarzia, op. cit., 303 e seg.; contra Proto Pisani, op. cit., 403.

(376) Contra, per le prove proposte in prime cure, Cass., 5 luglio 1996, n. 6170, in Foro It., 1997, I, 2262, con nota di Rascio, Sul riesame in appello delle istanze istruttorie disattese dal giudice di primo grado, e Id., 9 giugno 1993, n. 6412, che ritengono automaticamente riprodotte le istanze istruttorie strumentali all’accoglimento della domanda o dell’eccezione riproposta in appello.

(377) Tarzia, op. cit., 303 e segg.; Cass., 8 febbraio 1983, n. 1054.

(378) Cass., Sez. un., 11 dicembre 1987, n. 9225;Id., 14 novembre 1994, n. 9555; Id., 3 settembre 1994, n. 7629, in Foro It., 1995, I, 2199, con nota di Civinini.

(379) Contra Montesano-Vaccarella, op. cit., 272, secondo i quali la CTU può essere disposta per la prima volta in appello solo se indispensabile. Giustamente Cass., 15 settembre 1997, n. 9175, sottolinea che la CTU è sottratta ai limiti delle nuove prove in appello, perché consiste non in un mezzo di prova, ma in un esame dei dati specialistici in modo da lumeggiare la questione dibattuta affinché il giudice possa trame elementi chiarificatori ai fini della sua decisione.

(380) E non già del termine assegnato dal collegio: Cass., 11 maggio 1985, n. 2963.

(381) Cass., 14 gennaio 1986, n. 16;Tarzia, op. cit., 307.

(382) Cass., 14 gennaio 1986, n. 166, cit.; Id., 23 novembre 1985, n. 5853.

(383) Così Cass., 8 giugno 1996, n. 5345;sull’onere di motivazione v. anche Id., 4 febbraio 1997, n. 1042; contra peraltro Id., 18 giugno 1998, n. 6106 e Id., 16 gennaio 1998, n. 334, che escludono un obbligo di motivare specificamente quando il giudice aderisca alle conclusioni del consulente.

(384) Sulle ordinanze anticipatorie in appello v., per tutti, Tarzia, op. cit., 307 e seg., che ritiene che l’ordinanza di pagamento di somme non contestate sopravvive all’estinzione del giudizio di appello, implicando una revoca della pronuncia impugnata (ciò che desta alcune perplessità), mentre l’ordinanza provvisionale cade in caso di estinzione.

(385) La giurisprudenza non commina alcuna nullità in caso di lettura cumulativa dei dispositivi di diverse cause: Cass., 12 novembre 1998, n. 11458;Id., 22 novembre 1995, n. 12061; Id., 19 luglio 1995, n. 7830.

(386) Cass., 2 novembre 1998, n. 10947;Id., 6 aprile 1998, n. 3527; Id., 17 marzo 1997, n. 2336; Id., 16 maggio 1997, n. 4368; Id., 26 gennaio 1995, n. 914.

(387) Cass., 2 febbraio 1995, n. 1241, la cui opinione però contrasta con il principio di immediatezza che è corollario essenziale dell’oralità.

(388) Cass., 14 febbraio 1996, n. 1122, in Foro It., 1996, I, 2829, con nota di Balena.

(389) Cfr. Tarzia, op. cit., 313 e segg.; Cass., 26 ottobre 1999, n. 12052. Per un ampliamento delle ipotesi di rimessione al primo giudice nel rito del lavoro v., però, Cass., 30 maggio 2000, n. 7227, in Foro It., 2001, I, 2910 (con nota giustamente critica di Balena), che include anche i casi di nullità del ricorso e del decreto per difetto di requisiti attinenti alla vocatio in ius.

(390) Tarzia, op. cit., 315. Su interessi e rivalutazione monetaria v. Cass., Sez. un., 13 febbraio 1997, n. 1322;Id., 4 marzo 1981, n. 1276; v. anche supra al par. 34.

(391) Tarzia, op. cit., 315 e segg.

(392) Tarzia, op. cit., 317.

(393) Luiso, op. cit., 315; Cass., 7 aprile 1986, n. 2405.

(394) Contra peraltro Tarzia, op. cit., 318; Montesano-Vaccarella, op. cit., 344 e segg.; Luiso, op. cit., 315 e seg., che esigono sempre la previa notifica del ricorso per cassazione.

(395) Tarzia, op. cit., 315 e segg.; Montesano-Vaccarella, op. cit., 341 e seg.; Luiso, op. cit., 316 e seg.

(396) Contra apparentemente Cass., 14 luglio 1997, n. 6387, secondo cui le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono trovare ingresso nella fase di gravame, al fine di precostituire il titolo esecutivo per le restituzioni, fermo restando che la condanna restitutoria va subordinata al passaggio in giudicato e, in ogni caso, non può essere eseguita prima di quel momento: il principio della massima testé riportata pare però prescindere dal nuovo dettato dell’art. 336, 2° comma, c. p. c.

(397) V. Tarzia, op. cit., 316 e seg., che, in nota 74, ricorda il dibattito precedente alla riscrittura dell’art. 336, 2° comma, c. p. c. Non sono però ripetibili le retribuzioni versate al lavoratore reintegrato nel posto di lavoro, ma solo quelle corrisposte a titolo di risarcimento del danno o a titolo diverso dalla prestazione resa (quale, ad es., l’indennità sostitutiva della reintegra): cfr. Cass., 10 dicembre 1999, n. 13854;Id., 14 maggio 1998, n. 4881.

(398) Cass., 7 aprile 1986, n. 2405;Id., 4 giugno 1992, n. 6811. Sul tema v. ampiamente Tarzia, op. cit., 308 e segg.

(399) Cass., 6 dicembre 1997, n. 12396;Id., 26 gennaio 1988, n. 683.

(400) Cfr. Cass., 5 luglio 1997, n. 6075.

(401) Cass., 24 dicembre 1999, n. 14537;Id., 23 novembre 1999, n. 13026; Id., 3 aprile 1999, n. 3249. Tarzia, op. cit., 320.

(402) V. Tarzia, op. loc. cit.; Briguglio, in Riv. Dir. Proc, 1998, 1027 e segg.

(403) V. l’importante pronuncia di Cass., 18 gennaio 1999, n. 434, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, 441; in Foro It., 1999, I, 1891, con nota di Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento, e De Cristofaro, Sindacato di legittimità nell’applicazione dei «concettigiuridici indeterminati» e decisione immediata della causa nel merito, nonché in Corriere Giur., 1999, 718, con nota di Recchioni, Norme «elastiche», standards valutativi e sindacato di legittimità della Corte di cassazione, secondo cui è sindacabile in sede di legittimità l’interpretazione e l’applicazione di concetti giuridici indeterminati, perché, pur essendo necessario a questo fine compiere opzioni di valore che attingono a regole non giuridiche, tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento; Cass., 13 aprile 1999, n. 3645;Id., 19 febbraio 1997, n. 1526; Id., 13 febbraio 1998, n. 1550.

(404) Sulla sufficienza del deposito per rispettare il termine v. Cass., 7 aprile 1990, n. 2925;Id., 13 maggio 1985, n. 2978; nonché Id., 30 gennaio 1998, n. 9332, che consente di rinnovare la notifica del ricorso in riassunzione, quand’anche inesistente.

(405) Cfr. Tarzia, op. cit., 322 e seg.; Cass., 22 gennaio 1999, n. 617. V. anche Id., 19 febbraio 1986, n. 990 e Id., 27 marzo 1985, n. 2171, che ritengono giustamente superflua la notificazione della memoria difensiva contenente i motivi di appello incidentale riproposti in sede di rinvio.

(406) Peraltro, secondo Cass., 3 luglio 1998, n. 6535, qualora nel giudizio di rinvio il giudice, facendo ricorso ai poteri istruttorii previsti dall’art. 421 c.p.c., abbia disposto l’acquisizione di prove nuove, non necessitate dalla sentenza di annullamento, senza tenere conto delle decadenze e delle preclusioni già verificatesi nei precedenti gradi di giudizio, la nullità dell’atto di riapertura dell’istruzione viene sanata ove la parte interessata non l’abbia fatta valere nella prima istanza o difesa successiva ad esso o alla notizia di esso, ai sensi dell’art. 157 c.p.c. Sul tema dell’istruttoria in sede di rinvio ci si permette di rinviare a Tedoldi, Nota intorno all’istruzione probatoria nelle impugnazioni a critica vincolata, in Riv. Dir. Proc, 2000, 1144 e segg.

(407) V. soprattutto Tarzia, op. cit., 327 e segg.

(408) Su cui v. Tarzia, op. cit., 347 e segg.; Vaccarella, Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano, 1977; Silvestri-Tartjffo, voce «Condotta antisindacale (procedimento di repressione della)», in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1988.

(409) Tarzia, op. cit., 359 e segg.; Rapisarda, Osservazioni in tema di attuazione della legge di parità uomo-donna in materia di lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1985,386 e segg.; Sassani, Aspetti processuali della legge n. 125 del 1991 («Azioni positive per la realizzazione della parità uomodonna nel lavoro»), in Riv. Dir. Proc, 1992, 861 e segg.; Rapisarda Sassoon, in Leggi civ. comm., 1994, 74 e segg.; Occhiiti, Profili processuali della tutela della parità tra uomini e donne in materia di lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1996, 1187 e segg.

(410) V. Tarzia, op. cit., 369 e segg.

(411) Cfr. in tal senso Cass., 12 ottobre 1999, n. 11479; Id., 6 maggio 1999, n. 4543; Id., 29 settembre 1998, n. 9734. In dottrina sul tema v. Mandrioli, L’esecuzione specifica dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1975, 9 e segg.; D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro, Padova, 1979; Proto Pisani, Aspetti processuali della reintegrazione nel posto di lavoro, in Foro It., 1982, V, 117 e segg.

(412) Cass., Sez. un., 18 dicembre 1985, n. 6460;Id., 3 febbraio 1986, n. 663, in Foro It., 1986,1, 1894 e in Giur. It., 1986, I, 1, 994, con nota di Amoroso, Espropriazione presso terzi e competenza del pretore del lavoro; Id., 26 agosto 1997, n. 8032; Id., 16 aprile 1996, n. 3545. Contra Saletti, II giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato, in Riv. Dir. Proc, 1998, 1021.

(413) V. Luiso, II regime della competenza nelle opposizioni ali’esecuzione e agli atti esecutivi secondo l’art. 618 bis cod. proc. civ., in Riv. Dir. Proc, 1975, 142 e segg.; Tarzia, op. cit., 379; Cass., 23 marzo 1991, n. 3147;Id., 16 febbraio 1985, n. 1349.

(414) Cass., 4 aprile 1998, n. 3514, e Id., 12 agosto 1997, n. 7505, in Giur. It., 1999,1603, con nota di Villani, Opposizione agli atti esecutivi successiva all’inizio dell’esecuzione in materia di lavoro e competenza del giudice dell’esecuzione; Id., 13 giugno 1997, n. 5312, in Mass. Giur. Lav., 1997, 910, con nota di Centofanti, L’opposizione agli atti esecutivi in materia di lavoro: brevi note a margine di una svolta giurisprudenziale; Id., 25 agosto 1990, n. 8718; Id., 29 settembre 1988, n. 5283. In dottrina v., per tutti, Tarzia, op. cit., 380.

(415) Tarzia, op. cit., 381; Cass., 16 gennaio 1981, n. 389, in Giust. Civ., 1981,1,466.

(416) Tarzia, op. loc. cit.; Luiso, op. ult. cit., 144; Cass., 25 agosto 1990, n. 8718;Id., 14 ottobre 1985, n. 5029.

(417) Per l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, 2° comma, c. p. c. anche nell’opinione maggioritaria non vi è cesura tra la competenza per la fase preliminare e per il merito, a differenza di quanto abbiamo visto poc’anzi per l’opposizione all’esecuzione ex art. 615, 2° comma, c. p. c. (v. nota 413): cfr., da ultimo, Cass., 12 settembre 1997, n. 9063, in Foro It., 1997, I, 872; Id., 12 agosto 1997, n. 7505 cit.; Id., 16 luglio 1997, n. 6536; Id., 13 giugno 1997, n. 5312. In dottrina v. Tarzia, op. cit., 381 e seg.

(418) Cass., 2 giugno 1998, n. 5395, in Giust. Civ., 1999,1, 1429, con nota di Corea, Regime impugnatorio e principio dell’ apparenza nel processo esecutivo.

(419) V, per tutti, Tarzia, op. cit., 330 e segg., ove si ricorda altresì la possibilità di dichiarare provvisoriamente esecutivo il decreto ex art. 648 c.p.c. quando l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione.

(420) Tale termine non è soggetto a sospensione feriale: Cass., 1° marzo 1995, n. 3376.

(421) V. Tarzia, op. cit., 328; Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, 281 e seg.; nonché, criticamente rispetto all’indirizzo dominante, Ronco, Pluralità di riti e fase introduttiva dell’opposizione a decreto ingiuntivo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2001, 433 e segg. In giurisprudenza Cass., 26 aprile 1993, n. 4867, in Giur. It., 1995, I, 1, 759, con nota parzialmente critica di Rana, Proposizione mediante citazione di opposizione a ingiunzione in materia di lavoro: mutamento di rotta o incidente di percorso?; Id., 15 ottobre 1992, n. 11318; Id., Sez. un., 19 ottobre 1983, n. 6128, in Foro It., 1983, I, 3024, con nota di Proto Pisani. Se la notificazione del ricorso o del decreto è nulla o è stata completamente omessa, il giudice può assegnare un termine per la rinnovazione: v. Id., 2 aprile 1990, n. 2637, in Foro It., 1990, I, 3197, che tra l’altro dichiara inapplicabile al rito del lavoro l’abbreviazione dei termini a comparire di cui all’art. 645, 2° comma, c. p. c. (sul punto v. anche Cass., 28 aprile 1995, n. 4719) e cfr. Tarzia, op. cit., 329 e seg., nota 4, il quale, nonostante il precedente contrario di Id., 7 febbraio 1990, n. 845, giustamente ricorda che anche in materia di notificazione del ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo dovrebbe aversi la possibilità di rinnovare una notificazione completamente omessa, come viene riconosciuto dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte per l’appello principale e incidentale nel rito lavoristico (v. supra in nota 337).

(422) Cass., 24 aprile 1993, n. 4867, cit.; Id., 15 ottobre 1992, n. 11318, in Foro It., 1993,1, 1534.

(423) Cass., 24 marzo 1998, n. 3115;Id., 14 luglio 1997, n. 6391.

(424) Cass., 20 marzo 1999, n. 2630;Id., 24 maggio 1999, n. 5045; Id., 29 luglio 1994, n. 7095.

(425) Per questa competenza cfr. Tarzia, op. cit., 334.

(426) Cfr. Cass., 25 settembre 1996, n. 8477;Id., 12 marzo 1986, n. 1674; Id., 21 giugno 1984, n. 3680, in Giur. It., 1985, I, 1, 308, con nota di Del Prato, Concessione di immobile in godimento collegata con prestazione d’opera.

(427) Corte cost., 17 dicembre 1975, n. 238, in Foro It., 1976, I, 10. V. inoltre Trisorio Liuzzi, voce «Procedimenti in materia di locazione», in Digesto Civ., Torino, 1996, 492 e seg.; Cass., 2 dicembre 1988, n. 6544;Id., 9 maggio 1987, n. 4301; Pret. Salerno, 21 novembre 1996, in Arch. loc, 1996, 959; Id. Salerno, 4 febbraio 1991, in Rass. equo canone, 1991,22.

(428) Tarzia, op. cit., 334 e segg.; Pret. Verona, 25 febbraio 1986, in Foro It., 1986, I, 1704.

(429) V. Tarzia, op. cit., 335, ove ulteriori riferimenti anche alle contrarie opinioni.

(430) Per una rassegna v. Zumpano, Tutela d’urgenza e rapporto di lavoro, in Riv. Dir. Proc, 1989, 826 e segg.; Arieta, I provvedimenti

genia, Padova, 1985, 187 e segg.

(431) Tarzia, op. cit., 339; Pret. Saluzzo, 4 marzo 1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 186; Id. Torino, 10 luglio 1974, in Foro It., 1974, I, 2526.

(432) Cfr. ;Cass., 12 giugno 1982, n. 3589 Tarzia, op. cit., 343, nota 38. Parte della giurisprudenza opina invece nel senso che il provvedimento sia stato concesso ante causam quando, pur avendosi un unico ricorso con la contestuale domanda di merito, la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza per la discussione ex art. 415 c.p.c. non sia ancora avvenuta prima dell’accoglimento dell’istanza cautelare: cfr. ;Cass., 28 aprile 1987, n. 4117 Id., 26 gennaio 1984, n. 47 (ord.); Id., 4 dicembre 1980, n. 6327, in Foro It., 1981, I, 1592.

Autore: Prof. avv. Alberto Maria Tedoldi

Professore associato di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Verona, presso cui tiene i corsi di Diritto processuale civile, Diritto dell’esecuzione civile, Diritto fallimentare. Nelle medesime materie, è autore di numerosi scritti. È stato Responsabile d’area Diritto processuale civile della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Verona, consorziata con l’Università di Trento, e componente della Commissione per le riforme del processo civile, istituita presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal Prof. Romano Vaccarella. Ha conseguito nel 1996, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, il titolo di dottore di ricerca in Diritto processuale civile. Nel 2002 ha superato il concorso di ricercatore di ruolo presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato ai convegni dell’Associazione italiana fra gli studiosi di diritto processuale civile, alla quale è iscritto, e a numerosi convegni di diritto processuale civile e di diritto fallimentare. Dal 1998 è docente di Diritto processuale civile presso la Scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Milano. Relatore a convegni e master organizzati dal CSM e dalla Scuola superiore di Magistratura, in sede distrettuale, interdistrettuale e nazionale, dagli ordini professionali e da enti privati su argomenti di diritto processuale civile e di diritto fallimentare.

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